La strage, la notte e la follia (Capistrello 4 giugno 1944)

 

Il cielo era grigio, come la fossa scavata dalle bombe.

Respirai la polvere bruciata dei bossoli sparpagliati, li, sulla terra bagnata, erano ancora caldi.

Un colpo di pistola, uno solo, uno per ciascuno, l’indice sul grilletto, uno scoppio sordo, confuso tra la pioggia battente e l’ira dei tuoni.

Avevo sentito distintamente due spari,  poi tornarono di nuovo nel capanno e presero Giacomo, lo trascinarono fuori ma lui si divincolò dalla presa e scappò via verso qualche direzione.

L’ululato di una mitragliatrice lo raggiunse e se lo portò via insieme a tutti i giorni, ai mesi e agli anni che gli restavano ancora da vivere .

Ritornarono ancora e fu la volta del quarto, il quinto e ancora un altro. I corpi giacevano ammucchiati uno sull’altro nella fossa scura.

All’improvviso le urla laceranti di un ragazzino di tredici anni si levarono dal capanno.

Le grida disperate di Giuseppe  trapanarono il cervello di uno dei soldati e per un attimo il bagliore di un’umanità perduta incrinò la ferocia assassina del boia; ma fu solo un attimo.

Lo presero strappandolo da una selva di braccia che non volevano lasciarlo andar via. Suo zio, Antonio lo strinse a se fino alla fine.

I predatori avevano fretta di soffocare nel silenzio quelle urla insopportabili che si aggrappavano alle loro coscienze. Era solo un agnellino; in un altro luogo e in un altro tempo avrebbe respirato le stagioni e il fluire circolare del tempo.

Si sarebbe avventurato per quei crinali lievi e avrebbe sentito gli odori della salvia e del ginepro e avrebbe corso sotto la pioggia e avrebbe segnato sentieri tra la neve e poi si sarebbe sdraiato sull’erba fresca e avrebbe guardato il suo gregge al pascolo.

Ma nulla di tutto questo sarebbe mai accaduto. Quel giorno, Giuseppe era solo il prossimo, un altro ancora e poi ancora, e ancora, fino all’ultimo; poi presero me.

Due soldati mi trascinarono fino al bordo estremo della fossa, ancora pochi respiri e tutto sarebbe finito. Guardavo i corpi dei compagni che mi avevano preceduto e mi sembravano cose, oggetti bagnati, inutili bagattelle ammucchiate sotto un temporale estivo.

Sentii il ferro gelido della pistola dietro la nuca. Quanto dura l’istante che ti separa dalla morte? Quanto conta il tempo che ancora respiri un istante prima della fine? Che sapore ha l’aria che ti attraversa i polmoni prima che questi si fermino di pulsare? E quanto brucia il sangue che scorre nelle vene prima che il cuore esaurisca l’ultimo battito?

Sentii distintamente lo scoppio del colpo assestato sul proiettile che mi aprì uno squarcio alla base del cranio. Il calore intenso di un fuoco incandescente inondò i miei sensi

Emisi una specie di grido soffocato come se la vita che mi stava abbandonando non volesse portarsi via l’antico dolore della mia gente. Un dolore che ci tramandavamo di generazione in generazione abituati come eravamo a soffrire. Era il dolore di esistere che avevo ereditato da mio padre ed era lo stesso dolore che avrei lasciato a chi mi avrebbe trovato in fondo a quella fossa.

Alla pioggia fredda che mi bagnava i capelli si mescolò il sangue caldo e l’odore acre della polvere da sparo, poi le lacrime e il sudore e brandelli di pensieri che danzavano attorno al mondo che si disfaceva davanti a me. Poi fu il buio.

Crollai sui corpi dei miei compagni, ero immobile, muto, abbandonato come una cosa inutile ma non ero ancora morto. Sentivo il gelo e un’infinita stanchezza. Stavo morendo ma non serbavo odio. Aspettavo la fine. Pensai a mia madre, ai miei fratelli, a Elena; ci dovevamo sposare a ottobre; guardai il cielo grigio sopra di me, poi, l’anima scivolò via.

Il crepitio degli spari che avevano risuonato sinistri per i pendii dei poggi era terminato mentre un silenzio cupo si era impadronito della radura circostante. La stazione ferroviaria era deserta e davanti alla rimessa il gruppetto di soldati restò immobile, come in attesa.

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