Come mostrare l’orrore senza diventarne parte? (dopo le polemiche legate all’immagine del piccolo Aylan Kurdi)

di Marco Cinque.

Raccontare sia la vita che la morte, qualunque sia il linguaggio che usiamo per farlo, è una cosa che emoziona, tocca profondamente e che spesso fa star male, molto male, almeno se non si è solo dei “cecchini”. Ma se invece decidiamo di NON raccontare quel che non ci piace e che ci ferisce nel profondo, se nessuno si prende la briga di farlo, ciò può precipitarci nell’oblio: niente si sa, quindi nulla accade.
La cosa importante, sia quando raccontiamo la vita che quando facciamo lo stesso con la morte, è farlo con dignità, stabilendo una relazione, pur se dolorosa, con la realtà che abbiamo attorno, anche se questo non appartiene alla sfera dei nostri sogni, pure se violenta le nostre speranze ed è come un macigno sui nostri cuori.
Naturalmente c’è sempre chi ci specula, trasformando la vita in una pagliacciata superficiale e la morte in un disgustoso spettacolo, uno spettacolo che, forse, può essere definito persino (per citare le parole di Charles Duff, nel suo “manuale del boia”) “il più grande spettacolo del mondo”, tanto che in molti paesi, sia in passato, ma persino adesso, le esecuzioni capitali venivano e vengono fatte nelle pubbliche piazze, perché se ciò da una parte fa orrore, dall’altra invece attrae quella insondabile morbosità che purtroppo abita in molti esseri umani.
Esistono poi delle iniquità e delle ipocrisie, ad esempio proprio sull’uso delle immagini, soprattutto se queste ritraggono minori: se il minore in questione è una bambina vietnamita in lacrime, con la pelle divorata dal napalm, ti becchi un bel premio Pulitzer, ma se invece, ad esempio, la bambina è italiana, di sicuro ti arriva una denuncia per aver violato la sua privacy e la sua infanzia, come se privacy e infanzia appartenessero solo a una parte ben definita dell’umanità.
Talvolta dobbiamo portare sulle spalle il dolore degli altri oltre al nostro, questo lo facciamo pure con le immagini, con la scrittura e con molti altri linguaggi. Credo che alla base di tutto – quando cerchiamo di trasmettere e condividere la realtà che stiamo vivendo e che interpretiamo col nostro “sguardo” – ci sia l’uso che se ne fa. Ecco, penso che se utilizziamo un qualsiasi strumento divulgativo o un qualunque linguaggio espressivo per raccontare le cose orribili cui assistiamo, però lo facciamo con uno scopo positivo, una finalità buona, non solo ciò diventa lecito, ma persino necessario, al di là del fatto che questo potrebbe diventare per noi un peso insostenibile.

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