La corsa degli italiani

Non solo Fiandre. Il Belgio è altro, molto di più. Il Belgio è anche Vallonia, Ardenne, terre di ciclismo, di cruente battaglie e di morte. Nella Seconda Guerra Mondiale la Battaglia delle Ardenne è passata alla storia come una delle più importanti sul fronte occidentale. L’offensiva tedesca, escogitata da Hitler in persona e denominata “Operazione Wacht Rhein” (“guardia al Reno”), aveva l’obiettivo di attaccare le truppe alleate nel cuore delle Ardenne, regione collinare e boscosa nel limbo di terra tra Belgio, Lussemburgo e Francia. Un conflitto che raggiunse il momento più drammatico nell’assedio di Bastogne, cittadina in cui convergevano le sette strade principali della regione ed uno dei principali snodi verso il porto di Anversa. Nel dicembre del 1944 i Panzerdivision della Wehrmacht circondarono il villaggio di Bastogne accerchiando la 101^ Divisione Aviotrasportata americana. Gli alleati riuscirono a resistere e fronteggiare l’attacco nazista grazie anche all’intervento delle truppe provenienti da sud guidate dal generale George Smith Patton.

Una terra profondamente segnata dalla guerra ma anche dal ciclismo. La Vallonia è l’altro Belgio, un dipinto di paesaggi immersi tra boschi e colline che si distacca dalla natura fiamminga. La pianura è sconosciuta, le Ardenne non la conoscono. Lo scenario è completamente mutato rispetto alle Fiandre: spariscono d’incanto i muri e il pavé e subentrano le côtes, una lunga serie di colline da scalare che hanno segnato la storia della Liegi-Bastogne-Liegi, la classica più antica del calendario mondiale. La “Doyenne” (“Decana”) venne fondata nel 1892 dal quotidiano “L’Expresse”, scritto in lingua francese e rivolto alla popolazione belga-francofona. Il percorso di circa 250 km era semplice quanto complesso: da Spa a Bastogne e ritorno. Una Spa-Bastogne-Spa alla quale parteciparono soltanto 33 corridori, tutti dilettanti e la maggior parte dei quali iscritti alla Liège Cycling Union. Una corsa riservata all’elite sociale belga in quanto, a fine Ottocento, il ciclismo era ancora sport per pochi; le biciclette, così innovative nelle forme e nei concetti, erano costose e riservate alla ristretta nicchia di nobili e borghesi. A vincere la prima edizione della “Decana” fu Léon Houa dopo 10 ore e 48 minuti tra le colline e i boschi delle Ardenne. Il corridore nativo di Liegi si impose anche nelle successive due edizioni. Da lì l’organizzazione si divise: chi voleva aprire la corsa ai professionisti, chi voleva continuare a dedicarsi ai dilettanti. Tra un litigio e l’altro la gara non venne organizzata per ben 14 anni tornando a disputarsi soltanto nel 1908 in cui la partenza e l’arrivo furono spostati a Liegi.

La Liegi-Bastogne-Liegi è un film d’epoca visto e rivisto. Priva di insidie lungo la via per Bastogne, le asperità si concentrano nel tragitto di ritorno verso Liegi. Alle classiche Stockeu, Havte-Levée e Redoute si sono aggiunte negli anni le côtes di Roche-aux-Faucons e Saint-Nicolas a rendere incerta e selettiva la classica più dura tra le cinque Monumento. La Liegi è anche chiamata “la corsa degli italiani” per via della numerosa comunità di connazionali che popola i sobborghi della città. Un fenomeno iniziato nel secondo dopoguerra in cui migliaia di connazionali hanno lasciato i confini del Bel Paese per emigrare nella terra promessa del ciclismo. Fuggire dalla fame sognando le miniere del Belgio. I “musetti neri italiani” raccontano storie di povertà, emarginazione sociale e drammi come quello dell’8 agosto 1956 a Marcinelle. Le condizioni di lavoro per gli emigrati italiani erano al limite della dignità umana. Turni massacranti, condizioni precarie e salari al di sotto dei minimi sindacali. Una scossa alla rivolta dei minatori italiani la diede proprio la Liegi-Bastogne-Liegi e Carmine Preziosi, campano di Sant’Angelo all’Esca (provincia di Avellino) emigrato nella cittadina di Parceness. La vittoria a sorpresa di Preziosi alla “Doyenne” del 1965 rappresentò la rivalsa sociale dei nostri connazionali che, spinti dall’entusiasmo di quell’impresa, riuscirono a contrattare condizioni di lavoro più umane.

“La Liegi non la si vince per fame ma per amore”. Rick Van Looy aveva centrato il punto. Il montepremi messo in palio dagli organizzatori della “Doyenne” era nettamente inferiore rispetto ai ricchi premi di Sanremo, Fiandre e Roubaix. Per oltre cinquanta anni la Liegi è considerata roba per belgi, “un budello di strade pericolose tra i boschi” come diceva Fiorenzo Magni. È grazie all’inserimento di nuove côtes che la corsa ha raggiunto la fama e il prestigio che l’hanno contraddistinta sino ad oggi. Lo Stockeu è uno dei simboli del merckismo, il trampolino di lancio preferito dal Cannibale verso i suoi cinque successi, un record assoluto. La Redoute, inserita nel 1975, è diventata il simbolo della Liegi, la madre di tutte le côtes. Il Saint Nicolas, che ha esordito soltanto nel 1998, è fortemente legata ai colori azzurri in quanto posta nel bel mezzo di uno dei tanti sobborghi di Liegi popolato da immigrati italiani. Ogni collina racconta una storia, la “Doyenne” è una raccolta autentica di favole a pedali. È la “corsa degli italiani”, un pezzo di storia d’Italia trasferitasi nelle miniere delle Ardenne, nelle periferie emarginate piene di sogni e speranze. È la corsa degli italiani perché nessuno, al di là dei padroni di casa del Belgio, l’ha vinta così tante volte. Dodici successi azzurri dall’impresa di Preziosi fino al successo di Di Luca del 2007. Domenica l’Italia punterà su Vincenzo Nibali per aggiungere un’altra perla tricolore nella teca della “Decana”. Un altro capitolo da aggiungere nel romanzo della Liegi. Forza azzurri.

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