Probabilmente facevano parte della celebre produzione “Orsini Colonna”, un’originale produzione castellana che, nel corso del XVI secolo, ottiene un notevole successo commerciale. Il nome deriva da una fiasca conservata nel British Museum a Londra, in cui è raffigurato un orso che abbraccia una colonna, rispettivamente gli emblemi degli Orsini e dei Colonna. Grazie ad uno studio multidisciplinare, durato quasi dieci anni (1980-1989), si è potuto dimostrare che alcune eccellenti produzioni ceramiche cinquecentesche sono state prodotte a Castelli nella bottega Pompei dove operano Pompeo di Bernamonte e i figli Annibale, Orazio, Antonicco e Tommaso insieme a numerosi collaboratori. Lo studio ha rivelato che l’ampia produzione “Orsini Colonna” è stata realizzata tra gli anni ’30 e ’70 del ’500 ed è suddivisa in 4 gruppi stilistici differenziati sia morfologicamente, sia cronologicamente, sia a livello di impianto decorativo. Pompeo di Bernamonte è ritenuto il maestro che ha dato origine allo stile peculiare e alle forme con cui sono stati realizzati i vasi del primo gruppo, tra il 1530 e il 1540, in cui sono presenti reminescenze del naturalismo gotico quattrocentesco. Negli stessi anni in cui il padre produce i primi vasi “Orsini Colonna”, è già attivo presso la bottega paterna Orazio Pompei, l’unico maestro nell’arte della maiolica, operante in Abruzzo nel XVI secolo, di cui si conoscono opere firmate. Orazio possiede una spiccata personalità ed è lui, a partire dalla seconda metà del XVI secolo, a rinnovare sia il repertorio di forme, sia il repertorio figurativo della maiolica castellana, introducendo figure dalla fisionomia caricata collocate su uno sfondo che comincia ad ospitare paesaggi sempre più dettagliati e variopinti. Sono pertanto ascrivibili a Orazio Pompei il secondo gruppo stilistico dei vasi “Orsini Colonna”, realizzati tra il 1540 e il 1555, e il terzo gruppo 1555-1565, che risente dell’influenza delle stampe tedesche e delle eleganze dello stile tardogotico sia fiammingo che francese. Tra il 1555 e il 1565 uno o più autori dalla manualità diversa da quella di Orazio realizzano nella sua bottega i vasi “Orsini Colonna” del quarto gruppo. Tra gli anni ’60 e ’70 del ’500 a Castelli inizia la produzione in stile compendiario, caratterizzata da apparati decorativi semplificati con tralci fioriti, figure e animali resi in maniera molto stilizzata e una gamma cromatica ridotta a soli tre colori: il giallo, il blu e il verde. Solitamente i soggetti dipinti sono isolati al centro dell’oggetto, a volte racchiusi in clipei circolari senza una caratterizzazione spaziale. Lo smalto stannifero diventa un elemento importante rispetto al passato, il suo spessore viene aumentato per ottenere maggiore lucentezza e per renderlo più coprente, tanto che le diverse tipologie dello stile compendiario vengono classificate proprio in base alla colorazione dello smalto: a Castelli troviamo le tipologie dei bianchi, dei verdi e delle turchine. A quest’ultima tipologia appartiene il noto servizio con decori in oro che reca lo stemma del cardinale Alessandro Farnese e che ha esemplari datati 1574. Le forme del compendiario, sulla scia della spinta manierista, si arricchiscono del confronto con esemplari realizzati in metallo o vetro, attraverso volute e mascheroni. Inoltre, tipiche di questo periodo sono le forme baccellate, e le crespine. Negli anni ’30 del Seicento a Castelli si impone un’altra importante dinastia di decoratori, quella dei Grue. Francesco Grue (1618-1673) è il protagonista del rinnovamento della maiolica castellana avvenuto in quegli anni. A lui si devono i primi istoriati barocchi castellani ispirati ai repertori decorativi e figurativi cinquecenteschi, in particolare marchigiani, che vengono rielaborati con l’avvio della stagione barocca. I soggetti centrali delle maioliche del Grue, desunti da stampe di vari autori tra i quali è molto apprezzato Antonio Tempesta (1555-1630), pittore e incisore fiorentino, sono episodi tratti dalla storia greca e romana, scene mitologiche, di caccia e lotte tra animali, mentre l’impianto decorativo reca grottesche rinascimentali (girali fogliati con fiori e frutta, animali e chimere) oppure i trofei bellici. Lo stile di Francesco Grue, attivo tra la fine degli anni ’30 e l’inizio degli anni ’70 del ’600, subisce un notevole cambiamento nel corso dei decenni passando da uno stile disegnato, caratterizzato da un netto grafismo, ad una maggiore morbidezza nell’uso del pennello e ad un impianto cromatico più vario in cui domina il verde. Tra le novità artistiche introdotte dal Grue sulla maiolica istoriata del ’600 ci sono le lumeggiature in oro a terzo fuoco. Carlo Antonio Grue (1655-1723), figlio di Francesco Grue, può essere a buon titolo annoverato tra le personalità più importanti dell’arte della maiolica che l’artista rinnova conquistando una committenza aristocratica internazionale. I suoi istoriati sorprendono per l’alta qualità pittorica che interpreta con eleganza lo stile barocco. A questo pittore di maioliche si devono una serie di novità nel repertorio iconografico. I soggetti centrali raffigurano, oltre ai tradizionali episodi sacri, mitologici e di storia, anche scene di genere mentre le tese accolgono cartelle, mascheroni e puttini che giocano tra serti fioriti o membrature architettoniche. Inoltre, Carlo Antonio è l’inventore dell’ornato a paese diventato negli anni il soggetto identificativo della produzione castellana. Le famose vedute paesaggistiche di Carlo Antonio Grue prendono le mosse dai pittori francesi di paesaggio idealizzato. Per le sue composizioni il Grue utilizza stampe e incisioni dei protagonisti della pittura barocca, non limitandosi ad una trascrizione del soggetto ma rielaborandolo e arricchendolo con elementi di fantasia. Di grande pregio il piatto che raffigura “Il ratto d’Europa” per il quale il pittore si ispira ad un quadro di Tiziano. Carlo Antonio arricchisce alcune tipologie ceramiche come i grandi vasi da parata –celebri gli esemplari della Collezione Paparella-Treccia due dei quali custoditi nel Museo Villa Urania di Pescara, altri due nel Museo d’Arte Barbella a Chieti, appartenenuti a Leopoldo I d’Austria (1640-1705)–, le zuppiere con anse serpentiformi, le chicchere e i portachicchere. Tra i decoratori che mantengono alta la qualità della produzione artistica castellana, dopo la scomparsa di Carlo Antonio Grue, ci sono i suoi figli: Francesco Antonio Saverio (1686-1746), Anastasio (1691-post 1756), Aurelio (1699- documentato fino al 1751) e Liborio Grue (1702-1779 o 80).
Francesco Antonio Saverio Grue è certamente il più noto, non solo perché è pittore, incisore, poeta ed anche capo di una rivolta contro il feudatario a Castelli nel 1716, ma soprattutto perché firma molte delle sue opere. Egli è l’unico della famiglia a studiare e laurearsi a Urbino in teologia e filosofia, dotato di talento è particolarmente apprezzato per i paesaggi di tipo arcadico. Un altro esponente significativo per la maiolica castellana tardo barocca è Carmine Gentili (1678-1763) allievo di Carlo Antonio, che riprende dal maestro soprattutto i moduli decorativi delle tese con puttini, cartelle decorative e fiori su fondo colorato, e alcune tipologie di forme barocche come i vasi da parata. Si distingue per la gamma cromatica fatta di colori squillanti e lucidi e per i nudi che gli valsero un notevole consenso di pubblico. Collaborano all’importante bottega da lui diretta i due figli Giacomo (1717-1765) e Berardino (1727 ? – 1813). Vanno ricordate anche le figure di Francesco Saverio Grue (1720-1755), noto esponente di un ramo collaterale della discendenza di Carlo Antonio, di suo fratello Nicola Tommaso (1726-1781), del quale il Museo Acerbo a Loreto Aprutino conserva l’unica opera firmata attualmente conosciuta (datata 1772), e di Saverio Grue (1731-1798), l’ultimo decoratore della nota dinastia attivo principalmente a Napoli. Tra gli allievi di Carlo Antonio Grue c’è anche Candeloro Cappelletti (1689-1772), nipote del celebre decoratore. L’unico lavoro firmato del Maestro, un ovale con La Madonna, il Bambino e San Giovannino, oggi in collezione privata, reca anche la data 1713, un punto fermo per documentare la notevole abilità di questo decoratore castellano. Si ricordano anche i fratelli dell’artista il decoratore Nicola (1691-1767) e il vasaio Gennaro. A partire dagli anni ’50 del ’700 si verifica un nuovo cambiamento di gusto dettato dalla concorrenza della porcellana, che è maggiormente di moda tra la committenza. Infatti, se a partire dal XVII secolo vengono massicciamente importate in Europa le porcellane cinesi alle quali Castelli reagisce riscoprendo la ricca tipologia dell’istoriato cinquecentesco e abbandonando lo stile compendiario, nella seconda metà del Settecento la situazione cambia. La porcellana non viene più importata, ma è prodotta direttamente in Europa con costi più contenuti e uno stile più vicino al gusto europeo. Per rimanere competitivi, i decoratori castellani reagiscono iniziando ad imitare la porcellana nella forma, nella decorazione e nei colori. Silvio de Martinis (1731- ancora in vita nel 1772) è uno dei protagonisti di questa stagione, a lui si deve l’introduzione di decorazioni naturalistiche a gran fuoco (fiori, frutta e insetti), oggi assai rare perché appartenenti soprattutto a serviti da mensa andati in gran parte persi con l’uso. Sono famosi anche gli istoriati con figure in costume settecentesco dipinti dall’autore su ovali o tondi. La rivoluzione di gusto iniziata negli anni ’60 del ’700 nella bottega de Martinis prosegue con Gesualdo Fuina (1755-1822), che insiste su forme rococò e decori a fiori blu su fondo bianco. Il Fuina introduce a Castelli la tecnica decorativa della porcellana detta a piccolo fuoco o a fuoco di muffola, in questo modo è possibile utilizzare una gamma cromatica molto più vasta che comprende per la prima volta il rosso. Qualche lustro più tardi opera a Rapino Fedele Cappelletti (1847-1920), uno dei maggiori rappresentanti della maiolica italiana dello Storicismo, con lui rivivono i fasti delle grandi stagioni dell’arte ceramica abruzzese. I modelli del passato sono così ben studiati e replicati per stile e tecnica da essere scambiati per originali. Fedele Cappelletti esegue l’intero processo di lavorazione con rigore storico, il forno è costruito secondo tradizione, i colori sono quelli utilizzati dai grandi maestri del barocco e la fase di cottura segue gli antichi dettami. Accanto a queste opere, Fedele Cappelletti esegue soggetti in stile eclettico. Nei primi del ’900, un grande artista abruzzese si esprime attraverso l’arte ceramica: Basilio Cascella (1860-1950). L’incontro con la maiolica arriva per il pittore pescarese nel 1918 quando si trasferisce a Rapino insieme ai figli Tommaso (1890-1968), Michele (1892-1989) e Gioacchino (1903-1982), per dedicarsi alla pittura su smalto stannifero e ritrovare le tradizioni dell’antica arte abruzzese. Le sue prime opere sono mattonelle di varie dimensioni per le quali mette a punto dei processi di colorazione nuovi, in grado di rendere i toni perlacei e le sfumature rosate degli incarnati. Basilio rinnova anche il repertorio figurativo introducendo ninfe, fauni, satiri, nudi femminili, amorini e scene religiose che sintetizza con la sua spiccata fantasia. Attraverso la sua opera, l’arte della maiolica abruzzese torna a valicare i confini regionali con i grandi pannelli monumentali che ornano lo Stabilimento Termale Tettuccio di Montecatini (1926), una galleria della stazione di Milano (1930-31) e la stazione marittima di Messina (1939-40) per la quale è il figlio Michele a fornire i disegni. Inoltre, va ricordata l’opera di rivisitazione in chiave moderna dell’ornato a paese attuata dal figlio Michele, seguito poi anche dai fratelli, che ha dato nuova freschezza al genere con scene che hanno il sapore della veduta dal vero. Gioacchino è l’unico a dedicarsi per tutta la vita all’attività ceramica, i suoi temi preferiti sono fiori e paesaggi. Lo straordinario idillio della forma dell’artista abruzzese ha suggellato antiche corti, maestri e stemmi.
( a cura di Cicchetti Ivan )