CLORINDA E L’AMORE NEGATO. STORIE DI PREGIUDIZI SOTTO LE MACERIE

Essere donna è da sempre una condizione difficile, in qualsiasi epoca, in qualsiasi luogo, in qualsiasi cultura. E noi donne lo sappiamo bene.

Ci sono voluti secoli di lotte, di battaglie, di iniziative femministe; decenni di umiliazioni, di lacrime e fatica per emanciparci, per accaparrarci quell’uguaglianza tanto agognata, per conquistare finalmente i diritti fondamentali di cui ogni essere umano dovrebbe disporre, indistintamente dal sesso, dalla razza, dalla religione, dal ceto sociale. Nonostante tutto, sono ancora numerosi, oggi,  gli stereotipi legati alla figura femminile.

C’è stato un tempo, ahimè, in cui nascere donna significava essere figlia di un dio minore. Un tempo in cui la donna era soltanto un accessorio del padre o del marito e non aveva nessuna voce in capitolo: non poteva esercitare la tutela sui figli legittimi, le era impedito accedere nei pubblici uffici e gestire i propri beni (persino i propri guadagni), le era vietato studiare – facoltà riservata  ai soli uomini, le era negato qualsiasi diritto politico e civile. Basti pensare ai patimenti di Elena Lucrezia Cornaro Piscopia, prima donna laureata al mondo (1678) o a Ernestina Prola, prima donna italiana ad ottenere la patente (1907) o, ancora, in “tempi più recenti”, a Franca Viola, prima donna in Italia a rifiutare il matrimonio riparatore (1966).

Ci fu un tempo in cui nascere donna e nascere per di più povera, anche in Occidente, anche in Italia, anche in Abruzzo, poteva essere davvero una maledizione: non solo la donna era esclusa dal godimento di qualsiasi diritto politico e civile e relegata ad un ruolo subalterno, le era anche negato l’amore e persino un’ultima preghiera per la sua anima in volo. Ma ci fu un tempo ancor peggiore in cui morire sotto la violenza devastante di un terremoto, non era abbastanza per avere pietà del corpo martoriato di una donna.

Da uno straordinario ed emozionante racconto dello scrittore e regista Mario Cantoresi dedicato a “Clorinda Scardella”, ed in memoria di tutte le donne morte sotto le macerie di sassi e parole di quel lontano e tragico terremoto del 1915.

Si chiamava Clorinda.
Clorinda e basta, perché era talmente povera da non possedere nulla, neanche un cognome.
Aveva solo la leggerezza dei suoi sedici anni ed una bellezza regale nel viso e nel corpo.
Sua madre era morta dopo averla data alla luce e nessuno in paese sapeva dire chi fosse suo padre.
Per questo a Celano la chiamavano “Clorinda Scardella”, usando il soprannome della vecchia nonna con cui la ragazza viveva.
Lui invece era un veterinario, si chiamava Serafino Balzano, aveva quarantacinque anni e veniva da Castel di Sangro. Aveva già una moglie e due figlie più grandi di Clorinda ma per quella ragazza perse la testa.
A Celano nessuno sapeva della loro storia e, forse, avrebbero continuato a non sapere se il destino non avesse voluto diversamente. Per questo motivo Clorinda, in quella fredda notte fra il 12 ed il 13 gennaio 1915, salì il ripido viale di Corso Umberto e raggiunse l’entrata secondaria di Palazzo Longo, l’abitazione del dottore quasi a ridosso del castello.
I due amanti passarono quella notte insieme.
Chissà cosa le disse il dottore? Forse che non aveva mai accarezzato capelli così lunghi e biondi, forse che il suo viso era talmente bello da giustificare ogni umana debolezza. O, forse, semplicemente le disse che desiderava solo il suo corpo ed il suo amore.
E chissà cosa pensava Clorinda mentre ascoltava quelle parole?
Probabilmente si lasciò andare credendo che la sua vita sarebbe cambiata, magari si illuse, sperando che quell’uomo tanto più grande di lei la amasse davvero.
Ma forse Clorinda non pensava affatto.
Per qualche ora poteva avere tutto ciò che nella sua breve vita fino ad allora le era stato negato.
Aveva da mangiare, un letto grande e caldo e qualcuno che non la picchiava e che le donava sicurezza.
La ragazza chiuse gli occhi e per istante, un solo eterno istante, fu veramente felice.
Poi non ci fu più nulla.
La terra tremò ed urlò.
Fu un grido di dolore altissimo di cui mai nessun essere umano aveva mai avuto memoria in precedenza e su di essa alla fine restarono i morti, mentre sui morti caddero copiose le lacrime dei vivi. Fuori tutto era diventato polvere e rovine.
Cinque giorni passarono.
Centoventi ore di rabbia, di bestemmie e di scavi.
Finalmente fra le rovine di Palazzo Longo furono ritrovati i corpi nudi di Clorinda e del dottor Balzano, uniti in un incredibile abbraccio di terrore e di morte.
Tutto passò in secondo piano!
Anche il terremoto e le sue devastazioni, persino l’umana pietà per le vittime.
La gente è feroce quando diventa cinica.
Non riuscirono i celanesi a perdonare quell’amore così scandaloso.
La ferita ormai era aperta e lo sarebbe stata a lungo.
Nei mesi che seguirono nuovi lutti colpirono la Marsica.
I ventenni partirono in guerra ma purtroppo molte lacrime erano già state versate e le madri avevano solo il tempo per pregare i morti del terremoto, per questo molti di quegli antichi ragazzi non ebbero neppure il conforto di una tomba.
A Celano, la paura ed il dolore divennero riti, preghiere per implorare all’Altissimo la Divina Misericordia.
Lunghi cortei di donne salmodianti, tutte vestite del colore del lutto, partivano ogni pomeriggio dalla Piazza di San Giovanni per raggiungere l’antica forma triangolare del cimitero cittadino, alla cui base avevano scavato le fosse comuni per le vittime del sisma.
Le donne camminavano e pregavano rispondendo al Requiem intonato dal prete.
“Requiem eterno a tutt’i mort dij terramut” – diceva il sacerdote – caccenec qui porc dij vitrinarij i quella zoccola di Clorinda”.  Una nenia feroce ed ostile che cancellava ogni pietà verso i due amanti.

Ci volle molto tempo ma poi, lentamente, di Clorinda e di Balzano si perse ogni memoria.
Oggi, a cento anni dalla loro morte, pochi a Celano conoscono ancora questa storia.
Di Clorinda resta solo un ricordo freddo e lontano, come quell’antico sole di gennaio che non ebbe la forza di scaldare gli animi della gente, ma chi mai potrà sapere se qualche suo contemporaneo, magari protetto dal segreto dell’anima, non abbia almeno una volta pregato anche per lei.”

Alina Di Mattia

Giornalista, addetta stampa, scrittrice, conduttrice, responsabile produzione di grandi eventi istituzionali e culturali, con esperienza trentennale nel settore dei media e dell’entertainment. Appassionata di scienze storiche e sociali, vanta una formazione accademica poliedrica, un percorso di laurea in Culture e tecniche per la comunicazione e una laurea in Lettere moderne presso l'Università dell'Aquila. Ha all’attivo interessanti contributi letterari e numerosi riconoscimenti giornalistici.

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Alina Di Mattia