Quando il Giro d’Italia parlava marsicano: la leggenda del Camoscio d’Abruzzo

Eroe. Un termine che emoziona e fa riflettere. Un termine che abbraccia la memoria, troppo spesso svanita ed offuscata dal passare inesorabile del tempo. La memoria è componente fondamentale del ciclismo, uno sport fatto, appunto, di eroi. Storie di uomini, di muratori e spazzacamini, di calzolai e panettieri, che hanno scritto pagine indelebili nel romanzo di questo sport.

Tra i mille volti del ciclismo eroico, di quello fatto da bici pesanti come macigni, di strade sterrate in cui la polvere era il pane quotidiano, ce n’è uno strettamente legato alla Marsica, il perfetto erede del popolo dei Marsi, famoso per la propria tenacia. Vito Taccone, da Avezzano, divenuto campione all’ombra del Salviano.

Maglia Verde e Giro di Lombardia all’esordio – La carriera di Taccone ha inizio nel 1961 per concludersi definitivamente nove anni più tardi. Un decennio segnato dal boom economico che stava rivoluzionando e rilanciando il Bel Paese dopo i postumi tremendi del conflitto mondiale. Dalle imprese memorabili dei miti Coppi e Bartali, il Giro d’Italia ha scoperto nuovi eroi come il lussemburghese Charly Gaul, l’Angelo della Montagna che emozionò il mondo sotto la neve del Bondone, Gastone Nencini, il Leone del Mugello che conquistò anche il Tour de France 1960, e il talento francese Jacques Anquetil, uno dei giganti nella storia della bicicletta. Negli anni ‘60, all’alba dell’epopea di Eddy Merckx e della storica rivalità con Felice Gimondi, i simboli della Corsa Rosa erano Arnaldo Pambianco, Franco Balmamion, Vittorio Adorni, Gianni Motta e Italo Zilioli. Tra questi, fece capolino uno sconosciuto corridore marsicano che riuscì a farsi notare già dalla sua stagione d’esordio tra i professionisti. Era il Giro d’italia 1961, sul traguardo di Potenza il giovane Taccone, dopo aver fatto il vuoto in salita, battè allo sprint il tedesco Junkermann, conquistando il suo primo grande successo della carriera. Al termine della corsa, Vito fece sua anche la Maglia Verde di miglior scalatore. Un semplice bluff? Affatto. Perchè al termine della stagione, Taccone si impose anche al Giro di Lombardia, una delle cinque Classiche Monumento del ciclismo mondiale. Una corsa mica banale, con il terribile Muro di Sormano da scalare prima del mitico Ghisallo; il Lombardia, la classica per gli uomini della montagna, aveva partorito un altro ennesimo predestinato.

Il Camoscio d’Abruzzo – Dopo una stagione in affanno, al Giro 1963 nasce definitivamente la leggenda del Camoscio d’Abruzzo. Cinque tappe vinte, di cui quattro consecutive. Un dominio che non si vedeva dai tempi del grande Alfredo Binda, che di successi consecutivi ne conquistò 8 nel 1929. Un’altra epoca, un altro ciclismo. Gesta eroiche tornate prepotentemente in voga con le imprese del corridore avezzanese, ormai per tutti il Camoscio d’Abruzzo, proprio come il simbolo delle montagne nostrane. Coraggio, spavalderia e quel pizzico di follia che hanno contraddistinto i campioni in bianco e nero, i pionieri del ciclismo. Era come se il tempo si fosse fermato a cinquanta anni prima, quando “si correva per rabbia o per amore”, per citare i celebri versi di De Gregori. Per rabbia, per amore e per fame correva Taccone: “Devo essere lupo perché ho fame, la mia famiglia ha sempre avuto fame. Ogni vittoria è una rapina”. Asti, Santuario di Oropa, Leukerbad e Saint-Vincent; quattro vittorie che valsero a Vito il biglietto d’ingresso nella storia del Giro d’Italia. Un poker da favola, più il trionfo nella penultima tappa di Moena, che non evitarono il sesto posto in classifica generale, a 11’50” dalla Maglia Rosa Franco Balmamion, che non ottenne nessun successo di tappa. La regolarità di Balmamion contro l’irriverenza di Taccone. Irriverenza che nel ciclismo è spesso nemica della vittoria ma che porta alla conquista di un traguardo ben più ambito: l’affetto della folla. Il popolo del Giro amava quel modo di correre di Taccone, il coraggio nell’attaccare continuamente quando la strada saliva e gli avversari iniziavano ad arrancare. Il Camoscio era l’idolo della gente, di quel popolo cresciuto anch’esso nella povertà. Vito divenne l’alfiere di una Marsica, povera ed impoverita, che con il ciclismo ottenne il proprio riscatto. Il sogno di un garzone in bicicletta divenuto campione si tramutò nel sogno dell’intero popolo marsicano.

Il campione del popolo – I Marsi, popolo che deve il proprio nome a Marte, dio della guerra, erano famosi per le grandi doti in battaglia. Indole battagliera che scorreva, inevitabilmente, anche nelle vene di Vito Taccone. Un carattere, spesso fuori dagli schemi, che avvicinava il Camoscio d’Abruzzo alla gente, proprio per quella sua normalità e genuinità, tipica di chi è cresciuto nella fame e nella voglia di rivalsa. Lontano dai campioni “ostriche e champagne”, Vito incarnava perfettamente l’animo marsicano e la rivincita sociale di un popolo sottomesso ed umiliato nella povertà dell’immediato dopoguerra. Poco avvezzo alla giacca ed alla cravatta, l’abito che più si prestava a Taccone era quello in verde, come la Maglia di miglior scalatore che conquistò per ben due volte al Giro d’Italia.

Il Giro d’Italia si appresta a tornare in Abruzzo nel ricordo dello scalatore marsicano, uno di quelli che ha impreziosito la Corsa Rosa, giunta all’edizione numero 100. Una storia fatta di uomini ed eroi. Eroi del popolo che saranno ricordati al di là delle vittorie ottenute. Perché l’amore della gente può valere di più di una Maglia Rosa.

Luca Pulsoni

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