L’Abruzzo è una scatola magica che contiene ciò che non ti aspetti. È una regione unica, un mosaico di istantanee raffiguranti mare e montagne, colline e altipiani che si ricongiungono con l’infinito. Il Corno Grande, punto più alto del Gran Sasso d’Italia, è il cuore dell’Italia, il cumulo di roccia dal quale le Alpi sembrano miniature e i due mari più vicini. La Piana di Campo Imperatore assomiglia incredibilmente ad un tipico paesaggio tibetano, immerso in un alone selvatico che nasconde un pizzico di magia. L’Abruzzo è terra di ciclismo e ciclisti, di paradisi nascosti che solo il Giro d’Italia sa scoprire anno dopo anno. L’ultima volta della Corsa Rosa a Campo Imperatore è datata 22 maggio 1999, altra epoca, altro ciclismo, altra storia. In quella giornata da tregenda, il Piccolo Tibet abruzzese è diventato il palcoscenico dell’ennesima, preziosa, perla di Marco Pantani.
Dopo quella vittoria da leggenda, Campo Imperatore è diventata la “Salita Marco Pantani”, un altro dei luoghi di culto nell’universo pantaniano. Ieri, 19 anni dopo l’impresa del Pirata, il Gran Sasso ha dato il bentornato al Giro. Lo ha fatto vestito col suo abito migliore, quello che non ti aspetti. La tappa numero nove è ambientata in una location cinematografica, un angolo di Abruzzo in cui soltanto una sottile lingua d’asfalto irrompe nell’immensità del verde e delle vette che dominano l’Appennino. La salita finale è lunga 46 km, uno sforzo infinito, una strada docile che diventa infernale nel proprio epilogo. Un lungo climax, un costante avvicinamento al momento in cui tutto si deciderà e tutto il resto sarà lasciato alle spalle. L’atmosfera è magica già dal mattino. Due muri di neve avvolgono gli ultimi quattromila metri. Sulle pareti di ghiaccio vi è inciso un intero romanzo ciclistico. Il nome ricorrente è uno solo: quello di Marco Pantani. Il Pirata ha lasciato il segno, nel cuore e nella mente. Tutto parla di lui, dalle scritte sull’asfalto sino a quelle impresse sugli striscioni che colorano il paesaggio.
Come d’un tratto, la salita interminabile sta per entrare nella sua fase cruciale. Masnada di nome fa Fausto, un onore ed un onere per il faticoso mestiere del ciclista professionista. Il giovane della Androni cerca di portare a termine un’impresa d’altri tempi, il vento contrario gli gioca un brutto scherzo proprio sul più bello. Giulio Ciccone ha provato per ben tre volte a togliersi tutti di ruota. Il talento abruzzese ne ha fatta una questione di principio, correre in casa dà energie aggiuntive alle gambe e un coraggio insperato nel proprio inconscio. A Fabio Aru e Chris Froome non piacciono i fuochi di paglia. Non appena se ne accende qualcuno, abbandonano la compagnia dei rivali per navigare solitari in un mare di difficoltà. Simon Yates è lucido e glaciale. Capisce le ostilità del vento e se ne sta al coperto nella pancia del plotoncino. La Maglia Rosa risplende soltanto nell’ultima curva a 200 metri dalla linea d’arrivo. È quanto basta per mettere un altro mattoncino sul muro che lo divide dagli avversari, capeggiati dai sempre volitivi Pinot e Pozzovivo oltre che dal compagno/amico (?) Chaves. Campo Imperatore ha detto tutto e niente, uno Yates attualmente imbattibile che aspetta impaziente le insidie che il Giro 101 ha posto dinanzi a lui e agli altri pretendenti al Trofeo Senza Fine.
Yates è una scatola magica, poco appariscente, cinica, concreta, sorprendente. Un po’ come l’Abruzzo e quel lungo peregrinare che conduce alla vetta della Montagna Pantani. Da lassù toccare il cielo con un dito non è impresa impossibile. Fa tutto parte della magia abruzzese.