LUCI E OMBRE NEI PLEBISCITI

Il libro di Enzo Fimiani, una novità nella ricerca storica

 

di Mario Setta *

 

Interessante e in qualche modo avvincente il linguaggio, sempre scorrevole e spontaneo, come l’uso, di tanto in tanto, dell’aggettivo “scivoloso”, per indicare che i plebisciti nascono con l’idea di migliorare le condizioni del popolo, di servirlo, mentre poi lo asserviscono e lo schiavizzano. È notorio che la tematica risale, teoricamente, al periodo dell’illuminismo, tanto che Voltaire, in una lettera del 1776 scrive: “sont les plébiscites qui font les lois”. Ma la pratica trova la sua espressione nel periodo della Rivoluzione Francese. Certamente il giuramento nella sala della Pallacorda, il 20 giugno 1789, con cui i rappresentanti degli Stati Generali si autoproclamano assemblea nazionale, rappresenta una data imprescindibile nella storia umana. Riconoscendo la propria maggioranza numerica, 578 (borghesia) contro 561 (nobiltà e clero), il terzo stato assume il ruolo di volano. Il 9 luglio nasce l’Assemblea nazionale costituente. Una rivoluzione che si compie, senza spargimento di sangue. Il 26 agosto 1789 viene approvata e pubblicata la Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo e del Cittadino. Inizia un decennio in cui il sangue sgorga da ogni parte, fino al colpo di stato di Napoleone, il 18 brumaio 1799 (9 novembre).

 

Sul fil rouge, Fimiani rileva una doppia tipologia della dimensione plebiscitaria e ciascuna, a sua volta, doppia, una specie di Giano bifronte, di teoria e prassi. La prima tipologia è data dal rapporto dialettico tra Potere e Popolo, la seconda tra Diritto e Suffragio. E sempre sul fil rouge ci conduce attraverso le varie tappe delle consultazioni, cominciando dalla prima, che avviene nel 1793 per approvare la Costituzione Repubblicana giacobina. I risultati vengono proclamati il 20 agosto e assegnano il 99% ai Sì (Oui). La Costituzione dell’anno III, approvata il 22 agosto 1795, viene sottoposta al plebiscito e il risultato viene proclamato il 23 settembre. Non ci fu grande partecipazione e il ricorso al plebiscito assume la funzione di appello al popolo (appel au peuple). Intanto nel panorama franco-europeo appare la figura di Napoleone Bonaparte, in precedenza arrestato come giacobino, ma personaggio di rilievo per le sue vittoriose battaglie nella campagna d’Italia. E proprio in Italia il plebiscito assume valore di riscatto nazionale. In otto anni, per nove volte, tra i confini di piccoli stati, gli italiani esprimono la loro volontà. In Francia, sotto Napoleone, l’“appel au Peuple” diventa una prassi normale e lo è anche quando appare il nipote del primo, Napoleone III.  Criticando l’appello al popolo di Napoleone III, Alexis de Tocqueville scrive: “Mai a una nazione fu offerta più odiosa derisione”.

 

“In Italia, tra il 1859 e il 1870, – si legge nel testo di Fimiani, – si recò nei seggi a votare un totale di quasi tre milioni e ottocentomila italiani, abitanti (maschi) degli Stati preunitari. Nell’insieme dei ben diciannove plebisciti risorgimentali tra 1848 e 1870, il totale dei votanti ascese a 4.600.000. Quella massa di italiani ‘plebiscitanti’ in stragrande maggioranza, non avrebbe mai più messo piede in un seggio elettorale lungo tutta la propria vita restante”. Nel Novecento il ricorso ai plebisciti non si attenua. In Francia, Italia, Germania, Spagna, Grecia, e altre nazioni europee il plebiscito assume importanza capitale a livello politico-elettorale. Sotto il fascismo il primo plebiscito avviene nel 1929, il 24 marzo, alla scadenza della prima legislatura, con i Sì che raggiunsero il 98.33%. Il successivo plebiscito ebbe luogo dopo 5 anni precisi, il 25 marzo 1934, con un risultato del 99,84% di Sì.  In Germania, l’anno prima, il 1933, “le votazioni del 5 marzo – scrive Fimiani –  apparvero dotate di chiari connotati da plebiscito”. Ed è in Germania che viene approvata una legge ad hoc sul plebiscito (“Gesetz über Volksabstimmung”). All’ultimo capitolo del libro, “Le interpretazioni”, l’autore cerca di puntualizzare le ragioni del lavoro svolto, sottolineando il concetto originario del plebiscito “un portato, non lo si dimentichi, dell’allargamento della sfera politica e, in sostanza, di una sua ‘democratizzazione’”.

 

A conclusione di questa mia recensione un po’ sbrigativa, ma “amichevole”, per il fatto che sono amico da anni dell’autore e di cui apprezzo lo sforzo che investe sul suo lavoro, cerco di soffermarmi sulla frase del titolo del libro: “L’unanimità più uno”, pronunciata il 12 maggio 1928  in Senato da Benito Mussolini. Probabilmente pensava a se stesso, il duce, come componente aggiuntiva, extra-ordinaria, in una votazione plebiscitaria. L’idea di Unità del e nel popolo ha molto di religioso, di mistico. Era l’idea spinoziana di Deus sive Natura, coinvolgendo sacro e profano, Ne “L’avvenire dell’uomo”, un paleontologo-teologo che scrive in quegli anni, Teilhard de Chardin, affronta temi di carattere teorico-cosmico, scrivendo: «Nei sistemi “totalitari”, dei quali l’avvenire correggerà certamente gli eccessi, accentuandone probabilmente le tendenze e le intuizioni profonde, il cittadino vede il suo centro di gravità trasferito a poco a poco, o per lo meno imperniato, su quello del gruppo nazionale o etnico a cui appartiene. […] Siamo tutti d’accordo sul fatto che la nostra specie sta entrando nella sua fase di socializzazione; non possiamo continuare a vivere senza subire quella trasformazione che, in qualche modo, renderà la nostra molteplicità un tutto.»

 

*Storico

 

 

 

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