Pasque di sangue. Ebrei d’Europa e omicidi rituali.

(di Nicola Facciolini)

Ebrei d’Europa e omicidi rituali. Indagine sui sacrifici pseudo religiosi nel Medioevo. La nuova edizione del libro di Ariel Toaff, storico del giudaismo: un coraggioso caso editoriale, alla scoperta dei misteri di una setta sanguinaria, tra riti, “cultura del sangue” e commercio. Cosa scrive Ariel Toaff nel suo Pasque di Sangue? Offre un’attenta lettura di attualità antropologica alle potenzialità ideologiche “criminali” di un mito o di una leggenda “nera” ascrivibile a qualsiasi popolo o setta, non soltanto ebraica, che usi e declini la menzogna al rango di metodologia politica, sociale, culturale e religiosa di massa che sfocia poi nel fanatismo, nell’integralismo e nel fondamentalismo. Pasque di Sangue è molto più di un saggio scientifico. È un vademecum per capire le Guerre Umanitarie in corso sulla Terra senza soluzione di continuità tra stragi, attentati, deportazioni, assassinii di massa, conflitti e depistaggi.

Nell’Anno Domini 1475 il piccolo Simone viene trovato morto a Trento. Per il suo omicidio vengono giustiziati dal braccio secolare 15 cittadini ebrei. Fino al 1965, Simone è venerato dai cristiani come beato. “Pasque di sangue. Ebrei d’Europa e omicidi rituali” (Il Mulino, pp. 448) è la nuova edizione del famoso e controverso libro del professor Ariel Toaff, storico del giudaismo, figlio del compianto rabbino capo di Roma Elio Toaff, in cui l’Autore affronta uno dei temi più controversi nella storia degli ebrei d’Europa, da sempre cavallo di battaglia dell’antisemitismo: l’accusa, rivolta per secoli agli ebrei, di rapire e uccidere bambini cristiani per utilizzarne il sangue nei riti della Pasqua. Fantasie, illusioni, calunnie che Toaff smaschera sapientemente mettendo in luce i veri orrori della storia d’Europa proiettati in tutto il mondo, con modalità sempre nuove e terrificanti. Sì, perchè ancora oggi i “sacrifici umani” di massa sono di moda nelle menti malate dei potenti. E pare facciano da corollario alle Guerre Umanitarie che sembra non possano, non vogliano e non debbano più finire. Per quel che riguarda l’Italia, processi per omicidio rituale si ebbero quasi esclusivamente nella parte nord-occidentale, dove vi erano comunità di ebrei tedeschi (Askhenaziti). Cosa accadde al piccolo Simone? Il saggio di Ariel Toaff reperibile nelle librerie, su Internet e nelle biblioteche stavolta per sempre, conserva l’indubbio merito scientifico di far luce sulla verità di quelle incredibili vicende sepolte dalla polvere dei secoli. Il caso più famoso (forse, non l’unico) accadde nel 1475 a Trento, dove numerosi ebrei della comunità locale furono accusati e condannati per la morte del piccolo Simonino che la Chiesa cattolica ha poi venerato come beato fino a pochi decenni fa. Rileggendo senza pregiudizi la documentazione antica di quel processo e di vari altri alla luce della più vasta situazione europea e anche di una puntuale conoscenza dei testi ebraici, l’Autore mette in luce i significati rituali e terapeutici che il sangue aveva nella cultura ebraica, giungendo alla conclusione che, in particolare per l’ebraismo askhenazita, “l’accusa del sangue non era sempre un’invenzione”. Dopo la prima edizione del 2007 subito ritirata dalle librerie dopo le prime tremila copie andate letteralmente a ruba e super valutate, perché foriera di polemiche e contestazioni (http://www.jrbooksonline.com/PDFs/pasque.pdf) nel 2008 esce la nuova edizione rivista e corretta di “Pasque di sangue. Ebrei d’Europa e omicidi rituali”. Sempre pubblicata dalla casa editrice Il Mulino. Ariel Toaff conferma una tesi sconcertante. Secondo l’ex docente di Storia del Medioevo e del Rinascimento all’Università israeliana Bar Ilan, “dal 1100 al 1500, alcune frange estreme e ridotte del mondo dell’ebraismo ashkenazita, realizzarono alcuni omicidi rituali. In molte zone del Nord Europa, comprese tra il Reno e il Danubio, oltre che nell’Alto Adige, i bambini cristiani venivano catturati per essere sacrificati. Il loro sangue veniva utilizzato per i riti della Pasqua ebraica. A questa seconda edizione di Pasque di Sangue – precisa Ariel Toaff – sono state apportate lievi modifiche ed aggiunte. Le prime riguardano essenzialmente quelle espressioni e quelle frasi che, lette frettolosamente o estrapolate dal contesto, hanno dato adito a interpretazioni errate e fuorvianti”. Le ipotesi elaborate da Toaff, però, pare che restino invariate. I suoi studi confermano gli orientamenti che tanto fanno discutere in ambito scientifico. “Le ipotesi di fondo avanzate nella prima edizione – aggiunge Toaff – rimangono le stesse che ripropongo in questa nuova stesura del mio testo”. L’Autore analizza le deposizioni rese dagli ebrei interrogati con metodi brutali dal braccio secolare della Santa Inquisizione nel corso del Medioevo. Secondo Toaff, dietro le confessioni estorte con la violenza ai presunti colpevoli degli omicidi, si nasconde almeno qualche verità. In alcuni casi esse dovrebbero essere considerate come delle testimonianze credibili. Accolto al suo primo apparire da vivaci discussioni e aspre polemiche, Pasque di Sangue è dal 2008 riproposto in una nuova edizione che l’Autore ha arricchito con un attento lavoro di chiarimento e approfondimento e con una stringente difesa dei metodi e dei risultati della propria ricerca. Oggetto dell’indagine è il mondo dell’ebraismo ashkenazita medievale, nel quale credenze popolari imbevute di superstizione e magia e di viscerali sentimenti anticristiani configurano una diffusa “cultura del sangue” contrastante con i precetti biblici e rabbinici. In questa “dimensione” trova posto anche una ritualità religiosa stravolta, “eretica”, che porge suo malgrado argomenti alla calunnia dell’omicidio rituale, la terribile “accusa del sangue” origine di tante persecuzioni antiebraiche nei secoli. E proprio nelle confessioni estorte nei processi per omicidio rituale, come quello famoso celebrato a Trento per la morte del piccolo Simonino, questa “cultura” viene in qualche modo alla luce: scavando attorno allo “stereotipo calunnioso” dell’omicidio rituale, Toaff fa così emergere una diversa immagine, per molti aspetti inedita, di quelle comunità e fornisce un contributo innovativo alla conoscenza dell’ebraismo europeo “fondamentalista”. Cosa accadde a Trento il 23 Marzo 1475, la vigilia di Pesach, la Pasqua ebraica? Nell’abitazione-sinagoga di un israelita di origine tedesca, il prestatore di denaro Samuele da Norimberga, viene rinvenuto il corpo martoriato di un bimbo cristiano: Simonino, di due anni, figlio di un modesto conciatore di pelli. La città è sotto choc. Unica consolazione è che l’indagine proceda spedita. Secondo gli inquirenti, hanno partecipato al rapimento e all’uccisione del “putto” gli uomini più in vista della comunità ebraica locale, coinvolgendo poi anche le donne in un macabro rituale di crocifissione e di oltraggio del piccolo cadavere. Perfino Mosé “il Vecchio”, l’ebreo più rispettato di Trento, si è fatto beffe del corpo appeso di Simonino, come per deridere una rinnovata Passione di Cristo. Incarcerati nel castello del Buonconsiglio e sottoposti a tortura, gli ebrei si confessano responsabili dell’orrendo delitto. Le deposizioni degli imputati ai processi di Trento concordano sul fatto che l’infanticidio di Simone sarebbe avvenuto di Venerdì nei locali della sinagoga, posta nell’abitazione di Samuele da Norimberga, e più precisamente nell’anticamera della sala dove si raccoglievano gli uomini in preghiera. Quest’ambiente, separato dalla sinagoga vera e propria da una porta, era destinato in mancanza di un matroneo alle orazioni delle donne. La porta comunque rimaneva aperta e, durante la liturgia del Sabato, le donne vi facevano capolino quando i rotoli della Torah venivano sollevati ed esibiti da chi officiava sull’Almemor, prima della lettura del brano settimanale del Pentateuco. Insomma, la “crocifissione” di Simone sarebbe stata effettuata su un banco posto proprio nella cosiddetta “sinagoga delle donne”. Il corpo del putto, ormai senza vita, sarebbe stato poi trasferito per le funzioni del Sabato nella sala centrale della sinagoga e deposto sull’Almemor. Allora, rispettando il copione di analoghe punizioni esemplari, i colpevoli vengono condannati a morte e giustiziati sulla pubblica piazza. Perché tutta questa violenza nei secoli? Durante i duemila anni dell’era cristiana, gli ebrei si sono sentiti più volte accusare di infanticidio rituale, fino all’Ottocento quando quelle accuse non finirono con l’apparire alla coscienza moderna niente più che il parto di un antisemitismo ossessivo, virulento, feroce, prodromico alle persecuzioni e all’Olocausto (Shoah) degli ebrei d’Europa (Italia e Russia comprese) nel Novecento (1933-1945) per mano nazifascista. Unicamente la tortura – si è pensato – poteva spingere tranquilli capifamiglia israeliti a confessare di avere ucciso bambini dei gentili: facendo seguire all’omicidio non soltanto la crocifissione delle vittime, ma addirittura pratiche di cannibalismo rituale, cioè il consumo del giovane sangue cristiano a scopi magici o terapeutici. Impossibile credere seriamente che la Pasqua ebraica, che commemora l’Esodo degli ebrei, guidati da Mosè, dalla cattività d’Egitto celebrando la loro libertà e promettendo la loro redenzione, venisse innaffiata con il sangue di un “goi katan”, un “piccolo cristiano”! Più che mai, dopo la tragedia della Shoah, è comprensibile che “l’accusa del sangue” sia divenuta un tabù persino accademico che solo un grande regista come Ron Howard riuscirebbe a filmare. O piuttosto, che sia apparsa come la miglior prova non già della perfidia degli imputati, ma del razzismo dei giudici. Così, al giorno d’oggi, soltanto un gesto di inaudito coraggio intellettuale poteva consentire di riaprire l’intero dossier, sulla base di una domanda altrettanto precisa e delicata: quando si evoca tutto questo – le crocifissioni di infanti alla vigilia di Pesach, l’uso di sangue cristiano quale ingrediente del pane azzimo consumato nella festa – si parla di miti, cioè di antiche credenze e ideologie, oppure si parla di riti, cioè di eventi reali e addirittura prescritti dai rabbini?
Il gesto di coraggio compiuto dal professor Ariel Toaff è consegnato alla storia. L’inquietante domanda è stata posta alle fonti dell’epoca, da uno storico perfettamente attrezzato per farlo: un esperto della cultura alimentare degli ebrei, tra precetti religiosi e abitudini gastronomiche, della vicenda intrecciata di immaginario ebraico e di quello antisemita. Italiano, ma da anni docente di storia medievale in Israele, Ariel Toaff rilancia un lavoro forte e grave sin dal titolo: Pasque di Sangue. Magnifico libro di antropologia, è uno studio troppo serio e meritorio perché se ne strillino le qualità come su una bancarella del mercato rionale. Tuttavia, va pur detto che Pasque di Sangue propone una tesi originale e, in qualche modo, sconvolgente. Sostiene Toaff che dal 1100 al 1500 circa, nell’epoca compresa tra la Prima Crociata e l’autunno del Medioevo subito dopo la caduta di Costantinopoli, la Seconda Roma, capitale dell’Impero Romano d’Oriente, con la complicità dei cristiani d’Occidente, alcune crocifissioni di putti – o forse molte – avvennero davvero, salvo dare luogo alla rappresaglia contro intere comunità ebraiche, al massacro punitivo di uomini, donne e bambini. Né a Trento nel 1475 né altrove nell’Europa tardo medievale, gli ebrei furono vittime sempre e comunque innocenti, sostiene l’Autore. In una vasta area geografica di lingua germanica compresa fra il Reno, il Danubio e l’Adige, una minoranza di ashkenaziti fondamentalisti compì veramente, e più volte, sacrifici umani? Muovendosi con straordinaria perizia sui terreni della storia, della teologia, dell’antropologia, Ariel Toaff illustra la centralità del sangue nella celebrazione della Pasqua ebraica. Il sangue dell’agnello che celebra l’affrancamento dalla schiavitù d’Egitto, ma anche il sangue del prepuzio, proveniente dalla circoncisione dei neonati maschi d’Israele. Era sangue che un passo biblico diceva versato per la prima volta proprio nell’Esodo, dal figlio di Mosè, e che certa tradizione ortodossa considerava tutt’uno con il sangue di Isacco che Abramo era stato pronto a sacrificare, come ci ricorda la ricca liturgia della Parola durante la Grande Veglia della Santa Pasqua cristiana di Resurrezione. Perciò, nella cena rituale di Pesach, il pane delle azzime solenni andava impastato con sangue in polvere, mentre altro sangue secco andava sciolto nel vino prima di recitare le “dieci maledizioni d’Egitto”. Quale sangue poteva riuscire più adatto allo scopo che quello di un bambino cristiano ucciso per l’occasione, si chiesero i più fanatici tra gli ebrei studiati da Toaff? Ecco il sangue di un nuovo “Agnus Dei” da consumare a scopo augurale, così da precipitare la rovina dei persecutori, maledetti seguaci di una fede falsa e bugiarda. Sangue novello, buono a vendicare i terribili gesti di disperazione – gli infanticidi, i suicidi collettivi – cui gli ebrei dell’area tedesca erano stati troppe volte costretti dall’odiosa pratica dei battesimi forzati, che la progenie d’Israele si vedeva imposti. Questo valore sacrificale, il sangue in polvere (umano o animale) aveva per gli ebrei le più varie funzioni terapeutiche, al punto da indurli a sfidare, con il consenso dei rabbini, il divieto biblico di ingerirlo in qualsiasi forma. Secondo i dettami di una Cabbalah pratica tramandata per secoli, il sangue valeva a placare le crisi epilettiche, a stimolare il desiderio sessuale, ma principalmente serviva come potente emostatico. Conteneva le emorragie mestruali. Arrestava le epistassi nasali. Soprattutto rimarginava istantaneamente, nei neonati, la ferita della circoncisione. Da qui, nel Quattrocento, un mercato nero su entrambi i versanti delle Alpi, un andirivieni di ebrei venditori di sangue umano: con le loro borse di pelle dal fondo stagnato, e con tanto di certificazione rabbinica del prodotto, sangue “kasher”! Miti e leggende? Risale a 30 anni fa un libretto del compianto Piero Camporesi, “Il sugo della vita” (Garzanti) dedicato al simbolismo e alla magia del sangue nella civiltà materiale cristiana. Vi sono illustrati i modi in cui i cattolici italiani del Medioevo e dell’età moderna riciclarono sangue a scopi terapeutici o negromantici: come il sangue glorioso delle mistiche, da aggiungere alla polvere di crani degli impiccati, al distillato dai corpi dei suicidi, al grasso di carne umana, entro il calderone di portenti della medicina popolare. Con le loro “pasque di sangue”, i fondamentalisti dell’ebraismo ashkenazita offrirono la propria interpretazione – disperata e feroce – di un analogo genere di pratiche. Ma ne pagarono un prezzo infinitamente più caro. Per secoli gli ebrei sono stati accusati, in Europa, di uccidere nella Pasqua dei bambini cristiani per impastare gli azzimi di Pesach col loro sangue. Rileggendo i documenti processuali sui quali si era a suo tempo preteso di fondare l’infamante accusa, Ariel Toaff rimette in discussione i risultati cui la critica storica era pervenuta e ipotizza, alla luce del confronto con alcuni riti e aspetti culturali dell’ebraismo ashkenazita, che delitti di quel genere potrebbero – in rarissimi e limitatissimi casi, comunque estranei all’ortodossia ebraica e aberranti rispetto all’ebraismo – anche aver avuto luogo in Europa. L’audacia dell’ipotesi ha suscitato un acceso dibattito fra gli storici, i religiosi e i giornalisti, ben presto trasformatosi in durissima polemica. Ma intanto del “caso-Toaff” si erano a vario titolo impadroniti i mass media. Queste pagine rendono conto delle linee di sviluppo del dibattito di cui sono stati protagonisti studiosi e intellettuali: ma per mostrare come esso si sia svolto in un contesto estremamente turbolento e turbato, in cui la serena discussione scientifica è diventata da subito impossibile. Condanne di tipo religioso e politico hanno allarmato gli studiosi spingendo molti di loro a chiedersi se e fino a che punto, in questo caso, la libertà di pensiero, di espressione e di ricerca scientifica non sia stata lesa e se sia o no legittimo proporre che tale libertà scientifica possa, sia pure in pochi e particolari casi, decidere di autolimitarsi senza che ciò leda il diritto. Ne parla Franco Cardini nel suo pamphlet “Il caso Ariel Toaff. Una riconsiderazione”. Il professor Toaff spiega la sua seconda edizione di Pasque di Sangue in questi termini: “Ho accettato le critiche alla metodologia, e ne ho tenuto conto. In alcuni casi ho cambiato gli indicativi in condizionali, soprattutto quando si tratta di deposizioni di torturati senza riscontri da altre fonti. Ho sottoposto il testo a diversi lettori, professori e rabbini, anche quelli più critici. Ho rafforzato con ulteriori documenti il capitolo in cui mostro come, a dispetto dell’autorità rabbinica che vietava l’uso del sangue, per certi gruppi di ebrei ashkenaziti il Seder di Pasqua s’era trasformato in una manifestazione scaramantica, basata su formule di maledizione anticristiana, con uso di sangue secco proveniente da donatori vivi. Queste sono certezze. Sulle quali i giudici fecero presa per costruire il mito delle uccisioni rituali”. Nella nuova edizione però l’Autore ha sentito il bisogno di distinguere meglio fra rito e mito. “La distinzione era certamente meno chiara nel primo libro. Era giusta la critica di Ginzburg. Benché esistano prove, anche di fonte ebraica, che mentecatti o criminali abbiano rivestito i loro delitti di pretesti religiosi”. La storia si occupa di patologie individuali. “Non furono solo questo. Se per secoli accusi gli ebrei di uccidere bambini cristiani, ci sono pazzi che s´immedesimano: sono paradossalmente un prodotto dell’antisemitismo”. L’Autore ritiene comunque ancora corretto utilizzare come fonti confessioni estorte sotto tortura, “cercando di capire dove contengano elementi di verità. Del resto la storiografia ebraica per prima usa le confessioni dei processi dell’Inquisizione. Non è corretto farlo solo se il contenuto è edificante per le nostre convinzioni. La scelta dei rabbini di intervenire prima che il libro uscisse creò confusione, innescando reazioni viscerali. Non dico ingiustificate: dico viscerali. La reazione più facile in questi casi è voltare le spalle all’ambiente ebraico che ti ha colpito ingiustamente. Io invece ho deciso di spiegare intenzioni e limiti della mia ricerca, frutto di sei anni di lavoro assieme a studenti israeliani nessuno dei quali ha mai inteso che io credessi negli omicidi rituali”. Il libro Pasque di Sangue però è stato criticato anche in Israele, “forse perché uno dei miei scopi era sfatare il mito dell’ebreo sempre vittima, che ha sempre ragione. La mia è una critica alla storiografia ebraica. Dopo la Shoah è ripiegata sull’agiografia: parliamo sempre di più di martiri ed eroi. La storia ebraica di ogni epoca è ridotta a storia contemporanea. E se illumini le zone d´ombra, ti accusano di dare armi al nemico antisemita. Ho lasciato di mutuo accordo la cattedra all’Università Bar Ilan. So a quali pressioni sono state sottoposte le autorità accademiche. Ci sono state anche cose peggiori, su cui però preferisco sorvolare”. Anche il padre di Ariel, il compianto Elio Toaff, rimase amareggiato.
“L’ho lasciai fuori e avrei voluto che l’avessero fatto tutti. Non pretesi la sua benedizione, ma chiariti i presupposti so che i punti di disaccordo furono marginali”. Le reazioni future non sarebbero state viscerali, secondo “la logica, alcuni colleghi stanno organizzando una discussione sul mio lavoro nell’unica sede adeguata, quella scientifica. Sono pronto a sostenere critiche da chi ha letto il mio libro. Avrei potuto concludere la mia carriera in silenzio, come mi fu chiesto. Invece voglio assumermi le mie responsabilità. Ma solo le mie”. Cosa scrive Ariel Toaff in Pasque di Sangue? Offre un’attenta lettura di attualità antropologica alle potenzialità ideologiche “criminali” di un mito o di una leggenda “nera” ascrivibile a qualsiasi popolo o setta, non soltanto ebraica, che usi e declini la menzogna al rango di metodologia politica, sociale, culturale e religiosa di massa che sfocia poi nel fanatismo, nell’integralismo e nel fondamentalismo. “I processi per omicidio rituale costituiscono una matassa difficile da dipanare – scrive Ariel Toaff – dove chi intende esaminarli va in genere alla ricerca di conferme, più o meno convincenti, alle teorie che ha sviluppato in precedenza e in cui sembra credere fermamente. Gli elementi che non si attagliano al quadro sono spesso minimizzati nei loro significati, talvolta passati sotto silenzio. Stranamente in questo tipo di ricerca si dà già per assodato a priori quello che dovrebbe essere dimostrato. Chiara è la percezione che un diverso atteggiamento presenterebbe pericoli e implicazioni, che si intendono evitare a ogni costo. Non v’è dubbio che l’uniformità delle confessioni degli imputati, contraddetta solo da varianti e incongruenze generalmente legate a particolari di secondo piano, era assunta dai giudici e dalla cosiddetta «opinione pubblica» come conferma che gli ebrei, caratterizzati dalla loro grande mobilità e diffusione, praticavano riti orrendi e micidiali in odio alla religione cristiana. Lo stereotipo dell’omicidio rituale, come quello della profanazione dell’ostia e del sacrificio cannibalico, era presente a suggerire a giudici e inquisitori la possibilità di estorcere agli imputati confessioni simmetriche, armoniche e significative, mettendo in moto denunce a catena, da cui partivano vere e proprie cacce all’uomo e massacri indiscriminati. Se si è tentato in qualche caso di ricostruire i meccanismi ideologici, con le loro giustificazioni teologiche e mitologiche, che resero possibile la persecuzione degli ebrei, ritenuti responsabili di riti oltraggiosi e sanguinari, soprattutto nell’Europa di lingua tedesca, poco o nulla è stato compiuto per indagare sulle credenze di quegli uomini e quelle donne che erano accusati, o si accusavano, di crocifissione rituale, di profanazione dell’ostia, di ematofagia e cannibalismo. D’altronde se si fa eccezione per il primo caso clamoroso di crocifissione rituale, avvenuto a Norwich nel 1146, e per l’altrettanto celebre accusa del sangue a Trento nel 1475, processi e resoconti (ciò che viene definito con l’espressione generica di documentazione storica) costituiscono tracce deboli, spesso casuali, stringate nella forma e aride di particolari, che non consentono di lavorarci sopra. Quindi spesso quel che manca viene artificialmente aggiunto, supposto o postulato, in mancanza di elementi probanti espliciti nella direzione voluta, immerso in un bagno colorato, dove il quadro è per lo più impressionistico, avvolto in una nube di mistero emergente con tutto il suo armamentario da un passato lontano, che resta incomprensibile a chi si ostina ad affrontarlo applicando categorie interpretative anacronistiche. In genere questo sforzo, palesemente inattendibile, è compiuto in buona fede. O meglio, quasi sempre in buona fede. Così nella ricerca storico-antropologica anglosassone (britannica e americana) su ebrei e omicidi rituali, magia e stregoneria figurano tra gli aspetti tradizionalmente privilegiati (da Joshua Trachtenberg a Ronnie Po-Chia Hsia) e oggi per molti motivi godono di una straordinaria rinascita. Ma ciò che sembra ottenere un alto indice di gradimento non per questo risulta a forza convincente allo studioso attento, che non si contenti di risposte epidermiche e impressionistiche. Fino a oggi la quasi totalità degli studi sugli ebrei e l’accusa del sangue si sono concentrati in modo pressoché esclusivo sulle persecuzioni e sui persecutori, sulla loro ideologia e sulle loro presumibili motivazioni, sul loro odio verso gli ebrei, sul loro cinismo politico o religioso, sul loro astio xenofobo e razzista, sul loro disprezzo per le minoranze. Nessuna o quasi nessuna attenzione è stata prestata agli atteggiamenti degli ebrei perseguitati e ai loro comportamenti ideologici, anche quando essi si confessavano colpevoli delle accuse specifiche di cui erano fatti oggetto. E ancor meno, ovviamente, sono sembrate degne di interesse e di indagine seria le motivazioni di quei comportamenti e di quegli atteggiamenti, che si liquidavano apoditticamente come inesistenti, inventati di sana pianta da menti malate di antisemiti e cristiani esaltati, ottusamente apologeti. Tuttavia, per quanto di ardua digestione, quelle azioni, una volta dimostrata o anche soltanto supposta come possibile la loro autenticità, vanno affrontate seriamente dallo studioso. E non gli può essere lasciata come unica e banale alternativa la loro condanna o la loro aberrante giustificazione. Deve essergli invece concessa la possibilità di tentare una seria ricerca sulle loro effettive o presumibili motivazioni religiose, teologiche e storiche. Una cieca apologia vale quanto una cieca e apodittica condanna, che non può dimostrare quanto agli occhi di chi la esprime era già dimostrato. Proprio la possibilità di sfuggire a una definizione netta, precisa e univoca della realtà degli infanticidi, radicati nella fede religiosa, ha facilitato la cecità, intenzionale o involontaria, di studiosi cristiani ed ebrei, filosemiti e antisemiti. Anche in questo caso dobbiamo lamentare un ulteriore esempio dell’appiattimento stereotipico della storia degli ebrei, sempre più considerata come storia dell’antisemitismo, religioso o politico. Quando domande a senso unico presuppongono risposte a senso unico, quando lo stereotipo dell’antisemita aleggia minaccioso all’ingresso di ogni problematica ricerca storica sugli ebrei, questa finisce con il perdere gran parte del suo valore. Anzi, si trasforma per forza di cose in una visita guidata e pilotata sullo sfondo di un panorama fittizio e irreale, in uno sforzo virtuale di trovare la prevista soluzione, che ci hanno già messo in tasca. Come abbiamo sottolineato in precedenza, non è legittimo ignorare gli atteggiamenti mentali degli ebrei processati per omicidio rituale, torturati e giustiziati, né di quelli perseguitati sotto tale accusa. Ed è a questo punto che dobbiamo chiederci se le confessioni degli imputati siano resoconti puntuali di eventi effettivamente accaduti oppure di credenze, da inquadrarsi in contesti simbolici, mitici e magici da ricostruire. Costituiscono queste il riflesso delle credenze dei giudici, con le loro paure e ossessioni, del clero che li affiancava, delle classi inferiori o degli imputati stessi? Sciogliere i nodi non è compito agevole ne semplice, ma forse neppure impossibile. Dovremo quindi in primo luogo indagare sugli atteggiamenti mentali dei protagonisti del dramma del sacrificio rituale, sulle loro credenze religiose e gli elementi (per esempio il recente volume di S. Buttaroni e S. Musial (a cura di), “Ritual Murder. Legend in European History, Krakow – Nuremberg – Frankfurt”, 2003, si apre con una premessa a suo modo conclusiva: «It is important to state from the very beginning that Jewish ritual murder never took place. Today proving such theories wrong is not the goal of scientific research», p. 12) superstiziosi e magici che le accompagnavano. Dovremo prestare la dovuta attenzione a quelle concezioni che rendevano plausibile l’omicidio rituale all’interno di contesti storici e locali particolari, riscontrabili in successione nei territori di lingua tedesca al di qua e al di là delle Alpi, nel lungo periodo che va dalla prima crociata all’autunno del Medioevo. In sostanza si dovrà indagare sull’eventuale presenza di credenze ebraiche negli infanticidi rituali, legati alla celebrazione della Pasqua, ricostruendone i significati. I protocolli dei processi, soprattutto quelli minuziosi e dettagliati relativi alla morte del piccolo Simone da Trento, non potranno essere liquidati con l’assunzione che rappresentino soltanto lo specchio deformante delle credenze dei giudici, i quali avrebbero raccolto confessioni dettate e pilotate con mezzi coercitivi perché si adeguassero alle teorie da tempo diffuse sull’argomento in odio agli ebrei. Troppi sono infatti gli elementi emergenti da un’attenta lettura dei processi, così nella forma come nella sostanza, che si richiamano a realtà concettuali, a riti, a pratiche liturgiche e ad atteggiamenti mentali, tipici ed esclusivi di un mondo ebraico particolare, che in nessun modo possono essere attribuiti alla suggestione di giudici e prelati, perché di essi si possa non tenere il debito conto. Solo un’analisi non reticente di questi elementi è in grado di portare un contributo valido, nuovo e originale alla ricostruzione delle credenze nel sacrificio di infanti da parte dei loro protagonisti, veri o presunti, dei loro atteggiamenti basati sulla fede incrollabile nella redenzione e nella vendetta sui gentili, emergente dal sangue e dalle sofferenze, e raggiungibile solo in questo contesto. In questo mondo ebraico-germanico in continuo movimento profonde venature di magia popolare avevano solcato nel tempo il quadro delle norme della legge religiosa, alterandone forme e significati. Nelle «mutazioni» della tradizione ebraica, per così dire canonica, va ricercata la giustificazione teologica del memoriale, che oltre a essere celebrato nel rito liturgico intendeva rinverdire anche nell’azione la vendetta sull’aborrito nemico, che si reincarnava continuamente nella storia di Israele (faraone, Amalek, Edom, Aman, Gesù). Paradossalmente in questo processo, complesso e tutt’altro che uniforme, elementi tipici della cultura cristiana rimbalzavano, talvolta capovolti, all’interno delle credenze ebraiche, in modo inconsapevole ma costante, e a loro volta le modificavano, prendendo nuove forme e significati. Questi finivano con il divenire simboli abnormi e deformati di un giudaismo profondamente permeato dagli elementi portanti e caratteristici della religione avversa e detestata, imposti in maniera non intenzionale dallo stesso irriducibile persecutore. Dovremo quindi decidere se le confessioni di crocifissioni di infanti alla vigilia della Pasqua, se le testimonianze degli imputati sull’uso di sangue cristiano nella celebrazione della festa documentino miti, cioè credenze e ideologie risalenti a molto lontano nel tempo, oppure riti, cioè eventi effettivamente occorsi nella realtà e celebrati nelle forme prescritte e consolidate, con il loro bagaglio più o meno fisso di formule e anatemi, accompagnati da quelle pratiche magiche e superstiziose che erano parte integrante della mentalità dei protagonisti. In ogni caso, come ripeto, andrà evitata – avverte Ariel Toaff – la facile scorciatoia di considerare quei processi e quelle testimonianze soltanto alla stregua di proiezioni, estorte agli imputati con la tortura e altri mezzi coercitivi, psicologici e fisici, degli stereotipi, delle superstizioni, delle paure e delle credenze dei giudici e del popolo. In questo modo si metterebbe in moto un processo che porterebbe inevitabilmente alla squalifica di quelle testimonianze, interpretate come documenti avulsi dalla realtà e privi di qualsiasi valore, se non quello di indici delle ossessioni di una società cristiana che vedeva negli ebrei lo specchio deformante delle proprie magagne. Ma questo compito è sembrato del tutto proibitivo a molti degli studiosi, anche illustri, dotti e pieni di buona volontà, che hanno inteso occuparsi di questo difficile tema. Primo fra tutti Gavin Langmuir, il quale, partendo dai fatti di Norwich, considera la crocifissione e l’ematofagia rituali, apparse in due fasi distinte della storia, come invenzioni colte e interessate di ambienti ecclesiastici, negando agli ebrei un ruolo che non sia soltanto passivo e irresponsabile; e poi Willehad Paul Eckert, Diego Quaglioni, Wolfgang Treue e Ronnie Po-Chia Hsia, che pur esaminando da angolazioni diverse, con competenza e intelligenza, il fenomeno degli infanticidi rituali a partire dal tardo Medioevo, prestando particolare attenzione alla documentazione relativa ai fatti di Trento, lo considerano tout court e spesso a priori alla stregua di un’infondata calunnia, espressione dell’ostilità della maggioranza cristiana nei confronti della minoranza ebraica. Nell’ottica da loro adottata, gli interrogatori e le torture degli inquisiti non avrebbero avuto altro scopo che quello di portare a una piena e concorde confessione della loro colpevolezza, cioè di adesione a una verità che era già nella mente dell’inquisitore. L’uso di domande suggestive e di astuzie varie e, soprattutto, di tormenti fuor di misura era rivolto a costringere gli imputati ad ammettere che la vittima era stata rapita, sottoposta a tormenti secondo un rituale praticato dagli ebrei, e infine uccisa in odio alla fede cristiana. Le confessioni erano palesemente inverosimili, là dove il movente dell’omicidio era indicato nel consumo rituale del sangue cristiano, considerato che il divieto biblico di cibarsi di sangue era scrupolosamente osservato dagli ebrei. Ma a proposito delle torture è bene ricordare che, almeno dagli inizi del Duecento, nei comuni dell’Italia settentrionale il loro uso era disciplinato non solo dai trattati, ma anche dagli statuti. Come strumento per l’accertamento della verità, la tortura era ammessa in presenza di indizi gravi e fondati e in casi considerati da podestà e giudici di reale necessità. Successivamente le confessioni estorte in questo modo per essere ritenute valide andavano confermate dall’inquisito in condizioni di normalità, cioè non sotto la costrizione del dolore o della minaccia dei tormenti. Queste procedure, se pur inaccettabili oggi ai nostri occhi, erano quindi di fatto normali e sembra siano state osservate nel caso dei processi di Trento. Più critico e possibilista appare Israel Yuval, il quale, muovendosi sulle orme ideali dello stimolante studio pionieristico di Cecil Roth, sottolinea il collegamento tra l’accusa del sangue e il fenomeno dei suicidi e infanticidi di massa avvenuti nelle comunità ebraiche tedesche nel corso della prima crociata. Dal quadro emerge evidente la reazione ostile e virulenta del mondo ebraico ashkenazita alla società cristiana circostante, che trovava espressione non soltanto nelle invettive liturgiche, ma soprattutto nella convinzione di poter commuovere Dio a compiere una sanguinosa vendetta sui persecutori cristiani, approssimando così la redenzione. Del resto, di recente Yuval ha messo in evidenza molto a proposito che la risposta degli ebrei ashkenaziti alle accuse di omicidio rituale era sorprendentemente flebile. Quando veniva registrata, non conteneva alcun rigetto degli elementi che la sostanziavano, ma si esprimeva piuttosto in un ribaltamento dell’accusa nei confronti dei cristiani: «Anche voi non siete esenti dalla colpa di cannibalismo rituale». Ma già David Malkiel aveva notato come anche nelle illustrazioni della Haggadah di Pasqua delle comunità ebraiche di rito tedesco veniva dato eccezionale risalto alla scena, tratta da un Midrash secondario, che vedeva il faraone fare un bagno risanatore nel sangue dei pargoli ebrei crudelmente scannati. Il messaggio, che non metteva minimamente in dubbio l’efficacia magica e terapeutica del sangue degli infanti, sembrava diretto a capovolgere l’accusa. Non noi ebrei o, se vogliamo, non soltanto noi ebrei, avremmo compiuto tali azioni, ma anche i nemici di Israele nella storia se ne sarebbero resi colpevoli, e i bambini ebrei ne sarebbero stati le innocenti vittime. Volendo quindi concludere che gli omicidi, celebrati nel rito della Pasqua, non fossero soltanto miti, cioè credenze religiose diffuse e strutturate in maniera più o meno coerente, ma piuttosto riti effettivi propri di gruppi organizzati e forme di culto realmente praticate, saremo chiamati a una doverosa prudenza metodologica. Il fenomeno, una volta provata inequivocabilmente la sua presenza, dovrà essere collocato nel contesto storico, religioso e sociale, oltre che nell’ambiente geografico, dove avrebbe trovato presumibilmente espressione, con le sue peculiari caratteristiche irripetibili altrove. In altri termini dovremo ricercare gli elementi eterogenei e le esperienze storico-religiose particolari, che con probabilità avrebbero reso possibile in un certo periodo e in una certa area geografica (quella dei territori transalpini e cisalpini di lingua tedesca, o dove comunque si apprezzava una forte presenza dell’elemento etnico di origine tedesca, tra Medioevo e prima età moderna) il manifestarsi del fenomeno dell’uccisione di infanti cristiani a scopi rituali, come espressione di adeguamento collettivo di gruppi ebraici a una presupposta volontà di Dio in questo senso o come irrazionale strumento di pressione per condizionarla, così come i suicidi e gli infanticidi di massa «per amor di Dio» nel corso della prima crociata. In questa ricerca non ci potremo stupire se metteremo in luce usi e tradizioni legati a esperienze irripetibili, rivelatisi assai più radicati della stessa norma religiosa, pur collocandosene agli antipodi, dopo aver ricercato le opportune e necessarie giustificazioni formali e testuali. Azioni e reazioni, istintive, viscerali, virulente, dove i bambini, innocenti e inconsapevoli, divenivano vittime dell’amore di Dio e della vendetta”, magari in un nuovo Tempio, assetato di sangue, riedificato stavolta su scala planetaria. “Il loro sangue bagnava gli altari di un Dio che si riteneva dovesse essere guidato, talvolta spinto con impazienza, a proteggere e punire. Nello stesso tempo dobbiamo tener presente che nelle comunità ebraiche di lingua tedesca il fenomeno, quando attecchirà, sarà in genere limitato a gruppi presso i quali tradizioni popolari, che nel tempo avevano aggirato o sostituito le norme rituali della halakhah ebraica, e consuetudini radicate, impregnate di elementi magici e alchemici, si sposavano in un micidiale cocktail con un fondamentalismo religioso violento e aggressivo. Non mi pare inoltre che possa sollevarsi dubbio alcuno sul fatto che, una volta diffuso, lo stereotipo dell’infanticidio rituale commesso dagli ebrei avrebbe continuato inevitabilmente a camminare da solo. Di ogni infanticidio, molto più spesso a torto che a ragione, sarebbero stati incolpati gli ebrei, soprattutto se era scoperto a primavera. In questo senso aveva ragione il cardinale Lorenzo Ganganelli, in seguito papa Clemente XIV, nel suo celebre rapporto. Nelle sue motivazioni e nei suoi «distinguo». Il rapporto Ganganelli è stato riedito di recente da M. Introvigne, “Cattolici, antisemitismo e sangue. Il mito dell’omicidio rituale”, Milano, 2004. I verbali dei processi agli inquisiti di omicidio sacrale debbono essere esaminati con attenzione e con la dovuta cautela. Come avverte Carlo Ginzburg, occupandosi dei processi alle streghe, in questo tipo di giudizi pubblici attraverso l’introiezione (parziale o totale, lenta o immediata, violenta o apparentemente spontanea) dello stereotipo ostile proposto dai persecutori, le vittime finivano col perdere la propria identità culturale; chi non voglia limitarsi a registrare i risultati di questa violenza storica deve cercare di far leva sui rari casi in cui la documentazione ha un carattere non solo formalmente dialogico; in cui cioè sono reperibili frammenti relativamente immuni da deformazioni della cultura che la persecuzione si proponeva di cancellare. I processi di Trento costituiscono un prezioso documento di questo tipo. Nei loro protocolli, infatti, gli scarti e le incrinature, che dividono e differenziano nella sostanza, oltre che nella forma, i racconti degli imputati dagli stereotipi degli inquisitori, sono di lampante evidenza. Questo dato di fatto non può essere sottaciuto ne misinterpretato con scelte preliminari di natura ideologica e apologetica, intese a inficiarne la validità. In molti casi ciò che gli imputati dicevano era incomprensibile ai giudici, spesso perché il loro discorso era inzeppato di formule ebraiche (rituali e liturgiche) pronunciate alla tedesca, che erano loro proprie e che neppure gli ebrei italiani avrebbero potuto intendere. Altre volte perché quel discorso sviluppava concetti legati a categorie mentali particolari, in un linguaggio ideologico del tutto estraneo a quello cristiano. È evidente che considerare quei fatti e quelle affermazioni alla stregua di astute fabbricazioni e artifiziosi suggerimenti appare del tutto inverosimile. Delegittimarli, presentandoli come invenzioni di sana pianta e creazioni estemporanee degli imputati, terrorizzati dalle torture e tutti proiettati a soddisfare le pretese degli inquisitori, non può essere accettato come prerequisito per questa ricerca (C. Ginzburg, Storia notturna. Una decifrazione del sabba, Torino, 1989, p. XXVII. Le espressioni in ebraico (rituali e liturgiche) che appaiono nelle deposizioni sono generalmente ricostruibili con precisione, trovando agevole collocazione all’interno del discorso ideologico e religioso del mondo ashkenazita cui quegli ebrei appartenevano. Non si tratta quindi di un linguaggio satanico e stregonesco, uno «pseudoebraico» inventato dai giudici per demonizzare gli ebrei, come presupposto da molti (A. Esposito e D. Quaglioni, Processi contro gli ebrei di Trento, 1475-1478. I: I processi del 1475, Padova, 1990: «L’introduzione nelle deposizioni degli ebrei di maledizioni verso i Cristiani e la loro religione, rese in ebraico traslitterato, più spesso in uno pseudoebraico, poi tradotte in volgare, avrebbe la funzione da una parte di sottolineare il carattere rituale dell’infanticidio e dall’altra di addensare un’aura di mistero sulle pratiche religiose degli ebrei e diffondere l’impressione di trovarsi in presenza di un oscuro rito stregonesco e satanico»). Ogni conclusione, in qualunque direzione si muova, dovrà essere dimostrata dopo aver vagliato e verificato sine ira et studio gli elementi che la sostengono con le fonti a disposizione, che siano in grado di confermarne o negarne l’evidenza in maniera persuasiva e cogente”. Nell’edizione 2008 di Pasque di Sangue è presente anche una postfazione dove Ariel Toaff ribadisce le ipotesi di fondo avanzate nella prima edizione: “1) È errata la squalifica in toto dei documenti processuali. Vi è ad esempio un chiaro riscontro fra i testi delle confessioni del processo di Trento e le fonti ebraiche sull’uso magico e simbolico del sangue in riti e liturgie particolari nell’ambito della celebrazione della Pasqua ebraica, caratterizzante gruppi estremisti ashkenaziti, in funzione anticristiana (il cosiddetto “rituale della maledizione”). Questo a conferma che dalle confessioni sotto tortura è possibile ricavare elementi autentici della cultura perseguitata (paradigma indiziario). Inoltre, nelle confessioni del processo di Trento, compaiono frasi in ebraico ashkenazita (invettive anticristiane che trovano riscontro su altre fonti) trascritte in modo errato dai notai a prova del fatto che i giudici non erano a conoscenza né dell’ebraico né dell’yiddish. Questo dimostra l’autenticità di quelle frasi; 2) La geografia dei riti di sangue corrisponde a quella del mondo ebraico ashkenazita. Ebrei sefarditi ed orientali non conoscevano tali pratiche. Alfonso de Espina, confessore di Enrico IV di Castiglia e autore del trattato polemico antiebraico “Fortalitium Fidei”, cita come episodi di omicidi rituali di cui è venuto a conoscenza due casi avvenuti entrambi nel nord Italia (Pavia e Savona) e non in Spagna com’era lecito attendersi; 3) Cristiani (ossessionati da presenze diaboliche) ed ebrei (accusati di stregoneria ed infanticidio) sono partecipi dello stesso orizzonte mentale. Magia, medicina popolare, superstizione ed alchimia hanno influito in queste comunità fino al punto di disattendere le norme più severe della ritualistica ebraica (il divieto biblico di cibarsi del sangue è assoluto). In quest’ottica i rabbini erano costretti a scendere a patti con questa realtà che disapprovavano”. Ariel Toaff, sempre nella postfazione della seconda edizione di Pasque di Sangue, risponde alle critiche metodologiche mossegli e ne avanza a sua volta ai suoi detrattori. Si chiede ad esempio in relazione ai processi inquisitoriali iberici nei confronti dei Conversos (ebrei o supposti tali convertiti al cristianesimo) perché si accettino le accuse giudicate nobilitanti (quella di continuare a seguire in segreto l’Ebraismo) e si rifiutino a priori quelle aberranti legate all’uso superstizioso del sangue nelle pratiche religiose. In conclusione, sebbene nel libro si affermi che l’omicidio rituale sia una creazione tutta cristiana, il ruolo svolto dagli ebrei non è sempre e comunque quello della vittima perennemente passiva (“anche gli ebrei avevano voce. E non era sempre una voce sommessa e soffocata dalle lagrime”). Inoltre Toaff risponde anche alle critiche dei rabbini, distinguendo il loro ruolo da quello dello storico: “I princìpi dell’Ebraismo non coincidono sempre con i comportamenti reali degli Ebrei in carne e ossa;…scrivere di storia degli Ebrei non equivale a comporre una predica sinagogale con apparato di note, né a celebrare in ogni caso e comunque i santi e i martiri del nostro popolo. Per questo il lavoro degli storici è sempre difficile, talvolta doloroso e ingrato”.Ariel Toaff, con Il Mulino ha pubblicato “Il vino e la carne. Una comunità ebraica nel Medioevo”, “Mostri giudei. L’immaginario ebraico dal Medioevo alla prima età moderna”, “Mangiare alla giudia. La cucina ebraica in Italia dal Rinascimento all’età moderna”, e per Rizzoli “Il prestigiatore di Dio, avventure e miracoli di un alchimista ebreo nelle corti del Rinascimento”. Pasque di Sangue è molto più di un saggio scientifico. È un vademecum per capire le Guerre Umanitarie in corso sulla Terra senza soluzione di continuità tra stragi, attentati, deportazioni, assassinii di massa, conflitti e depistaggi.

                                                                                                    © Nicola Facciolini

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