TESTIMONIANZE DALL’OLOCAUSTO – LE LETTERE DI OSKAR SCHINDLER

Non era neanche vecchio. Quando morì, nel 1974, a Hildesheim, in Assia, Oskar Schindler, l’industriale tedesco che salvò 1.200 ebrei dallo sterminio (oltre ai 1.100 della famosa lista se ne aggiunsero altri cento negli ultimi mesi di guerra) aveva 66 anni, ma era solo, alcolizzato, indebitato e letteralmente senza un soldo. Meditava l’ennesimo viaggio in Israele, in tutto ne fece 17, l’unico posto al mondo dove era benvoluto e, soprattutto, dove, grazie ai sussidi delle organizzazioni ebraiche e ai regali dei suoi “salvati”, che organizzarono per lui un “Fondo Schindler”, poteva mettere insieme il pranzo con la cena. Tutto questo è ulteriormente chiarito da un carteggio, di cui per la prima volta il quotidiano Maariv pubblica alcune lettere, che uno degli Schindlerjuden, come ancora oggi vengono chiamati gli ebrei sottratti da Schindler ai nazisti, il giudice della Corte Suprema israeliana Moshè Bejski ha lasciato in eredità alla sua morte, avvenuta nel 2007, all’Istituto Israeliano per la Storia dell’Olocausto Massuah. Lo sfondo in cui s’inquadra la corrispondenza è quello di una disfatta personale. Alla fine della guerra, Oskar Schindler e sua moglie Emilie, che lo aveva coadiuvato nella sua opera di salvataggio, erano letteralmente sul lastrico. Schindler non era riuscito ad adattarsi alle condizioni della Germania “Anno Zero” e tentò una serie di operazioni commerciali che fallirono miseramente, al punto da ritrovarsi, come chiarisce in una delle lettere, perseguito da 17 ordini di arresto per bancarotta. Oppresso dai debiti, inseguito dai creditori, Schindler si rivolse per la prima volta all’organizzazione ebraica americana Joint Distribution Commettee per ottenere un prestito di 5000 dollari con cui potersi recare in Argentina. Ma in Argentina, dove arriva nel 1949 assieme ad un gruppo di sopravvissuti dell’Olocausto, le sue fortune non cambiano. E qualche anno dopo è costretto a ritornare in Germania, lasciando Emilie, che non aveva nemmeno i “soldi per comperarsi un paio di occhiali”, a sbrigarsela coi creditori. In questa situazione a chi può rivolgersi per aiuto se non agli amici ebrei? “Caro Signor Bejski, spero che Lei non s’arrabbi con me se le scrivo troppi rapporti interinali”, esordisce Schindler in una lettera del luglio 1963. L’industriale tedesco ha continuato a ricevere gli aiuti del Fondo Schindler e, con puntigliosa quanto scoraggiante tempestività, mette i suoi benefattori al corrente della sua situazione debitoria, vagheggia progetti improbabili, spera di poter risalire la china. Con largo anticipo su Spielberg, che ne ha tratto un film a metà degli anni Novanta, capisce che la sua storia può interessare il grande pubblico. “Mi interessa particolarmente il fatto – scrive – che uno degli amici stia tentando di presentare la mia vicenda alla televisione di Los Angeles, cosa che senza dubbio potrebbe salvarmi economicamente. “Ma nel frattempo – racconta – la situazione non è semplice. Non ho pagato da molti mesi l’affitto della casa in cui abito e la padrona non vede la cosa di buon occhio. Mi ha detto di non capire perché non paghi dal momento che ho ricevuto molti soldi dai miei amici americani”. L’uomo che Israele avrebbe insignito, assieme alla moglie Emilie, dell’onorificenza di Giusto delle Nazioni era piuttosto malvisto in patria. “È impossibile liberarsi della sensazione che tentino di strapparmi il tappeto da sotto i piedi, nella speranza di vedermi fuori dal paese”. Moshè Bejski, che assieme a Itzhak Stern e Poldek Pfefferberg fu tra i pochissimi componenti della lista ad essere a conoscenza sin dal principio del piano orchestrato da Schindler per salvare i “suoi” ebrei, si adoperò molto per togliere l’imprenditore dai guai economici in cui s’era cacciato. E il tono delle lettere di Schindler si fa sempre più amichevole (da “Caro signor Bejski” a “Caro amico Dottor Bejski” a “Caro Moshè”) e sempre più schietto. “Per un lungo periodo sono stato costretto a dormire in alberghi a buon mercato nelle vicinanze della stazione centrale e a chiedere in prestito denaro da amici non ebrei, se non altro per poter mangiare una modesta colazione. Oggi semplicemente scappo dal mio appartamento prima dell’alba per sfuggire ai creditori e alla polizia. Le giuro che persino nel Terzo Reich ho avuto meno paura”. Nel novembre del 1967, ma senza indicare il luogo, Schindler annuncia a Bejski che tre settimane prima è stato trascinato fuori dal letto “per dichiarare la bancarotta”. Vorrebbe emigrare ma non ha i soldi. “Economicamente parlando in Germania sono finito”. Cinque anni dopo, nel 1972, tramite Moshè Bejski, chiede il parere di un medico israeliano, certo “Dottor Franck” sulla salute che va deteriorandosi. Segue la meticolosa elencazione delle donazioni ricevute: “Ho ricevuto dal signor Korn 1.000 lire israeliane (circa 240 dollari dell’epoca, una cifra rispettabile per quel periodo in Israele equivalente ad uno stipendio mensile medio). Anche Halina Dawidovitch mi ha dato 500 lire israeliane. Sternberg mi ha dato ancora mille marchi e ha lasciato 200 dollari per me presso il suo amico di Francoforte. Questa somma mi sarà di grande aiuto e vi ringrazio di cuore”. Rifiutato dal suo mondo, ma non dalle persone che aveva soccorso, Oskar Schindler morì a casa di una coppia di amici ebrei, gli Starr, che lo ospitarono e lo curarono fino alla fine.

 

( Cicchetti Ivan )

 

 

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