di Mario Cantoresi
“Dietro Castello”, ovvero il parco celanese per eccellenza, nasce ufficialmente nella primavera del 1929 con tutt’altro nome e con una storia molto particolare che al giorno d’oggi ben pochi conoscono.
Il suo concepimento, però, ha origini ancora più remote e s’intreccia sorprendentemente con buona parte dei principali accadimenti storico-politici della società italiana d’inizio Novecento.
Per comprendere bene la trama di questa vicenda, quindi, occorre ripercorrere quello che accadde nella nostra Nazione e nella Marsica nell’arco temporale compreso fra gli anni 1915 – 1918.
Fu quello un momento storico particolarmente duro per le popolazioni della valle fucense, le quali dapprima furono tragicamente colpite dalle devastazioni inferte dal famoso sisma del 13 gennaio del 1915 e poi, a distanza di pochissimi mesi da quell’evento, proprio mentre cercavano faticosamente di superare una fase di acuta emergenza e di avviare una lenta ed incerta ricostruzione, vennero anche private dell’apporto fondamentale della forza lavoro che potevano garantire i giovani in età compresa fra i 20 ed i 40 anni.
Quei ragazzi, infatti, nella quasi totalità delle classi di nascita comprese fra il 1875 ed il 1899, furono chiamati a servire la Patria sui vari fronti carsici e dolomitici della Prima Guerra Mondiale.
Ad onor del vero occorre ricordare che il Regio Parlamento valutò l’opportunità di esentare, almeno in un primo momento, i giovani marsicani dagli obblighi di leva.
Questo beneficio fu però osteggiato e rifiutato quasi con sdegno dall’autorevole intervento dell’Onorevole Giovani Torlonia-Borghese, genere del Principe Alessandro Torlonia, Deputato nel Collegio di Avezzano e, successivamente, nel 1930 Senatore del Regno, che, rivendicando le caratteristiche di forza, tenacia e volontà dei suoi conterranei, dagli scranni di Palazzo Madama affermò testualmente che:
“…anche i marsicani avrebbero dato il loro decisivo apporto allo sforzo bellico nazionale. E senza nessuno sconto!”
Le vicende e gli infuocati dibattiti politici dell’epoca sono storia nota ai più: lo scontro, spesso anche fisico, fra Interventisti e Neutralisti, la disfatta di Caporetto e la conseguente rinascita di Vittorio Veneto, la tanto invocata fine del conflitto mondiale ed il malcontento popolare originato in Italia dal cosiddetto mito della “Vittoria mutilata”, costituirono un mix di elementi esplosivi che avrebbero, di lì a poco, determinato stravolgimenti epocali sia nel tessuto politico che in quello sociale della Penisola.
Anche a Celano si visse con fermento e partecipazione il susseguirsi di quegli avvenimenti, a ciò contribuì una circostanza decisiva: fra il 1923 ed il 1929, sulla scia degli effetti generati dalla “Marcia su Roma”, anche nella città castellana si era dapprima affermata e poi consolidata una nuova classe politica che aveva il suo uomo di punta nella figura del giovane avvocato Don Emilio Moreschi, podestà e segretario del fascio celanese.
Il Moreschi era un uomo di grande equilibrio e maturità, caratteristiche quanto mai appropriate per amministrare Celano poiché solo una personalità con quelle doti avrebbe potuto gestire nella maniera più idonea una realtà sociale drammaticamente riassunta da pochi ma significativi parametri numerici.
Celano contava circa 9.200 abitanti, la maggior parte dei quali erano ricompresi nelle classi della piena età lavorativa ma, purtroppo, il tasso di analfabetismo interessava ben oltre il 90% della popolazione.
Le principali fonti di reddito e di sostentamento dei cittadini provenivano dall’agricoltura; gli artigiani erano pochi e mal pagati.
L’industria, eccettuata la nuova presenza dello zuccherificio del Principe Torlonia, era praticamente inesistente.
Queste circostanze avevano prodotto come primo ed immediato effetto, un forte movimento migratorio rivolto soprattutto verso il continente americano. Stati Uniti ed Argentina erano le mete preferite di coloro che abbandonavano il paese.
Pertanto il Moreschi era il primo cittadino di una collettività prettamente contadina e proletaria, sicuramente oppressa dallo strapotere economico della famiglia Torlonia e, per di più, ancora visibilmente ferita dai lutti causati dai due grandi drammi del decennio precedente.
Anche il territorio urbano aveva aspetti particolari e spesso problematici. All’epoca, infatti, a Celano esisteva un consistente nucleo abitativo posto nell’immediato ridosso del centro storico, mentre gruppi sparsi di borghi periferici sorgevano divisi l’uno dall’altro ed erano praticamente autonomi rispetto al centro stesso del paese.
Il vero elemento unificante ed identificativo dei celanesi, allora come oggi, era senza ombra di dubbio il castello.
Il maniero era stato edificato in età medioevale su un arido pinnacolo che, specialmente dal lato del versante rivolto verso l’attuale Piazza Aia, aveva l’aspetto di una grande cava. Per secoli quella collina aveva mantenuto immutate le sue peculiarità morfologiche naturali.
Solo dopo il terremoto, nel momento stesso in cui partirono le prime opere di ricostruzione, molte attenzioni interessate furono rivolte su quella zona e già si poteva assistere a qualche tentativo “ante litteram” di abusivismo edilizio.
Di conseguenza il podestà, sulla base degli elementi a sua disposizione, aveva individuato due precise priorità operative su cui incentrare le risorse necessarie per la rinascita della città:
La zona più esposta a questo rischio era quella di dietro castello: brulla, spaziosa e dotata di un’ampia e libera veduta sulla sottostante valle del Fucino. Il Moreschi era un attento osservatore delle cose e seguiva con particolare attenzione gli sviluppi politici e gli orientamenti nazionali.
Per questo motivo non impiegò molto a comprendere che in quegli anni il fascismo raccoglieva le maggiori fortune di tutto il suo tormentato percorso storico, grazie soprattutto ad un’accorta attuazione della cosiddetta “politica del consenso”.
L’11 febbraio 1929 Mussolini aveva firmato con la Santa Sede i “Patti Lateranensi”, un accordo diplomatico che andava a chiudere definitivamente l’annosa questione romana e che gli era valso, da parte dell’allora Pontefice Pio IX, l’appellativo di “Uomo della Provvidenza”.
Il Duce, forte di questo prestigioso riconoscimento, si avviava ad inaugurare una ventennale stagione dittatoriale basata sui teoremi nazionalistici e sull’esaltazione estrema dei valori legati alla memoria militaresca e patriottica, troppo spesso umiliati nel recente passato.
Il Moreschi, quindi, ispirandosi alle linee guida dettate dal partito unico, pensò di realizzare nella parte alta della collina una sorta di giardino pubblico-monumento che si sarebbe dovuto chiamare “Parco della Rimembranza” e che avrebbe avuto una duplice funzione:
In verità l’idea del parco non era poi del tutto nuova.
Già nel lontano 1892 due ingegneri aquilani, Gargano e Gentileschi, incaricati dal sindaco dell’epoca, Alessandro Venditti, elaborarono un progetto per il recupero del castello e della zona ad esso circostante ma sia per motivi economici sia per il mancato gradimento degli stessi amministratori che avevano commissionato il progetto e di gran parte della popolazione, l’opera non ebbe mai inizio.
Solamente nel 1920, ovvero a guerra appena conclusa, un altro famoso sindaco celanese, l’avvocato socialista Filippo Carusi, tornò sulla realizzazione di quel progetto. Anche le intenzioni del Carusi tendevano al raggiungimento di una duplice finalità:
Gli alberi, infatti, sarebbero stati dedicati al perenne ricordo dei caduti celanesi “dell’inutile strage”, così come il Santo Padre Benedetto XV aveva definito l’immane conflitto, mentre nella sua interezza il Parco della Rimembranza avrebbe assunto una funzione di monito contro tutte le guerre per le generazioni future. Inoltre, dal punto di vista prettamente architettonico, esso si sarebbe configurato come il primo, grande esperimento di abbellimento e di completamento del demanio pubblico il che, considerando i tempi, costituiva davvero un’idea innovativa e lungimirante. Il corso dei destini umani impose però ben altre scelte.
Innanzitutto occorreva dare soluzioni immediate ad altri problemi di primaria importanza e poi, di lì a poco, l’esistenza stessa del Carusi sarebbe stata drammaticamente travolta dagli eventi, costringendolo all’esilio forzato per internamento.
I tempi per la realizzazione dell’opera, come già detto, maturarono soltanto nel 1929, allorquando Emilio Moreschi ebbe l’altissimo merito di dare il via ai lavori che avrebbero finalmente concretizzato un’idea vagheggiata da almeno trent’anni e mai portata a termine in precedenza.
Ben tre delibere comunali, due risalenti al 1924 ed una al 1925, stabilirono le modalità ed i dettagli per la costruzione del parco dietro il castello. Nel frattempo, esattamente nel 1923, venne realizzato ad opera dello scultore romano Francesco Granata, un grande monumento ai caduti che raffigurava un fante nell’atto di lanciare una bomba.
La scelta del luogo ove posizionare la bronzea figura non fu però pacifica.
Infatti, nel 1922 quando era ancora Sindaco il socialista Filippo Carusi, si accese una violenta discussione fra due fazioni cittadine: i socialisti ed i fascisti.
I primi desideravano che il monumento fosse posto davanti all’ingresso del cimitero comunale, i secondi – invece – lo volevano sulla piazza principale di Celano che all’epoca si chiamava ancora Piazza del Mercato.
La spuntarono i fascisti che, inoltre, deliberarono anche il cambiamento del nome della piazza che da allora divenne “PIAZZA IV NOVEMBRE”.
La scultura del fante fu posta su un alto basamento quadrato i cui lati avrebbero accolto tre lapidi con i nomi dei figli di Celano morti per l’Italia.
Malgrado ciò che era accaduto, il giorno dell’inaugurazione i celanesi dimenticarono tutte le rivalità e si ritrovarono uniti e commossi a celebrare quel momento di profonda e sincera commozione.
Ma non era finita lì. Sull’onda emotiva scatenata da quella Stava accadendo davvero qualcosa di veramente straordinario: nasceva a Celano il primo Parco della Rimembranza dell’intera provincia aquilana e certamente quello più interessante ed importante dal punto di vista storico ed archeologico.
Non si hanno notizie scritte in merito ma, dai ricordi degli anziani del paese, sembra che gli ippocastani da piantare nel parco furono acquistati da un comune della provincia pistoiese che, insegno di amicizia e fratellanza con Celano, ne regalò oltre a quelli comperati altri trenta.
Gli alberi vennero sistemati in doppia fila lungo i due lati del viale, ed ognuno di loro era dotato di un recinto protettivo in legno recante una piccola targa con il nome del caduto a cui era stata dedicato.
La terra di risulta derivante dal livellamento del piano stradale del viale fu invece usata per coprire gli spuntoni di roccia su di cui, nel XIV secolo, furono edificate le fondamenta del castello. In tal modo si creò e si rese praticabile un piano sopraelevato rispetto a quello principale.
Quando i lavori furono definitivamente terminati, ovvero nel 1932, fu organizzata anche una grande manifestazione per inaugurare quella prima villa comunale.
I bambini delle scuole piantarono simbolicamente gli alberi e le vedove e gli orfani della Grande Guerra, al posto delle tombe, ebbero finalmente un luogo dove poter andare a ricordare e commemorare degnamente i loro congiunti. Poi, come spesso accade perle vicende umane, gli anni che seguirono portarono profondi e radicali cambiamenti nelle abitudini e negli usi della collettività castellana.
Da quel giorno solo un’evidenza è rimasta immodificabile: da sempre generazioni di celanesi e di marsicani hanno vissuto e legato molti dei momenti più particolari della loro esistenza lungo i viali alberati di quel parco.
E qui finisce questa storia, resta infatti ben poco da aggiungere a quanto sopra detto.
O forse no, magari un’ultima considerazione può ancora essere fatta.
L’amore non sempre salva le persone e le cose, però può rendere la loro memoria immortale.
Probabilmente ciò sarà anche vero ma, purtroppo, sembra che qualcuno oggi l’abbia clamorosamente dimenticato.