a cura di Mario Setta
“Un legame come tra madre e figlio”
GIOVANNI FINZI CONTINI
Preambolo. Il Regio Decreto Legge del 17 novembre 1938 n. 1728 – Provvedimenti per la difesa della razza italiana Art. 10 recitava: “I cittadini italiani di razza ebraica non possono prestare servizio militare in pace e in guerra”. Mussolini non voleva ebrei nemmeno come carne da macello. Forse già sapeva che Hitler ne avrebbe fatto carne da bruciare. Eppure ebrei che avevano un profondo amore per l’Italia, disposti a dare la vita per la patria, erano numerosi, tenendo conto che il numero complessivo degli ebrei in Italia era piuttosto esiguo: 47252 secondo il censimento del 1938. “Minuscola minoranza” la definisce Giovanni Preziosi, l’acerrimo antisemita italiano, consigliere di Mussolini. In Abruzzo e Molise vi risiedevano 138 ebrei. Renzo De Felice, nella Storia degli ebrei italiani sotto il fascismo, afferma: “Gli ebrei italiani si inserirono rapidissimamente nella nuova società italiana, diventando quasi sempre patrioti ferventi”. Nel 1932, poco prima dell’arrivo di Hitler in Germania, Mussolini afferma: “L’antisemitismo non esiste in Italia… Gli ebrei italiani si sono sempre comportati bene come cittadini, e come soldati si sono battuti coraggiosamente”. Ma non passerà molto tempo, solo pochi anni, e Mussolini si convertirà alle teorie del razzismo scrivendo il Manifesto della razza e pubblicandolo il 14 luglio 1938. La scelta di quella data storica, l’inizio della rivoluzione francese con la presa della Bastiglia, non poteva essere casuale. Era il segnale dell’inizio d’un’altra rivoluzione ben più sanguinosa e disumana: il genocidio degli ebrei. Gli amici ebrei di Mussolini, da Margherita Sarfatti agli ebrei “sansepolcristi” e ai tanti che avevano partecipato alla “marcia su Roma”, non rappresentarono una remora per bloccare Mussolini nella sua folle corsa dietro a Hitler.
SULMONA
Il treno per Dachau. Nell’ottobre del 1943, dal carcere dell’abbazia di Santo Spirito al Morrone, i tedeschi deportarono circa 400 detenuti nel campo di sterminio di Dachau, con la collaborazione dei fascisti e delle autorità locali. Da qui, poi, i deportati furono trasferiti negli altri campi dell’universo concentrazionario tedesco. Molti di loro non fecero mai più ritorno a casa. La maggior parte, tra cui due minorenni di Roccacasale, fu eliminata nelle camere a gas. Oscar Fuà: con la caduta di Mussolini, il 25 luglio, la firma dell’armistizio il 3 settembre del 1943, e l’arrivo degli alleati nel 1943-‘44, molti ebrei italiani, che erano riusciti a nascondersi e a scampare le camere a gas di Auschwitz, si schierarono con la Resistenza e con la lotta di liberazione. Furono circa duemila. Tra loro, un ragazzo di Sulmona: Oscar Fuà. Diciassette anni. Era stato nascosto, con tutta la famiglia, nelle case di amici sulmonesi. Si verificava a Sulmona ciò che avveniva ad Amsterdam, dove in un edificio di via Prinsengracht 263, vivevano nella clandestinità la famiglia Frank, i signori Van Daan e il signor Dussel. Il celeberrimo Diario di Anna Frank descrive l’isolamento e la paura di essere scoperti. Ma a differenza dei Frank che furono traditi e deportati nel lager di Bergen Belsen dove morirono, la famiglia Fuà non venne denunciata né scoperta. Con l’arrivo a Sulmona dei patrioti della Brigata Maiella, Oscar Fuà vi si arruola con l’obiettivo di contribuire alla liberazione d’Italia. Dopo pochi mesi, il 4 dicembre 1944, viene ucciso in battaglia a Brisighella, in provincia di Ravenna. Qualche tempo prima, passando da Recanati, aveva acquistato una cartolina del paese con alcuni versi di Leopardi, indirizzandola alla sorella Giuseppina. Non era riuscito a spedirla. Gliela trovarono in tasca. Fu Stelio Consorte che portò la notizia ai familiari e consegnò alcuni oggetti del ragazzo: la cartolina non spedita, un portafoglio, un pezzo di stoffa dei pantaloni.
SCANNO
“Io qui passai alcuni mesi con alcuni amici, in particolare con un amico ebreo, un vecchio amico livornese”. Sono parole di Carlo Azeglio Ciampi. L’amico ebreo si chiamava Beniamino Sadun, che, con la madre, stava fuggendo verso sud, dopo l’8 settembre 1943. Si rifugiarono a Scanno, per mesi, nascosti in una soffitta, in casa Puglielli. Il 4 agosto 1996, Carlo Azeglio Ciampi, in occasione del conferimento della cittadinanza onoraria di Scanno, ha detto:
«Giunsi in questo paese, dopo l’8 settembre 1943 quasi per caso, e il caso si impersonò nell’amico Nino Quaglione. Vi giunsi dopo aver provato, come tanti giovani militari, l’amarezza della dissoluzione dell’esercito, l’umiliazione della disfatta, la rabbia perché non ci era stato dato modo di reagire… […] Nel silenzio di queste montagne, si avviò un dialogo, una riflessione in primo luogo all’interno di noi stessi, con le nostre coscienze. Ci ponevamo la domanda sul come ritrovare il fondamento del vivere civile. Riconquistammo la serenità nei nostri animi a mano a mano che acquisimmo la consapevolezza intima dei valori alla base della vita di una collettività: in primo luogo la libertà, interpretata e applicata nel quadro del vivere in comune, il rispetto cioè della libertà e dei diritti degli altri come condizione per rivendicare la libertà e i diritti propri. Rinacquero in noi il sentimento dei valori che uniscono una comunità, che ne fanno un tutt’uno, i valori delle tradizioni, della cultura comune, tutti quegli elementi che costituiscono la Patria, le nostre radici, la terra dei nostri padri. Patria è una parola che non dobbiamo avere esitazione a pronunciare con orgoglio. Se fummo capaci di ritrovare i punti cardinali di riferimento, di riconquistare la serenità dell’animo, di fare le conseguenti scelte e di perseguirle con determinazione, di sentirci di nuovo parte viva di una società di uguali, ciò fu dovuto al clima umano che respirammo in queste montagne, in questa terra d’Abruzzo. Una popolazione povera, provata da anni di guerra, semplice ma ricca di profonda umanità, accolse con animo fraterno ogni fuggiasco, italiano o straniero; vide in loro gli oppressi, i bisognosi, spartì con loro “il pane che non c’era”; visse quei mesi duri, di retrovia del fronte di guerra con vero spirito di resistenza, la resistenza alla barbarie.»
E all’Aquila, il 23 settembre 1999, nella visita ufficiale in Abruzzo, dopo pochi mesi dalla sua elezione a Presidente della Repubblica Italiana:
«Sono stati ricordati i rapporti miei, antichi e recenti, con la terra d’Abruzzo. Sono rapporti che lasciano un segno. Vissi qui alcuni mesi particolarmente intensi. Posso testimoniare di persona, per esserne stato beneficiario, di quello che fu l’atteggiamento degli abruzzesi nei confronti di coloro che si trovavano in condizioni di bisogno, fossero essi prigionieri alleati, fossero essi ebrei, fossero ufficiali o soldati dell’esercito italiano. Io qui passai alcuni mesi con alcuni amici, in particolare con un amico ebreo, un vecchio amico livornese. E un episodio, in particolare, mi è rimasto impresso nella mente. Quando, camminando una sera per una piccola via di Scanno, da una finestra un’anziana scannese mi fece un cenno, mi invitò a salire nella sua casa e mi offrì un pezzo di pane e un pezzo di salame. Questo mi ricorda quel bellissimo libro che hanno scritto gli alunni e gli insegnanti di una scuola di Sulmona – e che io conservo gelosamente – il cui titolo, se ben ricordo, è “E si divisero il pane che non c’era”.»
Il rapporto tra Ciampi e l’Abruzzo risale agli anni della seconda guerra mondiale, dopo l’8 settembre 1943. Da Roma, dove si trovava in casa dello zio Masino, a viale Liegi, nel quartiere Parioli, Carlo Azeglio parte, con l’amico abruzzese Pasquale Quaglione, alla volta di Scanno. Partendo da Roma, con una tradotta che andava a Pescara, Ciampi e Quaglione si erano accordati con il macchinista, in modo che il treno rallentasse alla stazione di Anversa-Villalago-Scanno ed avere quindi la possibilità di scendere dal treno in corsa, senza serie conseguenze. Cosa che avvenne felicemente. Ma, alla stazione di Anversa degli Abruzzi, inaspettatamente, Ciampi trova un amico di Livorno, sua città natale, che con la madre sta cercando di raggiungere Napoli, seguendo la linea ferroviaria Sulmona-Carpinone-Napoli. E’ l’amico ebreo Beniamino Sadun.
«Ho incontrato casualmente Ciampi alla piccola stazione di Anversa» ha ricordato Beniamino Sadun. «Eravamo molto amici con la famiglia Ciampi, a Livorno. Io sono nato il 14 gennaio 1917, e sono più grande di quasi quattro anni di Carlo. Da piccoli andavamo a passare le vacanze allo stabilimento balneare Acquaviva di Livorno. Carlo era più legato a mio fratello Elvio, mentre io ero più amico di Pinino, il fratello di Carlo; ma quando ci siamo incontrati in quell’occasione drammatica, ad Anversa, siamo stati molto vicini l’uno all’altro. Mio padre era ingegnere ed aveva fondato una impresa edile con sede a Livorno e a Roma. Dopo l’8 settembre 1943, io mi trovavo a Roma, e lavoravo nella società di mio padre, che era deceduto nel 1936. Tutta la mia famiglia fu sconvolta a causa delle leggi razziali.»
La generosità, la solidarietà di poveri tra poveri, non pare sia soltanto lo stereotipo letterario della gente abruzzese. Sembra un dato ricorrente, un leit-motiv, se innumerevoli testimonianze di ex-prigionieri alleati hanno posto in rilievo l’aiuto disinteressato, ricevuto dalla gente. E non poche persone, per quel tozzo di pane offerto ai “nemici”, furono barbaramente trucidate. Jack Goody, antropologo di fama mondiale, docente a Cambridge, anch’egli allora fuggiasco sulle montagne della Valle del Sagittario, scrive: “C’era il pane, qualche volta era il pane di campagna fatto di farina e qualche altra era una specie di torta piatta di mais, con in mezzo il grasso di prosciutto” (Oltre i muri. La mia prigionia in Italia). L’Abruzzo è stata considerata terra di rifugio per eremiti, eretici, perseguitati di ogni genere. Ignazio Silone, ne “L’avventura d’un povero cristiano”, parlando del monte Morrone e della Maiella, scrive: “Negli stessi luoghi dove un tempo, come in una Tebaide, vissero innumerevoli eremiti, in epoca più recente sono stati nascosti centinaia e centinaia di fuorilegge, di prigionieri di guerra evasi, di partigiani, assistiti da gran parte della popolazione”.
PIZZOLI
A Pizzoli, in provincia di L’Aquila, era confinato Leone Ginzburg, ebreo, di origine russa, nato a Odessa. Aveva ricevuto la formazione culturale in Italia, a Torino, studiando con Cesare Pavese, Vittorio Foa, Norberto Bobbio, Giulio Einaudi. La moglie, Natalia, ha raccontato in molte sue opere la loro vita, a Pizzoli. E non era certo una villeggiatura. Leone morirà nel carcere di Regina Coeli il 5 febbraio 1944. All’età di 35 anni. Aveva scontato due anni di galera, due anni di sorveglianza speciale, tre anni di confino. E’ una delle figure più nobili della cultura italiana. Di lui Norberto Bobbio ha scritto: “Leone è morto senza dire la sua ultima parola, senza dire addio a nessuno, senza concludere la sua opera, senza lasciarci un messaggio. Per questo non possiamo rassegnarci; né perdonare. E’ morto solo, come se non avesse più nulla da dire. E invece il suo discorso era appena cominciato. Gli siamo grati della lezione di umanità, di nobiltà, di coraggio, di serenità, di fiducia nella vita, di fermezza nella tragedia, che egli ci ha lasciata. Ma avremmo voluto averlo ancora con noi”. Nel maggio del 1929, dopo il discorso di Benedetto Croce contro la firma di Mussolini ai Patti Lateranensi, un gruppo di studenti torinesi sottoscrive una lettera di solidarietà a Croce. Leone ritiene opportuno non firmare, perché non ha ancora ottenuto la cittadinanza italiana. Gli verrà accordata nell’ottobre 1931. A Parigi, dove si era recato per motivi di studio, incontra e stringe amicizia con Salvemini, Carlo Rosselli e con tutto il gruppo in esilio dei fondatori e aderenti a “Giustizia e Libertà”. Tornato a Torino, con Carlo Levi di cui è grande amico, costituisce un gruppo clandestino di GL. Accetta l’incarico, che gli viene affidato dall’università di Torino, di libero docente in letteratura russa. Ma, dopo poco tempo, di fronte all’ordine di firmare il giuramento di fedeltà al fascismo, rifiuta, lasciando l’incarico. Trova lavoro come insegnante in un Istituto magistrale di Torino e diventa collaboratore della casa editrice Einaudi. Nel marzo 1934, due componenti del gruppo torinese di “Giustizia e Libertà”, mentre cercano di rientrare in Italia con materiale di propaganda politica clandestina, vengono arrestati alla frontiera. E’ l’occasione per la polizia fascista di scoprire e arrestare decine di aderenti e simpatizzanti del movimento. Una sessantina, in tutto. Nella retata cadrà anche Leone Ginzburg. Al processo, che avrà luogo il 6 novembre di quell’anno, Ginzburg subisce una condanna a quattro anni di carcere. Li trascorre prima a Regina Coeli e, in seguito, al carcere di Civitavecchia. Erano stati arrestati, tra gli altri, Giulio Einaudi, Cesare Pavese, Carlo Levi, Vittorio Foa, Massimo Mila. Dopo aver scontata la pena, Leone sposa il 12 febbraio 1938 Natalia Levi. Nello stesso anno, a causa delle leggi razziali, sarà privato della cittadinanza italiana e nel giugno 1940, subito dopo la dichiarazione di guerra, verrà condannato al confino a Pizzoli, in provincia dell’Aquila. Con lui vanno la moglie e i due figli, Carlo e Andrea. La sorella Marussia sarà costretta a trasferirsi a Chieti. A Pizzoli, Leone e Natalia continuano la loro attività culturale: scrivono, traducono, correggono bozze.
Vittorio Giorgi, che è stato parlamentare comunista, in un intervento penetrante e appassionato nell’aula consiliare del paese, il 7 dicembre 1991, ha ricordato: “Fu a quel tempo che conobbi Leone e Natalia Ginzburg. Era l’estate del 1940 ed avevo fatto ritorno a Pizzoli… Trascorrevamo lunghe serate a discutere della guerra e delle sue terribili conseguenze. Parlavamo del fascismo e dell’antifascismo ma discutevamo anche di altro. In verità a parlare era quasi sempre lui, Leone. Io ascoltavo e cercavo di memorizzare… A volte tra me e me dicevo: ma come è possibile che persone di questo livello culturale e politico si attardano a parlare con uno come me che ha fatto appena la quinta elementare? Nei confronti dei Ginzburg scattò un sentimento di grande simpatia […] Il rapporto con lui e con Natalia fu sempre intenso.” Nell’agosto 1943, subito dopo la caduta di Mussolini, Leone va a Roma, celandosi sotto il nome di Leonida Granturco. Gli sono affidate la direzione della casa editrice Einaudi e quella del giornale “L’Italia libera” del Partito d’azione. Il 20 novembre, arrestato e condotto di nuovo a Regina Coeli, viene scoperta la sua vera identità. Durante l’interrogatorio subisce la frattura d’una mascella. Per i detenuti politici e gli ebrei c’era un trattamento speciale: la tortura. William Simpson, un ex-prigioniero inglese fuggito dal campo di concentramento di Chieti, rifugiatosi dapprima a Sulmona e poi a Roma, dove era stato catturato, ha scritto: “Di notte, lamenti e urla provenivano dalla stanza degli interrogatori, che si trovava proprio di fronte alla mia cella. Il rumore di qualcosa, come di un pesante bastone, scagliato sul corpo dell’interrogato, accompagnava l’implacabile bombardamento di parole”. Il libro di Simpson, dal titolo “A Vatican Lifeline ‘44”, tradotto in italiano a cura del Liceo Scientifico Statale “Fermi” di Sulmona col titolo “La guerra in casa 1943-1944. La resistenza umanitaria dall’Abruzzo al Vaticano, è una testimonianza agghiacciante della vita nel carcere di Regina Coeli. In quell’ambiente di tortura fisica e morale, Leone crolla. Il mattino del 5 febbraio 1944 viene trovato morto. Natalia Ginzburg, nel romanzo autobiografico Lessico famigliare ha scritto: “Avremmo lasciato l’Abruzzo con dispiacere, come l’avevano lasciato con dispiacere Miranda e Alberto… Partii dal paese il primo di novembre… Mi venne in aiuto la gente del paese. Si concertarono e mi aiutarono tutti”. E parlando del marito scrive: “Leone, la sua capacità d’ascoltare era incommensurabile e infinita; e sapeva ascoltare i fatti degli altri con profonda attenzione, anche quando era profondamente assorto a pensare a se stesso.”
ROVERE
A Rovere, frazione del comune di Rocca di Mezzo, trova rifugio e accoglienza la famiglia Camiz: Paolo (5 anni), Elena e Vito, i genitori. Ne ha raccontato la vicenda il figlio, Paolo, oggi 80 anni, nel libro “Un anno a Rovere(1943-1944)”. Il libro non vuole essere uno dei tanti che hanno speso fiumi d’inchiostro per raccontare le vicende degli ebrei perseguitati e finiti nei campi di sterminio. Consapevoli della loro situazione familiare critica non si arrendono, ma si adattano a tutte le condizioni di disagio materiale e psicologico. Nella frazione di Rovere, dove arrivano subito dopo l’8 settembre, trovano accoglienza e amicizia sincera. Lui è l’ingegnere. Il personaggio più qualificato del paese, capace di difendere i contadini perfino parlando con i tedeschi nella loro stessa lingua. Passano così i nove mesi della guerra in Abruzzo, con la fame che si cercava di lenire dividendo il pane che non c’era e con la forza d’animo di non cedere mai allo scoraggiamento e all’umiliazione. Nel mese di luglio del 1944, la famiglia Camiz ha la possibilità di tornare a Roma e di riprendere una nuova vita: non più quella di tentare in tutti i modi di emigrare nelle nazioni europee o sudamericane per evitare di essere arrestati dai nazisti e spediti nei forni crematori, ma la vita di tutti gli uomini degni di questo nome.
NAVELLI
A Navelli, paese dell’aquilano, si trova la famiglia Fleischmann, con padre internato perché ebreo. Uno dei componenti, allora ragazzo, ne ha raccontato la storia in un libro autobiografico dal titolo Un ragazzo ebreo nelle retrovie (1999). Il diario comincia con la data Settembre 1943: “Navelli si può trovare facilmente su una buona carta dell’Abruzzo. E’ un paese di più o meno duemila abitanti e nella forma non è molto differente dagli altri villaggi di montagna dell’Appennino centrale: si arrampica su di una collina e finisce in cima con il solito castello. […] la nostra colonia di internati è variamente composta: siamo tre famiglie di ebrei: Fleischmann, Degen e Billig, una famiglia di inglesi, Osmo-Morris, altre due signore inglesi, e un paio di confinati politici, come Giordano Bruno, un toscano ex-combattente di Spagna, e uno slavo, Dussan.” “Sono già più di tre anni, da quel 19 giugno 1940 quando, alle quattro di mattina, vennero i neri con le baionette inastate, a portarlo via. E da allora papà è passato da un campo di concentramento all’altro: dalla reclusione a Fiume, portato via con altri trecento ebrei come un delinquente…”. Vivono tra Navelli, Bominaco, Caporciano, Civitaretenga e in altre zone nei dintorni di Navelli. Vengono aiutati e sfamati dalla gente. “I contadini qui sono meravigliosi. Sebbene nessuno abbia detto nulla, cominciano a portare forme di formaggio o pezzi di pane o uova, e presentano tutto con un fare imbarazzato, come se si vergognassero”.
MONTEREALE-L’AQUILA-PESCARA-PENNE
Mario Pirani, nell’autobiografia dal titolo Poteva andare peggio, mezzo secolo di ragionevoli illusioni, scrive:“I Pirani discendono da una famiglia di kohanim che, per sfuggire alla peste nera, abbandonò la Germania sul finire del 1300 e riparò a Pirando d’Istria. Di qui il nome: i Coen di Pirano, Coen-Pirani o Pirani-Coen”. Il padre, seguito dalla famiglia, nel mese di giugno 1940, viene obbligato all’internamento a Montereale, in provincia di L’Aquila. Nel mese di ottobre la famiglia viene trasferita all’Aquila (prima in via Paganica e poi in via Majella). Nel 1943 la famiglia si trova da qualche anno a Pescara, dove Mario ha rapporti d’amicizia con Leopoldo Ferrara, Tommaso Taddonio, Glauco Torlontano. Il bombardamento del 31 agosto 1943 li costringe ad allontanarsi dalla città. Si trasferiscono a Penne, prendendo in affitto alcune stanze delle sorelle del parroco. Un giorno, per sfuggire al rastrellamento, Mario trova rifugio nella canonica, aiutato dal parroco, che lo nasconde in un armadio a muro. “Quel giorno – racconta Mario Pirani – sarei potuto finire ad Auschwitz. Eravamo piombati in una delle più immani tragedie della Storia. Ormai era in gioco la vita di ogni ebreo e di chiunque avesse una traccia di sangue ebraico”. Ma anche nel confino abruzzese, l’odissea della famiglia Pirani non ha tregua: da Penne a Sant’Agnello e da qui a Pescara: quattro anni e mezzo. Finalmente, il 28 novembre 1944, il ritorno a Roma. Mario Pirani diventerà funzionario del Partito Comunista, che abbandonerà nel 1961, accettando l’offerta di assunzione all’Eni, firmata da Enrico Mattei.
ATESSA
Giovanni Finzi-Contini, componente della famiglia ebrea resa celebre dal romanzo di Bassani e dal film di Vittorio De Sica, Il giardino dei Finzi-Contini, è spesso tornato a scrivere dei suoi rapporti con Atessa, la cittadina abruzzese che aiutò la sua famiglia. Ultimamente, con il libro Cara cugina (2002), anche se ricorre alla finzione letteraria, riesce a trovare parole poeticamente toccanti: “Temo di amare questa terra e non ne sono certo; ma avverto una sorta di corrispondenza biologica, oserei dire animale, cugina mia cara, tra la mia carne e le forme di questo paese sperduto: quasi che il vento gelido che a sera scende dalla lontana Maiella […] abbia per me ormai un significato personale e individuale troppo radicato e profondo: un legame come tra madre e figlio…” . E alla solidarietà dimostrata dalla gente, Finzi-Contini dà una sua risposta: “…un simile comportamento non può non derivare da consuetudini remote, da una sapiente tolleranza e da un superiore rispetto per l’uomo ormai connaturali a queste popolazioni…”.
LANCIANO
C’è una testimonianza poco conosciuta, ma sconvolgente sui campi di concentramento per ebrei, situati in Abruzzo: L’internata numero 6 di Maria Eisenstein (Tranchida, Milano 1994). Sono stati affrontati aspetti generali sui vari campi di concentramento per ebrei in Abruzzo. In merito, l’opera di Costantino Di Sante, I campi di concentramento in Abruzzo 1940-1944 resta fondamentale. Come lo sono le testimonianze degli ebrei confinati o fuggiaschi, nascosti in Abruzzo: da Ginzburg a Finzi-Contini, da Fleischmann a Pirani, dalla famiglia Modiano ai Fuà, fino a Beniamino Sadun con la madre, nascosti insieme all’amico Carlo Azeglio Ciampi, a Scanno. Manca però una ricostruzione approfondita ed esauriente sulla situazione degli ebrei in Abruzzo. Nella prefazione al libro della Eisenstein, Gianni Giovannelli scrive: “C’è ancor oggi chi si ostina a negare l’esistenza dei campi di concentramento nella penisola onde accreditare la falsa immagine del fascista italiano buono”. Una ricostruzione del campo di internamento di Lanciano è esposta nel libro di Gianni Orecchioni, I sassi e le ombre. Storie di internamento e di confino nell’Italia fascista (2006).
CASOLI
A Casoli, ci fu uno dei più importanti e famosi campi di internamento per ebrei, al Palazzo Tilli. Oggi è uno tra i campi più documentati in Abruzzo attraverso il lavoro mediatico realizzato da Giuseppe Lorentini. Livio Isaak Sirovich ha scritto “Non era una donna, era un bandito”, (Cierre, Verona 2015) in cui ha ricostruito una parte importante della vita di Rita Rosani, unica donna italiana medaglia d’oro della Resistenza, avvalendosi di una documentazione che riguardava il campo di internamento di Casoli.
PIZZOFERRATO
È uno dei vari paesi in cui viene confinato, Nino Contini (1906-1944), ebreo e sionista di Ferrara, La sua storia, scritta nei diari, è stata pubblicata a cura dei figli Bruno e Leo col titolo “Nino Contini (1906-1944): quel ragazzo in gamba di nostro padre”, Giuntina, Firenze 2012.
Riflessioni conclusive
Il cliché dell’italiano-buono nei confronti degli ebrei sembra più un personaggio da romanzo, che un personaggio storico. Michele Sarfatti (La shoah in Italia) ha cercato di smentire, sulla base dei documenti d’archivio, la tesi di Renzo De Felice, fatta propria da molti storici italiani e stranieri (perfino da Hobsbawm, storico ebreo) che in Italia il fascismo fu piuttosto blando nei confronti della caccia agli ebrei. Ma non è vero. Basta leggere la pagina del diario della Eisenstein, che sembra l’incipit del “Processo” di Kafka: «La mattina del 17 giugno 1940, sette giorni dopo l’entrata in guerra dell’Italia e sei giorni dopo aver ricevuto la notizia della morte di mio padre in Polonia, alle sette e minuti, un ometto in borghese, mal vestito, si presentò a casa mia…». E’ vero che molti ebrei trovarono ospitalità e complicità da parte di famiglie italiane che li accolsero e li sfamarono. Ma resta il fatto che Mussolini e il fascismo condivisero e sostennero la politica della “soluzione finale” di Hitler.
Secondo Jacob Taubes, teologo ebreo, l’antisemitismo ha radici particolarmente cattoliche. A suo parere, Hitler, Goebbels, Heidegger, Schmitt erano di formazione cattolica. Lo stesso Carl Schmitt, ritenuto da Taubes il più grande costituzionalista del secolo, gli aveva detto: «La Chiesa è coscientemente ambivalente: io sono cristiano e non c’è altra possibilità di esserlo, se non con una punta di antisemitismo» (In divergente accordo). Carl Schmitt, presidente dell’associazione dei giuristi tedeschi durante il regime nazista, processato e assolto dopo la caduta di Hitler, ritiene che debba essere la forza d’una Legge Costituzionale ad evitare le deviazioni e le dittature. Per questo l’ebreo Taubes e il tedesco-cattolico Schmitt ricorrono ad un concetto di San Paolo, il “katékon”. Nella “II Lettera ai Tessalonicesi” (2,6), lancia una parola, misteriosa e sconvolgente, dal punto di vista politico: “katékon”, la forza frenante. Ci deve essere sempre un “Qualcuno” o “Qualcosa” che eviti all’umanità di precipitare nel caos. Solo una Legge da tutti e per tutti può trattenere, frenare un Potere Assoluto. Un’idea che, con secoli e millenni, si trasformerà nel processo storico delle carte costituzionali: la “Magna Charta libertatum” (1215), la “Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino” (1789), l’ONU (1945), ecc.
Nel corso della storia lo scontro cristianesimo/ebraismo ha avuto momenti di alta tensione. Gli ebrei venivano considerati “popolo deicida”. Aspetti ideologici “anti-ebraici” sono stati presenti nel Cattolicesimo fino a poco tempo fa. Nella vecchia liturgia del Venerdì Santo, tra le preghiere del Missale Romanum, vi era quella per i “perfidi” giudei perché Dio potesse rimuovere il velo dai loro cuori (auferat velamen de cordibus) e sanarli dalla loro cecità (obcæcatio). La serie delle lamentazioni e dei rimproveri posti in bocca a Dio, durante la stessa azione liturgica, è d’una drammaticità sconvolgente: “Popolo mio, che cosa ti ho fatto? In che cosa ti ho contristato? Rispondimi. Io ti ho assistito per quarant’anni nel deserto, e tu hai preparato una croce al tuo Salvatore; io ti ho aperto il mare e tu mi hai aperto il fianco con una lancia; io ti ho dato uno scettro regale e tu mi hai dato una corona di spine; io ti ho esaltato e tu mi hai appeso al patibolo della croce…”.
Fortunatamente oggi non si può parlare di antisemitismo nel Cattolicesimo, dopo le dichiarazioni del Concilio Vaticano Secondo e le solenni prese di posizione degli ultimi pontefici. Ma c’è una pagina ancora da scrivere: riconoscere e assumersi le colpe storiche, come italiani e cattolici, nei confronti dello sterminio degli ebrei. L’opera di Daniel Jonah Goldhagen “Una questione morale. La Chiesa cattolica e l’olocausto” (2003) che presenta una analisi approfondita del problema della Shoah sotto gli aspetti storico, giuridico e morale pone interrogativi ai quali è dovere morale rispondere perché non si ripetano tragedie così disumane. Michele Battini, l’autore del libro “Peccati di memoria. La mancata Norimberga italiana” ha scritto: «La ricerca paziente della verità storica rimane una via necessaria per la comprensione e il superamento del passato». Solo così si realizzeranno le parole di Primo Levi, impresse nel lager di Auschwitz: “il frutto orrendo dell’odio non darà nuovo seme, né domani né mai”.