L’ABRUZZO DELL’800, I SUOI PITTORI

La pittura abruzzese dell’Ottocento è particolarmente ricca di artisti, alcuni tra i più famosi del secolo. Molti di loro vengono confusi  con quelli napoletani perché quasi tutti i pittori furono attratti dalla più vivace realtà della grande città o da Parigi per cui, avendo svolto altrove gran parte della loro attività, se ne dimentica il luogo di nascita.
Francesco Paolo Michetti, i fratelli Palizzi, Teofilo Patini sono nomi conosciuti da studiosi ed appassionati ma vengono catalogati erroneamente sotto altre scuole più conosciute.
Tra i pittori da ricordare potremmo partire da Costanzo Angelini, nato a Santa Giusta di Amatrice, a lungo direttore dell’Accademia di Belle Arti di Napoli a partire dal 1809, autore di bellissimi ritratti a pastello e ad olio. 
Un’altra figura rimasta immeritatamente nell’ombra, esclusa persino dalla grande mostra ”Civiltà dell’Ottocento a Napoli”, è quella di Giuseppe Bonolis, nativo di Teramo (1800-1851) del quale ricordiamo il ritratto del Principe di Fondi, conservato nel Museo di San Martino, ed il ritratto di gentildonna nell’Accademia delle Belle Arti napoletana.
Uno specialista della pittura en plein air e degli studi dal vero è Gabriele Smargiassi (1798-1882) trasferitosi diciottenne da Vasto per frequentare prima l’Accademia di Belle Arti e poi la scuola privata dell’olandese Pitloo per assurgere infine, nel 1837, alla cattedra di paesaggio nella prestigiosa accademia napoletana. Un posto di rilievo è occupato dai quattro fratelli Palizzi. Pochi cenni dedicheremo a Nicola (Vasto 1820-1871) e Francesco Paolo (Vasto 1825-1871). Il primo operò prevalentemente insieme a Filippo e si dedicò alla pittura dal vero, il secondo lavorò principalmente in Francia, dove si era trasferito il primogenito Giuseppe. Ritornò a Napoli dopo lo scoppio della guerra franco-prussiana e morì ancora giovane.
Giuseppe si forma alla scuola di Pitlooe di Gabriele Smargiassi, oltre a frequentare lo studio di Fergola ed i pittori della Scuola di Posillipo.
Esordisce alla Biennale Borbonica del 1837, vincendo il primo premio con una veduta acquistata dal re. Si attesta sul genere del panorama romantico ed a seguito di contrasti con alcuni docenti dell’Accademia decide di trasferirsi in Francia dove frequenta lo studio di Troyon per stabilirsi poi nei pressi della foresta di Fontainebleau, che diviene il soggetto preferito di molti suoi dipinti. 
L’intescambio culturale con i seguaci della scuola di Barbizon gli fa abbandonare la classica veduta posillipina. Si dedica ad una pittura monumentale con grandi quinte arboree, approfondendo la resa naturalistica della luce e delle ombre, inserendo spesso nelle sue opere figure di animali inviategli dal fratello Filippo, rimasto a Napoli. 
Dal 1845 espone regolarmente ai Salons e nel 1859 viene insignito della Legion d’Onore.
Ritorna saltuariamente a Napoli ed ottiene riconoscimenti anche da Francesco II di Borbone nel 1860 e da Vittorio Emanuele II nel 1861.
Dopo un lungo viaggio in Italia nel 1866, continuerà ad esporre a Parigi, salvo la sua presenza a Napoli nel 1877 in occasione della grande Esposizione Nazionale
L’anno successivo morirà in Francia, a Passy. 
Filippo Palizzi (Vasto 1818 – Napoli 1899), trasferitosi a Napoli nel 1837 presso il fratello Giuseppe, insofferente degli insegnamenti accademici, si dedica allo studio del vero sotto l’influsso di artisti come Pitloo e Gigante.
Pratica assiduamente il disegno e trasforma sulla tela gli stimoli provenienti dal mondo naturale, prediligendo paesaggi con animali, scene di genere ed interni di stalle. Monumentale è “Dopo il diluvio” conservato al Museo di Capodimonte, richiesto da Vittorio Emanuele nel 1863.
Esordì infatti all’Esposizione Borbonica del 1839 con “Studi di animali”, premiato con medaglia d’argento.
Per un periodo si dedicò anche al “Paesaggio storico”, come attestano dipinti come “Pia de’ Tolomei”, “Tasso che incontra il brigante”, “Marco Sciarra” e “Sogno di Caino fratricida”. 
L’esperienza del fratello nella foresta di Barbizon lo indusse a trascorrere le estati dipingendo, più modestamente, nelle colline di Cava de’ Tirreni.
Tra il 1853 ed il ’57 fornì quarantotto disegni per il famoso volume di De Boucard “Usi e costumi di Napoli”.
Nel 1878, dopo numerosi viaggi a Parigi in occasione delle Esposizioni universali, accettò l’incarico di Presidente del Regio Istituto di Belle Arti di Napoli.
A volte svolse anche attività di ritrattista, come nel ritratto del barone De Riseis che presenta un impianto formale di tipo rinascimentale, ma la sua passione furono sempre gli animali, raffigurati nella loro quotidianità, come “L’interno di stalla con caprette” dove la resa minuziosa dei particolari è rafforzata da effetti luministici, con un fascio di luce radente che fissa la staticità della scena a dare vivacità ad una tavolozza dove prevalgono toni di colori terrosi.
Prima della morte, avvenuta a Napoli, donò gran parte delle sue opere, divise oggi tra la Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma, l’Accademia di Belle Arti di Napoli ed il Museo Civico di Vasto.
Tra gli allievi più validi di Filippo Palizzi va ricordato Valerio Laccetti (Vasto 1836 – Roma 1909), anch’egli autore di accurati interni di stalla nei quali, sfruttando effetti di luce radente, raffigura la pacifica vita degli animali domestici dopo un giorno di fatica nei campi. 
S’interessò con eguale trasporto agli “umani”, come in “Interno con famigliola abruzzese” dove raffigura una mamma col suo bambino sulle ginocchia mentre gli altri sono sparpagliati per la stanza in compagnia di un gatto. Laccetti seppe sposare gli elementi di derivazione palizziana con una scrupolosa cura del dettaglio di impronta neo fiamminga, che sarà alla base del suo successo con una clientela internazionale.
Predilesse un rassicurante ambiente familiare alla denuncia delle misere condizioni delle classi sociali più disagiate, anche per venire incontro ai gusti del pubblico.
Negli anni Settanta, alle scene d’interni, affiancò dipinti di paesaggio della campagna romana, condotti con una tecnica memore degl’insegnamenti francesi
Sul finire della carriera, oltre alla pittura, si dedicò anche al teatro e scrisse alcuni romanzi storici: “Arrigo VIII Re e Papa”.
Un posto di rilievo nel panorama figurativo abruzzese è occupato da Pasquale Celommi (Montepagano di Roseto degli Abruzzi 1851 – Roseto degli Abruzzi 1928), capostipite di una dinastia di quattro generazioni di pittori, definiti pittori della luce, che attraversano per due secoli la storia artistica regionale.
Le opere di Pasquale, eseguite con tecnica minuziosa che gli permetteva di riprodurre “i particolari del particolare”, raccontano con spiccata sincerità e lirismo splendide marine e robuste lavandaie, rappresentando una vera fotografia del suo tempo.
Uno “Sposalizio abruzzese”è caratterizzato dalla disposizione orizzontale delle figure in un’atmosfera primaverile con una sapiente cromia che infonde allegria alla composizione: una scena festosa, brulicante di personaggi, che imprimono dinamicità alla narrazione, impostata su un tema tipico della civiltà contadina meridionale. 
La “Lavandaia” rappresenta una giovane prosperosa, dalle mani consumate dal sapone, intenta al suo lavoro quotidiano. La modella, più volte raffigurata dall’artista, si rivolge sorridente all’osservatore, china su di una tinozza d’acqua saponata ed indossa sugli abituali abiti dei vezzosi orecchini ed una camicia bordata di fine merletto, dalla quale s’intravede il seno, ed un piccolo scialle a fiori: un’immagine gentile dal tono affabile ed accattivante. 
“L’operaio politico” decretò il successo per Celommi. Il quadro raffigura un anziano operaio intento alla lettura di un giornale, “La Vedetta”, che reca ben visibile la data: 3 giugno 1988. 
La luce si staglia vigorosa sulla figura, esaltando l’aspetto meditativo dell’anziano operaio, dove alberga l’ansia di riscatto di un’intera classe sociale vittima da sempre di soprusi ed angherie.
La tela ci ricorda, per effetti di luce e resa compositiva, un’altra opera famosa dell’autore, “Il ciabattino”, conservato a Roseto nel palazzo comunale.
In “Verso l’inverno” vediamo la modella preferita dall’artista, elegantemente vestita con uno scialle variopinto mentre s’incammina sorridente, incurante della pioggia da cui si ripara con un ombrello di grosse dimensioni.
“Il primo bacio”ci raffigura un innocente scambio di effusioni tra due giovani pastorelli mentre un gregge di pecorelle è intento a brucare un invitante manto erboso sul cui sfondo olivi e mandorli in fiore sembrano confondersi con il cielo di un azzurro luminoso.
La scena bucolica è resa con colori caldi e luminosi come nei migliori esiti di un Dalbono o di un Michetti. I due fanciulli sembrano dimenticare la fatica ed il sudore e vivono con intensità un momento di incantevole piacevolezza che li proietta lontano dalla realtà quotidiana.
Francesco Paolo Michetti (Tocco Casauria 1851 – Francavilla al Mare 1929) è uno dei pittori abruzzesi più famosi. A 17 anni frequenta l’Accademia di Belle Arti di Napoli e viene attratto dal realismo di Domenico Morelli, dei fratelli Palizzi e della Scuola di Resina. 
Nel 1872 è presente al Salon di Parigi, dove ritornò nel ’75 e nel ’77. 
Nel 1882 illustrò il “Canto Novo” di Gabriele D’Annunzio, il quale recensì il suo monumentale dipinto “Il voto” favorendo il suo ingresso nella raccolta della Galleria Nazionale di Arte Moderna.
“I morticelli”, eseguito a 29 anni, raffigura il funerale in riva al mare di due neonati gemelli ed è sviluppato in verticale, come su di uno schermo cinematografico.
Presentato all’Esposizione Nazionale di Torino, ottenne il consenso della critica per la novità del tema trattato e la vivace impaginazione. Michetti trasfigura l’evento doloroso in una processione composta e serena, in un’epoca in cui i decessi infantili erano purtroppo frequenti. Anche quest’opera ottenne una recensione di D’Annunzio sul “Fanfulla della Domenica”. “Prima nidiata” è una tempera a pastello che raffigura un paffuto neonato avvolto in strette fasce e cuffia ricamata, che dorme sereno in una culla di vimini in compagnia di una nidiata di pulcini, anch’essi da poco affacciati alla vita: il tutto in un’atmosfera di grande serenità. 
Al dipinto seguì un altro, “Seconda nidiata”, nel quale la culla è vuota e la madre piange disperata sul guanciale vuoto mentre i pulcini pigolano tra le sue gambe. Il dipinto, esposto a Milano, suscitò curiosità per la novità del tema e l’abilità del pennello dell’artista. 
Tra i suoi ritratti, i più noti rappresentano D’Annunzio, lo scultore Costantino Barbella ed il musicista Francesco Paolo Tosti, tutti frequentatori del famoso Cenacolo di Francavilla, dove Michetti riuniva periodicamente intellettuali di varie branche con l’intento di abbattere le barriere settoriali nel nome dell’arte.
Nel 1895 il dipinto “La figlia di Iorio” venne premiato alla I Biennale di Venezia e la motivazione della giuria sottolineò come il pittore avesse reso un dramma umano con sincerità e rara potenza naturalistica. 
In qualche opera, come nel “Vitellino a riposo”, sembra esprimersi alla stregua di un Palizzi, di cui ammirava il crudo realismo che ben definì nelle tele “Le serpi” e “Gli storpi” elaborati su materiale fotografico.
Nominato senatore nel 1909, rallentò la sua attività e solo sporadicamente inviava del paesaggi alla Biennale di Venezia. 
A concludere il panorama dei pittori abruzzesi dell’Ottocento vi è la figura di Teofilo Patini. Nativo di Castel di Sangro,  studiò inizialmente filosofia all’Università di Napoli, prima di iscriversi nel luglio del 1856 ai corsi di pittura dell’Accademia delle belle Arti della stessa città. Ebbe come maestri Giuseppe Mancinelli, Giovanni Salomone e Biagio Molinari e si legò presto al gruppo di pittori che faceva capo a Filippo Palizzi di cui fu fervente allievo. Fece viaggi di studio a Firenze e a Roma, per poi far ritorno a Castel di Sangro nel 1873. Si trasferì quindi all’Aquila dove, nel 1882, fondò la Scuola di Arti e Mestieri; Nel capoluogo abruzzese, il Patini ebbe dimora e stabilì atelier nel monumentale Palazzo Ardighelli, di proprietà della famiglia Cappelli.Nel 1898 partecipò all’Esposizione generale d’Italia a Torino. Nel 1896 fu iniziato in massoneria nella loggia aquilana intitolata a Fabio Capanella e, nei primi anni del 900, fu membro della Loggia Cosmogenesi, nella stessa città. Una delle ultime opere fu l’affresco dell’Aula Magna dell’Università di Napoli. Dimorò all’Aquila per lungo tempo prima di rientrare, poco prima della morte, nella sua città natale. È stato sepolto nel Cimitero Monumentale di Poggioreale a Napoli, nel settore dedicato agli artisti.

 

” terra di mentori, artisti, grandi luminari, che della nostra terra illuminano la storia, per renderla piu’ lucente alla nostra nude vista”   (Cicchetti Ivan)

 

( a cura di Cicchetti Ivan)

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