CARSOLI – ANTONIO CEDERNA IL GIORNALISTA DEGLI SCAVI DEL 1950

ARTICOLO DEL 1951 SUGLI SCAVI DI CARSOLI

Carsoli non è Troia: se Schliemann poté buttare addosso a sua moglie i gioielli di Elena, qui bisogna accontentarsi, dopo una giornata di scavo, di una mezza dozzina di sottilissimi anelli di bronzo, senza sigillo, e di un paio di braccialetti a spirale, indizio della povertà di quel popolo nel secolo di Pirro e di Annibale. Il melo accanto al quale, appena scesi dal treno, cominciammo a scavare, aveva superato i cinquant’anni e doveva la sua vita a un fatto inconsueto: proprio nel punto dove ora affondavano le sue radici screpolate, il proprietario del terreno aveva scoperto per caso durante certi lavori agricoli, sul finire del secolo scorso, un buon numero di teste stravaganti, e forse molto antiche, di terracotta che lo avevano lasciato interdetto e sorpreso; infine aveva deciso, con notevole senso di equità, di tenersene alcune, di regalarne altre agli amici e di vendere il resto allo Stato. Queste ultime, come capitava e capita spesso, furono di nuovo seppellite e dimenticate nei sotterranei di qualche museo; le prime invece, diventate presto un ottimo bersaglio per sassate e tiri a segno, sempre meno rispettate col passare degli anni, relegate nelle soffitte, nelle stalle e nei granai, scomparvero definitivamente dalla circolazione con l’ultima guerra, che ha distrutto tutto quanto poteva del paese di Carsoli. Restava soltanto il melo, che il vecchio contadino con molta accortezza aveva voluto piantare a ricordo della sua fortunata scoperta. Il primo sentimento che si prova, quando si comincia a scavare, è molto vicino alla vergogna. Per un paio d’ore i quattro operai ebbero da fare col prato: il piccone dava un suono sordo, le zolle d’erba rotolavano via molli, districandosi a stento, e non si vedevano che vermi. Faceva male pensare che quella terra dove per tanti secoli si era onestamente arato, zappato e falciato, venisse ora sconvolta per uno scopo tanto diverso e di esito così incerto, come era la nostra pretesa che essa producesse, oltre al grano, alle fave e alle patate, qualche testimonianza della civiltà degli Equi dopo la conquista romana. I movimenti degli operai sembravano goffi, quasi una caricatura del normale lavoro dei campi, la loro fatica eccessiva e assurda come la nostra impresa archeologica: per buona fortuna nessuna curiosità mostravano i carrettieri seduti sui loro carri di letame, mentre sulla strada provinciale salivano verso il paese (ne vedevamo solo le teste, sul pelo del prato), né gli scarsi passeggeri ai finestrini dei treni quando, ogni due ore, al di là della rete metallica, ci passavano accanto. Qua e là nell’erba qualche bossolo di mitragliatrice: a valle, oltre il cimitero con la sua chiesa romanica sconsacrata, scorreva in silenzio un magro torrente nel suo letto troppo ampio. Ma viene sempre il momento che il terreno fertile finisce e la musica cambia; la punta del piccone diede a un tratto un suono più nitido e il lavoro divenne più risoluto: a sessanta centimetri di profondità era comparsa una fascia di argilla molto chiara, dura e compressa e gli operai cominciarono a sudare, a rizzarsi spesso sulle reni, a bere l’acqua dalla bottiglia e a parlare. Uno di essi si mise a rievocare, come un paradiso perduto, gli anni di prigionia in Inghilterra, quando si rifiutava di lavorare, quando faceva a pugni con i sorveglianti, quando godeva della compiacenza delle donne e approfittava della loro delicatezza, per cui «ci mettevano in tasca tre scellini, prima di entrare al cinema, perché fossimo noi a pagare anche per loro». Intanto, ai lati della fossa ormai ampia e regolare e profonda più di un metro, i mucchi della terra buttata andavano acquistando proporzioni rassicuranti. La prima giornata di lavoro era vicino alla fine e non restava che rimandare all’indomani la voglia di sapere cosa c’era sotto a quell’argilla così dura e compressa, e noi stavamo guardando accendersi le prime luci nelle case raggrumate in cima ai colli più lontani già abbandonati dal sole, quando l’ex-prigioniero degli inglesi si mise ad urlare: «è maschio, è maschio», e intanto brandiva in alto con la mano sinistra qualcosa di molto piccolo: un giovinetto di bronzo, nudo, alto dieci centimetri, liscio e lucente, con un braccio alzato come per arringare la folla e imporle di tacere. Quel grido ne aveva salutato la rinascita al mondo dopo due dozzine di secoli: insieme, una moneta romana del terzo secolo a.C., con il pingue profilo di Mercurio sul dritto e una prua di nave sul rovescio, era un indizio molto eloquente di storia politica e militare. Ormai sotto l’argilla chiara, alla profondità di un metro e mezzo, era affiorato lo strato antico, fatto di terriccio scuro e friabile misto a detriti di carbone, ossa di animali, frammenti di terracotta e pezzetti di ceramica nera: sotto ad esso si sarebbe trovato, in seguito, il terreno vergine, bello e compatto. I quattro strati (terreno fertile, argilla sterile, strato antico, terreno vergine) si sovrapponevano nell’ordine con regolarità elementare. Lo strato antico, trovato nel campo di Carsoli, giace a un metro e mezzo o due di profondità e si estende per parecchie decine di metri quadrati come una grossa coltre, regolare nello spessore (trenta-cinquanta centimetri) e nella distribuzione degli elementi che lo compongono: è un deposito del terzo secolo prima di Cristo, formato da oggetti votivi di bronzo, ferro, ceramica e terracotta, mescolati insieme. Questi oggetti votivi erano stati esposti probabilmente in un edificio sacro non lontano che non ha lasciato traccia di sé fino a quando, a un dato momento, forse per ragioni di guerra, la località dovette essere abbandonata da un giorno all’altro: allora, per salvarli dalla dispersione, si pensò di nasconderli e di seppellirli, e bronzo, ferro, ceramica, terracotta, tutto venne ammucchiato alla rinfusa in gran fretta, senza badare all’integrità dei pezzi più fragili, portato via, scaricato e livellato con una certa cura, in modo da formare appunto lo strato in questione, nel luogo dove è stato scoperto: da quel momento a tutto il Mille nessuno più era andato ad abitare a Carsoli. Questo strato si lascia staccare a grossi blocchi: da ognuno di essi che l’operaio solleva come un neonato e poi rompe, frantuma e fruga con grande attenzione (un vero concentrato di vita antica, e gli operai, chiamandolo tenacemente «estratto», peccano appena contro il vocabolario, non contro la realtà delle cose), saltano fuori le sorprese: un dito, tre occhi, un pezzo di piede, un frammento di testa coi capelli a riccioli, un paio di monete di bronzo di Roma o della Campania, il manico di una minuscola anfora, una punta di ferro, una testina femminile grande come una noce, un chicco di collana di pasta vitrea blu striata di giallo: tutte cose che rivelano sinteticamente, anche a Carsoli, la pietà popolare degli antichi italici. È l’aspetto più caratteristico di una civiltà singolarmente uniforme, diffusa negli ultimi tre o quattro secoli della repubblica romana nell’Etruria meridionale, nel Lazio, nella Campania, quale ci è stata resa nota dai vecchi scavi, per lo più non sistematici, di Veio, Cerveteri, Civita Castellana, Conca, Nemi, Palestrina, Roma stessa, ecc.: si tratta sempre di grosse quantità di ex voto, che i fedeli offrivano nei luoghi sacri, e che consistevano in oggetti di uso comune (monete, armi di bronzo e di ferro, ornamenti personali, vasi di ceramica ecc.) oppure in riproduzioni intere o parziali o soltanto allusive, generalmente di terracotta, del devoto stesso o delle cose che gli premeva fossero protette dalla divinità. Soddisfatto di una somiglianza del tutto simbolica, il devoto comprava dal fabbricante di terrecotte, che in ogni paese aveva la sua bottega vicino ai luoghi di culto, una statua sommariamente lavorata, che lo potesse rappresentare davanti agli occhi della divinità, oppure, caso più frequente, si accontentava della sola testa grande al naturale o di una quasitesta con solo la faccia modellata, di una mezza testa di profilo, di una testa minore del vero, di una mezza faccia (come una mascherina), secondo quanto gli suggerivano le sue possibilità e il fervore della sua fede: l’artigiano aveva le forme pronte e ne cavava quante teste voleva e, secondo il prezzo, decideva se valeva la pena di eseguire ritocchi, di variare una ciocca di capelli, di incidere l’iride o la pupilla (nella maggioranza dei casi lo giudicava superfluo). Ma la bottega del fabbricante di terrecotte era un campionario di pezzi anatomici: dita, mani, piedi, gambe, braccia, busti con i visceri in mostra, mammelle, uteri, genitali maschili e femminili, orecchi, soprattutto occhi: singoli a forma di mandorla o rotondi con tutta l’orbita, oppure a coppie, come quelli d’argento che ancora oggi si vedono in Sicilia nelle cappelle di S. Lucia; e c’erano pure piccole statue di buoi, cavalli e maiali per chi aveva avuto il bestiame salvo da infezioni, e c’erano le imitazioni delle «tanagre» greche, che potevano rappresentare sia la divinità sia la pia donna che le dedicava: molti infine se la cavavano offrendo un semplice peso da telaio. Tutte queste antiche sacre terrecotte, una volta appese ai chiodi o collocate per terra o su mensole nei santuari, e poi seppellite quando erano diventate ingombranti o quando si era dovuto sgombrare per ragioni urgenti, oggi sono nel migliore dei casi esposte negli scaffali più bassi e peggio illuminati delle vetrine dei musei, dove, se il visitatore non è abbastanza giovane per permettersi ripetuti piegamenti, nessuno le guarda più. Va da sé che esse, quando venivano trovate, scomparivano regolarmente a centinaia e a centinaia regolarmente ricomparivano nelle collezioni pubbliche e private di tutto il mondo, da Madrid a Copenaghen. Scavare stanca. La punta del piccone (o la penna, a seconda che vuole il lavoro) non va persa di vista per un solo momento: occorre spiegare agli operai il pregio e il significato dei pezzi che trovano, e, poiché lo capiscono subito, frenare la loro impazienza, convincerli che non devono tirare appena spunta un’unghia, ma indurli a lavorarci intorno adagio perché, dietro l’unghia, può seguire tutta la mano, abituarli a moderare il loro entusiasmo; a non disprezzare le terrecotte per le monete, il ferro per l’argento, la ceramica per qualche bella statuina di bronzo. Occorre aver sempre sottomano un quaderno per scrivere e descrivere tutto quanto merita, disegnare e misurare quote e livelli, occorre fare fotografie, anche perché si sa che alla sera, dopo otto ore di lavoro, nello stato di leggera demenza in cui ci si trova, tutto si confonde nella memoria. Ogni frammento va ricordato e tenuto d’occhio perché può attaccare, a distanza di ore, con un altro: bisogna, appena è il caso, procedere a difficili e provvisori tentativi di ricomposizione dei pezzi peggio conservati (in questi interventi eccelle il mio amico Lucos, che molto precocemente, a cinque anni, si consacrò all’archeologia trangugiando un cucchiaio di polvere di mattone delle mura di Aureliano). Bisogna subito dividere e ordinare gli oggetti secondo quello che sono o la provenienza, riempire buste, cartocci, scatole, casse e cassette (non si ha l’idea dello smisurato numero di recipienti necessari a chi scava e che non si trovano mai). Bisogna spiegare con garbo alla gente che viene a vedere, e rispondere alle sue domande: che non si può dire esattamente cosa si comprava con quelle monete, che «a quei tempi l’oro lo conoscevano», che non si trovano «ossa di cristiani», che prima di Cristo gli anni non crescono ma calano, che non è come a Pompei, che Nerone non c’entra: ascoltare le sue meraviglie («però ci sapevano fare» oppure indifferentemente «quelli si che ci sapevano fare») e le storie più strampalate di terremoti che scoprono «mausolei», di statue che parlano, di tesori ingenti nascosti dai galeotti nel cavo degli alberi; persuaderla infine che, anche se non si trovano «anfore piene di marenghi», lo scavo può essere ugualmente interessante. Le fatiche di chi scava sono però alleggerite da alcune occupazioni tranquille. Dà un gusto speciale prendere in mano una testa di terracotta, dopo averla un poco lasciata seccare al sole, e cominciare a pulirla con uno stecchino dalle incrostazioni: la terra indurita, se la si forza nel senso giusto, schizza via lasciando apparire a poco a poco le palpebre, le labbra, il lobo dell’orecchio coi loro bei contorni netti, alle volte si scopre una piccola fossa nel mento o due rughe sulla fronte o addirittura le impronte digitali dell’artefice antico: la testa ci guarda indifferente a occhi sbarrati, e l’archeologo partecipa un poco del compiacimento dell’artista di fronte alla sua opera. Mai adoperare, per lavori del genere, punte di metallo (temperini o spilli): si finirebbe per sfregiare irrimediabilmente tante piccole fanciulle d’argilla, sfigurando l’ammirevole fluire delle pieghe dei loro mantelli, le ghirlande di foglie d’edera o di vite che portano in testa, i loro minutissimi e patetici lineamenti, i loro graziosi cappelli: è necessario farsi le mani delicate come quelle della regina di Brobdingnag, quando sollevava sorridendo Gulliver e conversava con lui. Gli operai le chiamano immancabilmente pupazze, e anche qui dicono giusto: in Grecia esse erano spesso delle vere bambole che venivano chiuse, quando ormai non servivano più, nelle tombe delle ragazze morte nel fiore degli anni. Se invece sfreghiamo col pollice i fondi sbrecciati delle coppe che una volta avevano versato vino o latte sugli altari, scopriamo impressi i marchi di fabbrica, la palmetta, la stella, la foglia, il fiore a otto petali, il delfino, il granchio, il pentagono, limpidi come segni dello zodiaco. Sfreghiamo tra pollice e indice le monete che ci allunga l’operaio dopo essersele passate sui calzoni e averle osservate in silenzio, e scommettiamo quello che apparirà: se il profilo di Mercurio o quello di Minerva, sulle monete di Roma; se il leone che si strappa la freccia conficcata nelle fauci o il pegaso galoppante, su quelle romano-campane; se il toro con la barba che incede dignitoso mentre una vittoria gli svolazza sopra la testa o il gallo impettito, sulle monete di Napoli, di Teano, di Suessa. Ma bisogna vigilare, perché son lavori pieni di tentazioni. Potrebbe capitare di lasciarsi andare al gioco o di restarsene lì, trasognati a ricamare con lo stecchino tra i riccioli di una testa o a rigirarsi oziosamente tra le dita il dignitoso toro barbuto, come vecchi cinesi al tramonto sull’uscio di casa, se non ci rendesse vigili, al momento giusto, una corta bestemmia di meraviglia: segno che l’operaio, interrompendo la descrizione dei suoi traffici al tempo dei tedeschi o l’elogio delle belle del paese, ha incontrato qualcosa di particolarmente degno della sua ammirazione, per esempio una figurina di bronzo. Ora è una antica donna di Carsoli, che ha comprato dal fonditore la propria immagine da offrire alla dea preferita: indossa una lunga tunica con la cintura alta sotto il seno, in testa ha il diadema, con la mano destra regge la patera mentre l’altra è portata fiduciosamente al fianco; ora è un timido devoto contadino con la frangia sugli occhi che si è coperto il capo col mantello; ora è un piccolo Marte nudo con il pennacchio dell’elmo che gli scende in mezzo alle spalle; ora è un Ercole baldanzoso che avanza a grandi passi agitando la clava e proteggendosi col braccio sinistro, da cui pende la pelle del leone nemeo. É bene allora, col fiasco che sta in bilico sull’orlo della fossa, fargli una doccia di vino bianco, e il giovane dio infaticabile risplende sotto il sole d’ottobre, col suo corpo agile e snodato, rifinito con precisione nei capelli, nel volto, nelle mani, verde come una lucertola, lucido e guizzante come un pesce che rimbalza sulla rete; l’attacco di un braccio un poco tirato via, la superficie troppo appiattita di una gamba, mostrano l’opera di artigiani indigeni, che lavorano in margine alla grande tradizione greca, ma con gli occhi ben attenti e un mestiere istintivamente felice. («Cosa resterà di noi fra mille anni?» chiede la gente: non più di una poltiglia di sacri cuori di gesso, pezzi di lapidi informi e sgrammaticate, la carta stagnola dei moccoli, qualche sgorbìo infantile dipinto per scampato pericolo.) Carsoli non è Troia: se Schliemann poté, cacciati via gli operai turchi, buttare addosso a sua moglie i gioielli dì Elena, qui bisogna accontentarsi, alla fine dì una giornata di scavo, di trovarsi alle dita una mezza dozzina di sottilissimi anelli di bronzo, senza sigillo, senza castone e ai polsi un paio di smilzi braccialetti a spirale, indizio della povertà di quel popolo nei secoli di Pirro e di Annibale. Ma da tutta la complessa natura morta allineata davanti a noi, attorno ai margini della fossa, spira un’antica miseria. Sono i mucchi di occhi, di teste, di mani, di piedi, di animali domestici frantumati; ì mucchi di cocci di piccolissime anfore, brocche, coppe, di minuscoli boccali, la ceramica di allora nelle sue più economiche varietà: verniciata di nero, stampigliata, per lo più grezza, con pochissimi pezzi dipinti; sono i più grossi mucchi di ferro, puntali di lance e di frecce, rinforzi di ruote, collari, chiodi, ganci, uncini; sono i cartocci delle monete fuse e coniate (su cento di bronzo una è d’argento), degli oggettini di bronzo, fibbie, fermagli, pendagli di collana, piccoli manici di vasi e di specchi, piedini di candelabro, frammenti di grattugie; sono i pezzetti di carbone, e le ossa degli animali sacrificati. E quando gli operai hanno smesso il lavoro, si perde la capacità di vedere e tutta questa roba si fa grigia e indistinta e verrebbe voglia di scegliere e scartare, se il primo comandamento dell’archeologo non fosse quello di non scegliere mai: lo aspettano mesi di laboratorio, in cui dovrà passare tutto alla lente, distinguere, classificare, confrontare, ricomporre, disegnare (potrà allora avere la sorpresa, grattando un coccio insignificante, di scoprirvi dipinta una dedica a Minerva, a Vesta, a Esculapio). Solo lo opprime il fatto che il «laboratorio» sarà inevitabilmente lo scuro scantinato di qualche museo, senza tavoli, senza seggiole, senza finestre. L’opprime anche per un istante lo spettro del dotto olandese, che ha scritto nella sua lingua centosettantacinque pagine assolutamente inevitabili intorno a certi vasetti neri in parte simili a quelli trovati a Carsoli. Ma sono momenti di debolezza passeggera: il bello dell’archeologia è che la scoperta di un oggetto antico (qualora non si sia dei rètori crepuscolari in cerca di assurde evasioni) è un incontro semplice e immediato, come il risveglio di chi dormiva ancora perché dimenticato da noi, come ritrovare una cosa che ignoravamo d’aver perduta, ma che, appena ritrovata, sentiamo quanto ci era necessaria. Archivio Cederna

stirpe votiva rinvenuta a Carsoli negli anni 50
Redazione - Il Faro 24

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