L’Aquila / Cristo è Gloriosamente Risorto, Christòs Voskrès, Gaudete et Exsultate, Alleluia! La Domenica di Pasqua di Cristo Signore è il primo giorno della settimana creato da Gesù: “Con la Tua morte hai calpestato la morte e hai donato la vita a quelli che giacciono nella tomba”. Dalla Santa Messa alla vita. Dalle fake news termonucleari figlie del Maligno alla guerra dell’Isis in Siria, alimentata dai warlord warmonger dei missili e delle bombe occidentali di Usa, Uk, Francia, Italia, Israele, Arabia Saudita e altre monarchie assolute del Golfo. Gesù è risorto dai morti. Gesù è il Signore, il Padre lo ha risuscitato ed Egli è vivo per sempre in mezzo a noi. Come ad annunciare l’Incarnazione del Verbo è un Arcangelo, Gabriele, così anche ad annunciare per la prima volta la Risurrezione non è sufficiente una parola umana: “Perché cercate tra i morti Colui che è vivo? Non è qui, è risorto!” (Luca 24,5-6). Ci vuole un Essere superiore per comunicare una realtà così sconvolgente, talmente incredibile, che forse nessun uomo avrebbe osato pronunciarla. La pietra del sepolcro gridò e col suo grido annunciò a tutti una nuova via. Questo annuncio, fin dal primo “Davvero il Signore è risorto”, richiede un’Intelligenza superiore a quella umana. La Santa Pasqua della Russia, la festa religiosa più importante dell’anno. Più sentita del Natale anche dai non credenti. Le ragioni dell’Unità dei Cristiani. Ortodossi e cattolici insieme. Ogni anno gli Ortodossi esultano all’idea che “l’Apocalisse sarà rinviata a un’altra data” (Tropario pasquale). Papa Francesco, la santa vergogna e la speranza dalla Pasqua Anno Domini 2018. “Si diventa santi vivendo le Beatitudini”, annuncia il Vescovo di Roma nella sua terza Esortazione Apostolica. Nei cinque capitoli e nelle 44 pagine del documento Gaudete et Exsultate, Papa Bergoglio segue il filo del suo magistero più sentito, la Chiesa prossima alla “carne di Cristo sofferente”. I 177 paragrafi non sono, avverte subito il Santo Padre, “un trattato sulla santità con tante definizioni e distinzioni, ma un modo per far risuonare ancora una volta la chiamata alla santità”, indicando “i suoi rischi, le sue sfide, le sue opportunità”. Sono otto le strade di santità. Nel quinto capitolo Francesco invita al “combattimento contro il Maligno” (la cui esistenza viene negata da molti e declinata al rango di malattia mentale di natura psichiatrica) che, scrive il Papa, “non è un mito ma un essere personale che ci tormenta (nn. 160-161). Le sue insidie vanno osteggiate con la vigilanza, utilizzando le potenti armi della preghiera, dei Sacramenti e con una vita intessuta di opere di carità (n. 162). Importante è pure il discernimento, particolarmente in un’epoca che offre enormi possibilità di azione e distrazione – dai viaggi, al tempo libero, all’uso smodato della tecnologia – che non lasciano spazi vuoti in cui risuoni la voce di Dio” (n. 29). Terreno prelibato di predazione per il Maligno dei più piccoli e indifesi. Le 15 catechesi di Papa Bergoglio sulla Santa Messa cristiana. Sua Santità Kirill, Patriarca di Mosca e di tutte le Russie, proclama: “Cristo è Risorto! Oggi siamo chiamati al grande banchetto della fede, la grande solennità dello spirito, in occasione della festa delle feste, la Pasqua. Gesù è risorto, e la morte è stata ingoiata per la vittoria (1 Corinzi, 15,54)! È risorto, e gioisce tutto l’Universo! Il Signore ha distrutto l’inferno e ha abolito la potenza del diavolo. Un chiaro esempio sono per noi anche i neo-martiri della Chiesa Russa, che durante le persecuzioni del XX Secolo senza paura ricevettero la corona del martirio”. Il Patriarca di Costantinopoli, Sua Santità Bartolomeo, annuncia: “Cristo è Risorto! L’esperienza della Resurrezione di Cristo, della suprema salvifica vittoria della Vita sulla Morte, è il nocciolo della fede, del culto divino, dell’ethos e della cultura del popolo ortodosso di Dio, portatore del nome di Cristo. Questo è anche il messaggio sconvolgente dell’immagine tutta splendente della Resurrezione, della Discesa di Cristo agli Inferi. Il Signore della gloria, scendendo nei sotterranei della terra e spezzando le porte dell’Ade, sorge vincitore e splendente dalla tomba e non solo portando il labaro della vittoria, ma insieme con Adamo ed Eva, risorgendo insieme, tenendoli a sé, e rendendoli forti e nella loro persona, tutto intero il genere umano e l’intero Creato”. Se a Gerusalemme il Sabato Santo, vigilia di Pasqua, il Fuoco Santo non discenderà avrà inizio l’Apocalisse. Ma se il fuoco discenderà, l’umanità avrà a disposizione almeno un altro anno di vita fino alla prossima Pasqua. Quando l’unica data? La questione della diversa data di Pasqua tra cattolici e ortodossi continua a interrogare molti fedeli. Già nel 2015 Papa Francesco aveva espresso la disponibilità della Chiesa cattolica a discutere la data della Pasqua affinché cattolici e ortodossi potessero celebrare nello stesso giorno. Una proposta aperta, ma non facilmente realizzabile. Fra l’altro all’interno del mondo ortodosso ancora non è stato raggiunto il consenso riguardo il giorno del Natale che si festeggia il 25 Dicembre in Grecia e il 7 Gennaio in Russia. La differenza nella data tra Roma, Costantinopoli e Mosca, è causata dal diverso approccio nel calcolo, sul calendario, del giorno di Pasqua. Di solito le due celebrazioni sono divise da una settimana, ma in alcuni anni la distanza può essere di un mese. Umorismo, ignoranza e fake news contro l’amata e martoriata Siria, la cui popolazione è stremata da una guerra mondiale che non vede fine. Attenzione agli inganni del Maligno. Qualcosa di incredibile nella Chiesa Cattolica accade alla preghiera del “Regina Coeli” in piazza San Pietro, Domenica della Divina Misericordia, l’8 Aprile 2018: “Giungono dalla Siria notizie terribili di bombardamenti con decine di vittime, di cui molte sono donne e bambini. Notizie di tante persone colpite dagli effetti di sostanze chimiche – annuncia Papa Bergoglio ignorando la fake news confezionata dai terroristi Isis e le sue amare conseguenze per i Siriani e il mondo intero – contenute nelle bombe. Preghiamo per tutti i defunti, per i feriti, per le famiglie che soffrono. Non c’è una guerra buona e una cattiva, e niente, niente può giustificare l’uso di tali strumenti di sterminio contro persone e popolazioni inermi. Preghiamo perché i responsabili politici e militari scelgano l’altra via, quella del negoziato, la sola che può portare a una pace che non sia quella della morte e della distruzione”. Il Vescovo di Roma legge un testo scritto (da chi?) e lancia un ennesimo accorato appello per la Siria dove la guerra è entrata nel suo ottavo anno, senza mai riconoscere alla Santa Russia il merito di aver salvato i cristiani Siriani dal sicuro martirio! “Lungi da me, satana! Perché tu non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini” (Vangelo di Gesù Cristo secondo Marco 8,33). Contro Hitler, Mussolini e Tojo fu necessaria una guerra giusta. Come quella combattuta dalla Santa Russia per la liberazione dei Siriani dai tagliagole dell’Isis: parola del Patriarca Kirill di Tutte le Russie. Sulle minacce degli Usa, il Patriarca emerito della Chiesa Greco Cattolica Gregorio III Laham tuona: “Dico agli Stati Uniti, Basta!”. Si ponga termine immediatamente allo sterminio in Siria e Yemen, si rispetti il diritto umanitario e si provveda ad agevolare l’accesso agli aiuti di cui questi nostri fratelli e sorelle hanno urgente bisogno, assicurando nel contempo condizioni adeguate per il ritorno di quanti sono stati sfollati: operazioni già in corso grazie alla Santa Russia, dopo le sanzioni A.D. 2011 di Usa e Unione Europea contro i Siriani e l’invasione dell’Isis estirpato dalla Siria sempre grazie ai Russi. Nella preghiera della santa vergogna, Papa Francesco confessa: “Che il Signore ci dia la grazia di comprendere la vergogna, di vederla non come una porta chiusa, ma come il primo passo dell’incontro. Quando proviamo vergogna, dobbiamo essere grati: vuol dire che non accettiamo il male, e questo è buono. La vergogna è un invito segreto dell’anima che ha bisogno del Signore per vincere il male. Il dramma è quando non ci si vergogna più di niente. Non abbiamo paura di provare vergogna! E passiamo dalla vergogna al perdono! Non abbiate paura di vergognarvi!”. Pasqua nell’Est Europa: la festa ortodossa dalla Grecia alla Russia, riti millenari e tradizioni popolari. Una settimana dopo la Pasqua cattolica, nell’Europa d’Oriente arriva la Pasqua ortodossa. Anche se rispecchiano la stessa tradizione apostolica, che senza lo scisma occidentale dell’Anno Domini 1054 i cristiani di Occidente avrebbero condiviso, i riti ortodossi variano da quelli cattolici. Venerdì Santo si celebra il funerale di Cristo, mentre il Sabato Santo ogni anno a Gerusalemme scende il Fuoco sacro. La terza Esortazione Apostolica di Papa Francesco è un invito a far risuonare nel mondo contemporaneo una vocazione universale, la chiamata a diventare santi nel Cristo Risorto. È questo l’obiettivo dichiarato nella Gaudete et Exsultate, resa nota Lunedì 9 Aprile 2018, e nelle 15 catechesi sulla Santa Messa: “L’omelia non oltre i dieci minuti per favore”, invoca Papa Bergoglio. Le menzogne occidentali sulla Siria e sui Siriani massacrati dall’Isis e dai pastori dei porci signori della guerra. Russia, Iran e Turchia impongono la Pace in Medio Oriente. È importante saper leggere gli eventi che si dipanano vorticosamente sotto i nostri occhi. E che, purtroppo, coinvolgono pure la Chiesa e il Santo Padre strumentalizzato dai warlord warmonger. Scrive il giornalista siriano Naman Tarcha di Aleppo sulla fabbrica delle fake news: “Quelli che si stracciano le vesti e confermano e divulgano le falsità oggi sulla Siria sono gli stessi che confermavano le false prove americane ieri sull’Iraq e di conseguenza l’invasione e la sua distruzione come questi giorni nel 2003. Le caratteristiche dell’attacco chimico siriano? In primis, colpisce solo donne e bambini; poi non ha effetti sui terroristi, sui fotografi o caschi bianchi; quindi viene trattato con acqua senza maschere e davanti alle telecamere; inoltre accade ogni volta che viene liberata una zona. Esperti militari e medici e volontari della Mezzaluna Rossa da dentro Douma rivelano: “Non ci sono casi o prove sul presunto attacco chimico!”. In Siria le accuse di un attacco chimico sono un mantra che si ripete ed é solo un pretesto per completare il piano di cambio di regime deciso da Usa e suoi alleati per mano dei gruppi terroristici Isis. Ormai é un dato di fatto: ogni volta che verrà liberata una zona in Siria, i gruppi terroristici e loro mandanti e sostenitori e megafoni ripeteranno la sceneggiata dell’attacco chimico”. Su Twitter alcuni ricordano a chi dà dell’animale al Presidente Assad e a chi lo definisce “diabolico”, questo orrore vero commesso su bambini rapiti in Siria dai jihadisti. Un filmato dello scorso anno è la true news debitamente occultata: il traffico di organi per l’espianto da bambini siriani vivi! Grazie al lavoro comune dell’Associazione “Memoriali di Guerra”, delle rappresentanze diplomatiche italiane e del Presidente Vladimir Putin, dalla Russia rientrano in Italia le salme di 100 caduti durante la Seconda Guerra Mondiale, dopo la funzione religiosa nella Cattedrale della Immacolata Concezione in Mosca, come riferisce il Ministero della Difesa italiano. Scrive Arthur Lovejoy: “Nella Russia l’Europa troverà la vera epifania della modernità, la rivelazione quasi sensuale del potere salvifico del Bello. E tutto ciò era maturato nella San Pietroburgo degli zar, così a lungo ritenuta la roccaforte della barbarie”. Papa Francesco raccomanda di recitare la preghiera attribuita a San Tommaso Moro: “Dammi, Signore, una buona digestione, e anche qualcosa da digerire. Dammi la salute del corpo, con il buon umore necessario per mantenerla. Dammi, Signore, un’anima santa che sappia far tesoro di ciò che è buono e puro, e non si spaventi davanti al peccato, ma piuttosto trovi il modo di rimettere le cose a posto. Dammi un’anima che non conosca la noia, i brontolamenti, i sospiri e i lamenti, e non permettere che mi crucci eccessivamente per quella cosa tanto ingombrante che si chiama “io”. Dammi, Signore, il senso dell’umorismo. Fammi la grazia di capire gli scherzi, perché abbia nella vita un po’ di gioia e possa comunicarla agli altri. Così sia”. L’inferno termonucleare che si rischia nella crisi siriana, visto il dispiegamento militare nel Mediterraneo, è quanto di più simile alla descrizione che ne fa il sommo poeta italiano Dante Alighieri nella sua Divina Commedia nel Canto XXXIV dell’Inferno (vv. 1-139). Χριστὸς ἀνέστη ἐκ νεκρῶν θανάτῳ θάνατον πατήσας, καὶ τοῖς ἐν τοῖς μνήμασι ζωὴν χαρισάμενος. Christus resurrexit a mortuis, Morte mortem calcavit, et entibus in sepulchris Vitam donavit.
(di Nicola Facciolini)
“Che il Signore ci dia la grazia di comprendere la vergogna, di vederla non come una porta chiusa, ma come il primo passo dell’incontro. Quando proviamo vergogna, dobbiamo essere grati: vuol dire che non accettiamo il male, e questo è buono. La vergogna è un invito segreto dell’anima che ha bisogno del Signore per vincere il male. Il dramma è quando non ci si vergogna più di niente. Non abbiamo paura di provare vergogna! E passiamo dalla vergogna al perdono! Non abbiate paura di vergognarvi!” (Papa Francesco). “Nella Russia l’Europa troverà la vera epifania della modernità, la rivelazione quasi sensuale del potere salvifico del Bello. E tutto ciò era maturato nella San Pietroburgo degli zar, così a lungo ritenuta la roccaforte della barbarie”(Arthur Lovejoy). “Sono stato crocifisso con Cristo, e non vivo più io, ma Cristo vive in me. E questa vita, che io vivo nel corpo, la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha consegnato se stesso per me” (San Paolo Apostolo ai Galati 2,19-20). Cristo è Gloriosamente Risorto! Christòs Voskrès! Alleluia! “Con la Tua morte hai calpestato la morte e hai donato la vita a quelli che giacciono nella tomba” (Tropario pasquale). La Domenica di Pasqua è il primo giorno della settimana creato dal Signore. Se il mondo cattolico occidentale celebra la Risurrezione di Nostro Signore Gesù Cristo A.D. 2018, Domenica 1° Aprile, in alcuni Paesi europei dell’Oriente cristiano (Russia, Grecia, Romania, Serbia, Bulgaria, Macedonia, Ucraina) la festa della Pasqua di Risurrezione viene vissuta nel mondo ortodosso Domenica 8 Aprile, secondo il calendario giuliano. Nel suo messaggio pasquale ai membri dell’episcopato, del clero, ai monaci e alle monache, e a tutti i fedeli figli e figlie della Chiesa Ortodossa Russa, Sua Santità Kirill, Patriarca di Mosca e di tutte le Russie, insegna: “Amati fratelli nell’episcopato, reverendi padri, venerabili monaci e monache, cari fratelli e sorelle, Cristo è Risorto! Dal cuore, colmo di limpida gioia per il Signore Risorto dalla tomba, vi saluto con queste parole vivificanti e vi porgo i miei auguri in occasione della festa delle feste, la Pasqua. Oggi siamo chiamati al grande banchetto della fede, la grande solennità dello spirito. L’unigenito Figlio di Dio, essendo venuto nel mondo, avendo patito la sofferenza e la morte sulla croce, per il dettame del Padre Celeste risorge vittoriosamente dalla tomba! Gesù è risorto, e la morte è stata ingoiata per la vittoria (1 Corinzi, 15,54)! È risorto, e gioisce tutto l’Universo! Il Signore ha distrutto l’inferno e ha abolito la potenza del diavolo. Dio misericordioso ha fatto tutto questo, predestinandoci a essere suoi figli adottivi per opera di Gesù Cristo, nel quale abbiamo la redenzione mediante il suo sangue e la remissione dei peccati (Efesini 1,4-5;7). La vittoria di Cristo sulla morte non è soltanto una realtà spirituale, ma anche corporea. Il Signore Gesù è veramente risorto in corpo per la salvezza di tutti gli uomini. Con la sua Risurrezione la morte ha perso il suo carattere irreversibile ed è diventata per quelli che hanno creduto in Cristo la nascita nella vita eterna, la porta che apre la strada per il cielo, per il Regno di Dio. Non a caso i martiri cristiani andavano incontro con gioia a qualsiasi sofferenza. E se prima anche i più grandi giusti compiangevano i morti come perduti, dopo la Risurrezione del Signore Gesù la morte non li spaventava più. Secondo le insigni parole di Sant’Atanasio il Grande, da adesso “tutti i fedeli in Cristo calpestano la morte come un niente, ben sapendo che quando muoiono non vanno a perdizione, ma vivono e diventano incorruttibili per mezzo della Risurrezione” (De incarnatione Verbi). Un chiaro esempio sono per noi anche i neo-martiri della Chiesa Russa, che durante le persecuzioni del XX Secolo senza paura ricevettero la corona del martirio. Oggi, quando il mondo assomiglia sempre di più al ricco stolto della parabola evangelica (Lc 12,16-21), quando la comodità, il successo, la vita lunga sono considerati quasi i valori più importanti, noi, discepoli e seguaci del Signore, con l’apostolo Paolo testimoniamo: per noi il vivere è Cristo (Filippesi 1,21) e la morte non è la fine dell’esistenza. Diciamo e crediamo così, perché sappiamo: Dio ha creato l’anima dell’uomo per l’eternità. Come spesso a noi, immersi nella confusione e nelle preoccupazioni della quotidianità, manca attenzione per notare la presenza della trasfigurante potenza divina nella nostra vita! Però il tempo pasquale è un periodo davvero particolare. In questi giorni sembra che perfino l’aria è impregnata dell’incomparabile gioia della Pasqua, e la misericordia e l’amore di Dio si effondono abbondantemente su ogni uomo. Entrando nella solennità di questa meravigliosa e luminosa festa siamo chiamati a testimoniare in modo convincente, sia con opera che con parola, del dono che l’umanità ha ricevuto dal Signore Risorto. Condividiamo con quelli che ci stanno accanto il gioioso annuncio evangelico, doniamo ai nostri cari affetto, cura e attenzione, facciamo bene a coloro che hanno bisogno del nostro aiuto e della consolazione! Solo così, lodando il Salvatore Risorto dalla tomba con il cuore grato e con labbra grate, diventiamo eredi del miracolo pasquale e con coraggio possiamo chiamarci figli e figlie dell’Altissimo, che ha mostrato il Suo infinito amore per tutti noi. Augurandovi una luminosa festa della Santa Pasqua, ancora e ancora rivolgo a voi il gioioso saluto: Cristo è Risorto!”(https://mospat.ru/it/). Nel suo messaggio pasquale, il Patriarca Ecumenico di Costantinopoli, Sua Santità Bartolomeo, insegna: “Fratelli e Figli amati nel Signore, l’esperienza della Resurrezione di Cristo, della suprema salvifica vittoria della Vita sulla Morte, è il nocciolo della fede, del culto divino, dell’ethos e della cultura del popolo ortodosso di Dio, portatore del nome di Cristo. La vita dei fedeli Ortodossi, in tutte le sue manifestazioni e dimensioni, è imbevuta e si nutre della fede nella Resurrezione, costituisce una Pasqua quotidiana. Questa esperienza pasquale non è semplicemente un ricordo della Resurrezione del Signore, ma anche un modo di vivere del nostro personale rinnovamento e una solida certezza riguardo alla fine escatologica di tutte le cose. Soprattutto nella Liturgia Eucaristica, che è legata indissolubilmente con “l’adunanza e il santo giorno” della Domenica, la Chiesa Ortodossa festeggia questa esistenziale partecipazione alla Resurrezione di Cristo e l’assaggio pratico delle benedizioni del Regno di Dio. Colpisce il carattere pasquale e gioioso della Divina Eucarestia, la quale si celebra sempre in un’atmosfera di letizia e allegria e raffigura il finale rinnovamento delle cose che realmente esistono, la gioia completa, la pienezza della vita, la futura sovrabbondanza dell’amore e della conoscenza. Si tratta della visione redentrice del presente alla luce della Cose Ultime e del potenziale cammino verso il Regno, della relazione indistruttibile e del tessere insieme della presenza e del carattere escatologico della salvezza in Cristo dell’uomo e del mondo, che dà alla vita ecclesiastica un potenziale unico e funziona per i fedeli come uno stimolo per una buona testimonianza nel mondo. Il fedele Ortodosso ha un motivo particolare e un forte movente per combattere contro il male sociale, perché vive intensamente l’antitesi tra le Cose Ultime e i dati storici ogni volta. Dal punto di vista Ortodosso, il servizio filantropico, l’aiuto al fratello privo del necessario, secondo il principio: “tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me” (Mt. 25,40) e l’amore tangibile del Buon Samaritano (Lc. 30,37) e in accordo anche con il Paterikon: “Conduci naturalmente colui che è prossimo, il bisognoso, e procedi spontaneo per aiutarlo” (Isidoro di Peliusio), costituiscono una conseguenza e una espressione dell’ethos eucaristico della Chiesa, rivelazione che l’amore è la quintessenza esperienziale della vita in Cristo, nel presente e nel Regno delle Cose Ultime. In tale nesso si comprende anche il fatto che la vita liturgica nella Chiesa Ortodossa viene mossa dalla vita della “comune salvezza”, del dono “della comune libertà” e del “comune Regno” e dall’attesa della “comune resurrezione”. Prevalgono il “noi”, la comunità della vita, la compartecipazione e l’essere insieme, l’identità santificante della libertà in Cristo, con l’amore sacrificale e glorificante. Questo è anche il messaggio sconvolgente dell’immagine tutta splendente della Resurrezione, della Discesa di Cristo agli Inferi. Il Signore della gloria, scendendo nei sotterranei della terra e spezzando le porte dell’Ade, sorge vincitore e splendente dalla tomba e non solo portando il labaro della vittoria, ma insieme con Adamo ed Eva, risorgendo insieme, tenendoli a sé, e rendendoli forti e nella loro persona, tutto intero il genere umano e l’intero Creato. Il Vangelo della Resurrezione, della “comune festa di tutti”, dell’Amore potentissimo che ha distrutto il potere della morte, risuona oggi in un mondo di ingiustizia sociale che avanza fieramente, d’indebolimento della persona umana, in una terra come Golgota universale di profughi e di migliaia di bambini innocenti. Annuncia dal profondo che, davanti a Dio, la vita degli uomini ha un valore assoluto. Proclama che le sofferenze e le sventure, la croce e il Golgota, non hanno l’ultima parola. Non è possibile che i crocifissori trionfino sulle loro tragiche vittime. Nella Chiesa Ortodossa, la Croce si trova al centro della misericordia, non è tuttavia l’ultima realtà, ciò che delimita anche il segno finale dell’orientamento della vita della Chiesa. Il significato sostanziale della Croce è che costituisce una via verso la Resurrezione, verso la pienezza della nostra fede. Su queste basi, come Ortodossi esclamiamo: “Ecco, è giunta attraverso la Croce la gioia in tutto il mondo”. È caratteristico che nell’Ortodossia, la Funzione della Passione non sia deprimente, ma Croce e Resurrezione insieme, in quanto la Passione si approccia e si vive per mezzo della Resurrezione, la quale è “lavacro della tristezza”. Per la sensibilità Ortodossa, il legame saldo di Croce e Resurrezione è incompatibile con ogni forma di fuga interna verso misticismi o verso un pietismo autocompiacente, che spesso sono indifferenti alle sofferenze e alle vicissitudini dell’uomo nella storia. Il messaggio della Croce e della Resurrezione si trova, nella nostra epoca, anche faccia a faccia, tanto con l’arrogante autoesaltazione dell’odierno uomo secolarizzato, razionalista, persuaso dalla strapotenza della scienza, incentrato su se stesso e attaccato alle cose terrene ed effimere, l’uomo privo di desiderio di eternità, quanto anche con la repulsione di tutto l’insieme della Divina Economia dell’Incarnazione e dello “scandalo” della Croce, nel nome della assoluta trascendenza di Dio e del divario incolmabile tra cielo e terra. In tutto ciò, noi Fedeli Ortodossi, onoratissimi fratelli e amatissimi figli nel Signore, colmi dell’esperienza della Resurrezione abbagliante, prendendo luce dalla luce che non ha tramonto, grati in tutto, pensando alle cose di lassù, avendo quindi ora la caparra e il pegno della pienezza escatologica della Divina Economia, esclamiamo, in Assemblea, il “Cristo è Risorto!”, supplicando che il Signore, il quale ha patito, è stato sepolto ed è risorto, illumini le menti, i cuori e tutta la nostra vita, elevi i nostri passi verso ogni opera buona e rafforzi il Suo popolo nel testimoniare il Vangelo d’Amore “fino ai confini della terra” (At. 1,8), a gloria del Suo nome che è al di sopra di ogni nome” (https://www.youtube.com/watch?v=j2Mnsxj2N7Y&t=85s). La Santa Luce arriva all’aeroporto Vnukovo della capitale russa, Mosca, e da lì viene trasportata sui principali “Anelli” della Terza Roma: sull’Anello dei Giardini, sul Terzo Anello di Trasporto, sulla Tangenziale circolare di Mosca e sulla Linea circolare della metropolitana. Poi il Fuoco Santo viene portato all’interno di vari edifici sacri della città, a cominciare dalla Cattedrale di Cristo Salvatore dove il Patriarca Kirill, capo della Chiesa Ortodossa Russa, celebra la solenne Funzione Liturgica (https://www.youtube.com/watch?v=P9b56-2VATI). Tutti i giorni della Settimana Santa sono definiti dalla Chiesa “grandiose”. I primi tre giorni sono dedicati al ricordo delle ultime conversazioni di Gesù Cristo con la gente e gli studenti: nel corso delle lunghe funzioni religiose russe nei giorni santi vengono letti tutti e quattro i Vangeli. L’Adorazione dei giorni successivi già si associa con la sofferenza del Signore sulla croce: la Chiesa ricorda il tradimento di Giuda, l’Ultima Cena, l’arresto di Gesù, la sua condanna, la sofferenza sulla croce, la morte, la sepoltura del Salvatore e la discesa agli inferi. Il Grande Giovedì, gli Ortodossi ricordano anche l’istituzione del sacramento della comunione del Corpo e Sangue di Cristo: l’Eucaristia, dal greco “ringraziamento”. Il Venerdì Santo è il giorno più triste dell’anno in cui Gesù viene crocifisso e muore sulla croce, espiando i peccati dell’umanità. Il Sabato Santo, secondo gli insegnamenti della Chiesa, il corpo di Cristo 2rimase nella tomba”, ma la sua anima discese agli inferi e portò via dall’inferno le anime giuste. Dopo il servizio mattutino di Sabato, i fedeli ortodossi consacrano i dolci e le uova pasquali che nella tradizione cattolica vengono benedetti la mattina della Domenica di Pasqua, il primo giorno della settimana creato dal Signore. Proprio nella Santissima Notte di Pasqua, tra il 7 e l’8 Aprile 2018, il Patriarca Kirill celebra la processione e la Divina Liturgia nella Cattedrale di Cristo Salvatore, alla presenza del Presidente Vladimir Putin. Il servizio liturgico della Festa della Risurrezione di Cristo inizia alle 23 ora di Mosca. La cerimonia della Santa Luce è una tra le più travolgenti e suggestive e simboleggia il legame tra la Russia e la Terra Santa (Israele, Palestina). Una tradizione cristiana storica che si ripete in Oriente dal IV Secolo ogni anno il Sabato Santo, la vigilia di Pasqua. Ogni anno gli Ortodossi esultano all’idea che “l’Apocalisse sarà rinviata a un’altra data”. In Russia, secondo un’opinione diffusa nella comunità ortodossa, esiste un modo sicuro per accertarlo: se a Gerusalemme il Sabato Santo, vigilia di Pasqua, il Fuoco Santo non discenderà avrà inizio l’Apocalisse. Ma se il fuoco discenderà, l’umanità avrà a disposizione almeno un altro anno di vita fino alla prossima Pasqua. La cerimonia della discesa del Fuoco Santo ha luogo nella Chiesa della Resurrezione di Gerusalemme al Santo Sepolcro (https://www.youtube.com/watch?v=nGJO80-J6t0) ed è considerata un miracolo riservato a tutti i cristiani. Non esistono infatti spiegazioni teologiche sulle ragioni per cui simili miracoli non possano riguardare anche i cattolici. Si tratta di una tradizione antica. Le prime testimonianze sull’apparizione del Fuoco Santo risalgono al IV Secolo. Allora veniva definita “Santa Luce”. Essa simboleggia la luce che illumina il Sepolcro del Signore dopo la Resurrezione di Cristo. Il miracolo viene menzionato da antiche fonti arabe. Nella Chiesa di Gerusalemme nei primi secoli del Cristianesimo esisteva il rito della benedizione e dell’accensione serale di una lucerna prima della funzione pasquale. Tale consuetudine si è poi trasformata nella cerimonia del “miracolo del Fuoco Santo”. Nel giorno del Sabato Santo, nel tempo del “silenzio della Madre di Dio” secondo il rito cattolico, il patriarca ortodosso di Gerusalemme e il patriarca armeno raggiungono insieme il punto nella cripta della Chiesa della Resurrezione dove è situato il Santo Sepolcro e pregano insieme. La fiamma, secondo i credenti, illumina le lampade appese sopra il Sepolcro. Il patriarca ortodosso e il patriarca armeno accendono gli stoppini delle candele dalle lampade e vanno incontro ai fedeli. Di solito questa cerimonia si compie tra le ore 3 e 4 del pomeriggio secondo il fuso orario di Mosca. La cerimonia del Fuoco Santo viene trasmessa in diretta dalla televisione russa anche su Internet. Si tratta di una delle più travolgenti e suggestive che si possano immaginare nella cristianità ortodossa. La Chiesa della Resurrezione è gremita fino all’inverosimile di pellegrini provenienti da diversi Paesi. Molti credenti, primi fra tutti quelli delle chiese del Medio Oriente, gridano, invocando Gesù, issati l’uno sulle spalle dell’altro, e protendono le loro candele perché vengano accese. Prima della cerimonia tutte le candele nella cripta vengono spente e quindi comincia la lunga, talvolta estenuante, attesa del miracolo. Le scintille che compaiono sopra il Santo Sepolcro sono un’avvisaglia delle fiamme che stanno per accendersi, simili a lampi di luce che nella diretta televisiva sono visibili nel buio della chiesa. Quando il patriarca ortodosso e il patriarca armeno escono dalla cripta portando il “Fuoco Santo”, l’agitazione si fa ancora più febbrile e tutti cercano di accendere le proprie candele da questo fuoco e di passare le mani e il viso sopra la fiamma, che si ritiene non ustioni per i primi 10 minuti! Senza dubbio è difficile descrivere quanto avviene come una semplice tradizione liturgica che anima pure l’aeroporto di Mosca, coinvolgendo i bambini. Alla cerimonia del Fuoco Santo partecipano attualmente i dignitari del Patriarcato di Gerusalemme, della Chiesa Apostolica Armena e anche delle chiese Copta e Siriana. I sacerdoti cattolici poterono prendervi parte solo fino al XII Secolo. In seguito i Cociati vennero cacciati da Gerusalemme. L’episodio del fuoco che non discendeva è legato proprio al momento in cui i Crociati prima di Pasqua avevano interdetto l’ingresso nella Chiesa della Resurrezione agli Ortodossi e solo quando il re intimò di ammettere nella chiesa gli Ortodossi la fiamma ricomparve. Nel XVI Secolo lo stesso fatto si ripeté con i rappresentanti della Chiesa Armena: anche a loro la fiamma non si accendeva e comparve solo quando le altre chiese ortodosse vennero ammesse nella basilica: secondo la leggenda una tempesta di lampi colpì una colonna della basilica e le candele si accesero. Nel XIII Secolo Papa Gregorio IX sconfessò il miracolo del Fuoco Santo. I cattolici quindi non credono al miracolo del Fuoco Santo e non ne riconoscono l’autenticità, ritenendo che si tratti di una normale cerimonia di accensione delle candele portate dai fedeli per celebrare la Pasqua: la posizione ufficiale del Vaticano è attualmente neutrale in attesa dell’unità dei Cristiani. Periodicamente divampano delle diatribe anche tra gli Ortodossi sull’autenticità del miracolo che avviene a Gerusalemme. In particolare, in Russia c’è chi allude alla possibilità che sia il Patriarca di Gerusalemme a servirsi di un accendino per assicurarsi che la fiamma divampi ogni volta nel momento stabilito affinché la tradizione continui. Negli Anni 2000 per i Russi il Fuoco Santo acquisisce un significato speciale. Nella coscienza dei fedeli questo miracolo rappresenta una conferma della verità della fede ortodossa nel suo complesso e anche dell’opportunità di celebrare la Pasqua secondo un calendario diverso da quello cattolico. Oggi il Fuoco Santo simboleggia il legame tra la Russia e la Terra Santa. Dal 2003 la Fondazione Andrej Pervozvannyj fa pervenire in Russia in aereo la Santa Luce nello stesso giorno in cui si accende, ossia il Sabato Santo. Il fuoco protetto da una speciale lampada viene consegnato al Patriarca nella Cattedrale di Cristo Salvatore, la chiesa ortodossa più importante di Mosca. Da lì viene portato in pellegrinaggio in diverse regioni russe: nelle chiese da questo fuoco vengono accese le tradizionali candele rosse pasquali. Si ritiene che questo fuoco non ustioni e curi le malattie. Nelle chiese ortodosse, la celebrazione della Pasqua inizia la sera della vigilia. Molti Russi sia religiosi sia semplici curiosi si radunano in chiese buie con un certo anticipo e, quando la mezzanotte arriva, il sacerdote annuncia: “Cristo è risorto!” (Christòs Voskrès) in mezzo alla frenetica accensione di candele, a canti liturgici, abbracci e baci estatici. Per molti dei partecipanti questa resterà l’unica presenza in chiesa durante l’anno, come accade nella cristianità occidentale cattolica, alla mezzanotte del Sabato Santo, con l’accensione del Cero Pasquale simbolo di Cristo, Alfa e Omega, Principio e Fine di tutto. In Russia, dopo il rito, gran parte dei fedeli va a casa a dormire, ma i più devoti continuano a pregare fino all’alba di Pasqua! Andare in visita ai defunti la Domenica di Pasqua è una tradizione secolare che segnava anche l’epoca sovietica. Molti Russi rendono omaggio ai parenti morti portando loro il cibo della festa, come uova e “kulìch”, il caratteristico panettone pasquale russo, sulla tomba. È una tradizione che ha le sue origini nel paganesimo piuttosto che nell’ortodossia. Ed è generalmente osservata solo dalla popolazione laica della Russia. La Chiesa ortodossa si è espressa fermamente contro questa usanza, con l’arcivescovo Vsevolod Chaplin che avrebbe affermato: “non c’è peccato più grande del pregare per i defunti la domenica di Pasqua”. La Quaresima ortodossa, il “velikij post”, richiede ai fedeli di rispettare una dieta vegana rigorosa per 40 giorni. Il pranzo russo di Pasqua serve quindi come ricompensa per le privazioni sopportate e, dopo la funzione notturna, si possono fare mangiate da re. Il pasto solitamente comprende la “pashka”, un dolce budino a forma di piramide, il “makòvnik”, una deliziosa torta di semi di papavero, e il kulìch, il panettoncino dolce ricoperto di glassa bianca e granelli di zucchero colorati. Spesso abbondano anche i prodotti animali, di cui i fedeli si sono dovuti privare durante la Quaresima, come prosciutto, formaggio e latte. L’unico inconveniente è il processo di preparazione: la maggior parte delle leccornie sono cucinate dai Russi il Sabato, ma dal momento che è ancora tecnicamente periodo quaresimale, non possono assaggiare nulla mentre sono dietro ai fornelli! Anche le uova sono una componente fondamentale della Pasqua russa. In Russia non c’è l’usanza delle uova di cioccolato occidentali. Gli Ortodossi si attengono alla tradizione dell’uovo di Pasqua naturale, che simboleggia la Risurrezione di Cristo. Le uova sono spesso colorate di rosso, usando la buccia di cipolla, per simboleggiare il Sangue di Cristo, ma altre decorazioni possono essere ottenute usando caffè, spinaci e barbabietole. Mentre la maggior parte dei Russi trascorre la giornata in famiglia, per I turisti esistono molte alternative. Un modo interessante per trascorrere il pomeriggio di Pasqua è quello di andare a vedere una delle meraviglie create nei secoli per celebrare la Pasqua: le uova Fabergé. Famose in tutto il mondo, sono il fiore all’occhiello dell’eredità della casa Fabergé, la più famosa azienda di gioielli russa. La Famiglia reale russa dei Romanov commissionava spesso le uova per Pasqua, e quindi questo è il periodo dell’anno perfetto per vedere e apprezzare il loro splendore. Le più grandi collezioni di uova Fabergé si trovano nell’Armeria del Cremlino di Mosca e al Museo Fabergé di San Pietroburgo. Se non si vuole trascorrere la giornata a casa, un’altra attività è quella di andare in giro per la città e prendere parte ad alcune tradizionali attività pasquali. La maggior parte delle città in Russia anima una speciale fiera pasquale, con una gran varietà di attività e bancarelle. Nella cornice del “Moscow Easter Gift Festival” sono organizzati eventi in giro per la capitale, con degustazione di cibi, dimostrazioni artigianali e teatro di strada. In molte città prendono vita anche spettacoli di danza tradizionali, con musica popolare e ortodossa. Dal 2002, il “Russian Easter Music Festival” presenta il meglio della musica russa, sinfonica, da camera, corale e per campane, invitando musicisti stimati da tutto il mondo a esibirsi per l’occasione. La Domenica di Pasqua, nella Grande Sala del Conservatorio di Mosca, è possibile assistere all’esibizione dell’Orchestra Mariinskij. Quest’anno, il 2 Aprile 2018, è stato il primo giorno della Settimana Santa per i cristiani ortodossi: il periodo di digiuno più rigoroso prima di Pasqua. La Chiesa ricorda gli ultimi giorni della vita terrena e la sofferenza di Gesù Cristo. Nella stessa giornata in tutte le chiese del Patriarcato di Mosca sono state celebrate messe commemorative per le vittime della tragedia di Kemerovo. Il Patriarca di Mosca e di tutte le Russie, Kirill, nel primo giorno della Settimana Santa ha presieduto una liturgia nella Piccola cattedrale del monastero Don, nella capitale. A seguito dell’incendio del 25 Marzo 2018, nel centro commerciale di Kemerovo “Winter Cherry” sono morte 64 persone, tra cui 41 bambini. Il terzo giorno dopo l’incendio, tutte le chiese della Chiesa ortodossa russa hanno tenuto riti funebri per le vittime della tragedia. Durante la Settimana Santa, il Patriarca della Chiesa russa ha celebrato, come da tradizione, funzioni religiose ogni giorno. Tra cui una delle 12 feste principali della Chiesa d’Oriente: l’Annunciazione della Beata Vergine Maria, il 7 Aprile. Il Patriarca Kirill, secondo la tradizione, benedice le torte e libera in cielo alcune colombe bianche. L’Annunciazione della Vergine, a differenza della Pasqua, appartiene alla categoria delle feste “fisse” religiose. Cade sempre il 7 Aprile in Russia e nel mondo ortodosso. Quest’anno la coincidenza con il Sabato Santo, vigilia della festa della Resurrezione di Cristo, ricorda che in questo secolo accadrà ancora solo un paio di volte, secondo il calendario della chiesa, dopo il 2007 e 2018. Ossia nel 2029 e poi nel 2091. Prima della liturgia in chiesa, in questo giorno si compiono i Vespri, vengono lette le profezie dell’Antico Testamento della sofferenza, morte e risurrezione del Salvatore. La festa dell’Annunciazione fu fondata in memoria dell’Arcangelo Gabriele che alla Vergine Maria diede la buona notizia della nascita di Gesù Cristo. Nel calendario cattolico viene celebrata il 25 Marzo. La festa è “separata” esattamente nove mesi dalla data di nascita di Cristo secondo i due rispettivi calendari. In Russia la festa dell’Annunciazione è giunta nel X Secolo insieme al Cristianesimo e, per consuetudine, si liberano in questo giorno gli uccelli in gabbia. Viene spiegato in un sermone del Patriarca Kirill il significato di questa tradizione: “l’uccello che esce dalla gabbia e vola verso l’alto, verso il cielo, è simbolo di un’autentica libertà, e le persone diventano libere quando protendono verso il cielo, quando vincono se stesse”. All’Annunciazione, che di solito avviene in tempo di Quaresima, la chiesa ortodossa consente di mangiare del pesce. Tuttavia, poiché quest’anno la festa si celebrava durante il Sabato Santo della Settimana pasquale, il periodo più rigoroso di digiuno, era possibile consumare solo un po’ di vino. La Pasqua è in Russia la festa religiosa più importante dell’anno. Più sentita del Natale anche dai non credenti. Festa vissuta con intensità anche nelle comunità ortodosse dell’Europa occidentale. La differenza nella data non è frutto di divergenze dogmatiche, tra Roma e Costantinopoli e Mosca, ma è causata dal diverso approccio nel calcolo, sul calendario, del giorno di Pasqua. Di solito le due celebrazioni sono divise da una settimana, ma in alcuni anni la distanza può essere di un mese, mentre nell’Anno Domini 2017 la Pasqua cattolica e quella ortodossa coincisero. “Sia la Chiesa ortodossa che la Chiesa cattolica per le celebrazioni del Triduo pasquale attingono dalla tradizione apostolica e, dunque, lo spirito è identico, anche se durante i secoli alcune usanze nella liturgia si sono sviluppate in modo diverso”, spiega il teologo bulgaro Stefan Pashov. Si pensi alla “cottura dell’olio del crisma”. Il Giovedì Santo la Chiesa ortodossa vive la benedizione degli olii santi come nella tradizione occidentale, ma in alcuni anni il crisma viene preparato seguendo la ricetta antica con vino, olio d’oliva, acqua santa e decine di erbe aromatiche. “La cottura dell’olio si fa nei primi tre giorni della Settimana Santa, inizia Lunedì, di solito dopo la benedizione del patriarca e termina Mercoledì – rivela Pashov – il tutto è accompagnato da letture e preghiere”. L’enorme pentolone elettrico è collocato dentro la Chiesa. Una particolarità di questo rito è che solo le Chiese ortodosse autocefale (indipendenti) hanno diritto di cuocere l’olio santo. Che nella tradizione occidentale è crudo. C’è poi il “funerale di Cristo”. Una caratteristica delle liturgie ortodosse del Triduo è che iniziano la vigilia del giorno che precede la festa: nella serata del Giovedì Santo già si celebrano gli eventi della morte e crocifissione di Gesù che, guarda caso, nella tradizione popolare cattolica occidentale rivivono nei “Sepolcri” e nelle processioni notturne di statue e icone della Santissima Vergine Maria alla ricerca del Figlio. Nel giorno del Venerdì Santo si svolge il funerale ortodosso di Gesù Cristo, con una vera e propria liturgia funebre chiamata Opelo. “È una giornata di severo digiuno, solo pane ed acqua mentre alcuni non mangiano niente”, spiega il teologo. Nelle chiese si erge il sepolcro di Cristo, rappresentato da un tavolo, abbellito di fiori e profumi. “I sacerdoti portano dall’altare la cosiddetta Sindone, immagine su stoffa del Salvatore sepolto”. Inizia l’adorazione della Sindone, “segno della nostra umiltà e dolore di fronte al sepolcro di Cristo ma anche di ringraziamento per la redenzione ricevuta. È una delle liturgie più belle e suggestive – rivela Pashov – grazie ai canti delle lamentazioni, eseguite in provincia da donne vestite di nero”. Poi, la discesa del Fuoco Sacro. La luce di Pasqua con la quale si accendono le candele dei fedeli nei Paesi ortodossi europei arriva da Gerusalemme dove ogni Sabato Santo nella chiesa del Santo Sepolcro discende il Fuoco Sacro. Il Patriarca ortodosso di Gerusalemme raggiunge il punto nella cripta dove è situato il Santo Sepolcro e inizia a pregare. La fiamma illumina le lampade appese sopra il Sepolcro. Allora il Patriarca accende gli stoppini delle candele dalle lampade e va incontro ai fedeli. Una caratteristica di questo fuoco è che nei “primi minuti non brucia e non ustiona” secondo i fedeli. La cerimonia del fuoco sacro viene trasmessa in diretta televisiva in Russia, Bulgaria, Grecia e Romania. I rappresentanti dei Paesi ortodossi ricevono il Fuoco Sacro per trasportarlo immediatamente con aerei speciali per la Santa Notte di Pasqua. In tempo per la Veglia pasquale, la madre di tutte le veglie. “La veglia pasquale inizia poco prima di mezzanotte con l’accensione delle candele a luci spente e la proclamazione della Risurrezione. Segue la processione attorno alla chiesa e il saluto: Cristo è risorto! – spiega Pashov – Poi inizia la vera e propria Liturgia pasquale che dura fino alle due o alle tre di notte”, aggiunge il teologo ortodosso, rammaricato dal fatto che “purtroppo la massa dei fedeli se ne va dopo il rito della luce”. Nella notte di Pasqua molte volte si ripete “Cristo è risorto”, cantando il tropario pasquale: “Con la tua morte hai calpestato la morte e hai donato la vita a quelli che giacciono nella tomba”. Secondo Pashov, “lo scopo è che nessuno rimanga nel dubbio di questo evento incredibile mentre il continuo incensare simboleggia le molteplici apparizioni del Messia ai Suoi discepoli”. Le uova colorate. “Le uova si colorano il Giovedì Santo, il primo uovo è sempre rosso in memoria del Sangue di Cristo, segno della tomba e della Risurrezione”, spiega Pashov a proposito di una delle tradizioni popolari della Pasqua ortodossa. Nei Paesi dell’Oriente Europeo si preparano anche i pani di Pasqua, vari tipi di dolci con canditi, simbolo del Corpo di Cristo. Quando l’unica data? La questione della diversa data di Pasqua tra cattolici e ortodossi continua a interrogare molti fedeli. Già nel 2015 Papa Francesco aveva espresso la disponibilità della Chiesa cattolica a discutere la data della Pasqua affinché cattolici e ortodossi potessero celebrare nello stesso giorno. Una proposta aperta, ma non facilmente realizzabile. Fra l’altro all’interno del mondo ortodosso ancora non è stato raggiunto il consenso riguardo il giorno del Natale che si festeggia il 25 Dicembre in Grecia e il 7 Gennaio in Russia. Anche in Russia, nelle cattedrali cattoliche, i fedeli celebrano la Pasqua. La Messa di Pasqua cattolica si è svolta a Mosca nella chiesa di San Luigi dei Francesi. Qualcosa di incredibile nella Chiesa Cattolica accade alla preghiera del “Regina Coeli” in piazza San Pietro, alle ore 12, Domenica della Divina Misericordia 8 Aprile 2018, quando Papa Francesco rivela: “Cari fratelli e sorelle, prima della Benedizione finale, ci rivolgeremo in preghiera alla nostra Madre celeste. Ma prima ancora desidero ringraziare tutti voi che avete partecipato a questa celebrazione, in particolare i Missionari della Misericordia, convenuti per il loro incontro. Grazie per il vostro servizio! Ai nostri fratelli e sorelle delle Chiese Orientali che oggi, secondo il calendario giuliano, celebrano la Solennità di Pasqua, porgo gli auguri più cordiali. Il Signore risorto li ricolmi di luce e di pace, e conforti le comunità che vivono in situazioni particolarmente difficili. Un saluto speciale rivolgo ai Rom e ai Sinti qui presenti, in occasione della loro Giornata Internazionale, il “Romanò Dives”. Auguro pace e fratellanza ai membri di questi antichi popoli, e auspico che la giornata odierna favorisca la cultura dell’incontro, con la buona volontà di conoscersi e rispettarsi reciprocamente. È questa la strada che porta a una vera integrazione. Cari Rom e Sinti, pregate per me e preghiamo insieme per i vostri fratelli rifugiati siriani. Saluto tutti gli altri pellegrini qui presenti, i gruppi parrocchiali, le famiglie, le associazioni; e insieme ci poniamo sotto il manto di Maria, Madre della Misericordia. Giungono dalla Siria notizie terribili di bombardamenti con decine di vittime, di cui molte sono donne e bambini. Notizie di tante persone colpite dagli effetti di sostanze chimiche – annuncia Papa Bergoglio ignorando la notizia falsa confezionata dai terroristi Isis e le sue amare conseguenze per i Siriani e il mondo intero – contenute nelle bombe. Preghiamo per tutti i defunti, per i feriti, per le famiglie che soffrono. Non c’è una guerra buona e una cattiva, e niente, niente può giustificare l’uso di tali strumenti di sterminio contro persone e popolazioni inermi. Preghiamo perché i responsabili politici e militari scelgano l’altra via, quella del negoziato, la sola che può portare a una pace che non sia quella della morte e della distruzione”. Poco prima, nell’omelia della Seconda Domenica di Pasqua (Divina Misericordia), Papa Francesco insegna: “Nel Vangelo odierno ritorna più volte il verbo vedere: «I discepoli gioirono al vedere il Signore» (Gv 20,20); poi dissero a Tommaso: «Abbiamo visto il Signore» (v. 25). Ma il Vangelo non descrive come lo videro, non descrive il Risorto, evidenzia solo un particolare: «Mostrò loro le mani e il fianco» (v. 20). Sembra volerci dire che i discepoli hanno riconosciuto Gesù così: attraverso le Sue piaghe. La stessa cosa è accaduta a Tommaso: anch’egli voleva vedere «nelle sue mani il segno dei chiodi» (v. 25) e dopo aver veduto credette (v. 27). Nonostante la sua incredulità, dobbiamo ringraziare Tommaso, perché non si è accontentato di sentir dire dagli altri che Gesù era vivo, e nemmeno di vederLo in carne e ossa, ma ha voluto vedere dentro, toccare con mano le Sue piaghe, i segni del Suo amore. Il Vangelo chiama Tommaso «Didimo» (v. 24), cioè gemello, e in questo è veramente nostro fratello gemello. Perché anche a noi non basta sapere che Dio c’è: non ci riempie la vita un Dio risorto ma lontano; non ci attrae un Dio distante, per quanto giusto e santo. No: abbiamo anche noi bisogno di “vedere Dio”, di toccare con mano che è risorto, e risorto per noi. Come possiamo vederlo? Come i discepoli: attraverso le Sue piaghe. Guardando lì, essi hanno compreso che non li amava per scherzo e che li perdonava, nonostante tra loro ci fosse chi l’aveva rinnegato e chi l’aveva abbandonato. Entrare nelle Sue piaghe è contemplare l’amore smisurato che sgorga dal Suo cuore. Questa è la strada. È capire che il Suo cuore batte per me, per te, per ciascuno di noi. Cari fratelli e sorelle, possiamo ritenerci e dirci cristiani, e parlare di tanti bei valori della fede, ma, come i discepoli, abbiamo bisogno di vedere Gesù toccando il Suo amore. Solo così andiamo al cuore della fede e, come i discepoli, troviamo una pace e una gioia (vv. 19-20) più forti di ogni dubbio. Tommaso, dopo aver visto le piaghe del Signore, esclamò: «Mio Signore e mio Dio!» (v. 28). Vorrei attirare l’attenzione su quell’aggettivo che Tommaso ripete: mio. È un aggettivo possessivo e, se ci riflettiamo, potrebbe sembrare fuori luogo riferirlo a Dio: come può Dio essere mio? Come posso fare mio l’Onnipotente? In realtà, dicendo mio non profaniamo Dio, ma onoriamo la Sua misericordia, perché è Lui che ha voluto “farsi nostro”. E come in una storia di amore, Gli diciamo: “Ti sei fatto uomo per me, sei morto e risorto per me e allora non sei solo Dio; sei il mio Dio, sei la mia vita. In te ho trovato l’amore che cercavo e molto di più, come non avrei mai immaginato”. Dio non si offende a essere “nostro”, perché l’amore chiede confidenza, la misericordia domanda fiducia. Già al principio dei Dieci Comandamenti Dio diceva: «Io sono il Signore, tuo Dio» (Es 20,2) e ribadiva: «Io, il Signore, tuo Dio, sono un Dio geloso» (v. 5). Ecco la proposta di Dio, amante geloso che si presenta come tuo Dio. E dal cuore commosso di Tommaso sgorga la risposta: «Mio Signore e mio Dio!». Entrando oggi, attraverso le piaghe, nel mistero di Dio, capiamo che la misericordia non è una Sua qualità tra le altre, ma il palpito del Suo stesso cuore. E allora, come Tommaso, non viviamo più da discepoli incerti, devoti ma titubanti; diventiamo anche noi veri innamorati del Signore! Non dobbiamo avere paura di questa parola: innamorati del Signore. Come assaporare questo amore, come toccare oggi con mano la misericordia di Gesù? Ce lo suggerisce ancora il Vangelo, quando sottolinea che la sera stessa di Pasqua (v. 19), cioè appena risorto, Gesù, per prima cosa, dona lo Spirito per perdonare i peccati. Per sperimentare l’amore bisogna passare da lì: lasciarsi perdonare. Lasciarsi perdonare. Domando a me e a ognuno di voi: io mi lascio perdonare? Per sperimentare quell’amore, bisogna passare da lì. Io mi lascio perdonare? “Ma, Padre, andare a confessarsi sembra difficile”. Di fronte a Dio, siamo tentati di fare come i discepoli nel Vangelo: barricarci a porte chiuse. Essi lo facevano per timore e noi pure abbiamo timore, vergogna di aprirci e dire i peccati. Che il Signore ci dia la grazia di comprendere la vergogna, di vederla non come una porta chiusa, ma come il primo passo dell’incontro. Quando proviamo vergogna, dobbiamo essere grati: vuol dire che non accettiamo il male, e questo è buono. La vergogna è un invito segreto dell’anima che ha bisogno del Signore per vincere il male. Il dramma è quando non ci si vergogna più di niente. Non abbiamo paura di provare vergogna! E passiamo dalla vergogna al perdono! Non abbiate paura di vergognarvi! Non abbiate paura. C’è invece una porta chiusa davanti al perdono del Signore, quella della rassegnazione. La rassegnazione sempre è una porta chiusa. L’hanno sperimentata i discepoli, che a Pasqua constatavano amaramente come tutto fosse tornato come prima: erano ancora lì, a Gerusalemme, sfiduciati; il “capitolo Gesù” sembrava finito e dopo tanto tempo con Lui nulla era cambiato, rassegniamoci. Anche noi possiamo pensare: “Sono cristiano da tanto, eppure in me non cambia niente, faccio sempre i soliti peccati”. Allora, sfiduciati, rinunciamo alla misericordia. Ma il Signore ci interpella: “Non credi che la mia misericordia è più grande della tua miseria? Sei recidivo nel peccare? Sii recidivo nel chiedere misericordia, e vedremo chi avrà la meglio!”. E poi – chi conosce il Sacramento del perdono lo sa – non è vero che tutto rimane come prima. Ad ogni perdono siamo rinfrancati, incoraggiati, perché ci sentiamo ogni volta più amati, più abbracciati dal Padre. E quando, da amati, ricadiamo, proviamo più dolore rispetto a prima. È un dolore benefico, che lentamente ci distacca dal peccato. Scopriamo allora che la forza della vita è ricevere il perdono di Dio, e andare avanti, di perdono in perdono. Così va la vita: di vergogna in vergogna, di perdono in perdono. Questa è la vita cristiana. Dopo la vergogna e la rassegnazione, c’è un’altra porta chiusa, a volte blindata: il nostro peccato, lo stesso peccato. Quando commetto un peccato grande, se io, in tutta onestà, non voglio perdonarmi, perché dovrà farlo Dio? Questa porta, però, è serrata solo da una parte, la nostra; per Dio non è mai invalicabile. Egli, come insegna il Vangelo, ama entrare proprio “a porte chiuse”, l’abbiamo sentito, quando ogni varco sembra sbarrato. Lì Dio opera meraviglie. Egli non decide mai di separarsi da noi, siamo noi che Lo lasciamo fuori. Ma quando ci confessiamo accade l’inaudito: scopriamo che proprio quel peccato, che ci teneva distanti dal Signore, diventa il luogo dell’incontro con Lui. Lì il Dio ferito d’amore viene incontro alle nostre ferite. E rende le nostre misere piaghe simili alle Sue piaghe gloriose. C’è una trasformazione: la mia misera piaga assomiglia alle Sue piaghe gloriose. Perché Egli è misericordia e opera meraviglie nelle nostre miserie. Come Tommaso, chiediamo oggi la grazia di riconoscere il nostro Dio: di trovare nel Suo perdono la nostra gioia, di trovare nella Sua misericordia la nostra speranza”. Nell’Udienza Generale di Mercoledì 4 Aprile 2018, l’ultima delle sue 15 catechesi sulla Santa Messa (Riti di conclusione), Papa Bergoglio rivela: “Cari fratelli e sorelle, buongiorno e buona Pasqua! Voi vedete che oggi ci sono dei fiori: i fiori dicono gioia, allegria. In certi posti la Pasqua è chiamata anche “Pasqua fiorita”, perché fiorisce il Cristo risorto: è il Fiore nuovo; fiorisce la nostra giustificazione; fiorisce la santità della Chiesa. Per questo, tanti fiori: è la nostra gioia. Tutta la settimana noi festeggiamo la Pasqua, tutta la settimana. E per questo ci diamo, una volta in più, tutti noi, l’augurio di Buona Pasqua. Diciamo insieme: Buona Pasqua, tutti! Vorrei anche che dessimo la Buona Pasqua, perché è stato Vescovo di Roma, all’amato Papa Benedetto che ci segue per televisione. A Papa Benedetto, tutti diamo la Buona Pasqua. E un applauso, forte. Con questa catechesi concludiamo il ciclo dedicato alla Messa, che è proprio la commemorazione, ma non soltanto come memoria, si vive di nuovo la Passione e la Risurrezione di Gesù. L’ultima volta siamo arrivati fino alla Comunione e l’orazione dopo la Comunione; dopo questa orazione, la Messa si conclude con la benedizione impartita dal sacerdote e il congedo del popolo (cfr Ordinamento Generale del Messale Romano, 90). Come era iniziata con il segno della croce, nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, è ancora nel nome della Trinità che viene sigillata la Messa, cioè l’azione liturgica. Tuttavia, sappiamo bene che mentre la Messa finisce, si apre l’impegno della testimonianza cristiana. I cristiani non vanno a Messa per fare un compito settimanale e poi si dimenticano, no. I cristiani vanno a Messa per partecipare alla Passione e Risurrezione del Signore e poi vivere di più come cristiani: si apre l’impegno della testimonianza cristiana. Usciamo dalla chiesa per «andare in pace» a portare la benedizione di Dio nelle attività quotidiane, nelle nostre case, negli ambienti di lavoro, tra le occupazioni della città terrena, “glorificando il Signore con la nostra vita”. Ma se noi usciamo dalla chiesa chiacchierando e dicendo: “guarda questo, guarda quello”, con la lingua lunga, la Messa non è entrata nel mio cuore. Perché? Perché non sono capace di vivere la testimonianza cristiana. Ogni volta che esco dalla Messa, devo uscire meglio di come sono entrato, con più vita, con più forza, con più voglia di dare testimonianza cristiana. Attraverso l’Eucaristia il Signore Gesù entra in noi, nel nostro cuore e nella nostra carne, affinché possiamo «esprimere nella vita il sacramento ricevuto nella fede» (Messale Romano, Colletta del lunedì nell’Ottava di Pasqua). Dalla celebrazione alla vita, dunque, consapevoli che la Messa trova compimento nelle scelte concrete di chi si fa coinvolgere in prima persona nei misteri di Cristo. Non dobbiamo dimenticare che celebriamo l’Eucaristia per imparare a diventare uomini e donne eucaristici. Cosa significa questo? Significa lasciare agire Cristo nelle nostre opere: che i Suoi pensieri siano i nostri pensieri, i Suoi sentimenti i nostri, le Sue scelte le nostre scelte. E questo è santità: fare come ha fatto Cristo è santità cristiana. Lo esprime con precisione San Paolo, parlando della propria assimilazione a Gesù, e dice così: «Sono stato crocifisso con Cristo, e non vivo più io, ma Cristo vive in me. E questa vita, che io vivo nel corpo, la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha consegnato se stesso per me» (Gal 2,19-20). Questa è la testimonianza cristiana. L’esperienza di Paolo illumina anche noi: nella misura in cui mortifichiamo il nostro egoismo, cioè facciamo morire ciò che si oppone al Vangelo e all’amore di Gesù, si crea dentro di noi un maggiore spazio per la potenza del suo Spirito. I cristiani sono uomini e donne che si lasciano allargare l’anima con la forza dello Spirito Santo, dopo aver ricevuto il Corpo e il Sangue di Cristo. Lasciatevi allargare l’anima! Non queste anime così strette e chiuse, piccole, egoiste, no! Anime larghe, anime grandi, con grandi orizzonti. Lasciatevi allargare l’anima con la forza dello Spirito, dopo aver ricevuto il Corpo e il Sangue di Cristo. Poiché la presenza reale di Cristo nel Pane consacrato non termina con la Messa (Catechismo della Chiesa Cattolica, 1374) l’Eucaristia viene custodita nel tabernacolo per la Comunione ai malati e per l’adorazione silenziosa del Signore nel Santissimo Sacramento; il culto eucaristico fuori della Messa, sia in forma privata che comunitaria, ci aiuta infatti a rimanere in Cristo (CCC 1378-1380). I frutti della Messa, pertanto, sono destinati a maturare nella vita di ogni giorno. Possiamo dire così, un po’ forzando l’immagine: la Messa è come il chicco, il chicco di grano che poi nella vita ordinaria cresce, cresce e matura nelle opere buone, negli atteggiamenti che ci fanno assomigliare a Gesù. I frutti della Messa, pertanto, sono destinati a maturare nella vita di ogni giorno. In verità, accrescendo la nostra unione a Cristo, l’Eucaristia aggiorna la grazia che lo Spirito ci ha donato nel Battesimo e nella Confermazione, affinché sia credibile la nostra testimonianza cristiana (CCC 1391-1392). Ancora, accendendo nei nostri cuori la carità divina, l’Eucaristia cosa fa? Ci separa dal peccato: «Quanto più partecipiamo alla vita di Cristo e progrediamo nella Sua amicizia, tanto più ci è difficile separarci da Lui con il peccato mortale» (CCC 1395). Il regolare accostarci al Convito eucaristico rinnova, fortifica e approfondisce il legame con la comunità cristiana a cui apparteniamo, secondo il principio che l’Eucaristia fa la Chiesa (CCC 1396), ci unisce tutti. Infine, partecipare all’Eucaristia impegna nei confronti degli altri, specialmente dei poveri, educandoci a passare dalla carne di Cristo alla carne dei fratelli, in cui Egli attende di essere da noi riconosciuto, servito, onorato, amato (CCC 1397). Portando il tesoro dell’unione con Cristo in vasi di creta (2Cor 4,7) abbiamo continuo bisogno di ritornare al Santo Altare, fino a quando, in Paradiso, gusteremo pienamente la beatitudine del banchetto di nozze dell’Agnello (Apocalisse 19,9). Ringraziamo il Signore per il cammino di riscoperta della Santa Messa che ci ha donato di compiere insieme, e lasciamoci attrarre con fede rinnovata a questo incontro reale con Gesù, morto e risorto per noi, nostro contemporaneo. E che la nostra vita sia sempre “fiorita” così, come la Pasqua, con i fiori della speranza, della fede, delle opere buone. Che noi troviamo sempre la forza per questo nell’Eucaristia, nell’unione con Gesù. Buona Pasqua a tutti!”. Al “Regina Coeli” di Lunedì dell’Angelo in piazza San Pietro, Papa Francesco insegna: “Il Lunedì dopo Pasqua è chiamato “Lunedì dell’Angelo” secondo una tradizione molto bella che corrisponde alle fonti bibliche sulla Risurrezione. Narrano infatti i Vangeli (Mt 28,1-10, Mc 16,1-7; Lc 24,1-12) che, quando le donne andarono al Sepolcro, lo trovarono aperto. Esse temevano di non poter entrare perché la tomba era stata chiusa con una grande pietra. Invece era aperta; e dall’interno una voce dice loro che Gesù non è lì, ma è risorto. Per la prima volta vengono pronunciate le parole: “È risorto”. Gli evangelisti ci riferiscono che questo primo annuncio fu dato dagli Angeli, cioè Messaggeri di Dio. Vi è un significato in questa presenza angelica: come ad annunciare l’Incarnazione del Verbo era stato un Angelo, Gabriele, così anche ad annunciare per la prima volta la Risurrezione non era sufficiente una parola umana. Ci voleva un Essere superiore per comunicare una realtà così sconvolgente, talmente incredibile, che forse nessun uomo avrebbe osato pronunciarla. Dopo questo primo annuncio, la comunità dei discepoli comincia a ripetere: «Davvero il Signore è risorto. Ed è apparso a Simone», (Lc 24,34). È bello questo annuncio. Possiamo dirlo tutti insieme adesso: “Davvero il Signore è risorto”. Questo primo annuncio, “Davvero il Signore è risorto”, richiedeva un’Intelligenza superiore a quella umana. Quello di oggi è un giorno di festa e di convivialità vissuto di solito con la famiglia. È una giornata di famiglia. Dopo aver celebrato la Pasqua si avverte il bisogno di riunirsi ancora con i propri cari e con gli amici per fare festa. Perché la fraternità è il frutto della Pasqua di Cristo che, con la Sua morte e risurrezione, ha sconfitto il peccato che separava l’uomo da Dio, l’uomo da sé stesso, l’uomo dai suoi fratelli. Ma noi sappiamo che il peccato sempre separa, sempre fa inimicizie. Gesù ha abbattuto il muro di divisione tra gli uomini e ha ristabilito la pace, cominciando a tessere la rete di una nuova fraternità. È tanto importante in questo nostro tempo riscoprire la fraternità, così come era vissuta nelle prime comunità cristiane. Riscoprire come dare spazio a Gesù che mai separa, sempre unisce. Non ci può essere una vera comunione e un impegno per il bene comune e la giustizia sociale senza la fraternità e la condivisione. Senza condivisione fraterna non si può realizzare una comunità ecclesiale o civile: esiste solo un insieme di individui mossi o raggruppati dai propri interessi. Ma la fraternità è una grazia che fa Gesù. La Pasqua di Cristo ha fatto esplodere nel mondo un’altra cosa: la novità del dialogo e della relazione, novità che per i cristiani è diventata una responsabilità. Infatti Gesù ha detto: «Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli: se avete amore gli uni per gli altri» (Gv 13,35). Ecco perché non possiamo rinchiuderci nel nostro privato, nel nostro gruppo, ma siamo chiamati a occuparci del bene comune, a prenderci cura dei fratelli, specialmente quelli più deboli ed emarginati. Solo la fraternità può garantire una pace duratura, può sconfiggere le povertà, può spegnere le tensioni e le guerre, può estirpare la corruzione e la criminalità. L’Angelo che ci dice: “É risorto”, ci aiuti a vivere la fraternità e la novità del dialogo e della relazione e la preoccupazione per il bene comune. La Vergine Maria, che in questo tempo pasquale invochiamo con il titolo di Regina del Cielo, ci sostenga con la sua preghiera, affinché la fraternità e la comunione che sperimentiamo in questi giorni di Pasqua, possano diventare nostro stile di vita e anima delle nostre relazioni”. Nel suo Messaggio “Urbi et Orbi” della Domenica di Pasqua 1° Aprile 2018, dalla Loggia centrale della Basilica Vaticana, Papa Bergoglio annuncia: “Cari fratelli e sorelle, buona Pasqua! Gesù è risorto dai morti. Risuona nella Chiesa in tutto il mondo questo annuncio, insieme con il canto dell’Alleluia: Gesù è il Signore, il Padre lo ha risuscitato ed Egli è vivo per sempre in mezzo a noi. Gesù stesso aveva preannunciato la Sua morte e risurrezione con l’immagine del chicco di grano. Diceva: «Se il chicco di grano, caduto in terra, non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto» (Gv 12,24). Ecco, proprio questo è accaduto: Gesù, il chicco di grano seminato da Dio nei solchi della terra, è morto ucciso dal peccato del mondo, è rimasto due giorni nel sepolcro; ma in quella Sua morte era contenuta tutta la potenza dell’Amore di Dio che si è sprigionata e si è manifestata il terzo giorno, quello che oggi celebriamo: la Pasqua di Cristo Signore. Noi cristiani crediamo e sappiamo che la risurrezione di Cristo è la vera speranza del mondo, quella che non delude. È la forza del chicco di grano, quella dell’amore che si abbassa e si dona fino alla fine, e che davvero rinnova il mondo. Questa forza porta frutto anche oggi nei solchi della nostra storia, segnata da tante ingiustizie e violenze. Porta frutti di speranza e di dignità dove ci sono miseria ed esclusione, dove c’è fame e manca il lavoro, in mezzo ai profughi e ai rifugiati, tante volte respinti dall’attuale cultura dello scarto, alle vittime del narcotraffico, della tratta di persone e delle schiavitù dei nostri tempi. E noi oggi domandiamo frutti di pace per il mondo intero, a cominciare dall’amata e martoriata Siria, la cui popolazione è stremata da una guerra che non vede fine. In questa Pasqua, la luce di Cristo Risorto illumini le coscienze di tutti i responsabili politici e militari, affinché si ponga termine immediatamente allo sterminio in corso, si rispetti il diritto umanitario e si provveda ad agevolare l’accesso agli aiuti di cui questi nostri fratelli e sorelle hanno urgente bisogno, assicurando nel contempo condizioni adeguate per il ritorno di quanti sono stati sfollati (operazioni già in corso grazie alla Santa Russia, dopo le sanzioni A.D. 2011 di Usa e Unione Europea contro i Siriani e l’invasione dell’Isis estirpato dalla Siria sempre grazie ai Russi, NdA). Frutti di riconciliazione invochiamo per la Terra Santa, anche in questi anni ferita (Gaza dove i bambini vengono massacrati come in Yemen, NdA) da conflitti aperti che non risparmiano gli inermi, per lo Yemen e per tutto il Medio Oriente, affinché il dialogo e il rispetto reciproco prevalgano sulle divisioni e sulla violenza. Possano i nostri fratelli in Cristo, che non di rado subiscono soprusi e persecuzioni, essere testimoni luminosi del Risorto e della vittoria del bene sul male. Frutti di speranza supplichiamo in questo giorno per quanti anelano a una vita più dignitosa, soprattutto in quelle parti del continente africano travagliate dalla fame, da conflitti endemici e dal terrorismo. La pace del Risorto risani le ferite nel Sud Sudan: apra i cuori al dialogo e alla comprensione reciproca. Non dimentichiamo le vittime di quel conflitto, soprattutto i bambini! Non manchi la solidarietà per le molte persone costrette ad abbandonare le proprie terre e private del minimo necessario per vivere. Frutti di dialogo imploriamo per la penisola coreana, perché i colloqui in corso promuovano l’armonia e la pacificazione della regione. Coloro che hanno responsabilità dirette agiscano con saggezza e discernimento per promuovere il bene del popolo coreano e costruire rapporti di fiducia in seno alla comunità internazionale. Frutti di pace chiediamo per l’Ucraina, affinché si rafforzino i passi in favore della concordia e siano facilitate le iniziative umanitarie di cui la popolazione necessita. Frutti di consolazione supplichiamo per il popolo venezuelano, il quale, come hanno scritto i suoi Pastori, vive in una specie di “terra straniera” nel suo stesso Paese. Possa, per la forza della Risurrezione del Signore Gesù, trovare la via giusta, pacifica e umana per uscire al più presto dalla crisi politica e umanitaria che lo attanaglia, e non manchino accoglienza e assistenza a quanti tra i suoi figli sono costretti ad abbandonare la loro patria. Frutti di vita nuova Cristo Risorto porti per i bambini che, a causa delle guerre e della fame, crescono senza speranza, privi di educazione e di assistenza sanitaria; e anche per gli anziani scartati dalla cultura egoistica, che mette da parte chi non è “produttivo”. Frutti di saggezza invochiamo per coloro che in tutto il mondo hanno responsabilità politiche, perché rispettino sempre la dignità umana, si adoperino con dedizione a servizio del bene comune e assicurino sviluppo e sicurezza ai propri cittadini. Cari fratelli e sorelle, anche a noi, come alle donne accorse al sepolcro, viene rivolta questa parola: «Perché cercate tra i morti Colui che è vivo? Non è qui, è risorto!» (Lc 24,5-6). La morte, la solitudine e la paura non sono più l’ultima parola. C’è una parola che va oltre e che solo Dio può pronunciare: è la parola della Risurrezione (Giovanni Paolo II, Parole al termine della Via Crucis, 18 Aprile 2003). Con la forza dell’amore di Dio, essa «sconfigge il male, lava le colpe, restituisce l’innocenza ai peccatori, la gioia agli afflitti, dissipa l’odio, piega la durezza dei potenti, promuove la concordia e la pace» (Preconio Pasquale). Buona Pasqua a tutti!”. Poi, il Vescovo di Roma rinnova i suoi auguri di Buona Pasqua “a tutti voi, provenienti dall’Italia e da diversi Paesi, come pure a quanti sono collegati mediante la televisione, la radio e gli altri mezzi di comunicazione. La gioia e la speranza di Gesù risorto diano conforto alle famiglie, specialmente agli anziani che sono la preziosa memoria della società, e ai giovani che rappresentano il futuro della Chiesa e dell’umanità. Vi ringrazio per la vostra presenza in questo giorno di Pasqua, la festa più importante della nostra fede, perché è la festa della nostra salvezza, la festa dell’amore di Dio per noi. Un ringraziamento speciale per il dono dei fiori, che anche quest’anno provengono dai Paesi Bassi. In questi giorni di Pasqua annunciate, con le parole e con la vita, la bella notizia che “Gesù è Risorto”. E per favore, non dimenticate di pregare per me. Buon pranzo pasquale e arrivederci!”. Nella Veglia Pasquale nella notte di Sabato Santo in Basilica Vaticana, 31 Marzo 2018, Papa Francesco insegna: “Questa celebrazione l’abbiamo cominciata all’esterno, immersi nell’oscurità della notte e nel freddo che l’accompagna. Sentiamo il peso del silenzio davanti alla morte del Signore, un silenzio in cui ognuno di noi può riconoscersi e che cala profondo nelle fenditure del cuore del discepolo che dinanzi alla croce rimane senza parole. Sono le ore del discepolo ammutolito di fronte al dolore generato dalla morte di Gesù: che dire davanti a questa realtà? Il discepolo che rimane senza parole prendendo coscienza delle proprie reazioni durante le ore cruciali della vita del Signore: di fronte all’ingiustizia che ha condannato il Maestro, i discepoli hanno fatto silenzio; di fronte alle calunnie e alla falsa testimonianza subite dal Maestro, i discepoli hanno taciuto. Durante le ore difficili e dolorose della Passione, i discepoli hanno sperimentato in modo drammatico la loro incapacità di rischiare e di parlare in favore del Maestro; di più, lo hanno rinnegato, si sono nascosti, sono fuggiti, sono stati zitti (Gv 18,25-27). È la notte del silenzio del discepolo che si trova intirizzito e paralizzato, senza sapere dove andare di fronte a tante situazioni dolorose che lo opprimono e lo circondano. È il discepolo di oggi, ammutolito davanti a una realtà che gli si impone facendogli sentire e, ciò che è peggio, credere che non si può fare nulla per vincere tante ingiustizie che vivono nella loro carne tanti nostri fratelli. È il discepolo frastornato perché immerso in una routine schiacciante che lo priva della memoria, fa tacere la speranza e lo abitua al “si è fatto sempre così”. È il discepolo ammutolito e ottenebrato che finisce per abituarsi e considerare normale l’espressione di Caifa: «Non vi rendete conto che è conveniente per voi che un solo uomo muoia per il popolo, e non vada in rovina la nazione intera!» (Gv 11,50). E in mezzo ai nostri silenzi, quando tacciamo in modo così schiacciante, allora le pietre cominciano a gridare (Lc 19,40) e a lasciare spazio al più grande annuncio che la storia abbia mai potuto contenere nel suo seno: «Non è qui. È risorto» (Mt 28,6). La pietra del sepolcro gridò e col suo grido annunciò a tutti una nuova via. Fu il creato il primo a farsi eco del trionfo della Vita su tutte le realtà che cercarono di far tacere e di imbavagliare la gioia del vangelo. Fu la pietra del sepolcro la prima a saltare e, a modo suo, a intonare un canto di lode e di entusiasmo, di gioia e di speranza a cui tutti siamo invitati a partecipare. E se ieri, con le donne, abbiamo contemplato «colui che hanno trafitto» (Gv 19,37; Zc 12,10) oggi con esse siamo chiamati a contemplare la tomba vuota e ad ascoltare le parole dell’angelo: «Non abbiate paura…È risorto» (Mt 28,5-6). Parole che vogliono raggiungere le nostre convinzioni e certezze più profonde, i nostri modi di giudicare e di affrontare gli avvenimenti quotidiani; specialmente il nostro modo di relazionarci con gli altri. La tomba vuota vuole sfidare, smuovere, interrogare, ma soprattutto vuole incoraggiarci a credere e ad aver fiducia che Dio “avviene” in qualsiasi situazione, in qualsiasi persona, e che la sua luce può arrivare negli angoli più imprevedibili e più chiusi dell’esistenza. È risorto dalla morte, è risorto dal luogo da cui nessuno aspettava nulla e ci aspetta, come aspettava le donne, per renderci partecipi della sua opera di salvezza. Questo è il fondamento e la forza che abbiamo come cristiani per spendere la nostra vita e la nostra energia, intelligenza, affetti e volontà nel ricercare e specialmente nel generare cammini di dignità. Non è qui. È risorto! È l’annuncio che sostiene la nostra speranza e la trasforma in gesti concreti di carità. Quanto abbiamo bisogno di lasciare che la nostra fragilità sia unta da questa esperienza! Quanto abbiamo bisogno che la nostra fede sia rinnovata, che i nostri miopi orizzonti siano messi in discussione e rinnovati da questo annuncio! Egli è risorto e con Lui risorge la nostra speranza creativa per affrontare i problemi attuali, perché sappiamo che non siamo soli. Celebrare la Pasqua significa credere nuovamente che Dio irrompe e non cessa di irrompere nelle nostre storie, sfidando i nostri determinismi uniformanti e paralizzanti. Celebrare la Pasqua significa lasciare che Gesù vinca quell’atteggiamento pusillanime che tante volte ci assedia e cerca di seppellire ogni tipo di speranza. La pietra del sepolcro ha fatto la sua parte, le donne hanno fatto la loro parte, adesso l’invito viene rivolto ancora una volta a voi e a me: invito a rompere le abitudini ripetitive, a rinnovare la nostra vita, le nostre scelte e la nostra esistenza. Un invito che ci viene rivolto là dove ci troviamo, in ciò che facciamo e che siamo; con la “quota di potere” che abbiamo. Vogliamo partecipare a questo annuncio di vita o resteremo muti davanti agli avvenimenti? Non è qui, è risorto! E ti aspetta in Galilea, ti invita a tornare al tempo e al luogo del primo amore, per dirti: Non avere paura, seguimi”. Nella Preghiera della Santa Vergogna, dopo la Via Crucis al Colosseo (Anfiteatro Flavio) di Roma, Venerdì Santo 30 Marzo 2018, Papa Bergoglio rivela: “Signore Gesù, il nostro sguardo è rivolto a Te, pieno di vergogna, di pentimento e di speranza. Dinanzi al Tuo supremo amore ci pervada la vergogna per averTi lasciato solo a soffrire per i nostri peccati: la vergogna per essere scappati dinanzi alla prova pur avendoTi detto migliaia di volte: “anche se tutti Ti lasciano, io non Ti lascerò mai”; la vergogna di aver scelto Barabba e non Te, il potere e non Te, l’apparenza e non Te, il dio denaro e non Te, la mondanità e non l’Eternità; la vergogna per averTi tentato con la bocca e con il cuore, ogni volta che ci siamo trovati davanti a una prova, dicendoTi: “se Tu sei il messia, salvaTi e noi crederemo!”; la vergogna perché tante persone, e perfino alcuni Tuoi ministri, si sono lasciati ingannare dall’ambizione e dalla vana gloria perdendo la loro degnità e il loro primo amore; la vergogna perché le nostre generazioni stanno lasciando ai giovani un mondo fratturato dalle divisioni e dalle guerre; un mondo divorato dall’egoismo ove i giovani, i piccoli, i malati, gli anziani sono emarginati; la vergogna di aver perso la vergogna; Signore Gesù, dacci sempre la grazia della santa vergogna! Il nostro sguardo è pieno anche di un pentimento che dinanzi al Tuo silenzio eloquente supplica la Tua misericordia: il pentimento che germoglia dalla certezza che solo Tu puoi salvarci dal male, solo Tu puoi guarirci dalla nostra lebbra di odio, di egoismo, di superbia, di avidità, di vendetta, di cupidigia, di idolatria, solo Tu puoi riabbracciarci ridonandoci la dignità filiale e gioire per il nostro rientro a casa, alla vita; il pentimento che sboccia dal sentire la nostra piccolezza, il nostro nulla, la nostra vanità e che si lascia accarezzare dal Tuo invito soave e potente alla conversione; il pentimento di Davide che dall’abisso della sua miseria ritrova in Te la sua unica forza; il pentimento che nasce dalla nostra vergogna, che nasce dalla certezza che il nostro cuore resterà sempre inquieto finché non trovi Te e in Te la sua unica fonte di pienezza e di quiete; il pentimento di Pietro che incontrando il Tuo sguardo pianse amaramente per averTi negato dinanzi agli uomini. Signore Gesù, dacci sempre la grazia del santo pentimento! Dinanzi alla Tua suprema maestà si accende, nella tenebrosità della nostra disperazione, la scintilla della speranza perché sappiamo che la Tua unica misura di amarci è quella di amarci senza misura; la speranza perché il Tuo messaggio continua a ispirare, ancora oggi, tante persone e popoli a che solo il bene può sconfiggere il male e la cattiveria, solo il perdono può abbattere il rancore e la vendetta, solo l’abbraccio fraterno può disperdere l’ostilità e la paura dell’altro; la speranza perché il Tuo sacrificio continua, ancora oggi, a emanare il profumo dell’amore divino che accarezza i cuori di tanti giovani che continuano a consacrarTi le loro vite divenendo esempi vivi di carità e di gratuità in questo nostro mondo divorato dalla logica del profitto e del facile guadagno; la speranza perché tanti missionari e missionarie continuano, ancora oggi, a sfidare l’addormentata coscienza dell’umanità rischiando la vita per servire Te nei poveri, negli scartati, negli immigrati, negli invisibili, negli sfruttati, negli affamati e nei carcerati; la speranza perché la Tua Chiesa, santa e fatta da peccatori, continua, ancora oggi, nonostante tutti i tentativi di screditarla, a essere una luce che illumina, incoraggia, solleva e testimonia il Tuo amore illimitato per l’umanità, un modello di altruismo, un’arca di salvezza e una fonte di certezza e di verità; la speranza perché dalla Tua croce, frutto dell’avidità e codardia di tanti dottori della Legge e ipocriti, è scaturita la Risurrezione trasformando le tenebre della tomba nel fulgore dell’alba della Domenica senza tramonto, insegnandoci che il Tuo amore è la nostra speranza. Signore Gesù, dacci sempre la grazia della santa speranza! Aiutaci, Figlio dell’uomo, a spogliarci dall’arroganza del ladrone posto alla Tua sinistra e dei miopi e dei corrotti, che hanno visto in Te un’opportunità da sfruttare, un condannato da criticare, uno sconfitto da deridere, un’altra occasione per addossare sugli altri, e perfino su Dio, le proprie colpe. Ti chiediamo invece, Figlio di Dio, di immedesimarci col buon ladrone che Ti ha guardato con occhi pieni di vergogna, di pentimento e di speranza; che, con gli occhi della fede, ha visto nella Tua apparente sconfitta la divina vittoria e così si è inginocchiato dinanzi alla Tua misericordia e con onestà ha derubato il paradiso! Amen!”. Nella Santa Messa “In Coena Domini”, celebrata alla Casa Circondariale “Regina Coeli” di Roma, Giovedì Santo 29 Marzo 2018, Papa Bergoglio insegna: “Gesù finisce il Suo discorso dicendo: “Vi ho dato infatti l’esempio, perché come ho fatto io, facciate anche voi” (Gv 13,15). Lavare i piedi. I piedi, in quel tempo, erano lavati dagli schiavi: era un compito da schiavo. La gente percorreva la strada, non c’era l’asfalto (come quello fresco appena cosparso sulle strade ricostruite di Aleppo in Siria nonostante le minacce Isis dell’Occidente, NdA), non c’erano i sampietrini; in quel tempo c’era la polvere della strada e la gente si sporcava i piedi (come nella devastata Raqqa a immagine e somiglianza di come vorrebbero ridurre la Siria i missili “intelligenti” di Usa, Francia e Gran Bretagna, NdA). E all’entrata della casa c’erano gli schiavi che lavavano i piedi. Era un lavoro da schiavi. Ma era un servizio: un servizio fatto da schiavi. E Gesù volle fare questo servizio, per darci un esempio di come noi dobbiamo servirci gli uni gli altri. Una volta, quando erano in cammino, due dei discepoli che volevano fare carriera, avevano chiesto a Gesù di occupare dei posti importanti, uno alla sua destra e l’altro alla sinistra (Mc 10,35-45). E Gesù li ha guardati con amore, Gesù guardava sempre con amore, e ha detto: “Voi non sapete ciò che domandate” (v. 38). I capi delle Nazioni, dice Gesù, comandano, si fanno servire e loro stanno bene (v. 42). Pensiamo a quell’epoca dei re, degli imperatori tanto crudeli, che si facevano servire dagli schiavi (come l’attuale Italia servile dei warlord warmongers, NdA). Ma fra voi, dice Gesù, non deve essere lo stesso: chi comanda deve servire. Il capo vostro deve essere il vostro servitore (v. 43). Gesù capovolge l’abitudine storica, culturale di quell’epoca, anche questa di oggi: colui che comanda, per essere un bravo capo, sia dove sia, deve servire. Io penso tante volte, non a questo tempo perché ognuno ancora è vivo e ha l’opportunità di cambiare vita e non possiamo giudicare, ma pensiamo alla storia: se tanti re, imperatori, capi di Stato avessero capito questo insegnamento di Gesù e invece di comandare, di essere crudeli, di uccidere la gente, avessero fatto questo, quante guerre non sarebbero state fatte! Il servizio: davvero c’è gente che non facilita questo atteggiamento, gente superba, gente odiosa, gente che forse ci augura del male; ma noi siamo chiamati a servirli di più. E anche c’è gente che soffre, che è scartata dalla società, almeno per un periodo, e Gesù va lì a dir loro: Tu sei importante per me. Gesù viene a servirci, e il segnale che Gesù ci serve oggi qui, al carcere di Regina Coeli, è che ha voluto scegliere 12 di voi, come i 12 Apostoli, per lavare i piedi. Gesù rischia su ognuno di noi. Sappiate questo: Gesù si chiama Gesù, non si chiama Ponzio Pilato. Gesù non sa lavarsi le mani: soltanto sa rischiare! Guardate questa immagine tanto bella: Gesù chinato tra le spine, rischiando di ferirsi per prendere la pecorella smarrita. Oggi io, che sono peccatore come voi, ma rappresento Gesù, sono ambasciatore di Gesù. Oggi, quando io mi inchino davanti a ognuno di voi, pensate: “Gesù ha rischiato in quest’uomo, un peccatore, per venire da me e dirmi che mi ama”. Questo è il servizio, questo è Gesù: non ci abbandona mai; non si stanca mai di perdonarci. Ci ama tanto. Guardate come rischia, Gesù! E così, con questi sentimenti, andiamo avanti con questa cerimonia che è simbolica. Prima di darci il Suo corpo e il Suo sangue, Gesù rischia per ognuno di noi, e rischia nel servizio perché ci ama tanto”. Al gesto dello scambio della pace, il Santo Padre pronuncia queste parole: “E adesso, tutti noi, sono sicuro che tutti noi abbiamo la voglia di essere in pace con tutti. Ma nel nostro cuore ci sono tante volte sentimenti contrastanti. È facile essere in pace con coloro a cui vogliamo bene e con quanti ci fanno del bene; ma non è facile essere in pace con quelli che ci hanno fatto torto, che non ci vogliono bene, con i quali siamo in inimicizia. In silenzio, un attimo, ognuno pensi a coloro che ci vogliono bene e a cui noi vogliamo bene, e anche ognuno di noi pensi a coloro che non ci vogliono bene e anche a coloro a cui noi non vogliamo e anche, anzi, a coloro su cui noi vorremmo vendicarci. E chiediamo al Signore, in silenzio, la grazia di dare a tutti, buoni e cattivi, il dono della pace”. Papa Bergoglio risponde al saluto della direttrice del penitenziario e di un detenuto, al termine della Visita alla casa circondariale di Regina Coeli: “Tu hai parlato di uno sguardo nuovo: rinnovare lo sguardo. Questo fa bene, perché alla mia età, per esempio, vengono le cateratte, e non si vede bene la realtà: l’anno prossimo dovremo fare l’intervento. Ma così succede con l’anima: il lavoro della vita, la stanchezza, gli sbagli, le delusioni oscurano lo sguardo, lo sguardo dell’anima. E per questo, quello che tu hai detto è vero: approfittare delle opportunità per rinnovare lo sguardo. E come ho detto in piazza S. Pietro in tanti paesini, ma anche nella mia terra, quando si sentono le campane della Resurrezione del Signore, le mamme, le nonne portano i bambini a lavarsi gli occhi perché abbiano lo sguardo della speranza del Cristo risorto. Non stancatevi mai di rinnovare lo sguardo. Di fare quell’intervento di cateratte all’anima, quotidiano. Ma sempre rinnovare lo sguardo. È un bello sforzo. Tutti voi conoscete la bottiglia di vino a metà: se io guardo la metà vuota, è brutta la vita, è brutta, ma se guardo la metà piena, ancora ho da bere. Lo sguardo che apre alla speranza, parola che tu hai detto e anche lei (la direttrice) ha detto; e lei l’ha ripetuta parecchie volte. Non si può concepire una casa circondariale come questa senza speranza. Qui, gli ospiti sono per imparare o fare crescere il “seminare speranza”: non c’è alcuna pena giusta – giusta! – senza che sia aperta alla speranza. Una pena che non sia aperta alla speranza non è cristiana, non è umana! Ci sono le difficoltà nella vita, le cose brutte, la tristezza: uno pensa ai suoi, pensa alla mamma, al papà, alla moglie, al marito, ai figli…è brutta, quella tristezza. Ma non lasciarsi andare giù: no, no. Io sono qui, ma per reinserirmi, rinnovato o rinnovata. E questa è la speranza. Seminare speranza. Sempre, sempre. Il vostro lavoro è questo: aiutare a seminare la speranza di reinserimento, e questo ci farà bene a tutti. Sempre. Ogni pena dev’essere aperta all’orizzonte della speranza. Per questo, non è né umana né cristiana la pena di morte. Ogni pena dev’essere aperta alla speranza, al reinserimento, anche per dare l’esperienza vissuta per il bene delle altre persone. Acqua di resurrezione, sguardo nuovo, speranza: questo vi auguro. So che voi ospiti avete lavorato tanto per preparare questa visita, anche imbiancare le pareti: vi ringrazio. È per me un segnale di benevolenza e di accoglienza, e vi ringrazio tanto. Vi sono vicino, prego per voi, e voi pregate per me e non dimenticatevi: l’acqua che fa lo sguardo nuovo, e la speranza”. Nella Santa Messa del Crisma, in Basilica Vaticana la mattina di Giovedì Santo 29 Marzo 2018, Papa Francesco insegna: “Cari fratelli, sacerdoti della diocesi di Roma e delle altre diocesi del mondo! Leggendo i testi della liturgia di oggi mi veniva alla mente, con insistenza, il passo del Deuteronomio che dice: «Infatti quale grande nazione ha gli dei così vicini a sé, come il Signore, nostro Dio, è vicino a noi ogni volta che lo invochiamo?» (4,7). La vicinanza di Dio, la nostra vicinanza apostolica. Nel testo del profeta Isaia contempliamo l’inviato di Dio già “unto e mandato”, in mezzo al suo popolo, vicino ai poveri, ai malati, ai prigionieri; e lo Spirito che “è su di Lui”, che lo spinge e lo accompagna lungo il cammino. Nel Salmo 88 vediamo come la compagnia di Dio, che fin dalla giovinezza ha guidato per mano il re Davide e gli ha prestato il Suo braccio, adesso che è anziano prende il nome di fedeltà: la vicinanza mantenuta nel corso del tempo si chiama fedeltà. L’Apocalisse ci fa avvicinare, fino a rendercelo visibile, all’«Erchomenos», al Signore in Persona che sempre «viene», sempre. L’allusione al fatto che lo vedranno «anche quelli che lo trafissero» ci fa sentire che sono sempre visibili le piaghe del Signore risorto, che il Signore ci viene sempre incontro se noi vogliamo “farci prossimi” alla carne di tutti coloro che soffrono, specialmente dei bambini (Yemen e Gaza, NdA). Nell’immagine centrale del Vangelo di oggi, contempliamo il Signore attraverso gli occhi dei suoi compaesani che erano «fissi su di Lui» (Lc 4,20). Gesù si alzò per leggere nella sinagoga di Nazaret. Gli fu dato il rotolo del profeta Isaia. Lo srotolò finché trovò il passo dell’inviato di Dio. Lesse ad alta voce: «Lo spirito del Signore è su di me, mi ha consacrato con l’unzione; mi ha mandato…» (61,1). E concluse stabilendo la vicinanza così provocatrice di quelle parole: «Oggi si è compiuta questa scrittura che voi avete ascoltato» (Lc 4,21). Gesù trova il passo e legge con la competenza degli scribi. Egli avrebbe potuto perfettamente essere uno scriba o un dottore della legge, ma ha voluto essere un “evangelizzatore”, un predicatore di strada, il «Messaggero di buone notizie» per il Suo popolo, il predicatore i cui piedi sono belli, come dice Isaia (52,7). Il predicatore è vicino. Questa è la grande scelta di Dio: il Signore ha scelto di essere uno che sta vicino al Suo popolo. Trent’anni di vita nascosta! Solo dopo comincerà a predicare. È la pedagogia dell’Incarnazione, dell’inculturazione; non solo nelle culture lontane, anche nella propria parrocchia, nella nuova cultura dei giovani (“What’s up”, NdA). La vicinanza è più che il nome di una virtù particolare, è un atteggiamento che coinvolge tutta la persona, il suo modo di stabilire legami, di essere contemporaneamente in sé stessa e attenta all’altro. Quando la gente dice di un sacerdote che “è vicino”, di solito fa risaltare due cose: la prima è che “c’è sempre” (contrario del “non c’è mai”: “Lo so, padre, che Lei è molto occupato”, dicono spesso). E l’altra cosa è che sa trovare una parola per ognuno. “Parla con tutti, dice la gente, coi grandi, coi piccoli, coi poveri, con quelli che non credono”. Preti vicini, che ci sono, che parlano con tutti. Preti di strada. E uno che ha imparato bene da Gesù a essere predicatore di strada è stato Filippo. Dicono gli Atti che andava di luogo in luogo annunciando la Buona Notizia della Parola predicando in tutte le città, e che queste si riempivano di gioia (8,4-8). Filippo era uno di quelli che lo Spirito poteva “sequestrare” in qualsiasi momento e farli partire per evangelizzare, andando da un posto all’altro, uno capace anche di battezzare gente di buona fede, come il ministro della regina di Etiopia, e di farlo lì per lì, lungo la strada (At 8,5; 36-40). La vicinanza, cari fratelli, è la chiave dell’evangelizzatore perché è un atteggiamento-chiave nel Vangelo (il Signore la usa per descrivere il Regno). Noi diamo per acquisito che la prossimità è la chiave della misericordia, perché la misericordia non sarebbe tale se non si ingegnasse sempre, come “buona samaritana”, per eliminare le distanze. Credo però che abbiamo bisogno di acquisire meglio il fatto che la vicinanza è anche la chiave della verità; non solo della misericordia, ma anche la chiave della verità. Si possono eliminare le distanze nella verità? Sì, si può. Infatti la verità non è solo la definizione che permette di nominare le situazioni e le cose, tenendole a distanza con concetti e ragionamenti logici. Non è solo questo. La verità è anche fedeltà (emeth), quella che ti permette di nominare le persone col loro nome proprio, come le nomina il Signore, prima di classificarle o di definire “la loro situazione”. E qui, c’è questa abitudine – brutta, no? – della “cultura dell’aggettivo”: questo è così, questo è un tale, questo è un quale…No, questo è figlio di Dio. Poi, avrà le virtù o i difetti, ma la verità fedele della persona e non l’aggettivo fatto sostanza. Bisogna stare attenti a non cadere nella tentazione di farsi idoli di alcune verità astratte. Sono idoli comodi, a portata di mano, che danno un certo prestigio e potere e sono difficili da riconoscere. Perché la “verità-idolo” si mimetizza, usa le parole evangeliche come un vestito, ma non permette che le si tocchi il cuore. E, ciò che è molto peggio, allontana la gente semplice dalla vicinanza risanatrice della Parola e dei Sacramenti di Gesù. Su questo punto, rivolgiamoci a Maria, Madre dei sacerdoti. La possiamo invocare come “Madonna della Vicinanza”: «Come una vera madre, cammina con noi, combatte con noi, ed effonde incessantemente la vicinanza dell’amore di Dio» (Esort. ap. Evangelii gaudium, 286) in modo tale che nessuno si senta escluso. La nostra Madre non solo è vicina per il suo mettersi al servizio con quella «premura» (ibid., 288) che è una forma di vicinanza, ma anche col suo modo di dire le cose. A Cana, la tempestività e il tono con cui dice ai servi: «Qualsiasi cosa vi dica, fatela» (Gv 2,5) farà sì che quelle parole diventino il modello materno di ogni linguaggio ecclesiale. Ma, per dirle come lei, oltre a chiedere la grazia, bisogna saper stare lì dove si “cucinano” le cose importanti, quelle che contano per ogni cuore, ogni famiglia, ogni cultura. Solo in questa vicinanza, possiamo dire “di cucina”, si può discernere qual è il vino che manca e qual è quello di migliore qualità che il Signore vuole dare. Vi suggerisco di meditare tre ambiti di vicinanza sacerdotale nei quali queste parole: “Fate tutto quello che Gesù vi dirà” devono risuonare, in mille modi diversi ma con un medesimo tono materno, nel cuore delle persone con cui parliamo: l’ambito dell’accompagnamento spirituale, quello della Confessione e quello della predicazione. La vicinanza nel dialogo spirituale, la possiamo meditare contemplando l’incontro del Signore con la Samaritana. Il Signore le insegna a riconoscere prima di tutto come adorare, in Spirito e verità; poi, con delicatezza, la aiuta a dare un nome al suo peccato, senza offenderla; e infine il Signore si lascia contagiare dal suo spirito missionario e va con lei a evangelizzare nel suo villaggio. Modello di dialogo spirituale, questo del Signore, che sa far venire alla luce il peccato della Samaritana senza che getti ombra sulla sua preghiera di adoratrice né che ponga ostacoli alla sua vocazione missionaria. La vicinanza nella Confessione la possiamo meditare contemplando il passo della donna adultera. Lì si vede chiaramente come la vicinanza è decisiva perché le verità di Gesù sempre avvicinano e si dicono (si possono dire sempre) a tu per tu. Guardare l’altro negli occhi – come il Signore quando si alza in piedi dopo essere stato in ginocchio vicino all’adultera che volevano lapidare e le dice: «Neanch’io ti condanno» (Gv 8,11) – non è andare contro la legge. E si può aggiungere: «D’ora in poi non peccare più» (ibid.) non con un tono che appartiene all’ambito giuridico della verità-definizione – il tono di chi deve determinare quali sono i condizionamenti della Misericordia divina – ma con un’espressione che si dice nell’ambito della verità-fedele, che permette al peccatore di guardare avanti e non indietro. Il tono giusto di questo «non peccare più» è quello del confessore che lo dice disposto a ripeterlo settanta volte sette. Da ultimo, l’ambito della predicazione. Meditiamo su di esso pensando a coloro che sono lontani, e lo facciamo ascoltando la prima predica di Pietro, che si colloca nel contesto dell’avvenimento di Pentecoste. Pietro annuncia che la parola è «per tutti quelli che sono lontani» (At 2,39) e predica in modo tale che il kerygma “trafigga il loro cuore” e li porti a domandare: «Che cosa dobbiamo fare?» (At 2,37). Domanda che, come dicevamo, dobbiamo fare e alla quale dobbiamo rispondere sempre in tono mariano, ecclesiale. L’omelia è la pietra di paragone «per valutare la vicinanza e la capacità di incontro di un Pastore con il suo popolo» (Esort. ap. Evangelii gaudium, 135). Nell’omelia si vede quanto vicini siamo stati a Dio nella preghiera e quanto vicini siamo alla nostra gente nella sua vita quotidiana. La Buona Notizia si attua quando queste due vicinanze si alimentano e si curano a vicenda. Se ti senti lontano da Dio, ma per favore, avvicinati al suo popolo, che ti guarirà dalle ideologie che ti hanno intiepidito il fervore. I piccoli ti insegneranno a guardare Gesù in un modo diverso. Ai loro occhi, la Persona di Gesù è affascinante, il suo buon esempio dà autorità morale, i suoi insegnamenti servono per la vita. E se tu, ti senti lontano dalla gente, avvicinati al Signore, alla sua Parola: nel Vangelo Gesù ti insegnerà il Suo modo di guardare la gente, quanto vale ai Suoi occhi ognuno di coloro per i quali ha versato il Suo sangue sulla Croce. Nella vicinanza con Dio, la Parola si farà carne in te e diventerai un prete vicino ad ogni carne. Nella vicinanza con il popolo di Dio, la Sua carne dolorosa diventerà parola nel tuo cuore e avrai di che parlare con Dio, diventerai un prete intercessore. Il sacerdote vicino, che cammina in mezzo alla sua gente con vicinanza e tenerezza di buon pastore (e, nella sua pastorale, a volte sta davanti, a volte in mezzo e a volte indietro), la gente non solo lo apprezza molto, va oltre: sente per lui qualcosa di speciale, qualcosa che sente soltanto alla presenza di Gesù. Perciò non è una cosa in più questo riconoscere la nostra vicinanza. In essa ci giochiamo se Gesù sarà reso presente nella vita dell’umanità, oppure se rimarrà sul piano delle idee, chiuso in caratteri a stampatello, incarnato tutt’al più in qualche buona abitudine che poco alla volta diventa routine. Cari fratelli sacerdoti, chiediamo a Maria, “Madonna della Vicinanza”, che ci avvicini tra di noi e, al momento di dire alla nostra gente di “fare tutto quello che Gesù dice”, ci unifichi il tono, perché nella diversità delle nostre opinioni si renda presente la sua vicinanza materna, quella che col suo “sì” ci ha avvicinato a Gesù per sempre”. Una santità che non è per pochi eroi o per persone eccezionali, ma il modo ordinario di vivere l’ordinaria esistenza cristiana. “Non vi è vita cristiana possibile al di fuori di questo quadro esigente e appassionante: c’è un solo modo di essere cristiani, quello che si colloca nella prospettiva della santità”, scrive Papa Francesco nella sua terza Esortazione Apostolica, uscita in questi giorni, dal titolo “Gaudete et Exsultate”. Il filo d’oro della gioia continua a rappresentare l’elemento che unifica il magistero di Papa Bergoglio, al suo sesto anno di pontificato, che vuole cristiani gioiosi (non ipocriti in vesti bianche sfavillati per sfilate di moda!) che mostrino di aver incontrato il Risorto e in Lui il segreto di una vita pacificata, realizzata, piena, autentica. Quasi facendo eco al dettato conciliare sull’universale chiamata alla santità, la Gaudete et Exsultate indica nella santità apostolica l’orizzonte dell’esistenza del cristiano comune. La prima cosa che colpisce nel testo è la convinzione con cui si sostiene che la santità appartiene al “popolo di Dio paziente”, alle persone che hanno un’ordinaria vita quotidiana fatta delle cose semplici che sono la struttura dell’esistenza di tutti. “Si diventa santi vivendo le Beatitudini”, la strada maestra perché “controcorrente rispetto alla direzione del mondo”. Si diventa santi tutti, perché “la Chiesa ha sempre insegnato che è una chiamata universale e possibile a chiunque”, lo dimostrano i molti santi “della porta accanto”. La vita della santità è poi strettamente connessa alla vita della misericordia, “la chiave del Cielo”. Dunque, “santo è chi sa commuoversi e muoversi per aiutare i miseri e sanare le miserie”. Chi rifugge dalle “elucubrazioni di vecchie eresie sempre attuali” e chi, oltre al resto, in un mondo “accelerato e aggressivo è capace di vivere con gioia e senso dell’umorismo”. Non è un “trattato sulla santità” ma il desiderio di incarnarla nel contesto attuale. Questo l’obiettivo che Papa Francesco si propone con la nuova Esortazione Apostolica. La sfida è quella di proporre a tutti la chiamata alla santità come meta perché viverla significa avere una vita felice e non annacquata, come spiega il Vicario del Papa per la Diocesi di Roma, mons. Angelo De Donatis: “È un aiuto a tenere il nostro sguardo ben largo. È contro la tentazione di ridurre la visuale o di perdere l’orizzonte. Accontentarci a vivacchiare”. Una sanità, dunque, “non appannaggio di chi dedica la sua vita alla preghiera o ad un particolare ministero” ma che è possibile nella vita di ogni giorno. Non a caso Papa Francesco parla della santità della porta accanto, cioè ad esempio dei padri e delle madri di famiglia che lavorano per portare il pane a casa e crescono con amore i loro figli. “Non si possono fare strategie o piani pastorali per produrre la santità! Due le falsificazioni della santità che per il Papa possono affacciarsi. Si tratta di due eresie dei primi secoli, pelagianesimo e gnosticismo, che possono ancora sedurre il cuore dei cristiani. Da una parte per il pelagianesimo Cristo sarebbe venuto per dare il buon esempio, la natura umana non sarebbe ferita dal peccato e quindi tutto dipende dallo sforzo umano. Invece è il lavoro della grazia a trasformarci in modo progressivo. L’altro rischio è lo gnosticismo quando si concepisce la fede come cammino di conoscenza di verità. L’Esortazione Apostolica di Papa Bergoglio avverte uno spirito gnostico che può insinuarsi oggi nella vita della Chiesa ogni volta che si vuole in qualche modo prescindere dalle fattezze concrete e gratuite con cui opera la grazia, e si prende la via dell’astrazione che procede disincarnando il Mistero. Ma se il Cristianesimo viene ridotto a una serie di messaggi, slogan, cinguettii e di idee, fossero pure l’idea della grazia o l’idea di Cristo, a prescindere però dal suo operare reale, allora inevitabilmente la missione della Chiesa si riduce ad una propaganda, ad un “marketing”, cioè alla ricerca di metodi per diffondere quelle idee e convincere altri a sostenerle. Papa Francesco non vuole fare battaglie culturali ma chiede che sia il Signore a liberare dalle forme di gnosticismo e pelagianesimo, a esorcizzare il Suo Popolo. Il terzo e quarto capitol presentano la “carta di identità” del cristiano, le Beatitudini. Soprattutto riguardo alla misericordia, al numero 98 la Gaudete et Exsultate dà l’idea, in maniera molto concreta, di che cosa questo significhi e in qualche modo mostra il discrimine tra l’essere cristiani e il non esserlo: “quando incontro una persona che dorme alle intemperie, in una notte fredda, posso considerarlo un imprevisto fastidioso o riconoscere in lui un essere umano con la mia stessa dignità, come me infinitamente amato dal Padre”. Nel quinto ed ultimo capitolo del documento, il Vescovo di Roma parla del demonio (in tv ne viene negata l’esistenza!) non come un mito ma come un essere personale che avvelena con odio e vizi (anche sui “social” stracolmi di ogni impudicizia). La strada della santità, poi, non va intrapresa da soli, ma “dentro una trama di relazioni interpersonali che si stabiliscono nella comunità cristiana”. Insomma “il santo è capace di vivere con gioia e senso dell’umorismo”, afferma Papa Francesco in un passo dell’Esortazione Apostolica, ricordando che “il cristiano, senza perdere il realismo, illumina gli altri con uno spirito positivo e ricco di speranza perché la fede è «gioia nello Spirito Santo» (Rm 14,17)”. Il malumore non è santità. “Ordinariamente – osserva il Papa – la gioia cristiana è accompagnata dal senso dell’umorismo, così evidente, ad esempio, in San Tommaso Moro, in San Vincenzo de Paoli o in San Filippo Neri. Il malumore non è un segno di santità: «caccia la malinconia dal tuo cuore» (Ecclesiaste 11,10). È così tanto quello che riceviamo dal Signore «perché possiamo goderne» (1Tm 6,17) che a volte la tristezza è legata all’ingratitudine, con lo stare talmente chiusi in sé stessi da diventare incapaci di riconoscere i doni di Dio”. Francesco raccomanda, in particolare, di recitare la preghiera attribuita a San Tommaso Moro: «Dammi, Signore, una buona digestione, e anche qualcosa da digerire. Dammi la salute del corpo, con il buon umore necessario per mantenerla. Dammi, Signore, un’anima santa che sappia far tesoro di ciò che è buono e puro, e non si spaventi davanti al peccato, ma piuttosto trovi il modo di rimettere le cose a posto. Dammi un’anima che non conosca la noia, i brontolamenti, i sospiri e i lamenti, e non permettere che mi crucci eccessivamente per quella cosa tanto ingombrante che si chiama “io”. Dammi, Signore, il senso dell’umorismo. Fammi la grazia di capire gli scherzi, perché abbia nella vita un po’ di gioia e possa comunicarla agli altri. Così sia». Uscire dal guscio per la nostra gioia cristiana contagiosa. “Se lasciamo che il Signore ci faccia uscire dal nostro guscio e ci cambi la vita – scrive il Papa – allora potremo realizzare ciò che chiedeva San Paolo: «Siate sempre lieti nel Signore, ve lo ripeto: siate lieti» (Fil 4,4). Ci sono momenti duri, tempi di croce ma niente può distruggere la gioia soprannaturale che «si adatta e si trasforma, e sempre rimane almeno come uno spiraglio di luce che nasce dalla certezza personale di essere infinitamente amato, al di là di tutto». È una sicurezza interiore, una serenità piena di speranza che offre una soddisfazione spirituale incomprensibile secondo i criteri mondani”. Dio ci vuole positivi, non complicati. Francesco ricorda una delle sue citazioni preferite del Siracide, l’amore paterno di Dio che ci invita: «Figlio, trattati bene. Non privarti di un giorno felice» (Sir 14,11.14). Il Signore “ci vuole positivi, grati e non troppo complicati: «Nel giorno lieto sta’ allegro. Dio ha creato gli esseri umani retti, ma essi vanno in cerca di infinite complicazioni» (Ecclesiaste 7,14.29). In ogni situazione, occorre mantenere uno spirito flessibile, e fare come San Paolo: «Ho imparato a bastare a me stesso in ogni occasione» (Fil 4,11). È quello che viveva San Francesco d’Assisi, capace di commuoversi di gratitudine davanti a un pezzo di pane duro, o di lodare felice Dio solo per la brezza che accarezzava il suo volto”. Una gioia che nasce dalla fraternità. Papa Bergoglio non parla della “gioia consumista e individualista così presente in alcune esperienze culturali di oggi. Il consumismo infatti non fa che appesantire il cuore; può offrire piaceri occasionali e passeggeri, ma non gioia”. Anzi, può scatenare guerre, conflitti, divisioni, con un semplice acquisto! Il Vescovo di Roma si riferisce invece “a quella gioia che si vive in comunione, che si condivide e si partecipa, perché «si è più beati nel dare che nel ricevere» (Atti 20,35) e «Dio ama chi dona con gioia» (2Cor 9,7). L’amore fraterno moltiplica la nostra capacità di gioia, poiché ci rende capaci di gioire del bene degli altri”. Occorre chiedere la grazia. “Il senso dell’umorismo è una grazia che io chiedo tutti i giorni – rivela il Papa nel Novembre 2016 – perché il senso dell’umorismo ti solleva, ti fa vedere il provvisorio della vita e ti fa prendere le cose con uno spirito di anima redenta. È un atteggiamento umano, ma è il più vicino alla grazia di Dio. Io – racconta il Papa – ho conosciuto un prete, un grande sacerdote, un grande pastore, per citarne uno, che aveva un senso dell’umorismo grande, ma faceva tanto bene anche con quello, perché relativizzava le cose: “L’Assoluto è Dio, ma questo si arrangia, stai tranquillo”. Ma senza dirlo così, sapeva farlo sentire, con il senso dell’umorismo. E di lui si diceva: ma questo sa ridere degli altri, di se stesso, anche della propria ombra”. Anche Benedetto XVI, il 5 Agosto 2006, parla dell’importanza dell’umorismo, del “saper vedere anche l’aspetto divertente della vita e la sua dimensione gioiosa e non prendere tutto così tragicamente. Questo lo trovava un aspetto molto importante anche per il suo ministero. Benedetto nell’occasione cita lo scrittore inglese Gilbert K. Chesterton che, con una battuta, spiega che gli Angeli possono volare “perché si prendono alla leggera”. Perché “non si prendono troppo sul serio – aggiunge Benedetto XVI – e noi forse potremmo anche volare un po’ di più, se non ci dessimo così tanta importanza”. È proprio lo spirito della gioia che Papa Francesco sceglie di mettere in apertura della sua nuova Esortazione Apostolica. Il titolo Gaudete et Exsultate, Rallegratevi ed Esultate, ripete le parole che Gesù rivolge “a coloro che sono perseguitati o umiliati per causa sua”. Nei cinque capitoli e nelle 44 pagine del documento, Papa Bergoglio segue il filo del suo magistero più sentito, la Chiesa prossima alla “carne di Cristo sofferente”. I 177 paragrafi non sono, avverte subito il Santo Padre, “un trattato sulla santità con tante definizioni e distinzioni, ma un modo per far risuonare ancora una volta la chiamata alla santità”, indicando “i suoi rischi, le sue sfide, le sue opportunità” (n. 2). Prima di mostrare cosa fare per diventare santi, Francesco si sofferma nel primo capitolo sulla “chiamata alla santità” e rassicura: “c’è una via di perfezione per ognuno e non ha senso scoraggiarsi contemplando modelli di santità che appaiono irraggiungibili” o cercando “di imitare qualcosa che non è stato pensato” per noi (n. 11). “I santi che sono già al cospetto di Dio” ci “incoraggiano e ci accompagnano” (n. 4). Ma la santità cui Dio chiama a crescere è quella dei “piccoli gesti” (n. 16) quotidiani, tante volte testimoniati “da quelli che vivono vicino a noi”, la “classe media della santità” (n. 7). Nel secondo capitolo, Papa Bergoglio stigmatizza quelli che definisce “due sottili nemici della santità”, già più volte oggetto di riflessione tra l’altro nelle Messe a Santa Marta, nell’Evangelii Gaudium come pure nel recente documento della Dottrina della Fede “Placuit Deo”. Si tratta dello “gnosticismo” e del “pelagianesimo”, derive della fede cristiana vecchie di secoli eppure, sostiene il Vescovo di Roma, di “allarmante attualità” (n. 35). Lo gnosticismo, osserva, è un’autocelebrazione di “una mente senza Dio e senza carne”. Si tratta di una “vanitosa superficialità, una “logica fredda che pretende di addomesticare il mistero di Dio e della sua grazia” e così facendo arriva a preferire, come insegna in una Messa a Santa Marta, “un Dio senza Cristo, un Cristo senza Chiesa, una Chiesa senza popolo” (nn. 37-39). Il neo-pelagianesimo è, secondo Papa Francesco, un altro errore generato dallo gnosticismo. A essere oggetto di adorazione qui non è più la mente umana ma lo “sforzo personale”, una “volontà senza umiltà” che si sente superiore agli altri perché osserva “determinate norme” o è fedele “a un certo stile cattolico” (n. 49). “L’ossessione per la legge” o “l’ostentazione della cura della liturgia, della dottrina e del prestigio della Chiesa” sono per Papa Bergoglio, fra gli altri, alcuni tratti tipici dei cristiani tentati da questa eresia di ritorno (n. 57). Il Vescovo di Roma ricorda invece che “è sempre la grazia divina a superare le capacità dell’intelligenza e le forze della volontà dell’uomo” (n. 54). Talvolta, constata, “complichiamo il Vangelo e diventiamo schiavi di uno schema” (n. 59). Sono otto le strade di santità. Al di là di tutte “le teorie su cosa sia la santità”, ci sono le Beatitudini. Francesco le pone al centro del terzo capitolo, affermando che con questo discorso “Gesù ha spiegato con tutta semplicità che cos’è essere santi” (n. 63). Il Papa le passa in rassegna una alla volta. Dalla povertà di cuore, che vuol dire anche austerità di vita (n. 70), al “reagire con umile mitezza” in un mondo “dove si litiga ovunque (n. 74). Dal “coraggio” di lasciarsi “trafiggere” dal dolore altrui e averne “compassione”, mentre il “mondano ignora e guarda dall’altra parte” (nn. 75-76), al “cercare con fame e sete la giustizia”, mentre le “combriccole della corruzione” si spartiscono la “torta della vita” (nn. 78-79). Dal “guardare e agire con misericordia”, che vuol dire aiutare gli altri” e “anche perdonare” (nn. 81-82), al “mantenere un cuore pulito da tutto ciò che sporca l’amore” verso Dio e il prossimo (n. 86). E, quindi, dal “seminare pace” e “amicizia sociale” con “serenità, creatività, sensibilità e destrezza”, consapevoli della difficoltà di gettare ponti tra persone diverse (nn. 88.-89), all’accettare anche le persecuzioni, perché oggi la coerenza alle Beatitudini “può essere cosa malvista, sospetta, ridicolizzata” e, tuttavia, non si può aspettare, per vivere il Vangelo, che tutto attorno a noi sia favorevole” (n. 91). Una di queste Beatitudini, “Beati i misericordiosi”, contiene per Papa Francesco “la grande regola di comportamento” dei cristiani, quella descritta da San Matteo Apostolo nel capitolo 25 del “Giudizio finale”. Questa pagina, ribadisce il Vescovo di Roma, dimostra che “essere santi non significa lustrarsi gli occhi in una presunta estasi” (n. 96), ma vivere Dio attraverso l’amore agli ultimi. Purtroppo, osserva il Papa, ci sono “ideologie che mutilano il Vangelo”. Da un parte i cristiani senza rapporto con Dio, “che trasformano il cristianesimo in una sorta di Ong” (n. 100); dall’altra quelli che “diffidano dell’impegno sociale degli altri”, come fosse superficiale, secolarizzato, “comunista o populista”, o lo “relativizzano” in nome di un’etica. Qui il Papa riafferma per ogni categoria umana di deboli o indifesi che la “difesa deve essere ferma e appassionata” (n. 101). Pure “l’accoglienza dei migranti” che alcuni cattolici, osserva Francesco, vorrebbero meno importante della bioetica, “è un dovere di ogni cristiano, perché in ogni forestiero c’è Cristo, e non si tratta dell’invenzione di un Papa o di un delirio passeggero” (n. 103). Dunque il “godersi la vita”, come invita a fare il “consumismo edonista” che sposta le portaerei e i missili distruttivi delle guerre, è all’opposto dal desiderare di dare gloria a Dio, che chiede di “spendersi” nelle opere di misericordia (nn. 107-108). Francesco poi passa in rassegna nel quarto capitolo le caratteristiche indispensabili per comprendere lo stile di vita della santità: “sopportazione, pazienza e mitezza, gioia e senso dell’umorismo, audacia e fervore, la strada della santità come cammino vissuto in comunità e in preghiera costante, che arriva alla contemplazione, non intesa come un’evasione dal mondo” (nn. 110-152). E poiché, prosegue il Papa, “la vita cristiana è una lotta permanente contro la mentalità mondana che ci intontisce e ci rende mediocri” (n. 159), nel quinto capitolo Francesco invita al “combattimento contro il Maligno” (la cui esistenza viene negata da molti in tv e declinata al rango di malattia mentale di natura psichiatrica) che, scrive il Papa, “non è un mito ma un essere personale che ci tormenta (nn. 160-161). Le sue insidie vanno osteggiate con la vigilanza, utilizzando le potenti armi della preghiera, dei Sacramenti e con una vita intessuta di opere di carità (n. 162). Importante è pure il discernimento, particolarmente in un’epoca che offre enormi possibilità di azione e distrazione – dai viaggi, al tempo libero, all’uso smodato della tecnologia – che non lasciano spazi vuoti in cui risuoni la voce di Dio” (n. 29). Terreno prelibato di predazione dei più piccoli e indifesi per il Maligno. Contro il quale Papa Francesco chiede cure speciali per i giovani spesso “esposti a uno zapping costante in mondi virtuali lontani dalla realtà (n. 167). Non si fa discernimento per scoprire cos’altro possiamo ricavare da questa vita, ma per riconoscere come possiamo compiere meglio la missione che ci è stata affidata nel Battesimo” (n. 174). Scrive Papa Bergoglio, in San Pietro, a Roma, il 19 Marzo 2018, Solennità di San Giuseppe, dell’Anno del Signore 2018, sesto del suo Pontificato: “1. «Rallegratevi ed esultate» (Mt 5,12), dice Gesù a coloro che sono perseguitati o umiliati per causa sua. Il Signore chiede tutto, e quello che offre è la vera vita, la felicità per la quale siamo stati creati. Egli ci vuole santi e non si aspetta che ci accontentiamo di un’esistenza mediocre, annacquata, inconsistente. In realtà, fin dalle prime pagine della Bibbia è presente, in diversi modi, la chiamata alla santità. Così il Signore la proponeva ad Abramo: «Cammina davanti a me e sii integro» (Gen 17,1). 2. Non ci si deve aspettare qui un trattato sulla santità, con tante definizioni e distinzioni che potrebbero arricchire questo importante tema, o con analisi che si potrebbero fare circa i mezzi di santificazione. Il mio umile obiettivo è far risuonare ancora una volta la chiamata alla santità, cercando di incarnarla nel contesto attuale, con i suoi rischi, le sue sfide e le sue opportunità. Perché il Signore ha scelto ciascuno di noi «per essere santi e immacolati di fronte a Lui nella carità» (Ef 1,4). Capitolo Primo. La chiamata alla santità. I santi che ci incoraggiano e ci accompagnano. 3. Nella Lettera agli Ebrei si menzionano diversi testimoni che ci incoraggiano a «[correre] con perseveranza nella corsa che ci sta davanti» (12,1). Lì si parla di Abramo, di Sara, di Mosè, di Gedeone e di altri ancora (11,1-12,3) e soprattutto siamo invitati a riconoscere che siamo «circondati da una moltitudine di testimoni» (12,1) che ci spronano a non fermarci lungo la strada, ci stimolano a continuare a camminare verso la meta. E tra di loro può esserci la nostra stessa madre, una nonna o altre persone vicine (2Tm 1,5). Forse la loro vita non è stata sempre perfetta, però, anche in mezzo a imperfezioni e cadute, hanno continuato ad andare avanti e sono piaciute al Signore. 4. I santi che già sono giunti alla presenza di Dio mantengono con noi legami d’amore e di comunione. Lo attesta il libro dell’Apocalisse quando parla dei martiri che intercedono: «Vidi sotto l’altare le anime di coloro che furono immolati a causa della parola di Dio e della testimonianza che gli avevano reso. E gridarono a gran voce: “Fino a quando, Sovrano, tu che sei santo e veritiero, non farai giustizia”» (6,9-10). Possiamo dire che «siamo circondati, condotti e guidati dagli amici di Dio. […] Non devo portare da solo ciò che in realtà non potrei mai portare da solo. La schiera dei santi di Dio mi protegge, mi sostiene e mi porta». 5. Nei processi di beatificazione e canonizzazione si prendono in considerazione i segni di eroicità nell’esercizio delle virtù, il sacrificio della vita nel martirio e anche i casi nei quali si sia verificata un’offerta della propria vita per gli altri, mantenuta fino alla morte. Questa donazione esprime un’imitazione esemplare di Cristo, ed è degna dell’ammirazione dei fedeli. Ricordiamo, ad esempio, la beata Maria Gabriella Sagheddu, che ha offerto la sua vita per l’unità dei cristiani. I santi della porta accanto. 6. Non pensiamo solo a quelli già beatificati o canonizzati. Lo Spirito Santo riversa santità dappertutto nel santo popolo fedele di Dio, perché «Dio volle santificare e salvare gli uomini non individualmente e senza alcun legame tra loro, ma volle costituire di loro un popolo, che lo riconoscesse secondo la verità e lo servisse nella santità». Il Signore, nella storia della salvezza, ha salvato un popolo. Non esiste piena identità senza appartenenza a un popolo. Perciò nessuno si salva da solo, come individuo isolato, ma Dio ci attrae tenendo conto della complessa trama di relazioni interpersonali che si stabiliscono nella comunità umana: Dio ha voluto entrare in una dinamica popolare, nella dinamica di un popolo. 7. Mi piace vedere la santità nel popolo di Dio paziente: nei genitori che crescono con tanto amore i loro figli, negli uomini e nelle donne che lavorano per portare il pane a casa, nei malati, nelle religiose anziane che continuano a sorridere. In questa costanza per andare avanti giorno dopo giorno vedo la santità della Chiesa militante. Questa è tante volte la santità “della porta accanto”, di quelli che vivono vicino a noi e sono un riflesso della presenza di Dio, o, per usare un’altra espressione, “la classe media della santità”. 8. Lasciamoci stimolare dai segni di santità che il Signore ci presenta attraverso i più umili membri di quel popolo che «partecipa pure dell’ufficio profetico di Cristo col diffondere dovunque la viva testimonianza di Lui, soprattutto per mezzo di una vita di fede e di carità». Pensiamo, come ci suggerisce santa Teresa Benedetta della Croce, che mediante molti di loro si costruisce la vera storia: «Nella notte più oscura sorgono i più grandi profeti e i santi. Tuttavia, la corrente vivificante della vita mistica rimane invisibile. Sicuramente gli avvenimenti decisivi della storia del mondo sono stati essenzialmente influenzati da anime sulle quali nulla viene detto nei libri di storia. E quali siano le anime che dobbiamo ringraziare per gli avvenimenti decisivi della nostra vita personale, è qualcosa che sapremo soltanto nel giorno in cui tutto ciò che è nascosto sarà svelato». 9. La santità è il volto più bello della Chiesa. Ma anche fuori della Chiesa Cattolica e in ambiti molto differenti, lo Spirito suscita «segni della sua presenza, che aiutano gli stessi discepoli di Cristo». D’altra parte, san Giovanni Paolo II ci ha ricordato che «la testimonianza resa a Cristo sino allo spargimento del sangue è divenuta patrimonio comune di cattolici, ortodossi, anglicani e protestanti». Nella bella commemorazione ecumenica che egli volle celebrare al Colosseo durante il Giubileo del 2000, sostenne che i martiri sono «un’eredità che parla con una voce più alta dei fattori di divisione». Il Signore chiama. 10. Tutto questo è importante. Tuttavia, quello che vorrei ricordare con questa Esortazione è soprattutto la chiamata alla santità che il Signore fa a ciascuno di noi, quella chiamata che rivolge anche a te: «Siate santi, perché io sono santo» (Lv 11,44; 1 Pt 1,16). Il Concilio Vaticano II lo ha messo in risalto con forza: «Muniti di salutari mezzi di una tale abbondanza e di una tale grandezza, tutti i fedeli di ogni stato e condizione sono chiamati dal Signore, ognuno per la sua via, a una santità la cui perfezione è quella stessa del Padre celeste». 11. «Ognuno per la sua via», dice il Concilio. Dunque, non è il caso di scoraggiarsi quando si contemplano modelli di santità che appaiono irraggiungibili. Ci sono testimonianze che sono utili per stimolarci e motivarci, ma non perché cerchiamo di copiarle, in quanto ciò potrebbe perfino allontanarci dalla via unica e specifica che il Signore ha in serbo per noi. Quello che conta è che ciascun credente discerna la propria strada e faccia emergere il meglio di sé, quanto di così personale Dio ha posto in lui (1Cor 12,7) e non che si esaurisca cercando di imitare qualcosa che non è stato pensato per lui. Tutti siamo chiamati ad essere testimoni, però esistono molte forme esistenziali di testimonianza. Di fatto, quando il grande mistico san Giovanni della Croce scriveva il suo Cantico spirituale, preferiva evitare regole fisse per tutti e spiegava che i suoi versi erano scritti perché ciascuno se ne giovasse «a modo suo». Perché la vita divina si comunica ad alcuni in un modo e ad altri in un altro. 12. Tra le diverse forme, voglio sottolineare che anche il “genio femminile” si manifesta in stili femminili di santità, indispensabili per riflettere la santità di Dio in questo mondo. E proprio anche in epoche nelle quali le donne furono maggiormente escluse, lo Spirito Santo ha suscitato sante il cui fascino ha provocato nuovi dinamismi spirituali e importanti riforme nella Chiesa. Possiamo menzionare santa Ildegarda di Bingen, santa Brigida, santa Caterina da Siena, santa Teresa d’Avila o Santa Teresa di Lisieux. Ma mi preme ricordare tante donne sconosciute o dimenticate le quali, ciascuna a modo suo, hanno sostenuto e trasformato famiglie e comunità con la forza della loro testimonianza. 13. Questo dovrebbe entusiasmare e incoraggiare ciascuno a dare tutto sé stesso, per crescere verso quel progetto unico e irripetibile che Dio ha voluto per lui o per lei da tutta l’eternità: «Prima di formarti nel grembo materno, ti ho conosciuto, prima che tu uscissi alla luce, ti ho consacrato» (Ger 1,5). Anche per te. 14. Per essere santi non è necessario essere vescovi, sacerdoti, religiose o religiosi. Molte volte abbiamo la tentazione di pensare che la santità sia riservata a coloro che hanno la possibilità di mantenere le distanze dalle occupazioni ordinarie, per dedicare molto tempo alla preghiera. Non è così. Tutti siamo chiamati ad essere santi vivendo con amore e offrendo ciascuno la propria testimonianza nelle occupazioni di ogni giorno, lì dove si trova. Sei una consacrata o un consacrato? Sii santo vivendo con gioia la tua donazione. Sei sposato? Sii santo amando e prendendoti cura di tuo marito o di tua moglie, come Cristo ha fatto con la Chiesa. Sei un lavoratore? Sii santo compiendo con onestà e competenza il tuo lavoro al servizio dei fratelli. Sei genitore o nonna o nonno? Sii santo insegnando con pazienza ai bambini a seguire Gesù. Hai autorità? Sii santo lottando a favore del bene comune e rinunciando ai tuoi interessi personali. 15. Lascia che la grazia del tuo Battesimo fruttifichi in un cammino di santità. Lascia che tutto sia aperto a Dio e a tal fine scegli Lui, scegli Dio sempre di nuovo. Non ti scoraggiare, perché hai la forza dello Spirito Santo affinché sia possibile, e la santità, in fondo, è il frutto dello Spirito Santo nella tua vita (Gal 5,22-23). Quando senti la tentazione di invischiarti nella tua debolezza, alza gli occhi al Crocifisso e digli: “Signore, io sono un poveretto, ma tu puoi compiere il miracolo di rendermi un poco migliore”. Nella Chiesa, santa e composta da peccatori, troverai tutto ciò di cui hai bisogno per crescere verso la santità. Il Signore l’ha colmata di doni con la Parola, i Sacramenti, i santuari, la vita delle comunità, la testimonianza dei santi, e una multiforme bellezza che procede dall’amore del Signore, «come una sposa si adorna di gioielli» (Is 61,10). 16. Questa santità a cui il Signore ti chiama andrà crescendo mediante piccoli gesti. Per esempio: una signora va al mercato a fare la spesa, incontra una vicina e inizia a parlare, e vengono le critiche. Ma questa donna dice dentro di sé: “No, non parlerò male di nessuno”. Questo è un passo verso la santità. Poi, a casa, suo figlio le chiede di parlare delle sue fantasie e, anche se è stanca, si siede accanto a lui e ascolta con pazienza e affetto. Ecco un’altra offerta che santifica. Quindi sperimenta un momento di angoscia, ma ricorda l’amore della Vergine Maria, prende il rosario e prega con fede. Questa è un’altra via di santità. Poi esce per strada, incontra un povero e si ferma a conversare con lui con affetto. Anche questo è un passo avanti. 17. A volte la vita presenta sfide più grandi e attraverso queste il Signore ci invita a nuove conversioni che permettono alla sua grazia di manifestarsi meglio nella nostra esistenza «allo scopo di farci partecipi della sua santità» (Eb 12,10). Altre volte si tratta soltanto di trovare un modo più perfetto di vivere quello che già facciamo: «Ci sono delle ispirazioni che tendono soltanto ad una straordinaria perfezione degli esercizi ordinari della vita cristiana». Quando il Cardinale Francesco Saverio Nguyên Van Thuân era in carcere, rinunciò a consumarsi aspettando la liberazione. La sua scelta fu: «vivo il momento presente, colmandolo di amore»; e il modo con il quale si concretizzava questo era: «afferro le occasioni che si presentano ogni giorno, per compiere azioni ordinarie in un modo straordinario». 18. Così, sotto l’impulso della grazia divina, con tanti gesti andiamo costruendo quella figura di santità che Dio ha voluto per noi, ma non come esseri autosufficienti bensì «come buoni amministratori della multiforme grazia di Dio» (1Pt 4,10). Bene hanno insegnato i Vescovi della Nuova Zelanda che è possibile amare con l’amore incondizionato del Signore perché il Risorto condivide la sua vita potente con le nostre fragili vite: «Il suo amore non ha limiti e una volta donato non si è mai tirato indietro. E’ stato incondizionato ed è rimasto fedele. Amare così non è facile perché molte volte siamo tanto deboli. Però, proprio affinché possiamo amare come Lui ci ha amato, Cristo condivide la sua stessa vita risorta con noi. In questo modo, la nostra vita dimostra la sua potenza in azione, anche in mezzo alla debolezza umana». La tua missione in Cristo. 19. Per un cristiano non è possibile pensare alla propria missione sulla terra senza concepirla come un cammino di santità, perché «questa infatti è volontà di Dio, la vostra santificazione» (1Ts 4,3). Ogni santo è una missione; è un progetto del Padre per riflettere e incarnare, in un momento determinato della storia, un aspetto del Vangelo. 20. Tale missione trova pienezza di senso in Cristo e si può comprendere solo a partire da Lui. In fondo, la santità è vivere in unione con Lui i misteri della sua vita. Consiste nell’unirsi alla morte e risurrezione del Signore in modo unico e personale, nel morire e risorgere continuamente con Lui. Ma può anche implicare di riprodurre nella propria esistenza diversi aspetti della vita terrena di Gesù: la vita nascosta, la vita comunitaria, la vicinanza agli ultimi, la povertà e altre manifestazioni del suo donarsi per amore. La contemplazione di questi misteri, come proponeva sant’Ignazio di Loyola, ci orienta a renderli carne nelle nostre scelte e nei nostri atteggiamenti. Perché «tutto nella vita di Gesù è segno del suo mistero», «tutta la vita di Cristo è Rivelazione del Padre», «tutta la vita di Cristo è mistero di Redenzione», «tutta la vita di Cristo è mistero di ricapitolazione», e «tutto ciò che Cristo ha vissuto fa sì che noi possiamo viverlo in Lui e che Egli lo viva in noi». 21. Il disegno del Padre è Cristo, e noi in Lui. In definitiva, è Cristo che ama in noi, perché «la santità non è altro che la carità pienamente vissuta». Pertanto, «la misura della santità è data dalla statura che Cristo raggiunge in noi, da quanto, con la forza dello Spirito Santo, modelliamo tutta la nostra vita sulla sua». Così, ciascun santo è un messaggio che lo Spirito Santo trae dalla ricchezza di Gesù Cristo e dona al suo popolo. 22. Per riconoscere quale sia quella parola che il Signore vuole dire mediante un santo, non conviene soffermarsi sui particolari, perché lì possono esserci anche errori e cadute. Non tutto quello che dice un santo è pienamente fedele al Vangelo, non tutto quello che fa è autentico e perfetto. Ciò che bisogna contemplare è l’insieme della sua vita, il suo intero cammino di santificazione, quella figura che riflette qualcosa di Gesù Cristo e che emerge quando si riesce a comporre il senso della totalità della sua persona. 23. Questo è un forte richiamo per tutti noi. Anche tu hai bisogno di concepire la totalità della tua vita come una missione. Prova a farlo ascoltando Dio nella preghiera e riconoscendo i segni che Egli ti offre. Chiedi sempre allo Spirito che cosa Gesù si attende da te in ogni momento della tua esistenza e in ogni scelta che devi fare, per discernere il posto che ciò occupa nella tua missione. E permettigli di plasmare in te quel mistero personale che possa riflettere Gesù Cristo nel mondo di oggi. 24. Voglia il Cielo che tu possa riconoscere qual è quella parola, quel messaggio di Gesù che Dio desidera dire al mondo con la tua vita. Lasciati trasformare, lasciati rinnovare dallo Spirito, affinché ciò sia possibile, e così la tua preziosa missione non andrà perduta. Il Signore la porterà a compimento anche in mezzo ai tuoi errori e ai tuoi momenti negativi, purché tu non abbandoni la via dell’amore e rimanga sempre aperto alla sua azione soprannaturale che purifica e illumina. L’attività che santifica. 25. Poiché non si può capire Cristo senza il Regno che Egli è venuto a portare, la tua stessa missione è inseparabile dalla costruzione del Regno: «Cercate innanzitutto il Regno di Dio e la sua giustizia» (Mt 6,33). La tua identificazione con Cristo e i suoi desideri implica l’impegno a costruire, con Lui, questo Regno di amore, di giustizia e di pace per tutti. Cristo stesso vuole viverlo con te, in tutti gli sforzi e le rinunce necessari, e anche nelle gioie e nella fecondità che ti potrà offrire. Pertanto non ti santificherai senza consegnarti corpo e anima per dare il meglio di te in tale impegno. 26. Non è sano amare il silenzio ed evitare l’incontro con l’altro, desiderare il riposo e respingere l’attività, ricercare la preghiera e sottovalutare il servizio. Tutto può essere accettato e integrato come parte della propria esistenza in questo mondo, ed entra a far parte del cammino di santificazione. Siamo chiamati a vivere la contemplazione anche in mezzo all’azione, e ci santifichiamo nell’esercizio responsabile e generoso della nostra missione. 27. Forse che lo Spirito Santo può inviarci a compiere una missione e nello stesso tempo chiederci di fuggire da essa, o che evitiamo di donarci totalmente per preservare la pace interiore? Tuttavia, a volte abbiamo la tentazione di relegare la dedizione pastorale e l’impegno nel mondo a un posto secondario, come se fossero “distrazioni” nel cammino della santificazione e della pace interiore. Si dimentica che «non è che la vita abbia una missione, ma che è missione». 28. Un impegno mosso dall’ansietà, dall’orgoglio, dalla necessità di apparire e di dominare, certamente non sarà santificante. La sfida è vivere la propria donazione in maniera tale che gli sforzi abbiano un senso evangelico e ci identifichino sempre più con Gesù Cristo. Da qui il fatto che si parli spesso, ad esempio, di una spiritualità del catechista, di una spiritualità del clero diocesano, di una spiritualità del lavoro. Per la stessa ragione, in Evangelii gaudium ho voluto concludere con una spiritualità della missione, in Laudato si’ con una spiritualità ecologica e in Amoris laetitia, con una spiritualità della vita familiare. 29. Questo non implica disprezzare i momenti di quiete, solitudine e silenzio davanti a Dio. Al contrario. Perché le continue novità degli strumenti tecnologici, l’attrattiva dei viaggi, le innumerevoli offerte di consumo, a volte non lasciano spazi vuoti in cui risuoni la voce di Dio. Tutto si riempie di parole, di piaceri epidermici e di rumori ad una velocità sempre crescente. Lì non regna la gioia ma l’insoddisfazione di chi non sa per che cosa vive. Come dunque non riconoscere che abbiamo bisogno di fermare questa corsa febbrile per recuperare uno spazio personale, a volte doloroso ma sempre fecondo, in cui si intavola il dialogo sincero con Dio? In qualche momento dovremo guardare in faccia la verità di noi stessi, per lasciarla invadere dal Signore, e non sempre si ottiene questo se uno «non viene a trovarsi sull’orlo dell’abisso, della tentazione più grave, sulla scogliera dell’abbandono, sulla cima solitaria dove si ha l’impressione di rimanere totalmente soli». In questo modo troviamo le grandi motivazioni che ci spingono a vivere fino in fondo i nostri compiti. 30. Gli stessi strumenti di svago che invadono la vita attuale ci portano anche ad assolutizzare il tempo libero, nel quale possiamo utilizzare senza limiti quei dispositivi che ci offrono divertimento e piaceri effimeri. Come conseguenza, è la propria missione che ne risente, è l’impegno che si indebolisce, è il servizio generoso e disponibile che inizia a ridursi. Questo snatura l’esperienza spirituale. Può essere sano un fervore spirituale che conviva con l’accidia nell’azione evangelizzatrice o nel servizio agli altri? 31. Ci occorre uno spirito di santità che impregni tanto la solitudine quanto il servizio, tanto l’intimità quanto l’impegno evangelizzatore, così che ogni istante sia espressione di amore donato sotto lo sguardo del Signore. In questo modo, tutti i momenti saranno scalini nella nostra via di santificazione. Più vivi, più umani. 32. Non avere paura della santità. Non ti toglierà forze, vita e gioia. Tutto il contrario, perché arriverai ad essere quello che il Padre ha pensato quando ti ha creato e sarai fedele al tuo stesso essere. Dipendere da Lui ci libera dalle schiavitù e ci porta a riconoscere la nostra dignità. Questa realtà si riflette in santa Giuseppina Bakhita, che fu «resa schiava e venduta come tale alla tenera età di sette anni, soffrì molto nelle mani di padroni crudeli. Tuttavia comprese la verità profonda che Dio, e non l’uomo, è il vero padrone di ogni essere umano, di ogni vita umana. Questa esperienza divenne fonte di grande saggezza per questa umile figlia d’Africa». 33. Ogni cristiano, nella misura in cui si santifica, diventa più fecondo per il mondo. I Vescovi dell’Africa Occidentale ci hanno insegnato: «Siamo chiamati, nello spirito della nuova evangelizzazione, ad essere evangelizzati e a evangelizzare mediante la promozione di tutti i battezzati, affinché assumiate i vostri ruoli come sale della terra e luce del mondo dovunque vi troviate». 34. Non avere paura di puntare più in alto, di lasciarti amare e liberare da Dio. Non avere paura di lasciarti guidare dallo Spirito Santo. La santità non ti rende meno umano, perché è l’incontro della tua debolezza con la forza della grazia. In fondo, come diceva León Bloy, nella vita «non c’è che una tristezza, […] quella di non essere santi». Capitolo Secondo. Due sottili nemici della santità. 35. In questo quadro, desidero richiamare l’attenzione su due falsificazioni della santità che potrebbero farci sbagliare strada: lo gnosticismo e il pelagianesimo. Sono due eresie sorte nei primi secoli cristiani, ma che continuano ad avere un’allarmante attualità. Anche oggi i cuori di molti cristiani, forse senza esserne consapevoli, si lasciano sedurre da queste proposte ingannevoli. In esse si esprime un immanentismo antropocentrico travestito da verità cattolica. Vediamo queste due forme di sicurezza dottrinale o disciplinare che danno luogo «ad un elitarismo narcisista e autoritario dove, invece di evangelizzare, si analizzano e si classificano gli altri, e invece di facilitare l’accesso alla grazia si consumano le energie nel controllare. In entrambi i casi, né Gesù Cristo né gli altri interessano veramente». Lo gnosticismo attuale. 36. Lo gnosticismo suppone «una fede rinchiusa nel soggettivismo, dove interessa unicamente una determinata esperienza o una serie di ragionamenti e conoscenze che si ritiene possano confortare e illuminare, ma dove il soggetto in definitiva rimane chiuso nell’immanenza della sua propria ragione o dei suoi sentimenti». Una mente senza Dio e senza carne. 37. Grazie a Dio, lungo la storia della Chiesa è risultato molto chiaro che ciò che misura la perfezione delle persone è il loro grado di carità, non la quantità di dati e conoscenze che possono accumulare. Gli “gnostici” fanno confusione su questo punto e giudicano gli altri sulla base della verifica della loro capacità di comprendere la profondità di determinate dottrine. Concepiscono una mente senza incarnazione, incapace di toccare la carne sofferente di Cristo negli altri, ingessata in un’enciclopedia di astrazioni. Alla fine, disincarnando il mistero, preferiscono «un Dio senza Cristo, un Cristo senza Chiesa, una Chiesa senza popolo». 38. In definitiva, si tratta di una vanitosa superficialità: molto movimento alla superficie della mente, però non si muove né si commuove la profondità del pensiero. Tuttavia, riesce a soggiogare alcuni con un fascino ingannevole, perché l’equilibrio gnostico è formale e presume di essere asettico, e può assumere l’aspetto di una certa armonia o di un ordine che ingloba tutto. 39. Facciamo però attenzione. Non mi riferisco ai razionalisti nemici della fede cristiana. Questo può accadere dentro la Chiesa, tanto tra i laici delle parrocchie quanto tra coloro che insegnano filosofia o teologia in centri di formazione. Perché è anche tipico degli gnostici credere che con le loro spiegazioni possono rendere perfettamente comprensibili tutta la fede e tutto il Vangelo. Assolutizzano le proprie teorie e obbligano gli altri a sottomettersi ai propri ragionamenti. Una cosa è un sano e umile uso della ragione per riflettere sull’insegnamento teologico e morale del Vangelo; altra cosa è pretendere di ridurre l’insegnamento di Gesù a una logica fredda e dura che cerca di dominare tutto. Una dottrina senza mister. 40. Lo gnosticismo è una delle peggiori ideologie, poiché, mentre esalta indebitamente la conoscenza o una determinata esperienza, considera che la propria visione della realtà sia la perfezione. In tal modo, forse senza accorgersene, questa ideologia si autoalimenta e diventa ancora più cieca. A volte diventa particolarmente ingannevole quando si traveste da spiritualità disincarnata. Infatti, lo gnosticismo «per sua propria natura vuole addomesticare il mistero», sia il mistero di Dio e della sua grazia, sia il mistero della vita degli altri. 41. Quando qualcuno ha risposte per tutte le domande, dimostra di trovarsi su una strada non buona ed è possibile che sia un falso profeta, che usa la religione a proprio vantaggio, al servizio delle proprie elucubrazioni psicologiche e mentali. Dio ci supera infinitamente, è sempre una sorpresa e non siamo noi a determinare in quale circostanza storica trovarlo, dal momento che non dipendono da noi il tempo e il luogo e la modalità dell’incontro. Chi vuole tutto chiaro e sicuro pretende di dominare la trascendenza di Dio. 42. Neppure si può pretendere di definire dove Dio non si trova, perché Egli è misteriosamente presente nella vita di ogni persona, nella vita di ciascuno così come Egli desidera, e non possiamo negarlo con le nostre presunte certezze. Anche qualora l’esistenza di qualcuno sia stata un disastro, anche quando lo vediamo distrutto dai vizi o dalle dipendenze, Dio è presente nella sua vita. Se ci lasciamo guidare dallo Spirito più che dai nostri ragionamenti, possiamo e dobbiamo cercare il Signore in ogni vita umana. Questo fa parte del mistero che le mentalità gnostiche finiscono per rifiutare, perché non lo possono controllare. I limiti della ragione. 43. Noi arriviamo a comprendere in maniera molto povera la verità che riceviamo dal Signore. E con difficoltà ancora maggiore riusciamo ad esprimerla. Perciò non possiamo pretendere che il nostro modo di intenderla ci autorizzi a esercitare un controllo stretto sulla vita degli altri. Voglio ricordare che nella Chiesa convivono legittimamente modi diversi di interpretare molti aspetti della dottrina e della vita cristiana che, nella loro varietà, «aiutano ad esplicitare meglio il ricchissimo tesoro della Parola». Certo, «a quanti sognano una dottrina monolitica difesa da tutti senza sfumature, ciò può sembrare un’imperfetta dispersione». Per l’appunto, alcune correnti gnostiche hanno disprezzato la semplicità così concreta del Vangelo e hanno tentato di sostituire il Dio trinitario e incarnato con una Unità superiore in cui scompariva la ricca molteplicità della nostra storia. 44. In realtà, la dottrina, o meglio, la nostra comprensione ed espressione di essa, «non è un sistema chiuso, privo di dinamiche capaci di generare domande, dubbi, interrogativi», e «le domande del nostro popolo, le sue pene, le sue battaglie, i suoi sogni, le sue lotte, le sue preoccupazioni, possiedono un valore ermeneutico che non possiamo ignorare se vogliamo prendere sul serio il principio dell’incarnazione. Le sue domande ci aiutano a domandarci, i suoi interrogativi ci interrogano». 45. Frequentemente si verifica una pericolosa confusione: credere che, poiché sappiamo qualcosa o possiamo spiegarlo con una certa logica, già siamo santi, perfetti, migliori della “massa ignorante”. San Giovanni Paolo II metteva in guardia quanti nella Chiesa hanno la possibilità di una formazione più elevata dalla tentazione di sviluppare «un certo sentimento di superiorità rispetto agli altri fedeli». In realtà, però, quello che crediamo di sapere dovrebbe sempre costituire una motivazione per meglio rispondere all’amore di Dio, perché «si impara per vivere: teologia e santità sono un binomio inscindibile». 46. Quando san Francesco d’Assisi vedeva che alcuni dei suoi discepoli insegnavano la dottrina, volle evitare la tentazione del gnosticismo. Quindi scrisse così a Sant’Antonio di Padova: «Ho piacere che tu insegni la sacra teologia ai frati, purché, in tale occupazione, tu non estingua lo spirito di orazione e di devozione». Egli riconosceva la tentazione di trasformare l’esperienza cristiana in un insieme di elucubrazioni mentali che finiscono per allontanarci dalla freschezza del Vangelo. San Bonaventura, da parte sua, avvertiva che la vera saggezza cristiana non deve separarsi dalla misericordia verso il prossimo: «La più grande saggezza che possa esistere consiste nel dispensare fruttuosamente ciò che si possiede, e che si è ricevuto proprio perché fosse dispensato. […] Per questo, come la misericordia è amica della saggezza, così l’avarizia le è nemica». «Vi sono attività che, unendosi alla contemplazione, non la impediscono, bensì la favoriscono, come le opere di misericordia e di pietà». Il Pelagianesimo attuale. 47. Lo gnosticismo ha dato luogo ad un’altra vecchia eresia, anch’essa oggi presente. Col passare del tempo, molti iniziarono a riconoscere che non è la conoscenza a renderci migliori o santi, ma la vita che conduciamo. Il problema è che questo degenerò sottilmente, in maniera tale che il medesimo errore degli gnostici semplicemente si trasformò, ma non venne superato. 48. Infatti, il potere che gli gnostici attribuivano all’intelligenza, alcuni cominciarono ad attribuirlo alla volontà umana, allo sforzo personale. Così sorsero i pelagiani e i semipelagiani. Non era più l’intelligenza ad occupare il posto del mistero e della grazia, ma la volontà. Si dimenticava che tutto «dipende [non] dalla volontà né dagli sforzi dell’uomo, ma da Dio che ha misericordia» (Rm9,16) e che Egli «ci ha amati per primo» (1Gv 4,19). Una volontà senza umiltà. 49. Quelli che rispondono a questa mentalità pelagiana o semipelagiana, benché parlino della grazia di Dio con discorsi edulcorati, «in definitiva fanno affidamento unicamente sulle proprie forze e si sentono superiori agli altri perché osservano determinate norme o perché sono irremovibilmente fedeli ad un certo stile cattolico». Quando alcuni di loro si rivolgono ai deboli dicendo che con la grazia di Dio tutto è possibile, in fondo sono soliti trasmettere l’idea che tutto si può fare con la volontà umana, come se essa fosse qualcosa di puro, perfetto, onnipotente, a cui si aggiunge la grazia. Si pretende di ignorare che «non tutti possono tutto» e che in questa vita le fragilità umane non sono guarite completamente e una volta per tutte dalla grazia. In qualsiasi caso, come insegnava sant’Agostino, Dio ti invita a fare quello che puoi e «a chiedere quello che non puoi»; o a dire umilmente al Signore: «Dammi quello che comandi e comandami quello che vuoi». 50. In ultima analisi, la mancanza di un riconoscimento sincero, sofferto e orante dei nostri limiti è ciò che impedisce alla grazia di agire meglio in noi, poiché non le lascia spazio per provocare quel bene possibile che si integra in un cammino sincero e reale di crescita. La grazia, proprio perché suppone la nostra natura, non ci rende di colpo superuomini. Pretenderlo sarebbe confidare troppo in noi stessi. In questo caso, dietro l’ortodossia, i nostri atteggiamenti possono non corrispondere a quello che affermiamo sulla necessità della grazia, e nei fatti finiamo per fidarci poco di essa. Infatti, se non riconosciamo la nostra realtà concreta e limitata, neppure potremo vedere i passi reali e possibili che il Signore ci chiede in ogni momento, dopo averci attratti e resi idonei col suo dono. La grazia agisce storicamente e, ordinariamente, ci prende e ci trasforma in modo progressivo. Perciò, se rifiutiamo questa modalità storica e progressiva, di fatto possiamo arrivare a negarla e bloccarla, anche se con le nostre parole la esaltiamo. 51. Quando Dio si rivolge ad Abramo gli dice: «Io sono Dio l’Onnipotente: cammina davanti a me e sii integro» (Gen 17,1). Per poter essere perfetti, come a Lui piace, abbiamo bisogno di vivere umilmente alla sua presenza, avvolti nella sua gloria; abbiamo bisogno di camminare in unione con Lui riconoscendo il suo amore costante nella nostra vita. Occorre abbandonare la paura di questa presenza che ci può fare solo bene. E’ il Padre che ci ha dato la vita e ci ama tanto. Una volta che lo accettiamo e smettiamo di pensare la nostra esistenza senza di Lui, scompare l’angoscia della solitudine (Sal 139,7). E se non poniamo più distanze tra noi e Dio e viviamo alla sua presenza, potremo permettergli di esaminare i nostri cuori per vedere se vanno per la retta via (Sal 139,23-24). Così conosceremo la volontà amabile e perfetta del Signore (Rm 12,1-2) e lasceremo che Lui ci plasmi come un vasaio (Is 29,16). Abbiamo detto tante volte che Dio abita in noi, ma è meglio dire che noi abitiamo in Lui, che Egli ci permette di vivere nella sua luce e nel suo amore. Egli è il nostro tempio: «Una cosa ho chiesto al Signore, questa sola io cerco: abitare nella casa del Signore tutti i giorni della mia vita» (Sal 27,4). «E’ meglio un giorno nei tuoi atri che mille nella mia casa» (Sal 84,11). In Lui veniamo santificati. Un insegnamento della Chiesa spesso dimenticato. 52. La Chiesa ha insegnato numerose volte che non siamo giustificati dalle nostre opere o dai nostri sforzi, ma dalla grazia del Signore che prende l’iniziativa. I Padri della Chiesa, anche prima di sant’Agostino, hanno espresso con chiarezza questa convinzione primaria. San Giovanni Crisostomo affermava che Dio versa in noi la fonte stessa di tutti i doni «prima che noi siamo entrati nel combattimento». San Basilio Magno rimarcava che il fedele si gloria solo in Dio, perché «riconosce di essere privo della vera giustizia e giustificato unicamente mediante la fede in Cristo». 53. Il secondo Sinodo di Orange ha insegnato con ferma autorità che nessun essere umano può esigere, meritare o comprare il dono della grazia divina, e che tutto ciò che può cooperare con essa è previamente dono della medesima grazia: «Persino il desiderare di essere puri si attua in noi per infusione e operazione su di noi dello Spirito Santo». Successivamente il Concilio di Trento, anche quando sottolineò l’importanza della nostra cooperazione per la crescita spirituale, riaffermò quell’insegnamento dogmatico: «Si afferma che siamo giustificati gratuitamente, perché nulla di quanto precede la giustificazione, sia la fede, siano le opere, merita la grazia stessa della giustificazione; perché se è grazia, allora non è per le opere; altrimenti la grazia non sarebbe più grazia (Rm 11,6)». 54. Anche il Catechismo della Chiesa Cattolica ci ricorda che il dono della grazia «supera le capacità dell’intelligenza e le forze della volontà dell’uomo», e che «nei confronti di Dio in senso strettamente giuridico non c’è merito da parte dell’uomo. Tra Lui e noi la disuguaglianza è smisurata». La sua amicizia ci supera infinitamente, non può essere comprata da noi con le nostre opere e può solo essere un dono della sua iniziativa d’amore. Questo ci invita a vivere con gioiosa gratitudine per tale dono che mai meriteremo, dal momento che «quando uno è in grazia, la grazia che ha già ricevuto non può essere meritata». I santi evitano di porre la fiducia nelle loro azioni: «Alla sera di questa vita, comparirò davanti a te a mani vuote, perché non ti chiedo, Signore, di contare le mie opere. Ogni nostra giustizia è imperfetta ai tuoi occhi». 55. Questa è una delle grandi convinzioni definitivamente acquisite dalla Chiesa, ed è tanto chiaramente espressa nella Parola di Dio che rimane fuori da ogni discussione. Così come il supremo comandamento dell’amore, questa verità dovrebbe contrassegnare il nostro stile di vita, perché attinge al cuore del Vangelo e ci chiama non solo ad accettarla con la mente, ma a trasformarla in una gioia contagiosa. Non potremo però celebrare con gratitudine il dono gratuito dell’amicizia con il Signore, se non riconosciamo che anche la nostra esistenza terrena e le nostre capacità naturali sono un dono. Abbiamo bisogno di «riconoscere gioiosamente che la nostra realtà è frutto di un dono, e accettare anche la nostra libertà come grazia. Questa è la cosa difficile oggi, in un mondo che crede di possedere qualcosa da sé stesso, frutto della propria originalità e libertà». 56. Solo a partire dal dono di Dio, liberamente accolto e umilmente ricevuto, possiamo cooperare con i nostri sforzi per lasciarci trasformare sempre di più. La prima cosa è appartenere a Dio. Si tratta di offrirci a Lui che ci anticipa, di offrirgli le nostre capacità, il nostro impegno, la nostra lotta contro il male e la nostra creatività, affinché il suo dono gratuito cresca e si sviluppi in noi: «Vi esorto dunque, fratelli, per la misericordia di Dio, a offrire i vostri corpi come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio» (Rm 12,1). Del resto, la Chiesa ha sempre insegnato che solo la carità rende possibile la crescita nella vita di grazia, perché «se non avessi la carità, non sarei nulla» (1Cor 13,2). I nuovi pelagiani. 57. Ci sono ancora dei cristiani che si impegnano nel seguire un’altra strada: quella della giustificazione mediante le proprie forze, quella dell’adorazione della volontà umana e della propria capacità, che si traduce in un autocompiacimento egocentrico ed elitario privo del vero amore. Si manifesta in molti atteggiamenti apparentemente diversi tra loro: l’ossessione per la legge, il fascino di esibire conquiste sociali e politiche, l’ostentazione nella cura della liturgia, della dottrina e del prestigio della Chiesa, la vanagloria legata alla gestione di faccende pratiche, l’attrazione per le dinamiche di auto-aiuto e di realizzazione autoreferenziale. In questo alcuni cristiani spendono le loro energie e il loro tempo, invece di lasciarsi condurre dallo Spirito sulla via dell’amore, invece di appassionarsi per comunicare la bellezza e la gioia del Vangelo e di cercare i lontani nelle immense moltitudini assetate di Cristo. 58. Molte volte, contro l’impulso dello Spirito, la vita della Chiesa si trasforma in un pezzo da museo o in un possesso di pochi. Questo accade quando alcuni gruppi cristiani danno eccessiva importanza all’osservanza di determinate norme proprie, di costumi o stili. In questo modo, spesso si riduce e si reprime il Vangelo, togliendogli la sua affascinante semplicità e il suo sapore. E’ forse una forma sottile di pelagianesimo, perché sembra sottomettere la vita della grazia a certe strutture umane. Questo riguarda gruppi, movimenti e comunità, ed è ciò che spiega perché tante volte iniziano con un’intensa vita nello Spirito, ma poi finiscono fossilizzati… o corrotti. 59. Senza renderci conto, per il fatto di pensare che tutto dipende dallo sforzo umano incanalato attraverso norme e strutture ecclesiali, complichiamo il Vangelo e diventiamo schiavi di uno schema che lascia pochi spiragli perché la grazia agisca. San Tommaso d’Aquino ci ricordava che i precetti aggiunti al Vangelo da parte della Chiesa devono esigersi con moderazione «per non rendere gravosa la vita ai fedeli», perché così si muterebbe la nostra religione in una schiavitù. Il riassunto della Legge. 60. Al fine di evitare questo, è bene ricordare spesso che esiste una gerarchia delle virtù, che ci invita a cercare l’essenziale. Il primato appartiene alle virtù teologali, che hanno Dio come oggetto e motivo. E al centro c’è la carità. San Paolo dice che ciò che conta veramente è «la fede che si rende operosa per mezzo della carità» (Gal 5,6). Siamo chiamati a curare attentamente la carità: «Chi ama l’altro ha adempiuto la Legge […] pienezza della Legge infatti è la carità» (Rm 13,8.10). Perché «tutta la Legge infatti trova la sua pienezza in un solo precetto: Amerai il tuo prossimo come te stesso» (Gal 5,14). 61. Detto in altre parole: in mezzo alla fitta selva di precetti e prescrizioni, Gesù apre una breccia che permette di distinguere due volti, quello del Padre e quello del fratello. Non ci consegna due formule o due precetti in più. Ci consegna due volti, o meglio, uno solo, quello di Dio che si riflette in molti. Perché in ogni fratello, specialmente nel più piccolo, fragile, indifeso e bisognoso, è presente l’immagine stessa di Dio. Infatti, con gli scarti di questa umanità vulnerabile, alla fine del tempo, il Signore plasmerà la sua ultima opera d’arte. Poiché «che cosa resta, che cosa ha valore nella vita, quali ricchezze non svaniscono? Sicuramente due: il Signore e il prossimo. Queste due ricchezze non svaniscono!». 62. Che il Signore liberi la Chiesa dalle nuove forme di gnosticismo e di pelagianesimo che la complicano e la fermano nel suo cammino verso la santità! Queste deviazioni si esprimono in forme diverse, secondo il proprio temperamento e le proprie caratteristiche. Per questo esorto ciascuno a domandarsi e a discernere davanti a Dio in che modo si possano rendere manifeste nella sua vita. Capitolo Terzo. Alla luce del maestro. 63. Ci possono essere molte teorie su cosa sia la santità, abbondanti spiegazioni e distinzioni. Tale riflessione potrebbe essere utile, ma nulla è più illuminante che ritornare alle parole di Gesù e raccogliere il suo modo di trasmettere la verità. Gesù ha spiegato con tutta semplicità che cos’è essere santi, e lo ha fatto quando ci ha lasciato le Beatitudini (Mt 5,3-12; Lc 6,20-23). Esse sono come la carta d’identità del cristiano. Così, se qualcuno di noi si pone la domanda: “Come si fa per arrivare ad essere un buon cristiano?”, la risposta è semplice: è necessario fare, ognuno a suo modo, quello che dice Gesù nel discorso delle Beatitudini. In esse si delinea il volto del Maestro, che siamo chiamati a far trasparire nella quotidianità della nostra vita. 64. La parola “felice” o “beato” diventa sinonimo di “santo”, perché esprime che la persona fedele a Dio e che vive la sua Parola raggiunge, nel dono di sé, la vera beatitudine. Controcorrente. 65. Nonostante le parole di Gesù possano sembrarci poetiche, tuttavia vanno molto controcorrente rispetto a quanto è abituale, a quanto si fa nella società; e, anche se questo messaggio di Gesù ci attrae, in realtà il mondo ci porta verso un altro stile di vita. Le Beatitudini in nessun modo sono qualcosa di leggero o di superficiale; al contrario, possiamo viverle solamente se lo Spirito Santo ci pervade con tutta la sua potenza e ci libera dalla debolezza dell’egoismo, della pigrizia, dell’orgoglio. 66. Torniamo ad ascoltare Gesù, con tutto l’amore e il rispetto che merita il Maestro. Permettiamogli di colpirci con le sue parole, di provocarci, di richiamarci a un reale cambiamento di vita. Altrimenti la santità sarà solo parole. Ricordiamo ora le singole Beatitudini nella versione del vangelo di Matteo (5,3-12). «Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli». 67. Il Vangelo ci invita a riconoscere la verità del nostro cuore, per vedere dove riponiamo la sicurezza della nostra vita. Normalmente il ricco si sente sicuro con le sue ricchezze, e pensa che quando esse sono in pericolo, tutto il senso della sua vita sulla terra si sgretola. Gesù stesso ce l’ha detto nella parabola del ricco stolto, parlando di quell’uomo sicuro di sé che, come uno sciocco, non pensava che poteva morire quello stesso giorno (Lc 12,16-21). 68. Le ricchezze non ti assicurano nulla. Anzi, quando il cuore si sente ricco, è talmente soddisfatto di sé stesso che non ha spazio per la Parola di Dio, per amare i fratelli, né per godere delle cose più importanti della vita. Così si priva dei beni più grandi. Per questo Gesù chiama beati i poveri in spirito, che hanno il cuore povero, in cui può entrare il Signore con la sua costante novità. 69. Questa povertà di spirito è molto legata con quella “santa indifferenza” che proponeva sant’Ignazio di Loyola, nella quale raggiungiamo una bella libertà interiore: «Per questa ragione è necessario renderci indifferenti verso tutte le cose create (in tutto quello che è permesso alla libertà del nostro libero arbitrio e non le è proibito), in modo da non desiderare da parte nostra più la salute che la malattia, più la ricchezza che la povertà, più l’onore che il disonore, più la vita lunga piuttosto che quella breve, e così in tutto il resto». 70. Luca non parla di una povertà “di spirito” ma di essere «poveri» e basta (Lc 6,20), e così ci invita anche a un’esistenza austera e spoglia. In questo modo, ci chiama a condividere la vita dei più bisognosi, la vita che hanno condotto gli Apostoli e in definitiva a conformarci a Gesù, che «da ricco che era, si è fatto povero» (2Cor 8,9). Essere poveri nel cuore, questo è santità. «Beati i miti, perché avranno in eredità la terra». 71. È un’espressione forte, in questo mondo che fin dall’inizio è un luogo di inimicizia, dove si litiga ovunque, dove da tutte le parti c’è odio, dove continuamente classifichiamo gli altri per le loro idee, le loro abitudini, e perfino per il loro modo di parlare e di vestire. Insomma, è il regno dell’orgoglio e della vanità, dove ognuno crede di avere il diritto di innalzarsi al di sopra degli altri. Tuttavia, nonostante sembri impossibile, Gesù propone un altro stile: la mitezza. È quello che Lui praticava con i suoi discepoli e che contempliamo nel suo ingresso in Gerusalemme: «Ecco, a te viene il tuo re, mite, seduto su un’asina e su un puledro» (Mt 21,5; Zc 9,9). 72. Egli disse: «Imparate da me che sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro per la vostra vita» (Mt 11,29). Se viviamo agitati, arroganti di fronte agli altri, finiamo stanchi e spossati. Ma quando vediamo i loro limiti e i loro difetti con tenerezza e mitezza, senza sentirci superiori, possiamo dar loro una mano ed evitiamo di sprecare energie in lamenti inutili. Per santa Teresa di Lisieux «la carità perfetta consiste nel sopportare i difetti altrui, non stupirsi assolutamente delle loro debolezze». 73. Paolo menziona la mitezza come un frutto dello Spirito Santo (Gal 5,23). Propone che, se qualche volta ci preoccupano le cattive azioni del fratello, ci avviciniamo per correggerle, ma «con spirito di dolcezza» (Gal 6,1), e ricorda: «e tu vigila su te stesso, per non essere tentato anche tu» (ibid.). Anche quando si difende la propria fede e le proprie convinzioni, bisogna farlo con mitezza (1Pt 3,16), e persino gli avversari devono essere trattati con mitezza (2Tm 2,25). Nella Chiesa tante volte abbiamo sbagliato per non aver accolto questo appello della Parola divina. 74. La mitezza è un’altra espressione della povertà interiore, di chi ripone la propria fiducia solamente in Dio. Di fatto nella Bibbia si usa spesso la medesima parola anawim per riferirsi ai poveri e ai miti. Qualcuno potrebbe obiettare: “Se sono troppo mite, penseranno che sono uno sciocco, che sono stupido o debole”. Forse sarà così, ma lasciamo che gli altri lo pensino. E’ meglio essere sempre miti, e si realizzeranno le nostre più grandi aspirazioni: i miti «avranno in eredità la terra», ovvero, vedranno compiute nella loro vita le promesse di Dio. Perché i miti, al di là di ciò che dicono le circostanze, sperano nel Signore e quelli che sperano nel Signore possederanno la terra e godranno di grande pace (Sal 37,9.11). Nello stesso tempo, il Signore confida in loro: «Su chi volgerò lo sguardo? Sull’umile e su chi ha lo spirito contrito e su chi trema alla mia parola» (Is 66,2). Reagire con umile mitezza, questo è santità. «Beati quelli che sono nel pianto, perché saranno consolati». 75. Il mondo ci propone il contrario: il divertimento, il godimento, la distrazione, lo svago, e ci dice che questo è ciò che rende buona la vita. Il mondano ignora, guarda dall’altra parte quando ci sono problemi di malattia o di dolore in famiglia o intorno a lui. Il mondo non vuole piangere: preferisce ignorare le situazioni dolorose, coprirle, nasconderle. Si spendono molte energie per scappare dalle situazioni in cui si fa presente la sofferenza, credendo che sia possibile dissimulare la realtà, dove mai, mai può mancare la croce. 76. La persona che vede le cose come sono realmente, si lascia trafiggere dal dolore e piange nel suo cuore è capace di raggiungere le profondità della vita e di essere veramente felice. Quella persona è consolata, ma con la consolazione di Gesù e non con quella del mondo. Così può avere il coraggio di condividere la sofferenza altrui e smette di fuggire dalle situazioni dolorose. In tal modo scopre che la vita ha senso nel soccorrere un altro nel suo dolore, nel comprendere l’angoscia altrui, nel dare sollievo agli altri. Questa persona sente che l’altro è carne della sua carne, non teme di avvicinarsi fino a toccare la sua ferita, ha compassione fino a sperimentare che le distanze si annullano. Così è possibile accogliere quell’esortazione di san Paolo: «Piangete con quelli che sono nel pianto» (Rm 12,15). Saper piangere con gli altri, questo è santità. «Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, perché saranno saziati». 77. «Fame e sete» sono esperienze molto intense, perché rispondono a bisogni primari e sono legate all’istinto di sopravvivenza. Ci sono persone che con tale intensità aspirano alla giustizia e la cercano con un desiderio molto forte. Gesù dice che costoro saranno saziati, giacché presto o tardi la giustizia arriva, e noi possiamo collaborare perché sia possibile, anche se non sempre vediamo i risultati di questo impegno. 78. Ma la giustizia che propone Gesù non è come quella che cerca il mondo, molte volte macchiata da interessi meschini, manipolata da un lato o dall’altro. La realtà ci mostra quanto sia facile entrare nelle combriccole della corruzione, far parte di quella politica quotidiana del “do perché mi diano”, in cui tutto è commercio. E quanta gente soffre per le ingiustizie, quanti restano ad osservare impotenti come gli altri si danno il cambio a spartirsi la torta della vita. Alcuni rinunciano a lottare per la vera giustizia e scelgono di salire sul carro del vincitore. Questo non ha nulla a che vedere con la fame e la sete di giustizia che Gesù elogia. 79. Tale giustizia incomincia a realizzarsi nella vita di ciascuno quando si è giusti nelle proprie decisioni, e si esprime poi nel cercare la giustizia per i poveri e i deboli. Certo la parola “giustizia” può essere sinonimo di fedeltà alla volontà di Dio con tutta la nostra vita, ma se le diamo un senso molto generale dimentichiamo che si manifesta specialmente nella giustizia con gli indifesi: «Cercate la giustizia, soccorrete l’oppresso, rendete giustizia all’orfano, difendete la causa della vedova» (Is 1,17). Cercare la giustizia con fame e sete, questo è santità. «Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia». 80. La misericordia ha due aspetti: è dare, aiutare, servire gli altri e anche perdonare, comprendere. Matteo riassume questo in una regola d’oro: «Tutto quanto vorrete che gli uomini facciano a voi, anche voi fatelo a loro» (7,12). Il Catechismo ci ricorda che questa legge si deve applicare «in ogni caso», in modo speciale quando qualcuno «talvolta si trova ad affrontare situazioni difficili che rendono incerto il giudizio morale». 81. Dare e perdonare è tentare di riprodurre nella nostra vita un piccolo riflesso della perfezione di Dio, che dona e perdona in modo sovrabbondante. Per questo motivo nel vangelo di Luca non troviamo «siate perfetti» (Mt 5,48), ma «siate misericordiosi, come il Padre vostro è misericordioso. Non giudicate e non sarete giudicati; non condannate e non sarete condannati; perdonate e sarete perdonati; date e vi sarà dato» (6,36-38). E dopo Luca aggiunge qualcosa che non dovremmo trascurare: «Con la misura con la quale misurate, sarà misurato a voi in cambio» (6,38). La misura che usiamo per comprendere e perdonare verrà applicata a noi per perdonarci. La misura che applichiamo per dare, sarà applicata a noi nel cielo per ricompensarci. Non ci conviene dimenticarlo. 82. Gesù non dice “Beati quelli che programmano vendetta”, ma chiama beati coloro che perdonano e lo fanno «settanta volte sette» (Mt 18,22). Occorre pensare che tutti noi siamo un esercito di perdonati. Tutti noi siamo stati guardati con compassione divina. Se ci accostiamo sinceramente al Signore e affiniamo l’udito, probabilmente sentiremo qualche volta questo rimprovero: «Non dovevi anche tu aver pietà del tuo compagno, così come io ho avuto pietà di te?» (Mt 18,33). Guardare e agire con misericordia, questo è santità. «Beati i puri di cuore, perché vedranno Dio». 83. Questa beatitudine si riferisce a chi ha un cuore semplice, puro, senza sporcizia, perché un cuore che sa amare non lascia entrare nella propria vita alcuna cosa che minacci quell’amore, che lo indebolisca o che lo ponga in pericolo. Nella Bibbia, il cuore sono le nostre vere intenzioni, ciò che realmente cerchiamo e desideriamo, al di là di quanto manifestiamo: «L’uomo vede l’apparenza, ma il Signore vede il cuore» (1Sam 16,7). Egli cerca di parlarci nel cuore (Os 2,16) e lì desidera scrivere la sua Legge (Ger 31,33). In definitiva, vuole darci un cuore nuovo (Ez 36,26). 84. «Più di ogni cosa degna di cura custodisci il tuo cuore» (Pr 4,23). Nulla di macchiato dalla falsità ha valore reale per il Signore. Egli «fugge ogni inganno, si tiene lontano dai discorsi insensati» (Sap 1,5). Il Padre, che «vede nel segreto» (Mt 6,6), riconosce ciò che non è pulito, vale a dire ciò che non è sincero, ma solo scorza e apparenza, come pure il Figlio sa «quello che c’è nell’uomo» (Gv 2,25). 85. È vero che non c’è amore senza opere d’amore, ma questa beatitudine ci ricorda che il Signore si aspetta una dedizione al fratello che sgorghi dal cuore, poiché «se anche dessi in cibo tutti i miei beni e consegnassi il mio corpo per averne vanto, ma non avessi la carità, a nulla mi servirebbe» (1Cor 13,3). Nel vangelo di Matteo vediamo pure che quanto viene dal cuore è ciò che rende impuro l’uomo (15,18), perché da lì procedono gli omicidi, i furti, le false testimonianze, e così via (15,19). Nelle intenzioni del cuore hanno origine i desideri e le decisioni più profondi che realmente ci muovono. 86. Quando il cuore ama Dio e il prossimo (Mt 22,36-40), quando questo è la sua vera intenzione e non parole vuote, allora quel cuore è puro e può vedere Dio. San Paolo, nel suo inno alla carità, ricorda che «adesso noi vediamo come in uno specchio, in modo confuso» (1Cor 13,12), ma nella misura in cui regna veramente l’amore, diventeremo capaci di vedere «faccia a faccia» (ibid.). Gesù promette che quelli che hanno un cuore puro «vedranno Dio». Mantenere il cuore pulito da tutto ciò che sporca l’amore, questo è santità. «Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio». 87. Questa beatitudine ci fa pensare alle numerose situazioni di guerra che si ripetono. Per noi è molto comune essere causa di conflitti o almeno di incomprensioni. Per esempio, quando sento qualcosa su qualcuno e vado da un altro e glielo dico; e magari faccio una seconda versione un po’ più ampia e la diffondo. E se riesco a fare più danno, sembra che mi procuri più soddisfazione. Il mondo delle dicerie, fatto da gente che si dedica a criticare e a distruggere, non costruisce la pace. Questa gente è piuttosto nemica della pace e in nessun modo beata. 88. I pacifici sono fonte di pace, costruiscono pace e amicizia sociale. A coloro che si impegnano a seminare pace dovunque, Gesù fa una meravigliosa promessa: «Saranno chiamati figli di Dio» (Mt 5,9). Egli chiedeva ai discepoli che quando fossero giunti in una casa dicessero: «Pace a questa casa!» (Lc 10,5). La Parola di Dio sollecita ogni credente a cercare la pace insieme agli altri (2Tm 2,22), perché «per coloro che fanno opera di pace viene seminato nella pace un frutto di giustizia» (Gc 3,18). E se in qualche caso nella nostra comunità abbiamo dubbi su che cosa si debba fare, «cerchiamo ciò che porta alla pace» (Rm 14,19), perché l’unità è superiore al conflitto. 89. Non è facile costruire questa pace evangelica che non esclude nessuno, ma che integra anche quelli che sono un po’ strani, le persone difficili e complicate, quelli che chiedono attenzione, quelli che sono diversi, chi è molto colpito dalla vita, chi ha altri interessi. È duro e richiede una grande apertura della mente e del cuore, poiché non si tratta di «un consenso a tavolino o [di] un’effimera pace per una minoranza felice», né di un progetto «di pochi indirizzato a pochi». Nemmeno cerca di ignorare o dissimulare i conflitti, ma di «accettare di sopportare il conflitto, risolverlo e trasformarlo in un anello di collegamento di un nuovo processo». Si tratta di essere artigiani della pace, perché costruire la pace è un’arte che richiede serenità, creatività, sensibilità e destrezza. Seminare pace intorno a noi, questo è santità. «Beati i perseguitati per la giustizia, perché di essi è il regno dei cieli». 90. Gesù stesso sottolinea che questo cammino va controcorrente fino al punto da farci diventare persone che con la propria vita mettono in discussione la società, persone che danno fastidio. Gesù ricorda quanta gente è perseguitata ed è stata perseguitata semplicemente per aver lottato per la giustizia, per aver vissuto i propri impegni con Dio e con gli altri. Se non vogliamo sprofondare in una oscura mediocrità, non pretendiamo una vita comoda, perché «chi vuol salvare la propria vita, la perderà» (Mt 16,25). 91. Non si può aspettare, per vivere il Vangelo, che tutto intorno a noi sia favorevole, perché molte volte le ambizioni del potere e gli interessi mondani giocano contro di noi. San Giovanni Paolo II diceva che «è alienata la società che, nelle sue forme di organizzazione sociale, di produzione e di consumo, rende più difficile la realizzazione [del] dono [di sé] e il costituirsi [della] solidarietà interumana». In una tale società alienata, intrappolata in una trama politica, mediatica, economica, culturale e persino religiosa che ostacola l’autentico sviluppo umano e sociale, vivere le Beatitudini diventa difficile e può essere addirittura una cosa malvista, sospetta, ridicolizzata. 92. La croce, soprattutto le stanchezze e i patimenti che sopportiamo per vivere il comandamento dell’amore e il cammino della giustizia, è fonte di maturazione e di santificazione. Ricordiamo che, quando il Nuovo Testamento parla delle sofferenze che bisogna sopportare per il Vangelo, si riferisce precisamente alle persecuzioni (At 5,41; Fil 1,29; Col 1,24; 2Tm 1,12; 1Pt 2,20; 4,14-16; Ap 2,10). 93. Parliamo però delle persecuzioni inevitabili, non di quelle che ci potremmo procurare noi stessi con un modo sbagliato di trattare gli altri. Un santo non è una persona eccentrica, distaccata, che si rende insopportabile per la sua vanità, la sua negatività e i suoi risentimenti. Non erano così gli Apostoli di Cristo. Il libro degli Atti racconta insistentemente che essi godevano della simpatia «di tutto il popolo» (2,47; 4,21.33; 5,13), mentre alcune autorità li ricercavano e li perseguitavano (4,1-3; 5,17-18). 94. Le persecuzioni non sono una realtà del passato, perché anche oggi le soffriamo, sia in maniera cruenta, come tanti martiri contemporanei, sia in un modo più sottile, attraverso calunnie e falsità. Gesù dice che ci sarà beatitudine quando «mentendo, diranno ogni sorta di male contro di voi per causa mia» (Mt 5,11). Altre volte si tratta di scherni che tentano di sfigurare la nostra fede e di farci passare per persone ridicole. Accettare ogni giorno la via del Vangelo nonostante ci procuri problemi, questo è santità. La grande regola di comportamento. 95. Nel capitolo 25 del Vangelo di Gesù Cristo secondo Matteo (vv. 31-46), Gesù torna a soffermarsi su una di queste beatitudini, quella che dichiara beati i misericordiosi. Se cerchiamo quella santità che è gradita agli occhi di Dio, in questo testo troviamo proprio una regola di comportamento in base alla quale saremo giudicati: «Ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere, ero straniero e mi avete accolto, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, ero in carcere e siete venuti a trovarmi» (25,35-36). Per fedeltà al Maestro. 96. Essere santi non significa, pertanto, lustrarsi gli occhi in una presunta estasi. Diceva san Giovanni Paolo II che «se siamo ripartiti davvero dalla contemplazione di Cristo, dovremo saperlo scorgere soprattutto nel volto di coloro con i quali egli stesso ha voluto identificarsi». Il testo di Matteo 25,35-36 «non è un semplice invito alla carità: è una pagina di cristologia, che proietta un fascio di luce sul mistero di Cristo». In questo richiamo a riconoscerlo nei poveri e nei sofferenti si rivela il cuore stesso di Cristo, i suoi sentimenti e le sue scelte più profonde, alle quali ogni santo cerca di conformarsi. 97. Davanti alla forza di queste richieste di Gesù è mio dovere pregare i cristiani di accettarle e di accoglierle con sincera apertura, “sine glossa”, vale a dire senza commenti, senza elucubrazioni e scuse che tolgano ad esse forza. Il Signore ci ha lasciato ben chiaro che la santità non si può capire né vivere prescindendo da queste sue esigenze, perché la misericordia è il «cuore pulsante del Vangelo». 98. Quando incontro una persona che dorme alle intemperie, in una notte fredda, posso sentire che questo fagotto è un imprevisto che mi intralcia, un delinquente ozioso, un ostacolo sul mio cammino, un pungiglione molesto per la mia coscienza, un problema che devono risolvere i politici, e forse anche un’immondizia che sporca lo spazio pubblico. Oppure posso reagire a partire dalla fede e dalla carità e riconoscere in lui un essere umano con la mia stessa dignità, una creatura infinitamente amata dal Padre, un’immagine di Dio, un fratello redento da Cristo. Questo è essere cristiani! O si può forse intendere la santità prescindendo da questo riconoscimento vivo della dignità di ogni essere umano? 99. Questo implica per i cristiani una sana e permanente insoddisfazione. Anche se dare sollievo a una sola persona già giustificherebbe tutti i nostri sforzi, ciò non ci basta. I Vescovi del Canada lo hanno affermato chiaramente mostrando che, negli insegnamenti biblici riguardo al Giubileo, per esempio, non si tratta solo di realizzare alcune buone azioni, bensì di cercare un cambiamento sociale: «Affinché anche le generazioni a venire fossero liberate, evidentemente l’obiettivo doveva essere il ripristino di sistemi sociali ed economici giusti perché non potesse più esserci esclusione». Le ideologie che mutilano il cuore del Vangelo. 100. Purtroppo a volte le ideologie ci portano a due errori nocivi. Da una parte, quello dei cristiani che separano queste esigenze del Vangelo dalla propria relazione personale con il Signore, dall’unione interiore con Lui, dalla grazia. Così si trasforma il cristianesimo in una sorta di ONG, privandolo di quella luminosa spiritualità che così bene hanno vissuto e manifestato san Francesco d’Assisi, san Vincenzo de Paoli, santa Teresa di Calcutta e molti altri. A questi grandi santi né la preghiera, né l’amore di Dio, né la lettura del Vangelo diminuirono la passione e l’efficacia della loro dedizione al prossimo, ma tutto il contrario. 101. Nocivo e ideologico è anche l’errore di quanti vivono diffidando dell’impegno sociale degli altri, considerandolo qualcosa di superficiale, mondano, secolarizzato, immanentista, comunista, populista. O lo relativizzano come se ci fossero altre cose più importanti o come se interessasse solo una determinata etica o una ragione che essi difendono. La difesa dell’innocente che non è nato, per esempio, deve essere chiara, ferma e appassionata, perché lì è in gioco la dignità della vita umana, sempre sacra, e lo esige l’amore per ogni persona al di là del suo sviluppo. Ma ugualmente sacra è la vita dei poveri che sono già nati, che si dibattono nella miseria, nell’abbandono, nell’esclusione, nella tratta di persone, nell’eutanasia nascosta dei malati e degli anziani privati di cura, nelle nuove forme di schiavitù, e in ogni forma di scarto. Non possiamo proporci un ideale di santità che ignori l’ingiustizia di questo mondo, dove alcuni festeggiano, spendono allegramente e riducono la propria vita alle novità del consumo, mentre altri guardano solo da fuori e intanto la loro vita passa e finisce miseramente. 102. Spesso si sente dire che, di fronte al relativismo e ai limiti del mondo attuale, sarebbe un tema marginale, per esempio, la situazione dei migranti. Alcuni cattolici affermano che è un tema secondario rispetto ai temi “seri” della bioetica. Che dica cose simili un politico preoccupato per i suoi successi si può comprendere, ma non un cristiano, a cui si addice solo l’atteggiamento di mettersi nei panni di quel fratello che rischia la vita per dare un futuro ai suoi figli. Possiamo riconoscere che è precisamente quello che ci chiede Gesù quando ci dice che accogliamo Lui stesso in ogni forestiero (Mt 25,35)? San Benedetto lo aveva accettato senza riserve e, anche se ciò avrebbe potuto “complicare” la vita dei monaci, stabilì che tutti gli ospiti che si presentassero al monastero li si accogliesse «come Cristo», esprimendolo perfino con gesti di adorazione, e che i poveri pellegrini li si trattasse «con la massima cura e sollecitudine». 103. Qualcosa di simile prospetta l’Antico Testamento quando dice: «Non molesterai il forestiero né lo opprimerai, perché voi siete stati forestieri in terra d’Egitto» (Es 22,20). «Il forestiero dimorante fra voi lo tratterete come colui che è nato fra voi; tu l’amerai come te stesso, perché anche voi siete stati forestieri in terra d’Egitto» (Lv 19,33-34). Pertanto, non si tratta dell’invenzione di un Papa o di un delirio passeggero. Anche noi, nel contesto attuale, siamo chiamati a vivere il cammino di illuminazione spirituale che ci presentava il profeta Isaia quando si domandava che cosa è gradito a Dio: «Non consiste forse nel dividere il pane con l’affamato, nell’introdurre in casa i miseri, senza tetto, nel vestire uno che vedi nudo, senza trascurare i tuoi parenti? Allora la tua luce sorgerà come l’aurora» (58,7-8). Il culto che Lui più gradisce. 104. Potremmo pensare che diamo gloria a Dio solo con il culto e la preghiera, o unicamente osservando alcune norme etiche – è vero che il primato spetta alla relazione con Dio –, e dimentichiamo che il criterio per valutare la nostra vita è anzitutto ciò che abbiamo fatto agli altri. La preghiera è preziosa se alimenta una donazione quotidiana d’amore. Il nostro culto è gradito a Dio quando vi portiamo i propositi di vivere con generosità e quando lasciamo che il dono di Dio che in esso riceviamo si manifesti nella dedizione ai fratelli. 105. Per la stessa ragione, il modo migliore per discernere se il nostro cammino di preghiera è autentico sarà osservare in che misura la nostra vita si va trasformando alla luce della misericordia. Perché «la misericordia non è solo l’agire del Padre, ma diventa il criterio per capire chi sono i suoi veri figli». Essa è «l’architrave che sorregge la vita della Chiesa». Desidero sottolineare ancora una volta che, benché la misericordia non escluda la giustizia e la verità, «anzitutto dobbiamo dire che la misericordia è la pienezza della giustizia e la manifestazione più luminosa della verità di Dio». Essa «è la chiave del cielo». 106. Non posso tralasciare di ricordare quell’interrogativo che si poneva san Tommaso d’Aquino quando si domandava quali sono le nostre azioni più grandi, quali sono le opere esterne che meglio manifestano il nostro amore per Dio. Egli rispose senza dubitare che sono le opere di misericordia verso il prossimo, più che gli atti di culto: «Noi non esercitiamo il culto verso Dio con sacrifici e con offerte esteriori a vantaggio suo, ma a vantaggio nostro e del prossimo: Egli infatti non ha bisogno dei nostri sacrifici, ma vuole che essi gli vengano offerti per la nostra devozione e a vantaggio del prossimo. Perciò la misericordia con la quale si soccorre la miseria altrui è un sacrificio a lui più accetto, assicurando esso più da vicino il bene del prossimo». 107. Chi desidera veramente dare gloria a Dio con la propria vita, chi realmente anela a santificarsi perché la sua esistenza glorifichi il Santo, è chiamato a tormentarsi, spendersi e stancarsi cercando di vivere le opere di misericordia. È ciò che aveva capito molto bene santa Teresa di Calcutta: «Sì, ho molte debolezze umane, molte miserie umane. […] Ma Lui si abbassa e si serve di noi, di te e di me, per essere suo amore e sua compassione nel mondo, nonostante i nostri peccati, nonostante le nostre miserie e i nostri difetti. Lui dipende da noi per amare il mondo e dimostrargli quanto lo ama. Se ci occupiamo troppo di noi stessi, non ci resterà tempo per gli altri». 108. Il consumismo edonista può giocarci un brutto tiro, perché nell’ossessione di divertirsi finiamo con l’essere eccessivamente concentrati su noi stessi, sui nostri diritti e nell’esasperazione di avere tempo libero per godersi la vita. Sarà difficile che ci impegniamo e dedichiamo energie a dare una mano a chi sta male se non coltiviamo una certa austerità, se non lottiamo contro questa febbre che ci impone la società dei consumi per venderci cose, e che alla fine ci trasforma in poveri insoddisfatti che vogliono avere tutto e provare tutto. Anche il consumo di informazione superficiale e le forme di comunicazione rapida e virtuale possono essere un fattore di stordimento che si porta via tutto il nostro tempo e ci allontana dalla carne sofferente dei fratelli. In mezzo a questa voragine attuale, il Vangelo risuona nuovamente per offrirci una vita diversa, più sana e più felice. 109. La forza della testimonianza dei santi sta nel vivere le Beatitudini e la regola di comportamento del giudizio finale. Sono poche parole, semplici, ma pratiche e valide per tutti, perché il cristianesimo è fatto soprattutto per essere praticato, e se è anche oggetto di riflessione, ciò ha valore solo quando ci aiuta a vivere il Vangelo nella vita quotidiana. Raccomando vivamente di rileggere spesso questi grandi testi biblici, di ricordarli, di pregare con essi e tentare di incarnarli. Ci faranno bene, ci renderanno genuinamente felici. Capitolo Quarto. Alcune caratteristiche della santità nel mondo attuale. 110. All’interno del grande quadro della santità che ci propongono le Beatitudini e Matteo (25,31-46), vorrei raccogliere alcune caratteristiche o espressioni spirituali che, a mio giudizio, sono indispensabili per comprendere lo stile di vita a cui il Signore ci chiama. Non mi fermerò a spiegare i mezzi di santificazione che già conosciamo: i diversi metodi di preghiera, i preziosi sacramenti dell’Eucaristia e della Riconciliazione, l’offerta dei sacrifici, le varie forme di devozione, la direzione spirituale, e tanti altri. Mi riferirò solo ad alcuni aspetti della chiamata alla santità che spero risuonino in maniera speciale. 111. Queste caratteristiche che voglio evidenziare non sono tutte quelle che possono costituire un modello di santità, ma sono cinque grandi manifestazioni dell’amore per Dio e per il prossimo che considero di particolare importanza a motivo di alcuni rischi e limiti della cultura di oggi. In essa si manifestano: l’ansietà nervosa e violenta che ci disperde e debilita; la negatività e la tristezza; l’accidia comoda, consumista ed egoista; l’individualismo, e tante forme di falsa spiritualità senza incontro con Dio che dominano nel mercato religioso attuale. Sopportazione, pazienza e mitezza. 112. La prima di queste grandi caratteristiche è rimanere centrati, saldi in Dio che ama e sostiene. A partire da questa fermezza interiore è possibile sopportare, sostenere le contrarietà, le vicissitudini della vita, e anche le aggressioni degli altri, le loro infedeltà e i loro difetti: «Se Dio è con noi, chi sarà contro di noi?» (Rm 8,31). Questo è fonte di pace che si esprime negli atteggiamenti di un santo. Sulla base di tale solidità interiore, la testimonianza di santità, nel nostro mondo accelerato, volubile e aggressivo, è fatta di pazienza e costanza nel bene. E’ la fedeltà dell’amore, perché chi si appoggia su Dio (pistis) può anche essere fedele davanti ai fratelli (pistós), non li abbandona nei momenti difficili, non si lascia trascinare dall’ansietà e rimane accanto agli altri anche quando questo non gli procura soddisfazioni immediate. 113. San Paolo invitava i cristiani di Roma a non rendere «a nessuno male per male» (Rm 12,17), a non voler farsi giustizia da sé stessi (cfr v. 19) e a non lasciarsi vincere dal male, ma a vincere il male con il bene (v. 21). Questo atteggiamento non è segno di debolezza ma della vera forza, perché Dio stesso «è lento all’ira, ma grande nella potenza» (Na 1,3). La Parola di Dio ci ammonisce: «Scompaiano da voi ogni asprezza, sdegno, ira, grida e maldicenze con ogni sorta di malignità» (Ef 4,31). 114. E’ necessario lottare e stare in guardia davanti alle nostre inclinazioni aggressive ed egocentriche per non permettere che mettano radici: «Adiratevi, ma non peccate; non tramonti il sole sopra la vostra ira» (Ef 4,26). Quando ci sono circostanze che ci opprimono, possiamo sempre ricorrere all’ancora della supplica, che ci conduce a stare nuovamente nelle mani di Dio e vicino alla fonte della pace: «Non angustiatevi per nulla, ma in ogni circostanza fate presenti a Dio le vostre richieste con preghiere, suppliche e ringraziamenti. E la pace di Dio, che supera ogni intelligenza, custodirà i vostri cuori» (Fil 4,6-7). 115. Anche i cristiani possono partecipare a reti di violenza verbale mediante internet e i diversi ambiti o spazi di interscambio digitale. Persino nei media cattolici si possono eccedere i limiti, si tollerano la diffamazione e la calunnia, e sembrano esclusi ogni etica e ogni rispetto per il buon nome altrui. Così si verifica un pericoloso dualismo, perché in queste reti si dicono cose che non sarebbero tollerabili nella vita pubblica, e si cerca di compensare le proprie insoddisfazioni scaricando con rabbia i desideri di vendetta. E’ significativo che a volte, pretendendo di difendere altri comandamenti, si passi sopra completamente all’ottavo: «Non dire falsa testimonianza», e si distrugga l’immagine altrui senza pietà. Lì si manifesta senza alcun controllo che la lingua è «il mondo del male» e «incendia tutta la nostra vita, traendo la sua fiamma dalla Geenna» (Gc 3,6). 116. La fermezza interiore, che è opera della grazia, ci preserva dal lasciarci trascinare dalla violenza che invade la vita sociale, perché la grazia smorza la vanità e rende possibile la mitezza del cuore. Il santo non spreca le sue energie lamentandosi degli errori altrui, è capace di fare silenzio davanti ai difetti dei fratelli ed evita la violenza verbale che distrugge e maltratta, perché non si ritiene degno di essere duro con gli altri, ma piuttosto li considera «superiori a sé stesso» (Fil 2,3). 117. Non ci fa bene guardare dall’alto in basso, assumere il ruolo di giudici spietati, considerare gli altri come indegni e pretendere continuamente di dare lezioni. Questa è una sottile forma di violenza. San Giovanni della Croce proponeva un’altra cosa: «Sii più inclinato ad essere ammaestrato da tutti che a volere ammaestrare chi è inferiore a tutti». E aggiungeva un consiglio per tenere lontano il demonio: «Rallegrandoti del bene degli altri come se fosse tuo e cercando sinceramente che questi siano preferiti a te in tutte le cose. In tal modo vincerai il male con il bene, caccerai lontano da te il demonio e ne ricaverai gioia di spirito. Cerca di fare ciò specialmente con coloro i quali meno ti sono simpatici. Sappi che se non ti eserciterai in questo campo, non giungerai alla vera carità né farai profitto in essa». 118. L’umiltà può radicarsi nel cuore solamente attraverso le umiliazioni. Senza di esse non c’è umiltà né santità. Se tu non sei capace di sopportare e offrire alcune umiliazioni non sei umile e non sei sulla via della santità. La santità che Dio dona alla sua Chiesa viene mediante l’umiliazione del suo Figlio: questa è la via. L’umiliazione ti porta ad assomigliare a Gesù, è parte ineludibile dell’imitazione di Cristo: «Cristo patì per voi, lasciandovi un esempio, perché ne seguiate le orme» (1Pt 2,21). Egli a sua volta manifesta l’umiltà del Padre, che si umilia per camminare con il suo popolo, che sopporta le sue infedeltà e mormorazioni (Es 34,6-9; Sap 11,23-12,2; Lc 6,36). Per questa ragione gli Apostoli, dopo l’umiliazione, erano «lieti di essere stati giudicati degni di subire oltraggi per il nome di Gesù» (At 5,41). 119. Non mi riferisco solo alle situazioni violente di martirio, ma alle umiliazioni quotidiane di coloro che sopportano per salvare la propria famiglia, o evitano di parlare bene di sé stessi e preferiscono lodare gli altri invece di gloriarsi, scelgono gli incarichi meno brillanti, e a volte preferiscono addirittura sopportare qualcosa di ingiusto per offrirlo al Signore: «Se, facendo il bene, sopporterete con pazienza la sofferenza, ciò sarà gradito davanti a Dio» (1Pt 2,20). Non è camminare a capo chino, parlare poco o sfuggire dalla società. A volte, proprio perché è libero dall’egocentrismo, qualcuno può avere il coraggio di discutere amabilmente, di reclamare giustizia o di difendere i deboli davanti ai potenti, benché questo gli procuri conseguenze negative per la sua immagine. 120. Non dico che l’umiliazione sia qualcosa di gradevole, perché questo sarebbe masochismo, ma che si tratta di una via per imitare Gesù e crescere nell’unione con Lui. Questo non è comprensibile sul piano naturale e il mondo ridicolizza una simile proposta. E’ una grazia che abbiamo bisogno di supplicare: “Signore, quando vengono le umiliazioni, aiutami a sentire che mi trovo dietro di te, sulla tua via”. 121. Tale atteggiamento presuppone un cuore pacificato da Cristo, libero da quell’aggressività che scaturisce da un io troppo grande. La stessa pacificazione, operata dalla grazia, ci permette di mantenere una sicurezza interiore e resistere, perseverare nel bene «anche se vado per una valle oscura» (Sal 23,4) o anche «se contro di me si accampa un esercito» (Sal 27,3). Saldi nel Signore, la Roccia, possiamo cantare: «In pace mi corico e subito mi addormento, perché tu solo, Signore, fiducioso mi fai riposare» (Sal 4,9). In definitiva, Cristo «è la nostra pace» (Ef 2,14) ed è venuto a «dirigere i nostri passi sulla via della pace» (Lc 1,79). Egli comunicò a santa Faustina Kowalska che «l’umanità non troverà pace, finché non si rivolgerà con fiducia alla Mia Misericordia». Non cadiamo dunque nella tentazione di cercare la sicurezza interiore nei successi, nei piaceri vuoti, nel possedere, nel dominio sugli altri o nell’immagine sociale: «Vi do la mia pace», ma «non come la dà il mondo» (Gv 14,27). Gioia e senso dell’umorismo. 122. Quanto detto finora non implica uno spirito inibito, triste, acido, malinconico, o un basso profilo senza energia. Il santo è capace di vivere con gioia e senso dell’umorismo. Senza perdere il realismo, illumina gli altri con uno spirito positivo e ricco di speranza. Essere cristiani è «gioia nello Spirito Santo» (Rm 14,17), perché «all’amore di carità segue necessariamente la gioia. Poiché chi ama gode sempre dell’unione con l’amato […] Per cui alla carità segue la gioia». Abbiamo ricevuto la bellezza della sua Parola e la accogliamo «in mezzo a grandi prove, con la gioia dello Spirito Santo» (1Ts 1,6). Se lasciamo che il Signore ci faccia uscire dal nostro guscio e ci cambi la vita, allora potremo realizzare ciò che chiedeva san Paolo: «Siate sempre lieti nel Signore, ve lo ripeto: siate lieti» (Fil 4,4). 123. I profeti annunciavano il tempo di Gesù, che noi stiamo vivendo, come una rivelazione della gioia: «Canta ed esulta!» (Is 12,6); «Sali su un alto monte, tu che annunci liete notizie a Sion! Alza la tua voce con forza, tu che annunci liete notizie a Gerusalemme» (Is 40,9); «Gridate di gioia, o monti, perché il Signore consola il suo popolo e ha misericordia dei suoi poveri» (Is 49,13); «Esulta grandemente, figlia di Sion, giubila, figlia di Gerusalemme! Ecco, a te viene il tuo re. Egli è giusto e vittorioso» (Zc 9,9). E non dimentichiamo l’esortazione di Neemia: «Non vi rattristate, perché la gioia del Signore è la vostra forza» (8,10). 124. Maria, che ha saputo scoprire la novità portata da Gesù, cantava: «Il mio spirito esulta» (Lc 1,47) e Gesù stesso «esultò di gioia nello Spirito Santo» (Lc 10,21). Quando Lui passava, «la folla intera esultava» (Lc 13,17). Dopo la sua risurrezione, dove giungevano i discepoli si riscontrava «una grande gioia» (At 8,8). A noi Gesù dà una sicurezza: «Voi sarete nella tristezza, ma la vostra tristezza si cambierà in gioia. […] Vi vedrò di nuovo e il vostro cuore si rallegrerà e nessuno potrà togliervi la vostra gioia» (Gv 16,20.22). «Vi ho detto queste cose perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena» (Gv 15,11). 125. Ci sono momenti duri, tempi di croce, ma niente può distruggere la gioia soprannaturale, che «si adatta e si trasforma, e sempre rimane almeno come uno spiraglio di luce che nasce dalla certezza personale di essere infinitamente amato, al di là di tutto». E’ una sicurezza interiore, una serenità piena di speranza che offre una soddisfazione spirituale incomprensibile secondo i criteri mondani. 126. Ordinariamente la gioia cristiana è accompagnata dal senso dell’umorismo, così evidente, ad esempio, in san Tommaso Moro, in san Vincenzo de Paoli o in san Filippo Neri. Il malumore non è un segno di santità: «Caccia la malinconia dal tuo cuore» (Qo 11,10). E’ così tanto quello che riceviamo dal Signore «perché possiamo goderne» (1Tm 6,17), che a volte la tristezza è legata all’ingratitudine, con lo stare talmente chiusi in sé stessi da diventare incapaci di riconoscere i doni di Dio. 127. Il suo amore paterno ci invita: «Figlio, […] trattati bene […]. Non privarti di un giorno felice» (Sir 14,11.14). Ci vuole positivi, grati e non troppo complicati: «Nel giorno lieto sta’ allegro […]. Dio ha creato gli esseri umani retti, ma essi vanno in cerca di infinite complicazioni» (Qo 7,14.29). In ogni situazione, occorre mantenere uno spirito flessibile, e fare come san Paolo: «Ho imparato a bastare a me stesso in ogni occasione» (Fil 4,11). E’ quello che viveva san Francesco d’Assisi, capace di commuoversi di gratitudine davanti a un pezzo di pane duro, o di lodare felice Dio solo per la brezza che accarezzava il suo volto. 128. Non sto parlando della gioia consumista e individualista così presente in alcune esperienze culturali di oggi. Il consumismo infatti non fa che appesantire il cuore; può offrire piaceri occasionali e passeggeri, ma non gioia. Mi riferisco piuttosto a quella gioia che si vive in comunione, che si condivide e si partecipa, perché «si è più beati nel dare che nel ricevere» (At 20,35) e «Dio ama chi dona con gioia» (2Cor 9,7). L’amore fraterno moltiplica la nostra capacità di gioia, poiché ci rende capaci di gioire del bene degli altri: «Rallegratevi con quelli che sono nella gioia» (Rm 12,15). «Ci rallegriamo quando noi siamo deboli e voi siete forti» (2Cor 13,9). Invece, se «ci concentriamo soprattutto sulle nostre necessità, ci condanniamo a vivere con poca gioia». Audacia e fervore. 129. Nello stesso tempo, la santità è parresia: è audacia, è slancio evangelizzatore che lascia un segno in questo mondo. Perché ciò sia possibile, Gesù stesso ci viene incontro e ci ripete con serenità e fermezza: «Non abbiate paura» (Mc 6,50). «Io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo» (Mt 28,20). Queste parole ci permettono di camminare e servire con quell’atteggiamento pieno di coraggio che lo Spirito Santo suscitava negli Apostoli spingendoli ad annunciare Gesù Cristo. Audacia, entusiasmo, parlare con libertà, fervore apostolico, tutto questo è compreso nel vocabolo parresia, parola con cui la Bibbia esprime anche la libertà di un’esistenza che è aperta, perché si trova disponibile per Dio e per i fratelli (At 4,29; 9,28; 28,31; 2Cor 3,12; Ef 3,12; Eb 3,6; 10,19). 130. Il beato Paolo VI menzionava tra gli ostacoli dell’evangelizzazione proprio la carenza di parresia: «la mancanza di fervore, tanto più grave perché nasce dal di dentro». Quante volte ci sentiamo strattonati per fermarci sulla comoda riva! Ma il Signore ci chiama a navigare al largo e a gettare le reti in acque più profonde (Lc 5,4). Ci invita a spendere la nostra vita al suo servizio. Aggrappati a Lui abbiamo il coraggio di mettere tutti i nostri carismi al servizio degli altri. Potessimo sentirci spinti dal suo amore (2Cor 5,14) e dire con san Paolo: «Guai a me se non annuncio il Vangelo!» (1Cor 9,16). 131. Guardiamo a Gesù: la sua compassione profonda non era qualcosa che lo concentrasse su di sé, non era una compassione paralizzante, timida o piena di vergogna come molte volte succede a noi, ma tutto il contrario. Era una compassione che lo spingeva a uscire da sé con forza per annunciare, per inviare in missione, per inviare a guarire e a liberare. Riconosciamo la nostra fragilità ma lasciamo che Gesù la prenda nelle sue mani e ci lanci in missione. Siamo fragili, ma portatori di un tesoro che ci rende grandi e che può rendere più buoni e felici quelli che lo accolgono. L’audacia e il coraggio apostolico sono costitutivi della missione. 132. La parresia è sigillo dello Spirito, testimonianza dell’autenticità dell’annuncio. E’ felice sicurezza che ci porta a gloriarci del Vangelo che annunciamo, è fiducia irremovibile nella fedeltà del Testimone fedele, che ci dà la certezza che nulla «potrà mai separarci dall’amore di Dio» (Rm 8,39). 133. Abbiamo bisogno della spinta dello Spirito per non essere paralizzati dalla paura e dal calcolo, per non abituarci a camminare soltanto entro confini sicuri. Ricordiamoci che ciò che rimane chiuso alla fine sa odore di umidità e ci fa ammalare. Quando gli Apostoli provarono la tentazione di lasciarsi paralizzare dai timori e dai pericoli, si misero a pregare insieme chiedendo la parresia: «E ora, Signore, volgi lo sguardo alle loro minacce e concedi ai tuoi servi di proclamare con tutta franchezza la tua parola» (At 4,29). E la risposta fu che «quand’ebbero terminato la preghiera, il luogo in cui erano radunati tremò e tutti furono colmati di Spirito Santo e proclamavano la parola di Dio con franchezza» (At 4,31). 134. Come il profeta Giona, sempre portiamo latente in noi la tentazione di fuggire in un luogo sicuro che può avere molti nomi: individualismo, spiritualismo, chiusura in piccoli mondi, dipendenza, sistemazione, ripetizione di schemi prefissati, dogmatismo, nostalgia, pessimismo, rifugio nelle norme. Talvolta facciamo fatica ad uscire da un territorio che ci era conosciuto e a portata di mano. Tuttavia, le difficoltà possono essere come la tempesta, la balena, il verme che fece seccare il ricino di Giona, o il vento e il sole che gli scottarono la testa; e come fu per lui, possono avere la funzione di farci tornare a quel Dio che è tenerezza e che vuole condurci a un’itineranza costante e rinnovatrice. 135. Dio è sempre novità, che ci spinge continuamente a ripartire e a cambiare posto per andare oltre il conosciuto, verso le periferie e le frontiere. Ci conduce là dove si trova l’umanità più ferita e dove gli esseri umani, al di sotto dell’apparenza della superficialità e del conformismo, continuano a cercare la risposta alla domanda sul senso della vita. Dio non ha paura! Non ha paura! Va sempre al di là dei nostri schemi e non teme le periferie. Egli stesso si è fatto periferia (Fil 2,6-8; Gv 1,14). Per questo, se oseremo andare nelle periferie, là lo troveremo: Lui sarà già lì. Gesù ci precede nel cuore di quel fratello, nella sua carne ferita, nella sua vita oppressa, nella sua anima ottenebrata. Lui è già lì. 136. E’ vero che bisogna aprire la porta a Gesù Cristo, perché Lui bussa e chiama (Ap 3,20). Ma a volte mi domando se, a causa dell’aria irrespirabile della nostra autoreferenzialità, Gesù non starà bussando dentro di noi perché lo lasciamo uscire. Nel Vangelo vediamo come Gesù «andava per città e villaggi, predicando e annunciando la buona notizia del regno di Dio» (Lc 8,1). Anche dopo la risurrezione, quando i discepoli partirono in ogni direzione, «il Signore agiva insieme con loro» (Mc 16,20). Questa è la dinamica che scaturisce dal vero incontro. 137. L’abitudine ci seduce e ci dice che non ha senso cercare di cambiare le cose, che non possiamo far nulla di fronte a questa situazione, che è sempre stato così e che tuttavia siamo andati avanti. Per l’abitudine noi non affrontiamo più il male e permettiamo che le cose “vadano come vanno”, o come alcuni hanno deciso che debbano andare. Ma dunque lasciamo che il Signore venga a risvegliarci!, a dare uno scossone al nostro torpore, a liberarci dall’inerzia! Sfidiamo l’abitudinarietà, apriamo bene gli occhi e gli orecchi, e soprattutto il cuore, per lasciarci smuovere da ciò che succede intorno a noi e dal grido della Parola viva ed efficace del Risorto. 138. Ci mette in moto l’esempio di tanti sacerdoti, religiose, religiosi e laici che si dedicano ad annunciare e servire con grande fedeltà, molte volte rischiando la vita e certamente a prezzo della loro comodità. La loro testimonianza ci ricorda che la Chiesa non ha bisogno di tanti burocrati e funzionari, ma di missionari appassionati, divorati dall’entusiasmo di comunicare la vera vita. I santi sorprendono, spiazzano, perché la loro vita ci chiama a uscire dalla mediocrità tranquilla e anestetizzante. 139. Chiediamo al Signore la grazia di non esitare quando lo Spirito esige da noi che facciamo un passo avanti; chiediamo il coraggio apostolico di comunicare il Vangelo agli altri e di rinunciare a fare della nostra vita un museo di ricordi. In ogni situazione, lasciamo che lo Spirito Santo ci faccia contemplare la storia nella prospettiva di Gesù risorto. In tal modo la Chiesa, invece di stancarsi, potrà andare avanti accogliendo le sorprese del Signore. In comunità. 140. E’ molto difficile lottare contro la propria concupiscenza e contro le insidie e tentazioni del demonio e del mondo egoista se siamo isolati. E’ tale il bombardamento che ci seduce che, se siamo troppo soli, facilmente perdiamo il senso della realtà, la chiarezza interiore, e soccombiamo. 141. La santificazione è un cammino comunitario, da fare a due a due. Così lo rispecchiano alcune comunità sante. In varie occasioni la Chiesa ha canonizzato intere comunità che hanno vissuto eroicamente il Vangelo o che hanno offerto a Dio la vita di tutti i loro membri. Pensiamo, ad esempio, ai sette santi fondatori dell’Ordine dei Servi di Maria, alle sette beate religiose del primo monastero della Visitazione di Madrid, a san Paolo Miki e compagni martiri in Giappone, a sant’Andrea Taegon e compagni martiri in Corea, ai santi Rocco Gonzáles e Alfonso Rodríguez e compagni martiri in Sud America. Ricordiamo anche la recente testimonianza dei monaci trappisti di Tibhirine (Algeria), che si sono preparati insieme al martirio. Allo stesso modo ci sono molte coppie di sposi sante, in cui ognuno dei coniugi è stato strumento per la santificazione dell’altro. Vivere e lavorare con altri è senza dubbio una via di crescita spirituale. San Giovanni della Croce diceva a un discepolo: stai vivendo con altri «perché ti lavorino e ti esercitino nella virtù». 142. La comunità è chiamata a creare quello «spazio teologale in cui si può sperimentare la mistica presenza del Signore risorto». Condividere la Parola e celebrare insieme l’Eucaristia ci rende più fratelli e ci trasforma via via in comunità santa e missionaria. Questo dà luogo anche ad autentiche esperienze mistiche vissute in comunità, come fu il caso di san Benedetto e santa Scolastica, o di quel sublime incontro spirituale che vissero insieme sant’Agostino e sua madre santa Monica: «All’avvicinarsi del giorno in cui doveva uscire di questa vita, giorno a te noto, ignoto a noi, accadde, per opera tua, io credo, secondo i tuoi misteriosi ordinamenti, che ci trovassimo lei ed io soli, appoggiati a una finestra prospiciente il giardino della casa che ci ospitava […]. Aprivamo avidamente la bocca del cuore al getto superno della tua fonte, la fonte della vita, che è presso di te […]. E mentre parlavamo e anelavamo verso di lei [la Sapienza], la cogliemmo un poco con lo slancio totale della mente [… così che] la vita eterna [somiglierebbe] a quel momento d’intuizione che ci fece sospirare». 143. Ma queste esperienze non sono la cosa più frequente, né la più importante. La vita comunitaria, in famiglia, in parrocchia, nella comunità religiosa o in qualunque altra, è fatta di tanti piccoli dettagli quotidiani. Questo capitava nella comunità santa che formarono Gesù, Maria e Giuseppe, dove si è rispecchiata in modo paradigmatico la bellezza della comunione trinitaria. Ed è anche ciò che succedeva nella vita comunitaria che Gesù condusse con i suoi discepoli e con la gente semplice del popolo. 144. Ricordiamo come Gesù invitava i suoi discepoli a fare attenzione ai particolari. Il piccolo particolare che si stava esaurendo il vino in una festa. Il piccolo particolare che mancava una pecora. Il piccolo particolare della vedova che offrì le sue due monetine. Il piccolo particolare di avere olio di riserva per le lampade se lo sposo ritarda. Il piccolo particolare di chiedere ai discepoli di vedere quanti pani avevano.
Il piccolo particolare di avere un fuocherello pronto e del pesce sulla griglia mentre aspettava i discepoli all’alba. 145. La comunità che custodisce i piccoli particolari dell’amore, dove i membri si prendono cura gli uni degli altri e costituiscono uno spazio aperto ed evangelizzatore, è luogo della presenza del Risorto che la va santificando secondo il progetto del Padre. A volte, per un dono dell’amore del Signore, in mezzo a questi piccoli particolari ci vengono regalate consolanti esperienze di Dio: «Una sera d’inverno compivo come al solito il mio piccolo servizio, […] a un tratto udii in lontananza il suono armonioso di uno strumento musicale: allora mi immaginai un salone ben illuminato tutto splendente di ori, ragazze elegantemente vestite che si facevano a vicenda complimenti e convenevoli mondani; poi il mio sguardo cadde sulla povera malata che sostenevo; invece di una melodia udivo ogni tanto i suoi gemiti lamentosi […]. Non posso esprimere ciò che accadde nella mia anima, quello che so è che il Signore la illuminò con i raggi della verità che superano talmente lo splendore tenebroso delle feste della terra, che non potevo credere alla mia felicità». 146. Contro la tendenza all’individualismo consumista che finisce per isolarci nella ricerca del benessere appartato dagli altri, il nostro cammino di santificazione non può cessare di identificarci con quel desiderio di Gesù: che «tutti siano una sola cosa; come tu, Padre, sei in me e io in te» (Gv 17,21). In preghiera costante. 147. Infine, malgrado sembri ovvio, ricordiamo che la santità è fatta di apertura abituale alla trascendenza, che si esprime nella preghiera e nell’adorazione. Il santo è una persona dallo spirito orante, che ha bisogno di comunicare con Dio. E’ uno che non sopporta di soffocare nell’immanenza chiusa di questo mondo, e in mezzo ai suoi sforzi e al suo donarsi sospira per Dio, esce da sé nella lode e allarga i propri confini nella contemplazione del Signore. Non credo nella santità senza preghiera, anche se non si tratta necessariamente di lunghi momenti o di sentimenti intensi. 148. San Giovanni della Croce raccomandava di «procurare di stare sempre alla presenza di Dio, sia essa reale o immaginaria o unitiva, per quanto lo comporti l’attività». In fondo è il desiderio di Dio che non può fare a meno di manifestarsi in qualche modo attraverso la nostra vita quotidiana: «Sia assiduo all’orazione senza tralasciarla neppure in mezzo alle occupazioni esteriori. Sia che mangi o beva, sia che parli o tratti con i secolari o faccia qualche altra cosa, desideri sempre Dio tenendo in Lui l’affetto del cuore». 149. Ciò nonostante, perché questo sia possibile, sono necessari anche alcuni momenti dedicati solo a Dio, in solitudine con Lui. Per santa Teresa d’Avila la preghiera è «un intimo rapporto di amicizia, un frequente trattenimento da solo a solo con Colui da cui sappiamo d’essere amati». Vorrei insistere sul fatto che questo non è solo per pochi privilegiati, ma per tutti, perché «abbiamo tutti bisogno di questo silenzio carico di presenza adorata». La preghiera fiduciosa è una risposta del cuore che si apre a Dio a tu per tu, dove si fanno tacere tutte le voci per ascoltare la soave voce del Signore che risuona nel silenzio. 150. In tale silenzio è possibile discernere, alla luce dello Spirito, le vie di santità che il Signore ci propone. Diversamente, tutte le nostre decisioni potranno essere soltanto “decorazioni” che, invece di esaltare il Vangelo nella nostra vita, lo ricopriranno e lo soffocheranno. Per ogni discepolo è indispensabile stare con il Maestro, ascoltarlo, imparare da Lui, imparare sempre. Se non ascoltiamo, tutte le nostre parole saranno unicamente rumori che non servono a niente. 151. Ricordiamo che «è la contemplazione del volto di Gesù morto e risorto che ricompone la nostra umanità, anche quella frammentata per le fatiche della vita, o segnata dal peccato. Non dobbiamo addomesticare la potenza del volto di Cristo». Dunque mi permetto di chiederti: ci sono momenti in cui ti poni alla sua presenza in silenzio, rimani con Lui senza fretta, e ti lasci guardare da Lui? Lasci che il suo fuoco infiammi il tuo cuore? Se non permetti che Lui alimenti in esso il calore dell’amore e della tenerezza, non avrai fuoco, e così come potrai infiammare il cuore degli altri con la tua testimonianza e le tue parole? E se davanti al volto di Cristo ancora non riesci a lasciarti guarire e trasformare, allora penetra nelle viscere del Signore, entra nelle sue piaghe, perché lì ha sede la misericordia divina. 152. Prego tuttavia che non intendiamo il silenzio orante come un’evasione che nega il mondo intorno a noi. Il “pellegrino russo”, che camminava in preghiera continua, racconta che quella preghiera non lo separava dalla realtà esterna: «Se mi capitava di incontrare qualcuno, tutte quelle persone senza distinzione mi parevano altrettanto amabili che se fossero state della mia famiglia. […] Non solo sentivo questa luce dentro la mia anima, ma anche il mondo esterno mi appariva bellissimo e incantevole». 153. Nemmeno la storia scompare. La preghiera, proprio perché si nutre del dono di Dio che si riversa nella nostra vita, dovrebbe essere sempre ricca di memoria. La memoria delle opere di Dio è alla base dell’esperienza dell’alleanza tra Dio e il suo popolo. Se Dio ha voluto entrare nella storia, la preghiera è intessuta di ricordi. Non solo del ricordo della Parola rivelata, bensì anche della propria vita, della vita degli altri, di ciò che il Signore ha fatto nella sua Chiesa. E’ la memoria grata di cui pure parla sant’Ignazio di Loyola nella sua «Contemplazione per raggiungere l’amore», quando ci chiede di riportare alla memoria tutti i benefici che abbiamo ricevuto dal Signore. Guarda la tua storia quando preghi e in essa troverai tanta misericordia. Nello stesso tempo questo alimenterà la tua consapevolezza del fatto che il Signore ti tiene nella sua memoria e non ti dimentica mai. Di conseguenza ha senso chiedergli di illuminare persino i piccoli dettagli della tua esistenza, che a Lui non sfuggono. 154. La supplica è espressione del cuore che confida in Dio, che sa che non può farcela da solo. Nella vita del popolo fedele di Dio troviamo molte suppliche piene di tenerezza credente e di profonda fiducia. Non togliamo valore alla preghiera di domanda, che tante volte ci rasserena il cuore e ci aiuta ad andare avanti lottando con speranza. La supplica di intercessione ha un valore particolare, perché è un atto di fiducia in Dio e insieme un’espressione di amore al prossimo. Alcuni, per pregiudizi spiritualisti, pensano che la preghiera dovrebbe essere una pura contemplazione di Dio, senza distrazioni, come se i nomi e i volti dei fratelli fossero un disturbo da evitare. Al contrario, la realtà è che la preghiera sarà più gradita a Dio e più santificatrice se in essa, con l’intercessione, cerchiamo di vivere il duplice comandamento che ci ha lasciato Gesù. L’intercessione esprime l’impegno fraterno con gli altri quando in essa siamo capaci di includere la vita degli altri, le loro angosce più sconvolgenti e i loro sogni più belli. Di chi si dedica generosamente a intercedere si può dire con le parole bibliche: «Questi è l’amico dei suoi fratelli, che prega molto per il popolo» (2Mac 15,14). 155. Se veramente riconosciamo che Dio esiste, non possiamo fare a meno di adorarlo, a volte in un silenzio colmo di ammirazione, o di cantare a Lui con lode festosa. Così esprimiamo ciò che viveva il beato Charles de Foucauld quando disse: «Appena credetti che c’era un Dio, compresi che non potevo fare altrimenti che vivere solo per Lui». Anche nella vita del popolo pellegrinante ci sono molti gesti semplici di pura adorazione, come ad esempio quando «lo sguardo del pellegrino si posa su un’immagine che simboleggia la tenerezza e la vicinanza di Dio. L’amore si ferma, contempla il mistero, lo gusta in silenzio». 156. La lettura orante della Parola di Dio, più dolce del miele (Sal 119,103) e «spada a doppio taglio» (Eb 4,12) ci permette di rimanere in ascolto del Maestro affinché sia lampada per i nostri passi, luce sul nostro cammino (Sal 119,105). Come ci hanno ben ricordato i Vescovi dell’India, «la devozione alla Parola di Dio non è solo una delle tante devozioni, una cosa bella ma facoltativa. Appartiene al cuore e all’identità stessa della vita cristiana. La Parola ha in sé la forza per trasformare la vita». 157. L’incontro con Gesù nelle Scritture ci conduce all’Eucaristia, dove la stessa Parola raggiunge la sua massima efficacia, perché è presenza reale di Colui che è Parola vivente. Lì l’unico Assoluto riceve la più grande adorazione che si possa dargli in questo mondo, perché è Cristo stesso che si offre. E quando lo riceviamo nella comunione, rinnoviamo la nostra alleanza con Lui e gli permettiamo di realizzare sempre più la sua azione trasformante. Capitolo Quinto. Combattimento, vigilanza e discernimento. 158. La vita cristiana è un combattimento permanente. Si richiedono forza e coraggio per resistere alle tentazioni del diavolo e annunciare il Vangelo. Questa lotta è molto bella, perché ci permette di fare festa ogni volta che il Signore vince nella nostra vita. Il combattimento e la vigilanza. 159. Non si tratta solamente di un combattimento contro il mondo e la mentalità mondana, che ci inganna, ci intontisce e ci rende mediocri, senza impegno e senza gioia. Nemmeno si riduce a una lotta contro la propria fragilità e le proprie inclinazioni (ognuno ha la sua: la pigrizia, la lussuria, l’invidia, le gelosie, e così via). È anche una lotta costante contro il diavolo, che è il principe del male. Gesù stesso festeggia le nostre vittorie. Si rallegrava quando i suoi discepoli riuscivano a progredire nell’annuncio del Vangelo, superando l’opposizione del Maligno, ed esultava: «Vedevo Satana cadere dal cielo come una folgore» (Lc 10,18). Qualcosa di più di un mito. 160. Non ammetteremo l’esistenza del diavolo se ci ostiniamo a guardare la vita solo con criteri empirici e senza una prospettiva soprannaturale. Proprio la convinzione che questo potere maligno è in mezzo a noi, è ciò che ci permette di capire perché a volte il male ha tanta forza distruttiva. È vero che gli autori biblici avevano un bagaglio concettuale limitato per esprimere alcune realtà e che ai tempi di Gesù si poteva confondere, ad esempio, un’epilessia con la possessione demoniaca. Tuttavia, questo non deve portarci a semplificare troppo la realtà affermando che tutti i casi narrati nei vangeli erano malattie psichiche e che in definitiva il demonio non esiste o non agisce. La sua presenza si trova nella prima pagina delle Scritture, che terminano con la vittoria di Dio sul demonio. Di fatto, quando Gesù ci ha lasciato il “Padre Nostro” ha voluto che terminiamo chiedendo al Padre che ci liberi dal Maligno. L’espressione che lì si utilizza non si riferisce al male in astratto e la sua traduzione più precisa è «il Maligno». Indica un essere personale che ci tormenta. Gesù ci ha insegnato a chiedere ogni giorno questa liberazione perché il suo potere non ci domini. 161. Non pensiamo dunque che sia un mito, una rappresentazione, un simbolo, una figura o un’idea. Tale inganno ci porta ad abbassare la guardia, a trascurarci e a rimanere più esposti. Lui non ha bisogno di possederci. Ci avvelena con l’odio, con la tristezza, con l’invidia, con i vizi. E così, mentre riduciamo le difese, lui ne approfitta per distruggere la nostra vita, le nostre famiglie e le nostre comunità, perché «come leone ruggente va in giro cercando chi divorare» (1Pt 5,8). Svegli e fiduciosi. 162. La Parola di Dio ci invita esplicitamente a «resistere alle insidie del diavolo» (Ef 6,11) e a fermare «tutte le frecce infuocate del maligno» (Ef 6,16). Non sono parole poetiche, perché anche il nostro cammino verso la santità è una lotta costante. Chi non voglia riconoscerlo si vedrà esposto al fallimento o alla mediocrità. Per il combattimento abbiamo le potenti armi che il Signore ci dà: la fede che si esprime nella preghiera, la meditazione della Parola di Dio, la celebrazione della Messa, l’adorazione eucaristica, la Riconciliazione sacramentale, le opere di carità, la vita comunitaria, l’impegno missionario. Se ci trascuriamo ci sedurranno facilmente le false promesse del male, perché, come diceva il santo sacerdote Brochero: «Che importa che Lucifero prometta di liberarvi e anzi vi getti in mezzo a tutti i suoi beni, se sono beni ingannevoli, se sono beni avvelenati?». 163. In questo cammino, lo sviluppo del bene, la maturazione spirituale e la crescita dell’amore sono il miglior contrappeso nei confronti del male. Nessuno resiste se sceglie di indugiare in un punto morto, se si accontenta di poco, se smette di sognare di offrire al Signore una dedizione più bella. Peggio ancora se cade in un senso di sconfitta, perché «chi comincia senza fiducia ha perso in anticipo metà della battaglia e sotterra i propri talenti. […] Il trionfo cristiano è sempre una croce, ma una croce che al tempo stesso è vessillo di vittoria, che si porta con una tenerezza combattiva contro gli assalti del male». La corruzione spirituale. 164. Il cammino della santità è una fonte di pace e di gioia che lo Spirito ci dona, ma nello stesso tempo richiede che stiamo con “le lampade accese” (Lc 12,35) e rimaniamo attenti: «Astenetevi da ogni specie di male» (1Ts 5,22); «vegliate» (Mc 13,35; Mt 24,42); non addormentiamoci (1Ts 5,6). Perché coloro che non si accorgono di commettere gravi mancanze contro la Legge di Dio possono lasciarsi andare ad una specie di stordimento o torpore. Dato che non trovano niente di grave da rimproverarsi, non avvertono quella tiepidezza che a poco a poco si va impossessando della loro vita spirituale e finiscono per logorarsi e corrompersi. 165. La corruzione spirituale è peggiore della caduta di un peccatore, perché si tratta di una cecità comoda e autosufficiente dove alla fine tutto sembra lecito: l’inganno, la calunnia, l’egoismo e tante sottili forme di autoreferenzialità, poiché «anche Satana si maschera da angelo della luce» (2Cor 11,14). Così terminò i suoi giorni Salomone, mentre il gran peccatore Davide seppe superare la sua miseria. In un passo Gesù ci ha avvertito circa questa tentazione insidiosa che ci fa scivolare verso la corruzione: parla di una persona liberata dal demonio che, pensando che la sua vita fosse ormai pulita, finì posseduta da altri sette spiriti maligni (Lc 11,24-26). Un altro testo biblico usa un’immagine forte: «Il cane è tornato al suo vomito» (2Pt 2,22; Pro 26,11). Il discernimento. 166. Come sapere se una cosa viene dallo Spirito Santo o se deriva dallo spirito del mondo o dallo spirito del diavolo? L’unico modo è il discernimento, che non richiede solo una buona capacità di ragionare e di senso comune, è anche un dono che bisogna chiedere. Se lo chiediamo con fiducia allo Spirito Santo, e allo stesso tempo ci sforziamo di coltivarlo con la preghiera, la riflessione, la lettura e il buon consiglio, sicuramente potremo crescere in questa capacità spirituale. Un bisogno urgente. 167. Al giorno d’oggi l’attitudine al discernimento è diventata particolarmente necessaria. Infatti la vita attuale offre enormi possibilità di azione e di distrazione e il mondo le presenta come se fossero tutte valide e buone. Tutti, ma specialmente i giovani, sono esposti a uno zapping costante. È possibile navigare su due o tre schermi simultaneamente e interagire nello stesso tempo in diversi scenari virtuali. Senza la sapienza del discernimento possiamo trasformarci facilmente in burattini alla mercé delle tendenze del momento. 168. Questo risulta particolarmente importante quando compare una novità nella propria vita, e dunque bisogna discernere se sia il vino nuovo che viene da Dio o una novità ingannatrice dello spirito del mondo o dello spirito del diavolo. In altre occasioni succede il contrario, perché le forze del male ci inducono a non cambiare, a lasciare le cose come stanno, a scegliere l’immobilismo e la rigidità, e allora impediamo che agisca il soffio dello Spirito. Siamo liberi, con la libertà di Gesù, ma Egli ci chiama a esaminare quello che c’è dentro di noi – desideri, angustie, timori, attese – e quello che accade fuori di noi – i “segni dei tempi” – per riconoscere le vie della libertà piena: «Vagliate ogni cosa e tenete ciò che è buono» (1Ts 5,21). Sempre alla luce del Signore. 169. Il discernimento è necessario non solo in momenti straordinari, o quando bisogna risolvere problemi gravi, oppure quando si deve prendere una decisione cruciale. È uno strumento di lotta per seguire meglio il Signore. Ci serve sempre: per essere capaci di riconoscere i tempi di Dio e la sua grazia, per non sprecare le ispirazioni del Signore, per non lasciar cadere il suo invito a crescere. Molte volte questo si gioca nelle piccole cose, in ciò che sembra irrilevante, perché la magnanimità si rivela nelle cose semplici e quotidiane. Si tratta di non avere limiti per la grandezza, per il meglio e il più bello, ma nello stesso tempo di concentrarsi sul piccolo, sull’impegno di oggi. Pertanto chiedo a tutti i cristiani di non tralasciare di fare ogni giorno, in dialogo con il Signore che ci ama, un sincero esame di coscienza. Al tempo stesso, il discernimento ci conduce a riconoscere i mezzi concreti che il Signore predispone nel suo misterioso piano di amore, perché non ci fermiamo solo alle buone intenzioni. Un dono soprannaturale. 170. È vero che il discernimento spirituale non esclude gli apporti delle sapienze umane, esistenziali, psicologiche, sociologiche o morali. Però le trascende. E neppure gli bastano le sagge norme della Chiesa. Ricordiamo sempre che il discernimento è una grazia. Anche se include la ragione e la prudenza, le supera, perché si tratta di intravedere il mistero del progetto unico e irripetibile che Dio ha per ciascuno e che si realizza in mezzo ai più svariati contesti e limiti. Non è in gioco solo un benessere temporale, né la soddisfazione di fare qualcosa di utile, e nemmeno il desiderio di avere la coscienza tranquilla. È in gioco il senso della mia vita davanti al Padre che mi conosce e mi ama, quello vero, per il quale io possa dare la mia esistenza, e che nessuno conosce meglio di Lui. Il discernimento, insomma, conduce alla fonte stessa della vita che non muore, cioè «che conoscano te, l’unico vero Dio, e colui che hai mandato, Gesù Cristo» (Gv 17,3). Non richiede capacità speciali né è riservato ai più intelligenti e istruiti, e il Padre si manifesta con piacere agli umili (Mt 11,25). 171. Anche se il Signore ci parla in modi assai diversi durante il nostro lavoro, attraverso gli altri e in ogni momento, non è possibile prescindere dal silenzio della preghiera prolungata per percepire meglio quel linguaggio, per interpretare il significato reale delle ispirazioni che pensiamo di aver ricevuto, per calmare le ansie e ricomporre l’insieme della propria esistenza alla luce di Dio. Così possiamo permettere la nascita di quella nuova sintesi che scaturisce dalla vita illuminata dallo Spirito. Parla, Signore. 172. Tuttavia potrebbe capitare che nella preghiera stessa evitiamo di disporci al confronto con la libertà dello Spirito, che agisce come vuole. Occorre ricordare che il discernimento orante richiede di partire da una disposizione ad ascoltare: il Signore, gli altri, la realtà stessa che sempre ci interpella in nuovi modi. Solamente chi è disposto ad ascoltare ha la libertà di rinunciare al proprio punto di vista parziale e insufficiente, alle proprie abitudini, ai propri schemi. Così è realmente disponibile ad accogliere una chiamata che rompe le sue sicurezze ma che lo porta a una vita migliore, perché non basta che tutto vada bene, che tutto sia tranquillo. Può essere che Dio ci stia offrendo qualcosa di più, e nella nostra pigra distrazione non lo riconosciamo. 173. Tale atteggiamento di ascolto implica, naturalmente, obbedienza al Vangelo come ultimo criterio, ma anche al Magistero che lo custodisce, cercando di trovare nel tesoro della Chiesa ciò che può essere più fecondo per l’oggi della salvezza. Non si tratta di applicare ricette o di ripetere il passato, poiché le medesime soluzioni non sono valide in tutte le circostanze e quello che era utile in un contesto può non esserlo in un altro. Il discernimento degli spiriti ci libera dalla rigidità, che non ha spazio davanti al perenne oggi del Risorto. Unicamente lo Spirito sa penetrare nelle pieghe più oscure della realtà e tenere conto di tutte le sue sfumature, perché emerga con altra luce la novità del Vangelo. La logica del dono e della croce. 174. Una condizione essenziale per il progresso nel discernimento è educarsi alla pazienza di Dio e ai suoi tempi, che non sono mai i nostri. Lui non fa “scendere fuoco sopra gli infedeli” (Lc 9,54), né permette agli zelanti di “raccogliere la zizzania” che cresce insieme al grano (Mt 13,29). Inoltre si richiede generosità, perché «si è più beati nel dare che nel ricevere» (At 20,35). Non si fa discernimento per scoprire cos’altro possiamo ricavare da questa vita, ma per riconoscere come possiamo compiere meglio la missione che ci è stata affidata nel Battesimo, e ciò implica essere disposti a rinunce fino a dare tutto. Infatti, la felicità è paradossale e ci regala le migliori esperienze quando accettiamo quella logica misteriosa che non è di questo mondo. Come diceva san Bonaventura riferendosi alla croce: «Questa è la nostra logica». Se uno assume questa dinamica, allora non lascia anestetizzare la propria coscienza e si apre generosamente al discernimento. 175. Quando scrutiamo davanti a Dio le strade della vita, non ci sono spazi che restino esclusi. In tutti gli aspetti dell’esistenza possiamo continuare a crescere e offrire a Dio qualcosa di più, perfino in quelli nei quali sperimentiamo le difficoltà più forti. Ma occorre chiedere allo Spirito Santo che ci liberi e che scacci quella paura che ci porta a vietargli l’ingresso in alcuni aspetti della nostra vita. Colui che chiede tutto dà anche tutto, e non vuole entrare in noi per mutilare o indebolire, ma per dare pienezza. Questo ci fa vedere che il discernimento non è un’autoanalisi presuntuosa, una introspezione egoista, ma una vera uscita da noi stessi verso il mistero di Dio, che ci aiuta a vivere la missione alla quale ci ha chiamato per il bene dei fratelli. 176. Desidero che Maria coroni queste riflessioni, perché lei ha vissuto come nessun altro le Beatitudini di Gesù. Ella è colei che trasaliva di gioia alla presenza di Dio, colei che conservava tutto nel suo cuore e che si è lasciata attraversare dalla spada. È la santa tra i santi, la più benedetta, colei che ci mostra la via della santità e ci accompagna. Lei non accetta che quando cadiamo rimaniamo a terra e a volte ci porta in braccio senza giudicarci. Conversare con lei ci consola, ci libera e ci santifica. La Madre non ha bisogno di tante parole, non le serve che ci sforziamo troppo per spiegarle quello che ci succede. Basta sussurrare ancora e ancora: «Ave o Maria…». 177. Spero che queste pagine siano utili perché tutta la Chiesa si dedichi a promuovere il desiderio della santità. Chiediamo che lo Spirito Santo infonda in noi un intenso desiderio di essere santi per la maggior gloria di Dio e incoraggiamoci a vicenda in questo proposito. Così condivideremo una felicità che il mondo non ci potrà togliere”. Papa Bergoglio ha appena concluso un ciclo di 15 catechesi dedicate alla Santa Messa cattolica occidentale nelle Udienze Generali del Mercoledì degli ultimi cinque mesi. “Niente telefonini né chiacchiere: la messa non è uno spettacolo, è la Pasqua del cristiano”, avverte il Vescovo di Roma analizzando le diverse parti della Liturgia eucaristica cristiana occidentale “che comincia con il Segno della Croce, da insegnare bene ai bambini fin da piccoli, e si conclude mescolandosi con la vita di tutti i giorni”. La vita come “Pasqua fiorita”, la consegna non solo legata a questo tempo liturgico. Sì, i bambini e la croce. “I bambini non sanno fare il segno della croce – rileva Papa Bergoglio – bisogna insegnarglielo bene, perché così incomincia la Messa, così incomincia la vita, così incomincia la giornata”. Il Papa lo afferma a braccio nella prima catechesi dell’8 Novembre 2017 e lo ripete il 20 Dicembre, esortando i genitori e i nonni ad insegnare ai bambini, fin dall’inizio, a fare bene il gesto cristiano per eccellenza. Nella catechesi dell’8 Novembre, Francesco insegna: “Iniziamo oggi una nuova serie di catechesi, che punterà lo sguardo sul “cuore” della Chiesa, cioè l’Eucaristia. È fondamentale per noi cristiani comprendere bene il valore e il significato della Santa Messa, per vivere sempre più pienamente il nostro rapporto con Dio. Non possiamo dimenticare il gran numero di cristiani che, nel mondo intero, in duemila anni di storia, hanno resistito fino alla morte per difendere l’Eucaristia; e quanti, ancora oggi, rischiano la vita per partecipare alla Messa domenicale. Nell’Anno Domini 304, durante le persecuzioni di Diocleziano, un gruppo di cristiani, del nord Africa, furono sorpresi mentre celebravano la Messa in una casa e vennero arrestati. Il proconsole romano, nell’interrogatorio, chiese loro perché l’avessero fatto, sapendo che era assolutamente vietato. Ed essi risposero: «Senza la domenica non possiamo vivere», che voleva dire: se non possiamo celebrare l’Eucaristia, non possiamo vivere, la nostra vita cristiana morirebbe. In effetti, Gesù disse ai suoi discepoli: «Se non mangiate la carne del Figlio dell’uomo e non bevete il suo sangue, non avete in voi la vita. Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna e io lo risusciterò nell’ultimo giorno» (Gv 6,53-54). Quei cristiani del nord Africa furono uccisi perché celebravano l’Eucaristia. Hanno lasciato la testimonianza che si può rinunciare alla vita terrena per l’Eucaristia, perché essa ci dà la vita eterna, rendendoci partecipi della vittoria di Cristo sulla morte. Una testimonianza che ci interpella tutti e chiede una risposta su che cosa significhi per ciascuno di noi partecipare al Sacrificio della Messa e accostarci alla Mensa del Signore. Stiamo cercando quella sorgente che “zampilla acqua viva” per la vita eterna?, che fa della nostra vita un sacrificio spirituale di lode e di ringraziamento e fa di noi un solo corpo con Cristo? Questo è il senso più profondo della santa Eucaristia, che significa “ringraziamento”: ringraziamento a Dio Padre, Figlio e Spirito Santo che ci coinvolge e ci trasforma nella sua comunione di amore. Nelle prossime catechesi vorrei dare risposta ad alcune domande importanti sull’Eucaristia e la Messa, per riscoprire, o scoprire, come attraverso questo mistero della fede risplende l’amore di Dio. Il Concilio Vaticano II è stato fortemente animato dal desiderio di condurre i cristiani a comprendere la grandezza della fede e la bellezza dell’incontro con Cristo. Per questo motivo era necessario anzitutto attuare, con la guida dello Spirito Santo, un adeguato rinnovamento della Liturgia, perché la Chiesa continuamente vive di essa e si rinnova grazie ad essa. Un tema centrale che i Padri conciliari hanno sottolineato è la formazione liturgica dei fedeli, indispensabile per un vero rinnovamento. Ed è proprio questo anche lo scopo di questo ciclo di catechesi che oggi iniziamo: crescere nella conoscenza del grande dono che Dio ci ha donato nell’Eucaristia. L’Eucaristia è un avvenimento meraviglioso nel quale Gesù Cristo, nostra vita, si fa presente. Partecipare alla Messa «è vivere un’altra volta la passione e la morte redentrice del Signore. È una teofania: il Signore si fa presente sull’altare per essere offerto al Padre per la salvezza del mondo» (Omelia nella S. Messa, Casa S. Marta, 10 febbraio 2014). Il Signore è lì con noi, presente. Tante volte noi andiamo lì, guardiamo le cose, chiacchieriamo fra noi mentre il sacerdote celebra l’Eucaristia…e non celebriamo vicino a Lui. Ma è il Signore! Se oggi venisse qui il Presidente della Repubblica o qualche persona molto importante del mondo, è sicuro che tutti saremmo vicino a lui, che vorremmo salutarlo. Ma pensa: quando tu vai a Messa, lì c’è il Signore! E tu sei distratto. È il Signore! Dobbiamo pensare a questo. “Padre, è che le messe sono noiose” – “Ma cosa dici, il Signore è noioso?” – “No, no, la Messa no, i preti” – “Ah, che si convertano i preti, ma è il Signore che sta lì!”. Capito? Non dimenticatelo. «Partecipare alla Messa è vivere un’altra volta la passione e la morte redentrice del Signore». Proviamo ora a porci alcune semplici domande. Per esempio, perché si fa il segno della croce e l’atto penitenziale all’inizio della Messa? E qui vorrei fare un’altra parentesi. Voi avete visto come i bambini si fanno il segno della croce? Tu non sai cosa fanno, se è il segno della croce o un disegno. Fanno così (un gesto confuse). Bisogna insegnare ai bambini a fare bene il segno della croce. Così incomincia la Messa, così incomincia la vita, così incomincia la giornata. Questo vuol dire che noi siamo redenti con la croce del Signore. Guardate i bambini e insegnate loro a fare bene il segno della croce. E quelle Letture, nella Messa, perché stanno lì? Perché si leggono la domenica tre Letture e gli altri giorni due? Perché stanno lì, cosa significa la Lettura della Messa? Perché si leggono e che c’entrano? Oppure, perché a un certo punto il sacerdote che presiede la celebrazione dice: “In alto i nostri cuori?”. Non dice: “In alto i nostri telefonini per fare la fotografia!”. No, è una cosa brutta! E vi dico che a me dà tanta tristezza quando celebro qui in Piazza o in Basilica e vedo tanti telefonini alzati, non solo dei fedeli, anche di alcuni preti e anche vescovi. Ma per favore! La Messa non è uno spettacolo: è andare ad incontrare la passione e la risurrezione del Signore. Per questo il sacerdote dice: “In alto i nostri cuori”. Cosa vuol dire questo? Ricordatevi: niente telefonini. È molto importante tornare alle fondamenta, riscoprire ciò che è l’essenziale, attraverso quello che si tocca e si vede nella celebrazione dei Sacramenti. La domanda dell’apostolo san Tommaso (Gv 20,25), di poter vedere e toccare le ferite dei chiodi nel corpo di Gesù, è il desiderio di potere in qualche modo “toccare” Dio per credergli. Ciò che San Tommaso chiede al Signore è quello di cui noi tutti abbiamo bisogno: vederlo, toccarlo per poterlo riconoscere. I Sacramenti vengono incontro a questa esigenza umana. I Sacramenti, e la celebrazione eucaristica in modo particolare, sono i segni dell’amore di Dio, le vie privilegiate per incontrarci con Lui. Così, attraverso queste catechesi che oggi cominciano, vorrei riscoprire insieme a voi la bellezza che si nasconde nella celebrazione eucaristica, e che, una volta svelata, dà senso pieno alla vita di ciascuno. La Madonna ci accompagni in questo nuovo tratto di strada. Grazie”. La messa è preghiera, e la preghiera è anzitutto silenzio, spiega Francesco nella catechesi del 15 Novembre 2017, nella quale insegna: “Continuiamo con le catechesi sulla Santa Messa. Per comprendere la bellezza della celebrazione eucaristica desidero iniziare con un aspetto molto semplice: la Messa è preghiera, anzi, è la preghiera per eccellenza, la più alta, la più sublime, e nello stesso tempo la più “concreta”. Infatti è l’incontro d’amore con Dio mediante la sua Parola e il Corpo e Sangue di Gesù. È un incontro con il Signore. Ma prima dobbiamo rispondere a una domanda. Che cosa è veramente la preghiera? Essa è anzitutto dialogo, relazione personale con Dio. E l’uomo è stato creato come essere in relazione personale con Dio che trova la sua piena realizzazione solamente nell’incontro con il suo Creatore. La strada della vita è verso l’incontro definitivo con il Signore. Il Libro della Genesi afferma che l’uomo è stato creato a immagine e somiglianza di Dio, il quale è Padre e Figlio e Spirito Santo, una relazione perfetta di amore che è unità. Da ciò possiamo comprendere che noi tutti siamo stati creati per entrare in una relazione perfetta di amore, in un continuo donarci e riceverci per poter trovare così la pienezza del nostro essere. Quando Mosè, di fronte al roveto ardente, riceve la chiamata di Dio, gli chiede qual è il suo nome. E cosa risponde Dio? : «Io sono colui che sono» (Es 3,14). Questa espressione, nel suo senso originario, esprime presenza e favore, e infatti subito dopo Dio aggiunge: «Il Signore, il Dio dei vostri padri, Dio di Abramo, di Isacco, di Giacobbe» (v. 15). Così anche Cristo, quando chiama i suoi discepoli, li chiama affinché stiano con Lui. Questa dunque è la grazia più grande: poter sperimentare che la Messa, l’Eucaristia è il momento privilegiato per stare con Gesù, e, attraverso di Lui, con Dio e con i fratelli. Pregare, come ogni vero dialogo, è anche saper rimanere in silenzio – nei dialoghi ci sono momenti di silenzio -, in silenzio insieme a Gesù. E quando noi andiamo a Messa, forse arriviamo cinque minuti prima e incominciamo a chiacchierare con questo che è accanto a noi. Ma non è il momento di chiacchierare: è il momento del silenzio per prepararci al dialogo. È il momento di raccogliersi nel cuore per prepararsi all’incontro con Gesù. Il silenzio è tanto importante! Ricordatevi quello che ho detto la settimana scorsa: non andiamo ad un uno spettacolo, andiamo all’incontro con il Signore e il silenzio ci prepara e ci accompagna. Rimanere in silenzio insieme a Gesù. E dal misterioso silenzio di Dio scaturisce la sua Parola che risuona nel nostro cuore. Gesù stesso ci insegna come realmente è possibile “stare” con il Padre e ce lo dimostra con la sua preghiera. I Vangeli ci mostrano Gesù che si ritira in luoghi appartati a pregare; i discepoli, vedendo questa sua intima relazione con il Padre, sentono il desiderio di potervi partecipare, e gli chiedono: «Signore, insegnaci a pregare» (Lc 11,1). Abbiamo sentito nella Lettura prima, all’inizio dell’udienza. Gesù risponde che la prima cosa necessaria per pregare è saper dire “Padre”. Stiamo attenti: se io non sono capace di dire “Padre” a Dio, non sono capace di pregare. Dobbiamo imparare a dire “Padre”, cioè mettersi alla sua presenza con confidenza filiale. Ma per poter imparare, bisogna riconoscere umilmente che abbiamo bisogno di essere istruiti, e dire con semplicità: Signore, insegnami a pregare. Questo è il primo punto: essere umili, riconoscersi figli, riposare nel Padre, fidarsi di Lui. Per entrare nel Regno dei cieli è necessario farsi piccoli come bambini. Nel senso che i bambini sanno fidarsi, sanno che qualcuno si preoccuperà di loro, di quello che mangeranno, di quello che indosseranno e così via (Mt 6,25-32). Questo è il primo atteggiamento: fiducia e confidenza, come il bambino verso i genitori; sapere che Dio si ricorda di te, si prende cura di te, di te, di me, di tutti. La seconda predisposizione, anch’essa propria dei bambini, è lasciarsi sorprendere. Il bambino fa sempre mille domande perché desidera scoprire il mondo; e si meraviglia persino di cose piccole perché tutto è nuovo per lui. Per entrare nel Regno dei cieli bisogna lasciarsi meravigliare. Nella nostra relazione con il Signore, nella preghiera – domando – ci lasciamo meravigliare o pensiamo che la preghiera è parlare a Dio come fanno i pappagalli? No, è fidarsi e aprire il cuore per lasciarsi meravigliare. Ci lasciamo sorprendere da Dio che è sempre il Dio delle sorprese? Perché l’incontro con il Signore è sempre un incontro vivo, non è un incontro di museo. È un incontro vivo e noi andiamo alla Messa non a un museo. Andiamo ad un incontro vivo con il Signore. Nel Vangelo si parla di un certo Nicodemo (Gv 3,1-21), un uomo anziano, un’autorità in Israele, che va da Gesù per conoscerlo; e il Signore gli parla della necessità di “rinascere dall’alto” (v. 3). Ma che cosa significa? Si può “rinascere”? Tornare ad avere il gusto, la gioia, la meraviglia della vita, è possibile, anche davanti a tante tragedie? Questa è una domanda fondamentale della nostra fede e questo è il desiderio di ogni vero credente: il desiderio di rinascere, la gioia di ricominciare. Noi abbiamo questo desiderio? Ognuno di noi ha voglia di rinascere sempre per incontrare il Signore? Avete questo desiderio voi? Infatti si può perderlo facilmente perché, a causa di tante attività, di tanti progetti da mettere in atto, alla fine ci rimane poco tempo e perdiamo di vista quello che è fondamentale: la nostra vita del cuore, la nostra vita spirituale, la nostra vita che è incontro con il Signore nella preghiera. In verità, il Signore ci sorprende mostrandoci che Egli ci ama anche nelle nostre debolezze. «Gesù Cristo […] è la vittima di espiazione per i nostri peccati; non soltanto per i nostri, ma anche per quelli di tutto il mondo» (1Gv 2,2). Questo dono, fonte di vera consolazione – ma il Signore ci perdona sempre – questo, consola, è una vera consolazione, è un dono che ci è dato attraverso l’Eucaristia, quel banchetto nuziale in cui lo Sposo incontra la nostra fragilità. Posso dire che quando faccio la comunione nella Messa, il Signore incontra la mia fragilità? Sì! Possiamo dirlo perché questo è vero! Il Signore incontra la nostra fragilità per riportarci alla nostra prima chiamata: quella di essere a immagine e somiglianza di Dio. Questo è l’ambiente dell’Eucaristia, questo è la preghiera”. La Santa Messa è rifare il calvario. È la metafora usata da Papa Bergoglio nella catechesi del 22 Novembre 2017 per spiegare il senso della Messa come memoriale, che è molto più di un ricordo. Francesco insegna: “Proseguendo con le Catechesi sulla Messa, possiamo domandarci: che cos’è essenzialmente la Messa? La Messa è il memoriale del Mistero pasquale di Cristo. Essa ci rende partecipi della sua vittoria sul peccato e la morte, e dà significato pieno alla nostra vita. Per questo, per comprendere il valore della Messa dobbiamo innanzitutto capire allora il significato biblico del “memoriale”. Esso «non è soltanto il ricordo degli avvenimenti del passato, ma li rende in certo modo presenti e attuali. Proprio così Israele intende la sua liberazione dall’Egitto: ogni volta che viene celebrata la Pasqua, gli avvenimenti dell’Esodo sono resi presenti alla memoria dei credenti affinché conformino ad essi la propria vita» (Catechismo della Chiesa Cattolica, 1363). Gesù Cristo, con la sua passione, morte, risurrezione e ascensione al cielo ha portato a compimento la Pasqua. E la Messa è il memoriale della sua Pasqua, del suo “esodo”, che ha compiuto per noi, per farci uscire dalla schiavitù e introdurci nella terra promessa della vita eterna. Non è soltanto un ricordo, no, è di più: è fare presente quello che è accaduto venti secoli fa. L’Eucaristia ci porta sempre al vertice dell’azione di salvezza di Dio: il Signore Gesù, facendosi pane spezzato per noi, riversa su di noi tutta la sua misericordia e il suo amore, come ha fatto sulla croce, così da rinnovare il nostro cuore, la nostra esistenza e il nostro modo di relazionarci con Lui e con i fratelli. Dice il Concilio Vaticano II: «Ogni volta che il sacrificio della croce, col quale Cristo, nostro agnello pasquale, è stato immolato, viene celebrato sull’altare, si effettua l’opera della nostra redenzione» (Cost. dogm. Lumen gentium, 3). Ogni celebrazione dell’Eucaristia è un raggio di quel sole senza tramonto che è Gesù risorto. Partecipare alla Messa, in particolare alla domenica, significa entrare nella vittoria del Risorto, essere illuminati dalla sua luce, riscaldati dal suo calore. Attraverso la celebrazione eucaristica lo Spirito Santo ci rende partecipi della vita divina che è capace di trasfigurare tutto il nostro essere mortale. E nel suo passaggio dalla morte alla vita, dal tempo all’eternità, il Signore Gesù trascina anche noi con Lui a fare Pasqua. Nella Messa si fa Pasqua. Noi, nella Messa, stiamo con Gesù, morto e risorto e Lui ci trascina avanti, alla vita eterna. Nella Messa ci uniamo a Lui. Anzi, Cristo vive in noi e noi viviamo in Lui. «Sono stato crocifisso con Cristo – dice San Paolo – e non vivo più io, ma Cristo vive in me. E questa vita, che io vivo nel corpo, la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha consegnato se stesso per me» (Gal 2,19-20). Così pensava Paolo. Il suo sangue, infatti, ci libera dalla morte e dalla paura della morte. Ci libera non solo dal dominio della morte fisica, ma dalla morte spirituale che è il male, il peccato, che ci prende ogni volta che cadiamo vittime del peccato nostro o altrui. E allora la nostra vita viene inquinata, perde bellezza, perde significato, sfiorisce. Cristo invece ci ridà la vita; Cristo è la pienezza della vita, e quando ha affrontato la morte la annientata per sempre: «Risorgendo distrusse la morte e rinnovò la vita» (Preghiera eucaristica IV). La Pasqua di Cristo è la vittoria definitiva sulla morte, perché Lui ha trasformato la sua morte in supremo atto d’amore. Morì per amore! E nell’Eucaristia, Egli vuole comunicarci questo suo amore pasquale, vittorioso. Se lo riceviamo con fede, anche noi possiamo amare veramente Dio e il prossimo, possiamo amare come Lui ha amato noi, dando la vita. Se l’amore di Cristo è in me, posso donarmi pienamente all’altro, nella certezza interiore che se anche l’altro dovesse ferirmi io non morirei; altrimenti dovrei difendermi. I martiri hanno dato la vita proprio per questa certezza della vittoria di Cristo sulla morte. Solo se sperimentiamo questo potere di Cristo, il potere del suo amore, siamo veramente liberi di donarci senza paura. Questo è la Messa: entrare in questa passione, morte, risurrezione, ascensione di Gesù; quando andiamo a Messa è come se andassimo al calvario, lo stesso. Ma pensate voi: se noi nel momento della Messa andiamo al calvario – pensiamo con immaginazione – e sappiamo che quell’uomo lì è Gesù. Ma, noi ci permetteremo di chiacchierare, di fare fotografie, di fare un po’ lo spettacolo? No! Perché è Gesù! Noi di sicuro staremmo nel silenzio, nel pianto e anche nella gioia di essere salvati. Quando noi entriamo in chiesa per celebrare la Messa pensiamo questo: entro nel calvario, dove Gesù dà la sua vita per me. E così sparisce lo spettacolo, spariscono le chiacchiere, i commenti e queste cose che ci allontano da questa cosa tanto bella che è la Messa, il trionfo di Gesù. Penso che ora sia più chiaro come la Pasqua si renda presente e operante ogni volta che celebriamo la Messa, cioè il senso del memoriale. La partecipazione all’Eucaristia ci fa entrare nel mistero pasquale di Cristo, donandoci di passare con Lui dalla morte alla vita, cioè lì nel calvario. La Messa è rifare il calvario, non è uno spettacolo”. Si va a Messa la Domenica non solo perché è un precetto della Chiesa, ma perché è la Messa che fa la Domenica cristiana, spiega il Vescovo di Roma nella catechesi del 13 Dicembre 2017. Francesco insegna: “Riprendendo il cammino di catechesi sulla Messa, oggi ci chiediamo: perché andare a Messa la Dmenica? La celebrazione domenicale dell’Eucaristia è al centro della vita della Chiesa (Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 2177). Noi cristiani andiamo a Messa la Domenica per incontrare il Signore risorto, o meglio per lasciarci incontrare da Lui, ascoltare la sua parola, nutrirci alla sua mensa, e così diventare Chiesa, ossia suo mistico Corpo vivente nel mondo. Lo hanno compreso, fin dalla prima ora, i discepoli di Gesù, i quali hanno celebrato l’incontro eucaristico con il Signore nel giorno della settimana che gli ebrei chiamavano “il primo della settimana” e i romani “giorno del sole”, perché in quel giorno Gesù era risorto dai morti ed era apparso ai discepoli, parlando con loro, mangiando con loro, donando loro lo Spirito Santo (Mt 28,1; Mc 16,9.14; Lc 24,1.13; Gv 20,1.19), come abbiamo sentito nella Lettura biblica. Anche la grande effusione dello Spirito a Pentecoste avvenne di domenica, il cinquantesimo giorno dopo la risurrezione di Gesù. Per queste ragioni, la domenica è un giorno santo per noi, santificato dalla celebrazione eucaristica, presenza viva del Signore tra noi e per noi. E’ la Messa, dunque, che fa la Domenica cristiana! La domenica cristiana gira intorno alla Messa. Che Domenica è, per un cristiano, quella in cui manca l’incontro con il Signore? Ci sono comunità cristiane che, purtroppo, non possono godere della Messa ogni Domenica; anch’esse tuttavia, in questo santo giorno, sono chiamate a raccogliersi in preghiera nel nome del Signore, ascoltando la Parola di Dio e tenendo vivo il desiderio dell’Eucaristia. Alcune società secolarizzate hanno smarrito il senso cristiano della domenica illuminata dall’Eucaristia. E’ peccato, questo! In questi contesti è necessario ravvivare questa consapevolezza, per recuperare il significato della festa, il significato della gioia, della comunità parrocchiale, della solidarietà, del riposo che ristora l’anima e il corpo (Catechismo della Chiesa Cattolica, nn. 2177-2188). Di tutti questi valori ci è maestra l’Eucaristia, Domenica dopo Domenica. Per questo il Concilio Vaticano II ha voluto ribadire che «la domenica è il giorno di festa primordiale che deve essere proposto e inculcato alla pietà dei fedeli, in modo che divenga anche giorno di gioia e di astensione dal lavoro» (Cost. Sacrosanctum Concilium, 106). L’astensione domenicale dal lavoro non esisteva nei primi secoli: è un apporto specifico del cristianesimo. Per tradizione biblica gli ebrei riposano il sabato, mentre nella società romana non era previsto un giorno settimanale di astensione dai lavori servili. Fu il senso cristiano del vivere da figli e non da schiavi, animato dall’Eucaristia, a fare della Domenica – quasi universalmente – il giorno del riposo. Senza Cristo siamo condannati ad essere dominati dalla stanchezza del quotidiano, con le sue preoccupazioni, e dalla paura del domani. L’incontro domenicale con il Signore ci dà la forza di vivere l’oggi con fiducia e coraggio e di andare avanti con speranza. Per questo noi cristiani andiamo ad incontrare il Signore la Domenica, nella celebrazione eucaristica. La Comunione eucaristica con Gesù, Risorto e Vivente in eterno, anticipa la Domenica senza tramonto, quando non ci sarà più fatica né dolore né lutto né lacrime, ma solo la gioia di vivere pienamente e per sempre con il Signore. Anche di questo beato riposo ci parla la Messa della Domenica, insegnandoci, nel fluire della settimana, ad affidarci alle mani del Padre che è nei cieli. Cosa possiamo rispondere a chi dice che non serve andare a Messa, nemmeno la Domenica, perché l’importante è vivere bene, amare il prossimo? E’ vero che la qualità della vita cristiana si misura dalla capacità di amare, come ha detto Gesù: «Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli: se avete amore gli uni per gli altri» (Gv 13,35); ma come possiamo praticare il Vangelo senza attingere l’energia necessaria per farlo, una domenica dopo l’altra, alla fonte inesauribile dell’Eucaristia? Non andiamo a Messa per dare qualcosa a Dio, ma per ricevere da Lui ciò di cui abbiamo davvero bisogno. Lo ricorda la preghiera della Chiesa, che così si rivolge a Dio: «Tu non hai bisogno della nostra lode, ma per un dono del tuo amore ci chiami a renderti grazie; i nostri inni di benedizione non accrescono la tua grandezza, ma ci ottengono la grazia che ci salva» (Messale Romano, Prefazio comune IV). In conclusione, perché andare a Messa la Domenica? Non basta rispondere che è un precetto della Chiesa; questo aiuta a custodirne il valore, ma da solo non basta. Noi cristiani abbiamo bisogno di partecipare alla Messa domenicale perché solo con la grazia di Gesù, con la sua presenza viva in noi e tra di noi, possiamo mettere in pratica il suo comandamento, e così essere suoi testimoni credibili”. Nella catechesi del 20 Dicembre 2017 Papa Bergoglio insegna: “Oggi vorrei entrare nel vivo della celebrazione eucaristica. La Messa è composta da due parti, che sono la Liturgia della Parola e la Liturgia eucaristica, così strettamente congiunte tra di loro da formare un unico atto di culto (cfr Sacrosanctum Concilium, 56; Ordinamento Generale del Messale Romano, 28). Introdotta da alcuni riti preparatori e conclusa da altri, la celebrazione è dunque un unico corpo e non si può separare, ma per una comprensione migliore cercherò di spiegare i suoi vari momenti, ognuno dei quali è capace di toccare e coinvolgere una dimensione della nostra umanità. È necessario conoscere questi santi segni per vivere pienamente la Messa e assaporare tutta la sua bellezza. Quando il popolo è radunato, la celebrazione si apre con i riti introduttivi, comprendenti l’ingresso dei celebranti o del celebrante, il saluto – “Il Signore sia con voi”, “La pace sia con voi” –, l’atto penitenziale – “Io confesso”, dove noi chiediamo perdono dei nostri peccati –, il Kyrie eleison, l’inno del Gloria e l’orazione colletta: si chiama “orazione colletta” non perché lì si fa la colletta delle offerte: è la colletta delle intenzioni di preghiera di tutti i popoli; e quella colletta dell’intenzione dei popoli sale al cielo come preghiera. Il loro scopo – di questi riti introduttivi – è di far sì «che i fedeli, riuniti insieme, formino una comunità, e si dispongano ad ascoltare con fede la parola di Dio e a celebrare degnamente l’Eucaristia» (Ordinamento Generale del Messale Romano, 46). Non è una buona abitudine guardare l’orologio e dire: “Sono in tempo, arrivo dopo il sermone e con questo compio il precetto”. La Messa incomincia con il segno della Croce, con questi riti introduttivi, perché lì incominciamo ad adorare Dio come comunità. E per questo è importante prevedere di non arrivare in ritardo, bensì in anticipo, per preparare il cuore a questo rito, a questa celebrazione della comunità. Mentre normalmente si svolge il canto d’ingresso, il sacerdote con gli altri ministri raggiunge processionalmente il presbiterio, e qui saluta l’altare con un inchino e, in segno di venerazione, lo bacia e, quando c’è l’incenso, lo incensa. Perché? Perché l’altare è Cristo: è figura di Cristo. Quando noi guardiamo l’altare, guardiamo proprio dov’è Cristo. L’altare è Cristo. Questi gesti, che rischiano di passare inosservati, sono molto significativi, perché esprimono fin dall’inizio che la Messa è un incontro di amore con Cristo, il quale «offrendo il suo corpo sulla croce […] divenne altare, vittima e sacerdote» (prefazio pasquale V). L’altare, infatti, in quanto segno di Cristo, «è il centro dell’azione di grazie che si compie con l’Eucaristia» (Ordinamento Generale del Messale Romano, 296), e tutta la comunità attorno all’altare, che è Cristo; non per guardarsi la faccia, ma per guardare Cristo, perché Cristo è al centro della comunità, non è lontano da essa. Vi è poi il segno della croce. Il sacerdote che presiede lo traccia su di sé e lo stesso fanno tutti i membri dell’assemblea, consapevoli che l’atto liturgico si compie «nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo». E qui passo a un altro argomento piccolissimo. Voi avete visto come i bambini fanno il segno della croce? Non sanno cosa fanno: a volte fanno un disegno, che non è il segno della croce. Per favore: mamma e papà, nonni, insegnate ai bambini, dall’inizio – da piccolini – a fare bene il segno della croce. E spiegategli che è avere come protezione la croce di Gesù. E la Messa incomincia con il segno della croce. Tutta la preghiera si muove, per così dire, nello spazio della Santissima Trinità – “Nel nome del Padre, del Figlio, e dello Spirito Santo” –, che è spazio di comunione infinita; ha come origine e come fine l’amore di Dio Uno e Trino, manifestato e donato a noi nella Croce di Cristo. Infatti il suo mistero pasquale è dono della Trinità, e l’Eucaristia scaturisce sempre dal suo cuore trafitto. Segnandoci con il segno della croce, dunque, non solo facciamo memoria del nostro Battesimo, ma affermiamo che la preghiera liturgica è l’incontro con Dio in Cristo Gesù, che per noi si è incarnato, è morto in croce ed è risorto glorioso. Il sacerdote, quindi, rivolge il saluto liturgico, con l’espressione: «Il Signore sia con voi» o un’altra simile – ce ne sono parecchie –; e l’assemblea risponde: «E con il tuo spirito». Siamo in dialogo; siamo all’inizio della Messa e dobbiamo pensare al significato di tutti questi gesti e parole. Stiamo entrando in una “sinfonia”, nella quale risuonano varie tonalità di voci, compreso tempi di silenzio, in vista di creare l’“accordo” tra tutti i partecipanti, cioè di riconoscersi animati da un unico Spirito e per un medesimo fine. In effetti «il saluto sacerdotale e la risposta del popolo manifestano il mistero della Chiesa radunata» (Ordinamento Generale del Messale Romano, 50). Si esprime così la comune fede e il desiderio vicendevole di stare con il Signore e di vivere l’unità con tutta la comunità. E questa è una sinfonia orante, che si sta creando e presenta subito un momento molto toccante, perché chi presiede invita tutti a riconoscere i propri peccati. Tutti siamo peccatori. Non so, forse qualcuno di voi non è peccatore…Se qualcuno non è peccatore alzi la mano, per favore, così tutti vediamo. Ma non ci sono mani alzate, va bene: avete buona la fede! Tutti siamo peccatori; e per questo all’inizio della Messa chiediamo perdono. E’ l’atto penitenziale. Non si tratta solamente di pensare ai peccati commessi, ma molto di più: è l’invito a confessarsi peccatori davanti a Dio e davanti alla comunità, davanti ai fratelli, con umiltà e sincerità, come il pubblicano al tempio. Se veramente l’Eucaristia rende presente il mistero pasquale, vale a dire il passaggio di Cristo dalla morte alla vita, allora la prima cosa che dobbiamo fare è riconoscere quali sono le nostre situazioni di morte per poter risorgere con Lui a vita nuova. Questo ci fa comprendere quanto sia importante l’atto penitenziale. E per questo riprenderemo l’argomento nella prossima catechesi. Andiamo passo passo nella spiegazione della Messa. Ma mi raccomando: insegnate bene ai bambini a fare il segno della croce, per favore!”. Fragili come l’argilla. Francesco apre il nuovo Anno Domini 2018 soffermandosi, nella catechesi del 3 Gennaio 2018, sul significato dell’atto penitenziale nella Santa Messa. Papa Bergoglio insegna: “Riprendendo le catechesi sulla celebrazione eucaristica, consideriamo oggi, nel contesto dei riti di introduzione, l’atto penitenziale. Nella sua sobrietà, esso favorisce l’atteggiamento con cui disporsi a celebrare degnamente i santi misteri, ossia riconoscendo davanti a Dio e ai fratelli i nostri peccati, riconoscendo che siamo peccatori. L’invito del sacerdote infatti è rivolto a tutta la comunità in preghiera, perché tutti siamo peccatori. Che cosa può donare il Signore a chi ha già il cuore pieno di sé, del proprio successo? Nulla, perché il presuntuoso è incapace di ricevere perdono, sazio com’è della sua presunta giustizia. Pensiamo alla parabola del fariseo e del pubblicano, dove soltanto il secondo – il pubblicano – torna a casa giustificato, cioè perdonato (Lc 18,9-14). Chi è consapevole delle proprie miserie e abbassa gli occhi con umiltà, sente posarsi su di sé lo sguardo misericordioso di Dio. Sappiamo per esperienza che solo chi sa riconoscere gli sbagli e chiedere scusa riceve la comprensione e il perdono degli altri. Ascoltare in silenzio la voce della coscienza permette di riconoscere che i nostri pensieri sono distanti dai pensieri divini, che le nostre parole e le nostre azioni sono spesso mondane, guidate cioè da scelte contrarie al Vangelo. Perciò, all’inizio della Messa, compiamo comunitariamente l’atto penitenziale mediante una formula di confessione generale, pronunciata alla prima persona singolare. Ciascuno confessa a Dio e ai fratelli “di avere molto peccato in pensieri, parole, opere e omissioni”. Sì, anche in omissioni, ossia di aver tralasciato di fare il bene che avrei potuto fare. Spesso ci sentiamo bravi perché – diciamo – “non ho fatto male a nessuno”. In realtà, non basta non fare del male al prossimo, occorre scegliere di fare il bene cogliendo le occasioni per dare buona testimonianza che siamo discepoli di Gesù. E’ bene sottolineare che confessiamo sia a Dio che ai fratelli di essere peccatori: questo ci aiuta a comprendere la dimensione del peccato che, mentre ci separa da Dio, ci divide anche dai nostri fratelli, e viceversa. Il peccato taglia: taglia il rapporto con Dio e taglia il rapporto con i fratelli, il rapporto nella famiglia, nella società, nella comunità: Il peccato taglia sempre, separa, divide. Le parole che diciamo con la bocca sono accompagnate dal gesto di battersi il petto, riconoscendo che ho peccato proprio per colpa mia, e non di altri. Capita spesso infatti che, per paura o vergogna, puntiamo il dito per accusare altri. Costa ammettere di essere colpevoli, ma ci fa bene confessarlo con sincerità. Confessare i propri peccati. Io ricordo un aneddoto, che raccontava un vecchio missionario, di una donna che è andata a confessarsi e incominciò a dire gli sbagli del marito; poi è passata a raccontare gli sbagli della suocera e poi i peccati dei vicini. A un certo punto, il confessore le ha detto: “Ma, signora, mi dica: ha finito? – Benissimo: lei ha finito con i peccati degli altri. Adesso incominci a dire i suoi”. Dire i propri peccati! Dopo la confessione del peccato, supplichiamo la Beata Vergine Maria, gli Angeli e i Santi di pregare il Signore per noi. Anche in questo è preziosa la comunione dei Santi: cioè, l’intercessione di questi «amici e modelli di vita» (Prefazio del 1° novembre) ci sostiene nel cammino verso la piena comunione con Dio, quando il peccato sarà definitivamente annientato. Oltre al “Confesso”, si può fare l’atto penitenziale con altre formule, ad esempio: «Pietà di noi, Signore. Contro di te abbiamo peccato. Mostraci, Signore, la tua misericordia. E donaci la tua salvezza» (Sal 123,3; 85,8; Ger 14,20). Specialmente la domenica si può compiere la benedizione e l’aspersione dell’acqua in memoria del Battesimo (OGMR, 51), che cancella tutti i peccati. E’ anche possibile, come parte dell’atto penitenziale, cantare il Kyrie eléison: con antica espressione greca, acclamiamo il Signore – Kyrios – e imploriamo la sua misericordia (ibid., 52). La Sacra Scrittura ci offre luminosi esempi di figure “penitenti” che, rientrando in sé stessi dopo aver commesso il peccato, trovano il coraggio di togliere la maschera e aprirsi alla grazia che rinnova il cuore. Pensiamo al re Davide e alle parole a lui attribuite nel Salmo: «Pietà di me, o Dio, nel tuo amore; nella tua grande misericordia cancella la mia iniquità» (51,3). Pensiamo al figlio prodigo che ritorna dal padre; o all’invocazione del pubblicano: «O Dio, abbi pietà di me, peccatore» (Lc 18,13). Pensiamo anche a San Pietro, a Zaccheo, alla donna samaritana. Misurarsi con la fragilità dell’argilla di cui siamo impastati è un’esperienza che ci fortifica: mentre ci fa fare i conti con la nostra debolezza, ci apre il cuore a invocare la misericordia divina che trasforma e converte. E questo è quello che facciamo nell’atto penitenziale all’inizio della Messa”. Il silenzio non si riduce all’assenza di parole, rileva il Vescovo di Roma nella catechesi del 10 Gennaio 2018 a proposito dell’orazione di colletta, in cui il sacerdote con le braccia allargate imita il Cristo con le braccia aperte sul legno della croce raffigurato negli affreschi delle catacombe romane. Papa Bergoglio insegna: “Nel percorso di catechesi sulla celebrazione eucaristica, abbiamo visto che l’Atto penitenziale ci aiuta a spogliarci delle nostre presunzioni e a presentarci a Dio come siamo realmente, coscienti di essere peccatori, nella speranza di essere perdonati. Proprio dall’incontro tra la miseria umana e la misericordia divina prende vita la gratitudine espressa nel “Gloria”, «un inno antichissimo e venerabile con il quale la Chiesa, radunata nello Spirito Santo, glorifica e supplica Dio Padre e l’Agnello» (Ordinamento Generale del Messale Romano, 53). L’esordio di questo inno – “Gloria a Dio nell’alto dei cieli” – riprende il canto degli Angeli alla nascita di Gesù a Betlemme, gioioso annuncio dell’abbraccio tra cielo e terra. Questo canto coinvolge anche noi raccolti in preghiera: «Gloria a Dio nell’alto dei cieli e pace in terra agli uomini di buona volontà». Dopo il “Gloria”, oppure, quando questo non c’è, subito dopo l’Atto penitenziale, la preghiera prende forma particolare nell’orazione denominata “colletta”, per mezzo della quale viene espresso il carattere proprio della celebrazione, variabile secondo i giorni e i tempi dell’anno (ibid., 54). Con l’invito «preghiamo», il sacerdote esorta il popolo a raccogliersi con lui in un momento di silenzio, al fine di prendere coscienza di stare alla presenza di Dio e far emergere, ciascuno nel proprio cuore, le personali intenzioni con cui partecipa alla Messa (ibid., 54). Il sacerdote dice «preghiamo»; e poi, viene un momento di silenzio, e ognuno pensa alle cose di cui ha bisogno, che vuol chiedere, nella preghiera. Il silenzio non si riduce all’assenza di parole, bensì nel disporsi ad ascoltare altre voci: quella del nostro cuore e, soprattutto, la voce dello Spirito Santo. Nella liturgia, la natura del sacro silenzio dipende dal momento in cui ha luogo: «Durante l’atto penitenziale e dopo l’invito alla preghiera, aiuta il raccoglimento; dopo la lettura o l’omelia, è un richiamo a meditare brevemente ciò che si è ascoltato; dopo la Comunione, favorisce la preghiera interiore di lode e di supplica» (ibid., 45). Dunque, prima dell’orazione iniziale, il silenzio aiuta a raccoglierci in noi stessi e a pensare al perché siamo lì. Ecco allora l’importanza di ascoltare il nostro animo per aprirlo poi al Signore. Forse veniamo da giorni di fatica, di gioia, di dolore, e vogliamo dirlo al Signore, invocare il suo aiuto, chiedere che ci stia vicino; abbiamo familiari e amici malati o che attraversano prove difficili; desideriamo affidare a Dio le sorti della Chiesa e del mondo. E a questo serve il breve silenzio prima che il sacerdote, raccogliendo le intenzioni di ognuno, esprima a voce alta a Dio, a nome di tutti, la comune preghiera che conclude i riti d’introduzione, facendo appunto la “colletta” delle singole intenzioni. Raccomando vivamente ai sacerdoti di osservare questo momento di silenzio e non andare di fretta: «preghiamo», e che si faccia il silenzio. Raccomando questo ai sacerdoti. Senza questo silenzio, rischiamo di trascurare il raccoglimento dell’anima. Il sacerdote recita questa supplica, questa orazione di colletta, con le braccia allargate è l’atteggiamento dell’orante, assunto dai cristiani fin dai primi secoli – come testimoniano gli affreschi delle catacombe romane – per imitare il Cristo con le braccia aperte sul legno della croce. E lì, Cristo è l’Orante ed è insieme la preghiera! Nel Crocifisso riconosciamo il Sacerdote che offre a Dio il culto a lui gradito, ossia l’obbedienza filiale. Nel Rito Romano le orazioni sono concise ma ricche di significato: si possono fare tante belle meditazioni su queste orazioni. Tanto belle! Tornare a meditarne i testi, anche fuori della Messa, può aiutarci ad apprendere come rivolgerci a Dio, cosa chiedere, quali parole usare. Possa la liturgia diventare per tutti noi una vera scuola di preghiera”. In diretta, “live”, e non sul giornale. La Santa Messa avviene in diretta e non per sentito dire, rivela Francesco nella catechesi dedicata alla Liturgia della Parola, il 31 Gennaio 2018. “Continuiamo oggi le catechesi sulla Santa Messa. Dopo esserci soffermati sui riti d’introduzione, consideriamo ora la Liturgia della Parola, che è una parte costitutiva perché ci raduniamo proprio per ascoltare quello che Dio ha fatto e intende ancora fare per noi. E’ un’esperienza che avviene “in diretta” e non per sentito dire, perché «quando nella Chiesa si legge la sacra Scrittura, Dio stesso parla al suo popolo e Cristo, presente nella parola, annunzia il Vangelo» (Ordinamento Generale del Messale Romano, 29; Cost. Sacrosanctum Concilium, 7; 33). E quante volte, mentre viene letta la Parola di Dio, si commenta: “Guarda quello…, guarda quella…, guarda il cappello che ha portato quella: è ridicolo…”. E si cominciano a fare dei commenti. Non è vero? Si devono fare dei commenti mentre si legge la Parola di Dio? No, perché se tu fai delle chiacchiere con la gente non ascolti la Parola di Dio. Quando si legge la Parola di Dio nella Bibbia – la prima Lettura, la seconda, il Salmo responsoriale e il Vangelo – dobbiamo ascoltare, aprire il cuore, perché è Dio stesso che ci parla e non pensare ad altre cose o parlare di altre cose. Capito?…Vi spiegherò che cosa succede in questa Liturgia della Parola. Le pagine della Bibbia cessano di essere uno scritto per diventare parola viva, pronunciata da Dio. È Dio che, tramite la persona che legge, ci parla e interpella noi che ascoltiamo con fede. Lo Spirito «che ha parlato per mezzo dei profeti» (Credo) e ha ispirato gli autori sacri, fa sì che «la parola di Dio operi davvero nei cuori ciò che fa risuonare negli orecchi» (Lezionario, Introd., 9). Ma per ascoltare la Parola di Dio bisogna avere anche il cuore aperto per ricevere le parole nel cuore. Dio parla e noi gli porgiamo ascolto, per poi mettere in pratica quanto abbiamo ascoltato. È molto importante ascoltare. Alcune volte forse non capiamo bene perché ci sono alcune letture un po’ difficili. Ma Dio ci parla lo stesso in un altro modo. [Bisogna stare] in silenzio e ascoltare la Parola di Dio. Non dimenticatevi di questo. Alla Messa, quando incominciano le letture, ascoltiamo la Parola di Dio. Abbiamo bisogno di ascoltarlo! E’ infatti una questione di vita, come ben ricorda l’incisiva espressione che «non di solo pane vivrà l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio» (Mt 4,4). La vita che ci dà la Parola di Dio. In questo senso, parliamo della Liturgia della Parola come della “mensa” che il Signore imbandisce per alimentare la nostra vita spirituale. E’ una mensa abbondante quella della liturgia, che attinge largamente ai tesori della Bibbia (SC, 51), sia dell’Antico che del Nuovo Testamento, perché in essi è annunciato dalla Chiesa l’unico e identico mistero di Cristo (cfr Lezionario, Introd., 5). Pensiamo alla ricchezza delle letture bibliche offerte dai tre cicli domenicali che, alla luce dei Vangeli Sinottici, ci accompagnano nel corso dell’anno liturgico: una grande ricchezza. Desidero qui ricordare anche l’importanza del Salmo responsoriale, la cui funzione è di favorire la meditazione di quanto ascoltato nella lettura che lo precede. E’ bene che il Salmo sia valorizzato con il canto, almeno nel ritornello (OGMR, 61; Lezionario, Introd., 19-22). La proclamazione liturgica delle medesime letture, con i canti desunti dalla Sacra Scrittura, esprime e favorisce la comunione ecclesiale, accompagnando il cammino di tutti e di ciascuno. Si capisce pertanto perché alcune scelte soggettive, come l’omissione di letture o la loro sostituzione con testi non biblici, siano proibite. Ho sentito che qualcuno, se c’è una notizia, legge il giornale, perché è la notizia del giorno. No! La Parola di Dio è la Parola di Dio! Il giornale lo possiamo leggere dopo. Ma lì si legge la Parola di Dio. È il Signore che ci parla. Sostituire quella Parola con altre cose impoverisce e compromette il dialogo tra Dio e il suo popolo in preghiera. Al contrario, si richiede la dignità dell’ambone e l’uso del Lezionario, la disponibilità di buoni lettori e salmisti. Ma bisogna cercare dei buoni lettori! Quelli che sappiano leggere, non quelli che leggono storpiando le parole e non si capisce nulla. E’ così. Buoni lettori. Si devono preparare e fare la prova prima della Messa per leggere bene. E questo crea un clima di silenzio ricettivo. Sappiamo che la parola del Signore è un aiuto indispensabile per non smarrirci, come ben riconosce il Salmista che, rivolto al Signore, confessa: «Lampada per i miei passi è la tua parola, luce sul mio cammino» (Sal 119,105). Come potremmo affrontare il nostro pellegrinaggio terreno, con le sue fatiche e le sue prove, senza essere regolarmente nutriti e illuminati dalla Parola di Dio che risuona nella liturgia? Certo non basta udire con gli orecchi, senza accogliere nel cuore il seme della divina Parola, permettendole di portare frutto. Ricordiamoci della parabola del seminatore e dei diversi risultati a seconda dei diversi tipi di terreno (Mc 4,14-20). L’azione dello Spirito, che rende efficace la risposta, ha bisogno di cuori che si lascino lavorare e coltivare, in modo che quanto ascoltato a Messa passi nella vita quotidiana, secondo l’ammonimento dell’apostolo Giacomo: «Siate di quelli che mettono in pratica la Parola e non ascoltatori soltanto, illudendo voi stessi» (Gc 1,22). La Parola di Dio fa un cammino dentro di noi. La ascoltiamo con le orecchie e passa al cuore; non rimane nelle orecchie, deve andare al cuore; e dal cuore passa alle mani, alle opere buone. Questo è il percorso che fa la Parola di Dio: dalle orecchie al cuore e alle mani. Impariamo queste cose. Grazie!”. Nella Santa Messa non leggiamo il Vangelo per sapere come sono andate le cose, ma ascoltiamo il Vangelo per prendere coscienza di ciò che Gesù ha fatto e detto una volta, rileva il Vescovo di Roma nella catechesi del 7 Febbraio 2018. Francesco insegna: “Eravamo arrivati alle Letture. Il dialogo tra Dio e il Suo popolo, sviluppato nella Liturgia della Parola della Messa, raggiunge il culmine nella proclamazione del Vangelo. Lo precede il canto dell’Alleluia – oppure, in Quaresima, un’altra acclamazione – con cui «l’assemblea dei fedeli accoglie e saluta il Signore che sta per parlare nel Vangelo». Come i misteri di Cristo illuminano l’intera rivelazione biblica, così, nella Liturgia della Parola, il Vangelo costituisce la luce per comprendere il senso dei testi biblici che lo precedono, sia dell’Antico che del Nuovo Testamento. In effetti, «di tutta la Scrittura, come di tutta la celebrazione liturgica, Cristo è il centro e la pienezza». Sempre al centro c’è Gesù Cristo, sempre. Perciò la stessa liturgia distingue il Vangelo dalle altre letture e lo circonda di particolare onore e venerazione. Infatti, la sua lettura è riservata al ministro ordinato, che termina baciando il libro; ci si pone in ascolto in piedi e si traccia un segno di croce in fronte, sulla bocca e sul petto; i ceri e l’incenso onorano Cristo che, mediante la lettura evangelica, fa risuonare la sua efficace parola. Da questi segni l’assemblea riconosce la presenza di Cristo che le rivolge la “buona notizia” che converte e trasforma. E’ un discorso diretto quello che avviene, come attestano le acclamazioni con cui si risponde alla proclamazione: «Gloria a te, o Signore» e «Lode a te, o Cristo». Noi ci alziamo per ascoltare il Vangelo: è Cristo che ci parla, lì. E per questo noi stiamo attenti, perché è un colloquio diretto. E’ il Signore che ci parla. Dunque, nella Messa non leggiamo il Vangelo per sapere come sono andate le cose, ma ascoltiamo il Vangelo per prendere coscienza che ciò che Gesù ha fatto e detto una volta; e quella Parola è viva, la Parola di Gesù che è nel Vangelo è viva e arriva al mio cuore. Per questo ascoltare il Vangelo è tanto importante, col cuore aperto, perché è Parola viva. Scrive sant’Agostino che «la bocca di Cristo è il Vangelo. Lui regna in cielo, ma non cessa di parlare sulla terra». Se è vero che nella liturgia «Cristo annunzia ancora il Vangelo», ne consegue che, partecipando alla Messa, dobbiamo dargli una risposta. Noi ascoltiamo il Vangelo e dobbiamo dare una risposta nella nostra vita. Per far giungere il suo messaggio, Cristo si serve anche della parola del sacerdote che, dopo il Vangelo, tiene l’omelia. Raccomandata vivamente dal Concilio Vaticano II come parte della stessa liturgia, l’omelia non è un discorso di circostanza – neppure una catechesi come questa che sto facendo adesso – né una conferenza neppure una lezione, l’omelia è un’altra cosa. Cosa è l’omelia? E’ «un riprendere quel dialogo che è già aperto tra il Signore e il suo popolo», affinché trovi compimento nella vita. L’esegesi autentica del Vangelo è la nostra vita santa! La parola del Signore termina la sua corsa facendosi carne in noi, traducendosi in opere, come è avvenuto in Maria e nei Santi. Ricordate quello che ho detto l’ultima volta, la Parola del Signore entra dalle orecchie, arriva al cuore e va alle mani, alle opere buone. E anche l’omelia segue la Parola del Signore e fa anche questo percorso per aiutarci affinché la Parola del Signore arrivi alle mani, passando per il cuore. Ho già trattato l’argomento dell’omelia nell’Esortazione Evangelii gaudium, dove ricordavo che il contesto liturgico «esige che la predicazione orienti l’assemblea, e anche il predicatore, verso una comunione con Cristo nell’Eucaristia che trasformi la vita». Chi tiene l’omelia deve compiere bene il suo ministero – colui che predica, il sacerdote o il diacono o il vescovo – offrendo un reale servizio a tutti coloro che partecipano alla Messa, ma anche quanti l’ascoltano devono fare la loro parte. Anzitutto prestando debita attenzione, assumendo cioè le giuste disposizioni interiori, senza pretese soggettive, sapendo che ogni predicatore ha pregi e limiti. Se a volte c’è motivo di annoiarsi per l’omelia lunga o non centrata o incomprensibile, altre volte è invece il pregiudizio a fare da ostacolo. E chi fa l’omelia deve essere conscio che non sta facendo una cosa propria, sta predicando, dando voce a Gesù, sta predicando la Parola di Gesù. E l’omelia deve essere ben preparata, deve essere breve, breve! Mi diceva un sacerdote che una volta era andato in un’altra città dove abitavano i genitori e il papà gli aveva detto: “Tu sai, sono contento, perché con i miei amici abbiamo trovato una chiesa dove si fa la Messa senza omelia!”. E quante volte noi vediamo che nell’omelia alcuni si addormentano, altri chiacchierano o escono fuori a fumare una sigaretta…Per questo, per favore, che sia breve, l’omelia, ma che sia ben preparata. E come si prepara un’omelia, cari sacerdoti, diaconi, vescovi? Come si prepara? Con la preghiera, con lo studio della Parola di Dio e facendo una sintesi chiara e breve, non deve andare oltre i 10 minuti, per favore. Concludendo possiamo dire che nella Liturgia della Parola, attraverso il Vangelo e l’omelia, Dio dialoga con il suo popolo, il quale lo ascolta con attenzione e venerazione e, allo stesso tempo, lo riconosce presente e operante. Se, dunque, ci mettiamo in ascolto della “buona notizia”, da essa saremo convertiti e trasformati, pertanto capaci di cambiare noi stessi e il mondo. Perché? Perché la Buona Notizia, la Parola di Dio entra dalle orecchie, va al cuore e arriva alle mani per fare delle opere buone”. Poi c’è il silenzio dopo l’omelia e quello della preghiera universale dopo il Credo, che è il momento di chiedere al Signore le cose più forti nella messa, le cose di cui noi abbiamo bisogno, quello che vogliamo, insegna il Papa nella catechesi del 14 Febbraio 2018, mettendo in guardia dalle pretese di logiche mondane che non decollano verso il cielo, così come restano inascoltate le richieste autoreferenziali. Francesco osserva: “L’ascolto delle Letture bibliche, prolungato nell’omelia, risponde a che cosa? Risponde a un diritto: il diritto spirituale del popolo di Dio a ricevere con abbondanza il tesoro della Parola di Dio (Introduzione al Lezionario, 45). Ognuno di noi quando va a Messa ha il diritto di ricevere abbondantemente la Parola di Dio ben letta, ben detta e poi, ben spiegata nell’omelia. È un diritto! E quando la Parola di Dio non è ben letta, non è predicata con fervore dal diacono, dal sacerdote o dal vescovo si manca a un diritto dei fedeli. Noi abbiamo il diritto di ascoltare la Parola di Dio. Il Signore parla per tutti, Pastori e fedeli. Egli bussa al cuore di quanti partecipano alla Messa, ognuno nella sua condizione di vita, età, situazione. Il Signore consola, chiama, suscita germogli di vita nuova e riconciliata. E questo per mezzo della sua Parola. La sua Parola bussa al cuore e cambia i cuori! Perciò, dopo l’omelia, un tempo di silenzio permette di sedimentare nell’animo il seme ricevuto, affinché nascano propositi di adesione a ciò che lo Spirito ha suggerito a ciascuno. Il silenzio dopo l’omelia. Un bel silenzio si deve fare lì e ognuno deve pensare a quello che ha ascoltato. Dopo questo silenzio, come continua la Messa? La personale risposta di fede si inserisce nella professione di fede della Chiesa, espressa nel “Credo”. Tutti noi recitiamo il “Credo” nella Messa. Recitato da tutta l’assemblea, il Simbolo manifesta la comune risposta a quanto insieme si è ascoltato dalla Parola di Dio (Catechismo della Chiesa Cattolica, 185-197). C’è un nesso vitale tra ascolto e fede. Sono uniti. Questa – la fede – infatti, non nasce da fantasia di menti umane ma, come ricorda san Paolo, «viene dall’ascolto e l’ascolto riguarda la parola di Cristo» (Rm 10,17). La fede si alimenta, dunque, con l’ascolto e conduce al Sacramento. Così, la recita del “Credo” fa sì che l’assemblea liturgica «torni a meditare e professi i grandi misteri della fede, prima della loro celebrazione nell’Eucaristia» (Ordinamento Generale del Messale Romano, 67). Il Simbolo di fede vincola l’Eucaristia al Battesimo, ricevuto «nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo», e ci ricorda che i Sacramenti sono comprensibili alla luce della fede della Chiesa. La risposta alla Parola di Dio accolta con fede si esprime poi nella supplica comune, denominata Preghiera universale, perché abbraccia le necessità della Chiesa e del mondo (OGMR, 69-71; Introduzione al Lezionario, 30-31). Viene anche detta Preghiera dei fedeli. I Padri del Vaticano II hanno voluto ripristinare questa preghiera dopo il Vangelo e l’omelia, specialmente nella domenica e nelle feste, affinché «con la partecipazione del popolo, si facciano preghiere per la santa Chiesa, per coloro che ci governano, per coloro che si trovano in varie necessità, per tutti gli uomini e per la salvezza di tutto il mondo» (Cost. Sacrosanctum Concilium, 53; 1Tm 2,1-2). Pertanto, sotto la guida del sacerdote che introduce e conclude, «il popolo, esercitando il proprio sacerdozio battesimale, offre a Dio preghiere per la salvezza di tutti» (OGMR, 69). E dopo le singole intenzioni, proposte dal diacono o da un lettore, l’assemblea unisce la sua voce invocando: «Ascoltaci, o Signore». Ricordiamo, infatti, quanto ci ha detto il Signore Gesù: «Se rimanete in me e le mie parole rimangono in voi, chiedete quello che volete e vi sarà fatto» (Gv 15,7). “Ma noi non crediamo questo, perché abbiamo poca fede”. Ma se noi avessimo una fede – dice Gesù – come il grano di senape, avremmo ricevuto tutto. “Chiedete quello che volete e vi sarà fatto”. E in questo momento della preghiera universale dopo il Credo, è il momento di chiedere al Signore le cose più forti nella Messa, le cose di cui noi abbiamo bisogno, quello che vogliamo. “Vi sarà fatto”; in uno o nell’altro modo ma “Vi sarà fatto”. “Tutto è possibile a colui che crede”, ha detto il Signore. Che cosa ha risposto quell’uomo al quale il Signore si è rivolto per dire questa parola – tutto è possibile a quello che crede? Ha detto: “Credo Signore. Aiuta la mia poca fede”. Anche noi possiamo dire: “Signore, io credo. Ma aiuta la mia poca fede”. E la preghiera dobbiamo farla con questo spirito di fede: “Credo Signore, aiuta la mia poca fede”. Le pretese di logiche mondane, invece, non decollano verso il Cielo, così come restano inascoltate le richieste autoreferenziali (Gc 4,2-3). Le intenzioni per cui si invita il popolo fedele a pregare devono dar voce ai bisogni concreti della comunità ecclesiale e del mondo, evitando di ricorrere a formule convenzionali e miopi. La preghiera “universale”, che conclude la liturgia della Parola, ci esorta a fare nostro lo sguardo di Dio, che si prende cura di tutti i suoi figli”. Il centro della Messa è Cristo: l’altare è Cristo, e il primo altare è la croce, rileva il Papa nella catechesi del 28 Febbraio 2018. Francesco insegna: “Continuiamo con la catechesi sulla Santa Messa. Alla Liturgia della Parola – su cui mi sono soffermato nelle scorse catechesi – segue l’altra parte costitutiva della Messa, che è la Liturgia eucaristica. In essa, attraverso i santi segni, la Chiesa rende continuamente presente il Sacrificio della nuova alleanza sigillata da Gesù sull’altare della Croce (Conc. Ecum. Vat. II, Cost. Sacrosanctum Concilium, 47). È stato il primo altare cristiano, quello della Croce, e quando noi ci avviciniamo all’altare per celebrare la Messa, la nostra memoria va all’altare della Croce, dove è stato fatto il primo sacrificio. Il sacerdote, che nella Messa rappresenta Cristo, compie ciò che il Signore stesso fece e affidò ai discepoli nell’Ultima Cena: prese il pane e il calice, rese grazie, li diede ai discepoli, dicendo: «Prendete, mangiate…bevete: questo è il mio corpo…questo è il calice del mio sangue. Fate questo in memoria di me». Obbediente al comando di Gesù, la Chiesa ha disposto la Liturgia eucaristica in momenti che corrispondono alle parole e ai gesti compiuti da Lui la vigilia della sua Passione. Così, nella preparazione dei doni sono portati all’altare il pane e il vino, cioè gli elementi che Cristo prese nelle sue mani. Nella Preghiera eucaristica rendiamo grazie a Dio per l’opera della redenzione e le offerte diventano il Corpo e il Sangue di Gesù Cristo. Seguono la frazione del Pane e la Comunione, mediante la quale riviviamo l’esperienza degli Apostoli che ricevettero i doni eucaristici dalle mani di Cristo stesso (Ordinamento Generale del Messale Romano, 72). Al primo gesto di Gesù: «prese il pane e il calice del vino», corrisponde quindi la preparazione dei doni. È la prima parte della Liturgia eucaristica. E’ bene che siano i fedeli a presentare al sacerdote il pane e il vino, perché essi significano l’offerta spirituale della Chiesa lì raccolta per l’Eucaristia. È bello che siano proprio i fedeli a portare all’altare il pane e il vino. Sebbene oggi «i fedeli non portino più, come un tempo, il loro proprio pane e vino destinati alla Liturgia, tuttavia il rito della presentazione di questi doni conserva il suo valore e significato spirituale» (ibid., 73). E al riguardo è significativo che, nell’ordinare un nuovo presbitero, il Vescovo, quando gli consegna il pane e il vino, dice: «Ricevi le offerte del popolo santo per il sacrificio eucaristico» (Pontificale Romano – Ordinazione dei vescovi, dei presbiteri e dei diaconi). Il popolo di Dio che porta l’offerta, il pane e il vino, la grande offerta per la Messa! Dunque, nei segni del pane e del vino il popolo fedele pone la propria offerta nelle mani del sacerdote, il quale la depone sull’altare o mensa del Signore, «che è il centro di tutta la Liturgia eucaristica» (OGMR, 73). Cioè, il centro della Messa è l’altare, e l’altare è Cristo; sempre bisogna guardare l’altare che è il centro della Messa. Nel «frutto della terra e del lavoro dell’uomo», viene pertanto offerto l’impegno dei fedeli a fare di sé stessi, obbedienti alla divina Parola, un «sacrificio gradito a Dio Padre onnipotente», «per il bene di tutta la sua santa Chiesa». Così «la vita dei fedeli, la loro sofferenza, la loro preghiera, il loro lavoro, sono uniti a quelli di Cristo e alla sua offerta totale, e in questo modo acquistano un valore nuovo» (Catechismo della Chiesa Cattolica, 1368). Certo, è poca cosa la nostra offerta, ma Cristo ha bisogno di questo poco. Ci chiede poco, il Signore, e ci dà tanto. Ci chiede poco. Ci chiede, nella vita ordinaria, buona volontà; ci chiede cuore aperto; ci chiede voglia di essere migliori per accogliere Lui che offre se stesso a noi nell’Eucaristia; ci chiede queste offerte simboliche che poi diventeranno il Suo corpo e il Suo sangue. Un’immagine di questo movimento oblativo di preghiera è rappresentata dall’incenso che, consumato nel fuoco, libera un fumo profumato che sale verso l’alto: incensare le offerte, come si fa nei giorni di festa, incensare la croce, l’altare, il sacerdote e il popolo sacerdotale manifesta visibilmente il vincolo offertoriale che unisce tutte queste realtà al sacrificio di Cristo (OGMR, 75). E non dimenticare: c’è l’altare che è Cristo, ma sempre in riferimento al primo altare che è la Croce, e sull’altare che è Cristo portiamo il poco dei nostri doni, il pane e il vino che poi diventeranno il tanto: Gesù stesso che si dà a noi. E tutto questo è quanto esprime anche l’orazione sulle offerte. In essa il sacerdote chiede a Dio di accettare i doni che la Chiesa gli offre, invocando il frutto del mirabile scambio tra la nostra povertà e la sua ricchezza. Nel pane e nel vino gli presentiamo l’offerta della nostra vita, affinché sia trasformata dallo Spirito Santo nel sacrificio di Cristo e diventi con Lui una sola offerta spirituale gradita al Padre. Mentre si conclude così la preparazione dei doni, ci si dispone alla Preghiera eucaristica (ibid., 77). La spiritualità del dono di sé, che questo momento della Messa ci insegna, possa illuminare le nostre giornate, le relazioni con gli altri, le cose che facciamo, le sofferenze che incontriamo, aiutandoci a costruire la città terrena alla luce del Vangelo”. La Messa non si paga. Nella preghiera eucaristica, nessuno è dimenticato, assicura il Papa nella catechesi del 7 Marzo 2018. Neanche i nostri cari, quelli presenti e quelli che non ci sono più. Per le messe in loro suffragio, non è prevista alcuna tariffa. Francesco insegna: “Continuiamo le catechesi sulla Santa Messa e con questa catechesi ci soffermiamo sulla Preghiera eucaristica. Concluso il rito della presentazione del pane e del vino, ha inizio la Preghiera eucaristica, che qualifica la celebrazione della Messa e ne costituisce il momento centrale, ordinato alla santa Comunione. Corrisponde a quanto Gesù stesso fece, a tavola con gli Apostoli nell’Ultima Cena, allorché «rese grazie» sul pane e poi sul calice del vino (Mt 26,27; Mc 14,23; Lc, 22,17.19; 1Cor 11,24): il suo ringraziamento rivive in ogni nostra Eucaristia, associandoci al suo sacrificio di salvezza. E in questa solenne Preghiera – la Preghiera eucaristica è solenne – la Chiesa esprime ciò che essa compie quando celebra l’Eucaristia e il motivo per cui la celebra, ossia fare comunione con Cristo realmente presente nel pane e nel vino consacrati. Dopo aver invitato il popolo a innalzare i cuori al Signore e a rendergli grazie, il sacerdote pronuncia la Preghiera ad alta voce, a nome di tutti i presenti, rivolgendosi al Padre per mezzo di Gesù Cristo nello Spirito Santo. «Il significato di questa Preghiera è che tutta l’assemblea dei fedeli si unisca con Cristo nel magnificare le grandi opere di Dio e nell’offrire il sacrificio» (Ordinamento Generale del Messale Romano, 78). E per unirsi deve capire. Per questo, la Chiesa ha voluto celebrare la Messa nella lingua che la gente capisce, affinché ciascuno possa unirsi a questa lode e a questa grande preghiera con il sacerdote. In verità, «il sacrificio di Cristo e il sacrificio dell’Eucaristia sono un unico sacrificio» (Catechismo della Chiesa Cattolica, 1367). Nel Messale vi sono varie formule di Preghiera eucaristica, tutte costituite da elementi caratteristici, che vorrei ora ricordare (OGMR, 79; CCC, 1352-1354). Sono bellissime tutte. Anzitutto vi è il Prefazio, che è un’azione di grazie per i doni di Dio, in particolare per l’invio del suo Figlio come Salvatore. Il Prefazio si conclude con l’acclamazione del «Santo», normalmente cantata. È bello cantare il “Santo”: “Santo, Santo, Santo il Signore”. È bello cantarlo. Tutta l’assemblea unisce la propria voce a quella degli Angeli e dei Santi per lodare e glorificare Dio. Vi è poi l’invocazione dello Spirito affinché con la sua potenza consacri il pane e il vino. Invochiamo lo Spirito perché venga e nel pane e nel vino ci sia Gesù. L’azione dello Spirito Santo e l’efficacia delle stesse parole di Cristo proferite dal sacerdote, rendono realmente presente, sotto le specie del pane e del vino, il suo Corpo e il suo Sangue, il suo sacrificio offerto sulla croce una volta per tutte (CCC, 1375). Gesù in questo è stato chiarissimo. Abbiamo sentito come San Paolo all’inizio racconta le parole di Gesù: “Questo è il mio corpo, questo è il mio sangue”. “Questo è il mio sangue, questo è il mio corpo”. È Gesù stesso che ha detto questo. Noi non dobbiamo fare pensieri strani: “Ma, come mai una cosa che…”. È il corpo di Gesù; è finita lì! La fede: ci viene in aiuto la fede; con un atto di fede crediamo che è il corpo e il sangue di Gesù. E’ il «mistero della fede», come noi diciamo dopo la consacrazione. Il sacerdote dice: “Mistero della fede” e noi rispondiamo con un’acclamazione. Celebrando il memoriale della morte e risurrezione del Signore, nell’attesa del suo ritorno glorioso, la Chiesa offre al Padre il sacrificio che riconcilia cielo e terra: offre il sacrificio pasquale di Cristo offrendosi con Lui e chiedendo, in virtù dello Spirito Santo, di diventare «in Cristo un solo corpo e un solo spirito» (Pregh. euc. III; Sacrosanctum Concilium, 48; OGMR, 79f). La Chiesa vuole unirci a Cristo e diventare con il Signore un solo corpo e un solo spirito. E’ questa la grazia e il frutto della Comunione sacramentale: ci nutriamo del Corpo di Cristo per diventare, noi che ne mangiamo, il suo Corpo vivente oggi nel mondo. Mistero di comunione è questo, la Chiesa si unisce all’offerta di Cristo e alla sua intercessione e in questa luce, «nelle catacombe la Chiesa è spesso raffigurata come una donna in preghiera con le braccia spalancate, in atteggiamento di orante come Cristo ha steso le braccia sulla croce, così per mezzo di Lui, con Lui e in Lui, essa si offre e intercede per tutti gli uomini» (CCC, 1368). La Chiesa che ora, che prega. È bello pensare che la Chiesa ora, prega. C’è un passo nel Libro degli Atti degli Apostoli; quando Pietro era in carcere, la comunità cristiana dice: “Orava incessantemente per Lui”. La Chiesa che ora, la Chiesa orante. E quando noi andiamo a Messa è per fare questo: fare Chiesa orante. La Preghiera eucaristica chiede a Dio di raccogliere tutti i suoi figli nella perfezione dell’amore, in unione con il Papa e il Vescovo, menzionati per nome, segno che celebriamo in comunione con la Chiesa universale e con la Chiesa particolare. La supplica, come l’offerta, è presentata a Dio per tutti i membri della Chiesa, vivi e defunti, in attesa della beata speranza di condividere l’eredità eterna del cielo, con la Vergine Maria (CCC, 1369-1371). Nessuno e niente è dimenticato nella Preghiera eucaristica, ma ogni cosa è ricondotta a Dio, come ricorda la dossologia che la conclude. Nessuno è dimenticato. E se io ho qualche persona, parenti, amici, che sono nel bisogno o sono passati da questo mondo all’altro, posso nominarli in quel momento, interiormente e in silenzio o fare scrivere che il nome sia detto. “Padre, quanto devo pagare perché il mio nome venga detto lì?” – “Niente”. Capito questo? Niente! La Messa non si paga. La Messa è il sacrificio di Cristo, che è gratuito. La redenzione è gratuita. Se tu vuoi fare un’offerta falla, ma non si paga. Questo è importante capirlo. Questa formula codificata di preghiera, forse possiamo sentirla un po’ lontana – è vero, è una formula antica – ma, se ne comprendiamo bene il significato, allora sicuramente parteciperemo meglio. Essa infatti esprime tutto ciò che compiamo nella celebrazione eucaristica; e inoltre ci insegna a coltivare tre atteggiamenti che non dovrebbero mai mancare nei discepoli di Gesù. I tre atteggiamenti: primo, imparare a “rendere grazie, sempre e in ogni luogo”, e non solo in certe occasioni, quando tutto va bene; secondo, fare della nostra vita un dono d’amore, libero e gratuito; terzo, costruire la concreta comunione, nella Chiesa e con tutti. Dunque, questa Preghiera centrale della Messa ci educa, a poco a poco, a fare di tutta la nostra vita una “eucaristia”, cioè un’azione di grazie”. Perdonare le persone che ci hanno offeso non è facile, è una grazia che dobbiamo chiedere, rileva il Vescovo di Roma nella catechesi del 14 Marzo 2018, commentando la preghiera del Padre Nostro. Francesco insegna: “Continuiamo con la Catechesi sulla Santa Messa. Nell’ultima Cena, dopo che Gesù prese il pane e il calice del vino, ed ebbe reso grazie a Dio, sappiamo che «spezzò il pane». A quest’azione corrisponde, nella Liturgia eucaristica della Messa, la frazione del Pane, preceduta dalla preghiera che il Signore ci ha insegnato, cioè del “Padre Nostro”. E così cominciano i riti di Comunione, prolungando la lode e la supplica della Preghiera eucaristica con la recita comunitaria del “Padre nostro”. Questa non è una delle tante preghiere cristiane, ma è la preghiera dei figli di Dio: è la grande preghiera che ci ha insegnato Gesù. Infatti, consegnatoci nel giorno del nostro Battesimo, il “Padre nostro” fa risuonare in noi quei medesimi sentimenti che furono in Cristo Gesù. Quando noi preghiamo col “Padre Nostro”, preghiamo come pregava Gesù. È la preghiera che ha fatto Gesù, e l’ha insegnata a noi; quando i discepoli gli hanno detto: “Maestro, insegnaci a pregare come tu preghi”. E Gesù pregava così. È tanto bello pregare come Gesù! Formati al suo divino insegnamento, osiamo rivolgerci a Dio chiamandolo “Padre”, perché siamo rinati come suoi figli attraverso l’acqua e lo Spirito Santo (Ef 1,5). Nessuno, in verità, potrebbe chiamarlo familiarmente “Abbà” – “Padre” – senza essere stato generato da Dio, senza l’ispirazione dello Spirito, come insegna san Paolo (Rm 8,15). Dobbiamo pensare: nessuno può chiamarlo “Padre” senza l’ispirazione dello Spirito. Quante volte c’è gente che dice “Padre Nostro”, ma non sa cosa dice. Perché sì, è il Padre, ma tu senti che quando dici “Padre” Lui è il Padre, il Padre tuo, il Padre dell’umanità, il Padre di Gesù Cristo? Tu hai un rapporto con questo Padre? Quando noi preghiamo il “Padre Nostro”, ci colleghiamo col Padre che ci ama, ma è lo Spirito a darci questo collegamento, questo sentimento di essere figli di Dio. Quale preghiera migliore di quella insegnata da Gesù può disporci alla Comunione sacramentale con Lui? Oltre che nella Messa, il “Padre nostro” viene pregato, alla mattina e alla sera, nelle Lodi e nei Vespri; in tal modo, l’atteggiamento filiale verso Dio e di fraternità con il prossimo contribuiscono a dare forma cristiana alle nostre giornate. Nella Preghiera del Signore – nel “Padre nostro” – chiediamo il «pane quotidiano», nel quale scorgiamo un particolare riferimento al Pane eucaristico, di cui abbiamo bisogno per vivere da figli di Dio. Imploriamo anche «la remissione dei nostri debiti», e per essere degni di ricevere il perdono di Dio ci impegniamo a perdonare chi ci ha offeso. E questo non è facile. Perdonare le persone che ci hanno offeso non è facile; è una grazia che dobbiamo chiedere: “Signore, insegnami a perdonare come tu hai perdonato me”. È una grazia. Con le nostre forze noi non possiamo: è una grazia dello Spirito Santo perdonare. Così, mentre ci apre il cuore a Dio, il “Padre nostro” ci dispone anche all’amore fraterno. Infine, chiediamo ancora a Dio di «liberarci dal male» che ci separa da Lui e ci divide dai nostri fratelli. Comprendiamo bene che queste sono richieste molto adatte a prepararci alla santa Comunione (Ordinamento Generale del Messale Romano, 81). In effetti, quanto chiediamo nel “Padre nostro” viene prolungato dalla preghiera del sacerdote che, a nome di tutti, supplica: «Liberaci, o Signore, da tutti i mali, concedi la pace ai nostri giorni». E poi riceve una sorta di sigillo nel rito della pace: per prima cosa si invoca da Cristo che il dono della sua pace (Gv 14,27) – così diversa dalla pace del mondo – faccia crescere la Chiesa nell’unità e nella pace, secondo la sua volontà; quindi, con il gesto concreto scambiato tra noi, esprimiamo «la comunione ecclesiale e l’amore vicendevole, prima di comunicare al Sacramento» (OGMR, 82). Nel Rito romano lo scambio del segno di pace, posto fin dall’antichità prima della Comunione, è ordinato alla Comunione eucaristica. Secondo l’ammonimento di san Paolo, non è possibile comunicare all’unico Pane che ci rende un solo Corpo in Cristo, senza riconoscersi pacificati dall’amore fraterno (1Cor 10,16-17; 11,29). La pace di Cristo non può radicarsi in un cuore incapace di vivere la fraternità e di ricomporla dopo averla ferita. La pace la dà il Signore: Egli ci dà la grazia di perdonare coloro che ci hanno offeso. Il gesto della pace è seguito dalla frazione del Pane, che fin dal tempo apostolico ha dato il nome all’intera celebrazione dell’Eucaristia (OGMR, 83; Catechismo della Chiesa Cattolica, 1329). Compiuto da Gesù durante l’Ultima Cena, lo spezzare il Pane è il gesto rivelatore che ha permesso ai discepoli di riconoscerlo dopo la sua risurrezione. Ricordiamo i discepoli di Emmaus, i quali, parlando dell’incontro con il Risorto, raccontano «come l’avevano riconosciuto nello spezzare il pane» (Lc 24,30-31.35). La frazione del Pane eucaristico è accompagnata dall’invocazione dell’«Agnello di Dio», figura con cui Giovanni Battista ha indicato in Gesù «colui che toglie il peccato del mondo» (Gv 1,29). L’immagine biblica dell’agnello parla della redenzione (Es 12,1-14; Is 53,7; 1Pt 1,19; Ap 7,14). Nel Pane eucaristico, spezzato per la vita del mondo, l’assemblea orante riconosce il vero Agnello di Dio, cioè il Cristo Redentore, e lo supplica: «Abbi pietà di noi…dona a noi la pace». «Abbi pietà di noi», «dona a noi la pace» sono invocazioni che, dalla preghiera del “Padre nostro” alla frazione del Pane, ci aiutano a disporre l’animo a partecipare al convito eucaristico, fonte di comunione con Dio e con i fratelli. Non dimentichiamo la grande preghiera: quella che ha insegnato Gesù, e che è la preghiera con la quale Lui pregava il Padre. E questa preghiera ci prepara alla Comunione”. Gesù perdona sempre, non si stanca di perdonare: siamo noi a stancarci di chiedere perdono, ricorda il Papa nella catechesi del 21 Marzo 2018, illustrando il “prodigio” della Comunione. Francesco insegna: “Oggi è il primo giorno di primavera: buona primavera! Ma cosa succede in primavera? Fioriscono le piante, fioriscono gli alberi. Io vi farò qualche domanda. Un albero o una pianta ammalati, fioriscono bene, se sono malati? No! Un albero, una pianta che non sono annaffiati dalla pioggia o artificialmente, possono fiorire bene? No. E un albero e una pianta che ha tolto le radici o che non ha radici, può fiorire? No. Ma, senza radici si può fiorire? No! E questo è un messaggio: la vita cristiana dev’essere una vita che deve fiorire nelle opere di carità, nel fare il bene. Ma se tu non hai delle radici, non potrai fiorire, e la radice chi è? Gesù! Se tu non sei con Gesù, lì, in radice, non fiorirai. Se tu non annaffi la tua vita con la preghiera e i sacramenti, voi avrete fiori cristiani? No! Perché la preghiera e i sacramenti annaffiano le radici e la nostra vita fiorisce. Vi auguro che questa primavera sia per voi una primavera fiorita, come sarà la Pasqua fiorita. Fiorita di buone opere, di virtù, di fare il bene agli altri Ricordate questo, questo è un versetto molto bello della mia Patria: “Quello che l’albero ha di fiorito, viene da quello che ha di sotterrato”. Mai tagliare le radici con Gesù. E continuiamo adesso con la catechesi sulla Santa Messa. La celebrazione della Messa, di cui stiamo percorrendo i vari momenti, è ordinata alla Comunione, cioè a unirci con Gesù. La comunione sacramentale: non la comunione spirituale, che tu puoi farla a casa tua dicendo: “Gesù, io vorrei riceverti spiritualmente”. No, la comunione sacramentale, con il corpo e il sangue di Cristo. Celebriamo l’Eucaristia per nutrirci di Cristo, che ci dona sé stesso sia nella Parola sia nel Sacramento dell’altare, per conformarci a Lui. Lo dice il Signore stesso: «Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue rimane in me e io in lui» (Gv 6,56). Infatti, il gesto di Gesù che diede ai discepoli il suo Corpo e Sangue nell’ultima Cena, continua ancora oggi attraverso il ministero del sacerdote e del diacono, ministri ordinari della distribuzione ai fratelli del Pane della vita e del Calice della salvezza. Nella Messa, dopo aver spezzato il Pane consacrato, cioè il corpo di Gesù, il sacerdote lo mostra ai fedeli, invitandoli a partecipare al convito eucaristico. Conosciamo le parole che risuonano dal santo altare: «Beati gli invitati alla Cena del Signore: ecco l’Agnello di Dio, che toglie i peccati del mondo». Ispirato a un passo dell’Apocalisse – «beati gli invitati al banchetto di nozze dell’Agnello» (Ap 19,9): dice “nozze” perché Gesù è lo sposo della Chiesa – questo invito ci chiama a sperimentare l’intima unione con Cristo, fonte di gioia e di santità. E’ un invito che rallegra e insieme spinge a un esame di coscienza illuminato dalla fede. Se da una parte, infatti, vediamo la distanza che ci separa dalla santità di Cristo, dall’altra crediamo che il suo Sangue viene «sparso per la remissione dei peccati». Tutti noi siamo stati perdonati nel battesimo, e tutti noi siamo perdonati o saremo perdonati ogni volta che ci accostiamo al sacramento della penitenza. E non dimenticate: Gesù perdona sempre. Gesù non si stanca di perdonare. Siamo noi a stancarci di chiedere perdono. Proprio pensando al valore salvifico di questo Sangue, sant’Ambrogio esclama: «Io che pecco sempre, devo sempre disporre della medicina» (De sacramentis, 4, 28: PL 16, 446A). In questa fede, anche noi volgiamo lo sguardo all’Agnello di Dio che toglie i peccati del mondo e lo invochiamo: «O Signore, non sono degno di partecipare alla tua mensa: ma di’ soltanto una parola e io sarò salvato». Questo lo diciamo in ogni Messa. Se siamo noi a muoverci in processione per fare la Comunione, noi andiamo verso l’altare in processione a fare la comunione, in realtà è Cristo che ci viene incontro per assimilarci a sé. C’è un incontro con Gesù! Nutrirsi dell’Eucaristia significa lasciarsi mutare in quanto riceviamo. Ci aiuta sant’Agostino a comprenderlo, quando racconta della luce ricevuta nel sentirsi dire da Cristo: «Io sono il cibo dei grandi. Cresci, e mi mangerai. E non sarai tu a trasformarmi in te, come il cibo della tua carne; ma tu verrai trasformato in me» (Confessioni VII, 10, 16: PL 32, 742). Ogni volta che noi facciamo la comunione, assomigliamo di più a Gesù, ci trasformiamo di più in Gesù. Come il pane e il vino sono convertiti nel Corpo e Sangue del Signore, così quanti li ricevono con fede sono trasformati in Eucaristia vivente. Al sacerdote che, distribuendo l’Eucaristia, ti dice: «Il Corpo di Cristo», tu rispondi: «Amen», ossia riconosci la grazia e l’impegno che comporta diventare Corpo di Cristo. Perché quando tu ricevi l’Eucaristia diventi corpo di Cristo. E’ bello, questo; è molto bello. Mentre ci unisce a Cristo, strappandoci dai nostri egoismi, la Comunione ci apre ed unisce a tutti coloro che sono una sola cosa in Lui. Ecco il prodigio della Comunione: diventiamo ciò che riceviamo! La Chiesa desidera vivamente che anche i fedeli ricevano il Corpo del Signore con ostie consacrate nella stessa Messa; e il segno del banchetto eucaristico si esprime con maggior pienezza se la santa Comunione viene fatta sotto le due specie, pur sapendo che la dottrina cattolica insegna che sotto una sola specie si riceve il Cristo tutto intero (Ordinamento Generale del Messale Romano, 85; 281-282). Secondo la prassi ecclesiale, il fedele si accosta normalmente all’Eucaristia in forma processionale, come abbiamo detto, e si comunica in piedi con devozione, oppure in ginocchio, come stabilito dalla Conferenza Episcopale, ricevendo il sacramento in bocca o, dove è permesso, sulla mano, come preferisce (OGMR, 160-161). Dopo la Comunione, a custodire in cuore il dono ricevuto ci aiuta il silenzio, la preghiera silenziosa. Allungare un po’ quel momento di silenzio, parlando con Gesù nel cuore ci aiuta tanto, come pure cantare un salmo o un inno di lode (OGMR, 88) che ci aiuti a essere con il Signore. La Liturgia eucaristica è conclusa dall’orazione dopo la Comunione. In essa, a nome di tutti, il sacerdote si rivolge a Dio per ringraziarlo di averci resi suoi commensali e chiedere che quanto ricevuto trasformi la nostra vita. L’Eucaristia ci fa forti per dare frutti di buone opere per vivere come cristiani. E’ significativa l’orazione di oggi, in cui chiediamo al Signore che «la partecipazione al suo sacramento sia per noi medicina di salvezza, ci guarisca dal male e ci confermi nella sua amicizia» (Messale Romano, Mercoledì della V settimana di Quaresima). Accostiamoci all’Eucaristia: ricevere Gesù che ci trasforma in Lui, ci fa più forti. E’ tanto buono e tanto grande il Signore!”. Dalla Messa alla vita. Dalle “fake news” termonucleari figlie del Maligno alla guerra dell’Isis in Siria, alimentata dai warlord warmonger dei missili e delle bombe occidentali di Usa, UK, Francia, Italia, Israele, Arabia Saudita e altre monarchie assolute del Golfo Persico. È importante saper leggere gli eventi che si dipanano vorticosamente sotto i nostri occhi. E che, purtroppo, coinvolgono pure la Chiesa e il Santo Padre strumentalizzato dai signori della guerra. Subito dopo le fake news occidentali, grazie a Dio smentite dal Ministero degli Esteri Russo sul campo, la tensione in Siria sale il 7 Aprile 2018 con un presunto “attacco chimico contro Duma”, ultima roccaforte ribelle Isis nella Ghouta orientale di Damasco bersagliata con missili, provocando decine di morti secondo fonti non ufficiali, tra i quali molti bambini. Papa Francesco, Domenica 8 Aprile della Divina Misericordia, Ottava di Pasqua, “naturalmente” condanna “l’attacco chimico” e chiede la pace per il martoriato Paese mediorientale, l’amata Siria invasa dall’Isis nel 2011. Una prima risposta al presunto “attacco” e alla preghiera del Papa è stata, all’alba del giorno dopo, il “raid aereo illegale” (secondo Siria e Russia, i vincitori della guerra contro l’Isis in Siria, mai riconosciuti come tali dal Vaticano) condotto da Israele, dallo spazio aereo libanese, contro una base militare governativa siriana. Atto non condannato dalle potenze Isis mondiali. Gli Usa, la Francia, la Gran Bretagna, l’Unione Europea, la Nato e l’Italia sicuramente risponderanno con altri raid illegali, con altre piogge di missili e bombe sui civili Siriani, come su Raqqa rasa al suolo senza alcuna protesta vaticana, e con altre nuove sanzioni contro la Russia del Presidente Putin, alleato di Damasco, vincitrice della guerra all’Isis in Siria, e contro la stessa legittima Repubblica Araba Siriana, membro delle Nazioni Unite. “Giungono dalla Siria notizie terribili di bombardamenti con decine di vittime, di cui molte sono donne e bambini. Notizie di tante persone colpite dagli effetti di sostanze chimiche contenute nelle bombe. Preghiamo per tutti i defunti, per i feriti, per le famiglie che soffrono. Non c’è una guerra buona e una cattiva, e niente, niente può giustificare l’uso di tali strumenti di sterminio contro persone e popolazioni inermi. Preghiamo perché i responsabili politici e militari scelgano l’altra via, quella del negoziato, la sola che può portare a una pace che non sia quella della morte e della distruzione”. Sono le sconvolgenti parole pronunciate da Papa Francesco, subito dopo la preghiera del Regina Coeli, Domenica 8 Aprile. Il Vescovo di Roma legge un testo scritto (da chi?) e lancia un ennesimo accorato appello per la Siria dove la guerra è entrata nel suo ottavo anno, senza mai riconoscere alla Santa Russia il merito di aver salvato i cristiani siriani dal sicuro martirio! Parole gravi del Papa che giungono in diretta televisiva e su Internet mentre in tutto il mondo corrono le immagini “fake” del presunto “attacco chimico a Duma”, contro l’ultima roccaforte dei ribelli Isis anti Siriani, nella Ghouta orientale. Gli Usa, con la solita immediata solidarietà “atlantica” italiana, senza mai produrre prove, accusano il legittimo governo siriano spacciato per “regime” dai media mainstream, ma Damasco e Mosca negano ogni coinvolgimento e provano la natura fasulla sia della notizia sia del video. I cui autori altri non sarebbero che gli stessi terroristi Isis dei servizi segreti occidentali coinvolti direttamente nell’invasione della Siria, secondo il Ministero degli Esteri Russo. Cioè, i creatori e diffusori dei “gas” della Russofobia! L’Occidente non ammette la sconfitta in Siria e preferisce bombardare innocenti Siriani, come l’Arabia Saudita nel martoriato Yemen dove milioni di persone sono state praticamente condannate a morte nella sconcertante indifferenza più totale delle Nazioni Unite. L’Opac, l’Organizzazione per la proibizione delle armi chimiche, annuncia subito un’inchiesta sul presunto “attacco” in Siria. Intanto all’alba di Lunedì 9 Aprile 2018, dopo le parole del Papa, una base militare governativa siriana della provincia di Homs, viene colpita da un raid aereo illegale della Stella di Davide (non il primo e non l’ultimo!) che provoca almeno 14 morti. In pratica, le parole del Papa e la sua condanna delle “armi chimiche” riportano la Siria al centro del mirino dei sistemi d’arma occidentali. Non è più un caso. È la norma. A colpire sono i caccia di Israele. Secondo Matteo Bressan, “Emerging Challenges Analyst” per il “Nato Defense College Foundation” e docente di Relazioni internazionali alla Lumsa di Roma, “è almeno dal 2012 che in Siria assistiamo all’uso delle armi chimiche intorno al quale esiste una vera e propria guerra mediatica con le difficoltà delle fonti a verificare le notizie, i video, le inchieste e le controinchieste. Questo si verifica a cominciare dai primi attacchi del 2012 che anticiparono quello più grande dell’Agosto del 2013 sempre nel sobborgo del Ghouta. Nonostante l’impegno sancito dall’Onu, grazie a Russia e Usa, di distruggere l’arsenale chimico di Assad (Israele, Uk, Francia, Italia, Germania, non hanno ancora ottemperato, conservando i loro arsenali chimici e batteriologici. La Russia, invece, sì, li ha eliminati entrambi. NdA), sappiamo, grazie a numerose e autorevoli inchieste, che più volte il regime avrebbe impiegato le barrell bombs (bombe barili) al cloro, così com’è emerso il rischio che queste armi potessero essere prese dai ribelli, gruppi islamisti e jihadisti e usate contro altri attori del campo di battaglia siriano: è accaduto contro i Curdi nel 2014 e 2015. L’uso delle armi chimiche ci indigna e le immagini che si vedono sui social sono raccapriccianti. Ma dobbiamo ricordare che in Siria si combatte e si muore da 8 anni. Credo che la stessa giusta enfasi che viene data a queste vittime – osserva Matteo Bressan – vada anche a tutte le altre di questo conflitto che sono arrivate a quasi 600mila. Credo che sia giusto parlare di questa guerra non solo quando a colpire sono le armi chimiche. L’attacco nella Ghouta orientale, già riconquistata dal governo per il 95%, è avvenuto dopo un’intesa tra il gruppo ribelle Jaich al-Islam e la Russia alleata di Assad che prevedeva l’evacuazione dei combattenti e loro familiari e di molti civili, verso la provincia di Aleppo ancora dominata dagli insorti. L’evacuazione di combattenti e delle loro famiglie era accaduta anche ad Aleppo. La scomposizione demografica della Siria è un altro elemento che emerge da questo conflitto e di cui si parla poco. Si tratta di una tattica che potrebbe essere usata anche dalla Turchia per ridefinire i rapporti di forza con i propri vicini di confine. Nel recente vertice del 4 Aprile, ad Ankara, tra Russia, Iran e Turchia, il premier turco Erdogan ha detto che 160mila Siriani sono già rientrati nel cantone di Afrin. Una presenza che riequilibra quella curda che già vive in quella zona”. In questa fase del conflitto criminalmente attivi sembrano essere Arabia Saudita e Israele. “A fine marzo il principe ereditario saudita Bin Salman è stato alla Casa Bianca, da Trump. Il primo elemento che emerge dall’incontro – rivela Matteo Bressan – è l’inserimento da parte saudita dell’Iran in quel triangolo del male composto dalla Fratellanza Musulmana e dall’Isis. Da qui la rinuncia dell’Arabia Saudita alla narrativa del Califfo Al Baghdadi, vale a dire combattere per diffondere l’Islam, e riconoscere invece a ogni essere umano la possibilità di scegliere la propria fede. Altro punto è il riconoscimento al popolo ebraico del diritto ad avere uno Stato Nazione. Il timore è che Assad e la Siria diventino dei fantocci nelle mani dell’Iran. Quest’ultimo, da par suo, vede con grande preoccupazione l’alleanza israelo-saudita così come la messa in discussione da parte di Trump dell’accordo sul nucleare. Il Segretario Generale dell’Onu, Antonio Guterres, ha ribadito che “non esiste una soluzione militare al conflitto” e quindi bisogna continuare i negoziati. Tuttavia la comunità internazionale, con la UE grande assente, non sembra in grado di gestire il conflitto le cui sorti sembrano appese ad eventuali accordi tra russi, turchi e iraniani. Se si parla di Onu, di comunità internazionale, di Ue, bisogna ricordare anche che dal 2012 esiste una spaccatura all’interno del Consiglio di Sicurezza dell’Onu tra Usa, Francia, Gran Bretagna, Russia e Cina, fatta di veti incrociati su qualsiasi iniziativa in territorio siriano. Che l’Europa molto spesso agisca in politica estera in ordine sparso è cosa nota. Ma la frattura all’interno del Consiglio di Sicurezza – avverte Matteo Bressan – è sintomatica di questo conflitto. Siamo in un momento storico in cui l’unica potenza rimasta è rappresentata dagli Usa ma si registra l’avanzata, in alcune aree, anche di altri attori come Russia, Cina e India che non condividono le regole del nuovo ordine internazionale miseramente fallito in Iraq nel 2014. Non si tratta di difendere l’Assad di turno ma di un modello che si traduce nella formula “abbiamo visto quello che avete prodotto in Iraq e in Libia dove, una volta eliminato il dittatore di turno non avevate un piano di soluzione politica del conflitto, e quindi imponiamo e poniamo il veto per manifestare la nostra contrarietà a questo tipo di interventi”. Con un Consiglio di Sicurezza dell’Onu unito molto probabilmente anche la UE, a cominciare da Francia e Gran Bretagna che hanno una presenza storica in Medio Oriente, essendo state potenze mandatarie rispettivamente di Siria e Iraq, avrebbe avuto un maggiore attivismo politico. Oggi la UE è vittima, anche della spaccatura all’interno del Consiglio di Sicurezza dell’Onu. La vittoria militare di Assad – ammette Matteo Bressan – è un dato abbastanza verificabile guardando le carte della Siria di oggi messe a confronto con quelle del 2015. Detto ciò non si può dire che la Siria sia un Paese pacificato. Ci sono ancora zone in conflitto: la Turchia è presente militarmente in territorio siriano, così come i Russi alleati di Assad, le milizie di Hezbollah libanesi e i Pasdaran iraniani. Nel Paese mediorientale esiste una diversa lettura del conflitto, di chi è legittimato a stare in Siria e di chi non lo è, di chi è terrorista e di chi non lo è, e via dicendo. Vedo difficile una soluzione anche perché il recente vertice a tre Russia, Turchia e Iran è solo una parte del mosaico siriano. A quell’incontro mancano attori fondamentali come Arabia Saudita e Israele. Per Israele il grande problema non è la permanenza al potere di Assad ma la presenza iraniana. Oggi il punto di partenza di un negoziato non è più l’alternativa ad Assad ma la presenza iraniana anche perché va detto che le due agende, di Iran e Assad da un lato, e della Russia dall’altro, non combaciano del tutto. In caso di guerra aperta tra Iran e Israele, la Russia, come fatto trapelare da Mosca, starà con quest’ultimo. Della Siria del 2011 – rileva Matteo Bressan – resta ben poco. Come dicevo poco fa, ci sono zone del Paese ancora scosse dalla presenza di eserciti stranieri e di attori non statuali. I trasferimenti dei civili, evacuati spesso con la forza, ridisegnano la Siria. Il Paese sta cambiando con interi quartieri e città modificati demograficamente e anche confessionalmente. Sul piano internazionale, senza un tavolo in cui non siano presenti anche gli attori che più si sono opposti ad Assad, Arabia Saudita in testa, questo conflitto non potrà terminare. Aggiungiamo anche che ci sono parti di territorio in cui agiscono milizie che fanno capo ad Al Qaeda. Report del Dipartimento di Stato Usa riconoscono come Al Qaeda sia il gruppo che si è maggiormente rafforzato in questi anni, e non solo in Siria. Rimasto nell’ombra rispetto all’Isis, ha potuto riorganizzare le sue fila e oggi nella sola Siria può vantare 20mila combattenti. Se gli attori esterni alla Siria faranno un passo indietro, l’insorgenza armata potrà affievolirsi. Certamente rimarranno spaccature tra parti della società siriana e Assad, ma ci saranno anche fasce della popolazione che dopo 8 anni di guerra preferiranno, ad assedi e bombardamenti, un ritorno alla normalità, accettando lo stesso regime di Assad, nonostante i suoi limiti democratici”. Nessun accenno alla occupazione illegale Usa e curda della Siria orientale, oltre l’Eufrate, con la presenza e il consolidamento di basi militari a stelle e striscie in territorio siriano. Nessun accenno alle sanzioni illegali di UE e Usa contro la Siria e il Popolo siriano sopravvissuto solo grazie agli aiuti umanitari della Russia. Le Guerre Umanitarie (1990-2018) stanno per finire? Le nuove sanzioni americane contro aziende e uomini di stato russi destano clamore dal punto di vista della legalità, afferma il portavoce del Cremlino Dmitry Peskov. “Questa è una nuova storia. Certo, è piuttosto clamorosa dal punto di vista legale e della violazione, come dire, delle norme di tutti e di tutto, quindi, qui è necessaria un’attenta analisi. Il Primo Ministro russo Dmitry Medvedev afferma che la Russia si riserva il diritto di reagire all’introduzione delle nuove sanzioni statunitensi, il 6 Aprile, contro funzionari pubblici, uomini d’affari, diplomatici e aziende russi. Anche l’Italia rinnova ed espande, com’è suo costume di accondiscendenza e di ipocrisia, le sue sanzioni contro la Russia, imposte dalla UE. Forse, di tutta risposta, gli Italiani potrebbero applicare subito le loro sanzioni economiche private contro i prodotti made in Usa, Israel, France e Uk. Le promesse di Matteo Salvini, di amicizia e rispetto del Popolo Russo, sembrano già cadute nel vuoto spinto della Storia che tutto consuma. Scrive il giornalista siriano Naman Tarcha di Aleppo sulla fabbrica delle fake news occidental anti-siriane: “Quelli che si stracciano le vesti e confermano e divulgano le falsità oggi sulla Siria sono gli stessi che confermavano le false prove americane ieri sull’Iraq e di conseguenza l’invasione e la sua distruzione come questi giorni nel 2003. Le caratteristiche dell’attacco chimico siriano? In primis, colpisce solo donne e bambini; poi non ha effetti sui terroristi, sui fotografi o caschi bianchi; quindi viene trattato con acqua senza maschere e davanti alle telecamere; inoltre accade ogni volta che viene liberata una zona. Esperti militari e medici e volontari della Mezzaluna Rossa da dentro Douma rivelano: “Non ci sono casi o prove sul presunto attacco chimico!”. In Siria le accuse di un attacco chimico sono un mantra che si ripete ed é solo un pretesto per completare il piano di cambio di regime deciso da Usa e suoi alleati per mano dei gruppi terroristici. Ormai é un dato di fatto: ogni volta che verrà liberata una zona in Siria, i gruppi terroristici e loro mandanti e sostenitori e megafoni ripeteranno la sceneggiata dell’attacco chimico”. Alcuni su Twitter ricordano a chi dà dell’animale al Presidente Assad e a chi lo definisce “diabolico”, un altro orrore, stavolta vero, commesso sui bambini rapiti in Siria dai jihadisti. Un filmato dello scorso anno sembra essere la “true news” da Premio Pulitzer debitamente occultata: il traffico di organi per l’espianto da bambini Siriani ancora vivi! “Il fatto che la Russia abbia combattuto contro il terrorismo mondiale per fermarlo lontano dai confini russi è una decisione molto coraggiosa”, dichiara il Patriarca ortodosso Kirill di Tutte le Russie, in un collegamento video dalla cattedrale di Cristo Salvatore di Mosca con i militari Russi nella base aerea di Khmeimi in Siria, nel giorno della festa di Pasqua per la Chiesa ortodossa. La trascrizione del messaggio è stata pubblicata sul sito del Patriarcato. “L’esperienza dimostra – osserva Kirill – che senza una tale decisione, la Siria sarebbe scomparsa. Indubbiamente, i cristiani sarebbero morti, o avrebbero abbandonato i luoghi della loro residenza storica, ma soprattutto (lo sapete meglio di me) il nemico si sarebbe avvicinato ai nostri confini e avrebbe minacciato direttamente i nostri popoli”. Il Patriarca Kirill ringrazia di cuore i soldati Russi per “l’impresa militare che stanno compiendo” definendola “un atto d’immenso significato storico” che “ha non solo un significato politico e umanitario, ma anche spirituale, specialmente per la nostra gioventù”. È infatti un esempio “di come oggi le persone fedeli al giuramento, al dovere, compiano azioni coraggiose, salvino gli altri”, ed è un “vivido segno” del fatto che la “forza del nostro spirito non si è prosciugata”. Nelle basi militari Russe in Siria ci sono 25 sacerdoti ortodossi che prestano servizio come cappellani. Molti di loro hanno ricevuto riconoscimenti da parte dello Stato per i risultati del loro lavoro. La mattina del 10 Aprile 2018, presso la Cattedrale della Immacolata Concezione in Mosca, il Nunzio Apostolico Monsignor Celestino Migliore, alla presenza dell’Ambasciatore d’Italia, S.E. Pasquale Terracciano e dell’Addetto per la Difesa Gen. B. Alfonso Miro, ha officiato una messa di suffragio per 100 soldati italiani caduti in Russia durante la Seconda Guerra Mondiale destinati presto a rientrare in Patria per essere tumulati presso il Sacrario Militare di Cargnacco. L’individuazione, l’esumazione e il successivo rimpatrio dei caduti italiani individuati è stata un’attività lunga e delicata svolta dall’Associazione russa “I Memoriali Militari” su iniziativa della Direzione Storico-Statistica del Commissariato Generale per le Onoranze ai Caduti della Difesa per il tramite dell’Ufficio militare dell’Ambasciata d’Italia a Mosca. Le spoglie dei militari italiani caduti, dopo la benedizione, vegono custodite in locali dedicati prima del definitivo rientro in Italia all’Aeroporto Marco Polo di Venezia con un volo proveniente da Mosca. Nel Sacrario Militare di Cargnacco riposano circa 8700 (di cui circa 500 noti) Caduti italiani che a partire dal 1990 sono stati rimpatriati dalla Russia. A tale numero si aggiungono altri 3086 Caduti identificati che dopo il rientro in Patria sono stati affidati alle famiglie di origine. Sulle minacce degli Usa alla Siria, il Patriarca emerito della Chiesa Greco Cattolica Gregorio III Laham tuona: “Dico agli Stati Uniti, Basta!”. L’inferno termonucleare che si rischia nella crisi siriana, visto il dispiegamento militare nel Mediterraneo, è quanto di più simile alla descrizione che ne fa il sommo poeta italiano Dante Alighieri nella sua Divina Commedia nel Canto XXXIV dell’Inferno (vv. 1-139). Si legge: “Il mio maestro disse: «I vessilli del re dell’Inferno (Lucifero) si avvicinano a noi; quindi guarda davanti a te, se riesci a vederlo». Come quando c’è una nebbia fitta o quando nel nostro emisfero cala la notte, e appare in lontananza un mulino che è mosso dal vento, così allora mi parve di vedere una simile costruzione; quindi per il vento mi riparai dietro la mia guida, visto che non c’era nessun altro rifugio. Ormai mi trovavo, e lo scrivo con paura nei miei versi, nella zona (Giudecca) dove le anime erano del tutto sepolte nel ghiaccio, e trasparivano come pagliuzze nel vetro. Alcune sono sdraiate, altre sono dritte, a volte con la testa alta e a volte con i piedi; altre ancora portano il volto ai piedi, piegandosi come un arco. Quando fummo avanzati fino al punto in cui al mio maestro parve opportuno mostrarmi la creatura che fu così bella, si tolse di fronte a me e mi fece fermare, dicendo: «Ecco Dite ed ecco il luogo dove è necessario che tu ti armi di coraggio». Non domandare, lettore, come io in quel momento raggelai e ammutolii: non lo scrivo, poiché ogni parola sarebbe inadeguata. Io non morii e non rimasi in vita: pensa oramai da te, se hai un po’ d’ingegno, come divenni in quello stato sospeso tra la vita e la morte. L’imperatore del regno del dolore usciva fuori dal ghiaccio fino alla cintola; e c’è maggior proporzione fra me e un gigante che non fra i giganti e le sue braccia: vedi ormai, rispetto a quella parte del corpo, quali devono essere le dimensioni totali di quell’essere. Se egli fu tanto bello quanto ora è brutto, e nonostante questo osò ribellarsi al suo Creatore, è giusto che da lui derivi ogni male. Oh, quanto mi meravigliai quando vidi che la sua testa aveva tre facce! Una era al centro ed era rossa; le altre erano due e si congiungevano alla prima a metà di ogni spalla, e si univano nella parte posteriore del capo: la destra mi sembrava tra bianca e gialla; la sinistra era del colore di quelli che vengono dal paese (Etiopia) dove il Nilo entra in una valle. Sotto ogni faccia uscivano due grandi ali, proporzionate a un essere tanto grande: non ho mai visto vele di navi così estese. Non erano piumate, ma sembravano quelle di un pipistrello; e Lucifero le sbatteva, producendo da sé tre venti: a causa di essi, tutto il lago di Cocito si ghiacciava. Piangeva con sei occhi e le lacrime gocciolavano sui tre menti, mischiato a una bava sanguinolenta. In ognuna delle tre bocche dilaniava coi denti un peccatore, come fosse una gramola, così che ne tormentava tre al tempo stesso. Per il peccatore al centro l’essere morso non era niente rispetto all’essere graffiato, al punto che talvolta la schiena gli restava tutta scorticata. Il maestro disse: «Quel dannato lassù che soffre una pena più grave è Giuda Iscariota, che tiene la testa dentro le fauci di Lucifero e fa pendere fuori le gambe. Degli altri due che hanno la testa rivolta in basso, quello che pende dalla faccia nera è Bruto: vedi come si contorce senza dire nulla! L’altro è Cassio, che sembra così robusto. Ma è quasi notte e ormai dobbiamo andare, poiché abbiamo visto ogni cosa». Come Virgilio volle, abbracciai il suo collo; ed egli attese il momento e il luogo opportuno, e quando le ali del mostro furono abbastanza aperte si aggrappò ai suoi fianchi pelosi; poi scese in basso tenendosi alle sue ciocche, passando tra il suo pelo folto e la crosta gelata di Cocito. Quando fummo arrivati nel punto in cui la coscia di articola nel bacino, all’altezza del femore, Virgilio, con fatica e affanno, volse la testa dove Lucifero aveva le gambe, e si aggrappò al suo pelo come uno che sale, così che io credevo tornassimo nuovamente all’Inferno. Il maestro, ansimando come un uomo affaticato, disse: «Tieniti forte, poiché dobbiamo allontanarci da tanto male (l’Inferno) salendo su queste scale». Poi uscì fuori attraverso una spaccatura nella roccia, e mi fece sedere sull’orlo dell’apertura; quindi diresse con attenzione il passo verso di me. Io alzai lo sguardo e credetti di vedere Lucifero come l’avevo lasciato, invece vidi che teneva le gambe in alto; e se io allora rimasi perplesso, lo pensi la gente ignorante, che non ha capito qual è il punto (il centro della Terra) che io avevo oltrepassato. Il maestro disse: «Alzati in piedi: la via è lunga e il cammino è malagevole, e il sole è già a metà della terza ora (sono le sette e mezza del mattino)». Il punto in cui eravamo non era un percorso agevole come in un palazzo, ma una cavità sotterranea che aveva il suolo impervio e ben poca luce. Quando mi fui alzato dissi: «Maestro mio, prima che io lasci l’abisso infernale, parlami un poco per risolvermi un dubbio: dov’è il ghiaccio? e Lucifero come può essere confitto così sottosopra? e come è possibile che il sole abbia percorso così in fretta il tragitto dalla sera alla mattina?». E lui a me: «Tu pensi ancora di essere al di là del centro della Terra, dove io mi sono aggrappato al pelo dell’orrendo animale che guasta il mondo. Tu sei stato di là finché io sono disceso; quando mi sono girato, tu hai oltrepassato il punto verso il quale tendono tutti i pesi del mondo. E ora sei giunto sotto l’emisfero (australe) che è opposto a quello (boreale) che copre le terre emerse, e dove, sotto il punto più alto dell’emisfero celeste (Gerusalemme), fu ucciso l’uomo (Gesù) che nacque e visse senza peccato: tu hai i piedi su una piccola sfera che ha la faccia opposta nella Giudecca. Qui è mattino, quando nell’altro emisfero è sera; e Lucifero, che col suo pelo ci ha fatto da scala, è confitto esattamente come lo era prima. Cadde giù dal cielo da questa parte e la terra, che prima emergeva dalle acque nell’emisfero australe, per paura di lui si nascose sotto il mare e venne nel nostro emisfero; e forse, per rifuggire da lui, quella che appare di qua lasciò questo spazio vuoto e riemerse nell’emisfero australe (formando il Purgatorio)». Laggiù c’è un luogo tanto lontano da Belzebù (Lucifero) quanto si estende la cavità sotterranea, che non si può vedere ma da cui si sente il suono di un fiumiciattolo (lo scarico del Lete) che scende qui attraverso una cavità che esso ha scavato nella roccia lungo il suo corso, che ha poca pendenza. Il maestro ed io entrammo in quel cammino nascosto per tornare alla luce del sole; e senza prenderci un attimo di riposo salimmo in alto, lui per primo e io dietro, fino a quando vidi gli astri del cielo attraverso un’apertura circolare. E di lì uscimmo per rivedere le stelle”. Χριστὸς ἀνέστη ἐκ νεκρῶν θανάτῳ θάνατον πατήσας, καὶ τοῖς ἐν τοῖς μνήμασι ζωὴν χαρισάμενος. Christus resurrexit a mortuis, Morte mortem calcavit, et entibus in sepulchris Vitam donavit. Cristo è Gloriosamente Risorto! Christòs Voskrès! Alleluia!
© Nicola Facciolini