Prima di tutto c’è da dire che non esistendo una tradizione scritta che abbia fissato pronuncia e ortografia in modo univoco la scrittura del dialetto e la sua pronuncia, sono un po’ come cercare il modo più appropriato e similare al proprio costume dialettale. Infatti diverse parole differiscono, di poco o di molto, da un paese all’altro, a volte da una famiglia all’altra, e non esistendo una tradizione scritta, penso che non esistano regole per privilegiare una forma rispetto ad un’altra.
Senza voler entrare troppo a fondo in una materia complessa, che autorevoli studiosi hanno affrontato, senza però giungere ad una, d’altra parte auspicabile, soluzione uniforme, tuttavia mi sembra utile per chi legge illustrare alcune regole che ho seguito e alle quali non mancano le eccezioni e le incongruenze, risolvibili “ad sensum”, supponendo che chi legge non sia digiuno delle nostre parlate.
Non userò l’Alfabetico Fonetico Internazionale (IPA) in quanto troppo complesso per chi vuole sapere con immediatezza, e senza studiare codici, come si pronuncia una parola.
Alcuni casi di elisione sono tra la preposizione e il termine successivo, come n’gopp o ‘ngim che vuol dire sopra; ‘ndrétt che significa entrò.
Per spiegare la pronuncia della vocale i, associata a un tempo maggiore di permanenza sulla stessa, si userà ij, come nel caso di ijam(e), che significa andiamo come voce del presente indicativo. E la cui unica m finale vuol significare come sia di pronuncia morbida e non doppia come jamm(e) che si riferisce a un invito o un ordine di fare presto. Andiamo nel senso di sbrigati.
La e, quasi sempre, è pronunciata stretta come in perchè. Tranne in alcuni casi come nei verbi al passato remoto: esempio v(e)nètt(e), ossia venne in italiano, oppure dicètt(e),corrispondente all’italiano disse.
Nel Dialetto Celanese, i verbi sono organizzati come in italiano Ecco allora che bisogna subito parlare di vocali e consonanti. Le prime mancano quasi sempre alla fine delle parole dialettali .Tutto finisce con una consonante, oppure con una e muta, ossia appena accennata e gutturale. Per esempio nel sostantivo vajjul(e), corrispondente all’italiano ragazzi. E così scriveremo le parole tutte le volte che finiscano con una vocale accennata nel suo suono, ma non del tutto pronunciata.
Nel dialetto, la finale accentata è rara ma comunque presente. Soprattutto nei verbi all’infinito, dove viene eliminata la sillaba finale re. Magnà in italiano mangiare; v(e)dé in italiano vedere; scì – in italiano uscire.
Sarebbe buona cosa scrivere la “e” ed altre vocali come anche la “o” sempre accentate per capire la pronuncia della frase. Nell’italiano di fine secolo è innegabile che fondamentale sia l’avvicinamento tra scritto e parlato. E’ sempre frequente la diffusione degli Anglicismi (indicativo che il nome tradizionale di j, ‘i lunga’, sia spesso sostituito dai più giovani con ‘gei’ per influsso inglese).
Nel caso specifico di Celano, a differenza di tutti i popoli della Marsica, alcuni tratti del dialetto, conservano parti dell’Osco considerato tra il più conservatore di tutte le lingue italiche conosciute, l’osco rivaleggia solo con il greco nel mantenere intatto il sistema ereditato di vocale + i dittonghi.
Lettera quasi mai usata dagli estimatori ed esperti dialettali dei nostri luoghi e la “K” che erroneamente hanno sconvolto la nostra trascrizione del dialetto con ch. Se solo avessero studiato l’OSCO dalla quale la nostra lingua discende, avrebbero visto che l’OSCO usa la “K” per definire alcune frasi e non solamente il “CH”.
Molti studiosi hanno stabilito che l’isoglossa fondamentale che distinguere i dialetti italiani meridionali da quelli mediani attraversa l’Abruzzo, partendo da Campotosto, toccando le frazioni dell’estrema periferia della città dell’Aquila, per poi scendere più a sud ed attraversare Avezzano fino a giungere intorno a Canistro al confine con l’area ciociara.
Nell’area Marsicana il parlato di Celano, la somiglianza con il Napoletano è forte a causa degli scambi economici documentati tra le città durante il Regno di Napoli (es. giovani a Celano (vajiule), ma la pronuncia è “Vajiul” senza la “e“( che si pronuncia in altri paesi della Marsica),a Napoli “guaglioni”.
Il tratto qualificante di questo gruppo dialettale (gruppo Italo Meridionale) dove dovremmo appartenere noi??? (penso proprio di NO) è la conservazione delle vocali finali atone. In particolare nel dominio reatino-aquilano, area tradizionalmente conservativa, viene tuttora mantenuta la distinzione fra –o ed –u finali, a seconda dell’originaria matrice latina: ad esempio all’Aquila si ha cavaju per “cavallo” (latino volgare *CABALLU(M)), ma scrio per “io scrivo” (lat. volg. *SCRĪBŌ). A CELANO NO! Ma “Cavaji senza la “O”, e Scriv invece di “scrio”.
Ad occidente del suddetto dominio si estendono le parlate dei Piani Palentini, con centri di irradiazione quali Carsoli e Tagliacozzo, la cui punta più a sud, a contatto con l’area abruzzese della Marsica a ridosso dell’area laziale, queste parlate sono caratterizzate dalla confluenza delle vocali originali latine –u ed –o nell’unico esito -o (cavajo, fijo), ma come il sabino possiedono il medesimo sistema vocalico, fonetico e morfologico. Questi dialetti appartengono al continuum linguistico mediano assieme ai confinanti dialetti dell’Umbria e del Lazio. A CELANO NO!
Una parola, prelevata dal libro Il Sannio e i Sanniti di E. T. Salmon, merita di essere esaminata e si tratta dell’osco mbratur (imperatore).
Nel dialetto di Celano esiste tuttora la medesima simile parola usata quando si parla appunto di un imperatore (mbrator). Ma non solo. La tipologia di vocaboli con parte iniziale priva di vocale, nel caso mb priva della vocale i, è molto diffusa nel Celanese Antico e non solamente. Così esistono le parole mbett, per indicare nel petto, oppure mbazzit, impazzito, mbanat, impanato. Con la labiale p che diventa b, più dura al pari di altre trasformazioni. Come quella della s in zeta. Ciò avveniva anche nell’osco: kenzur che in latino equivale a censor (censore). Oppure nel “Consolo” nelle manifestazioni funerarie da noi “Kunzl” in Latino : consolo, consolas, consolare.
Ma anche la parte finale della parola mpratur richiama tutti i modi di finire le parole che, in italiano, sono con le sillabe finali –tore o –tori. Così p’tator (potatore), murator (muratori), met(e)tur (mietitori), termini che si usano oggi nel Molise ed in quasi tutti i territori Sanniti ma anche a Celano.
I verbi al passato remoto dell’osco terminavano spesso con la doppia t. Ugualmente nei dialetti delle zone montane molisane e non soltanto. Come nel verbo magnett (mangiò), vnett (venne), vdett (vide). Addirittura molto simile è il verbo osco dedícatted, (dedicò), al modo di dire la stessa parola, e con identico significato, nel dialetto Celanese Antico: dedikett.
Un verbo appare in una iscrizione presente sulla mensa dell’altare dedicato ad Apollo di Teanum Sidicinum (la odierna Teano, in Campania). Si riporta la scritta in OSCO, come sempre resa secondo il modo di leggere da destra a sinistra, e quindi la traduzione in italiano:
…tríbuf : plífríks : appelluneí : brateís : datas : dunat
…tribuno della plebe ad Apollo, per grazia ricevuta, dona
Si nota l’esatto modo di dire, alla terza persona del passato remoto nell’attuale dialetto di Celano, di donare: dunàt = donò. Fust, in osco significa egli sarà, è tuttora usato nel dialetto di Celano con significato variato come tempo del verbo. Difatti vuol dire tu fosti.
Infine bisogna anche ricordare il carattere delle genti che attualmente abitano le zone di montagna in cui esistono i resti delle mura dei Marsi-Sanniti. Questo popolo, tuttora, ha un comportamento simile a quello degli antichi progenitori che amavano il teatro e la rappresentazione scenica. Ne sono prova le commedie popolari e le farse, di origine osca, che a Roma furono per lungo tempo recitate fin dagli inizi del IV secolo Avanti Cristo. L’eredità fatta di ironia e sarcasmo, oltre che di battute di spirito, è facile verificarla ancora a Celano.
Tàta’ padre; Zzurre caprone; Trabbiccul carro sgangherato; Pàttile da cui Pttilell sottile sfoglia di pasta; Mandile tovaglia
L’osco appartiene al ceppo linguistico indoeuropeo, propriamente alla stessa famiglia del latino, del greco e del messapico e fu la lingua ufficiale della Marsica e del Sannio fino alla terza guerra sannitica.
Giunse da noi con la terza invasione della popolazione europea-asiatica avvenuta attraverso il Canale d’Otranto tra il 1500 e il 1200 a.C. e presenta un volto e una struttura non molto diversi dal latino, essendo i Marsi-Sanniti veri e propri cugini di quelli che furono poi i fondatori della Città Eterna. Erroneamente si pensa che i Marsi fossero ben differenziati dai Sanniti. Non tutti, infatti Celano come altri popoli arroccati ed in contatto con i confini Sanniti erano una congiunzione che faceva proprio da e vero confine tra la Roma Eterna ed i popoli autonomi con una propria identità storica culturale.
Provate a far pronunciare i vocaboli or ora elencati a un non Celanese, sia esso di qualsiasi lingua Italo Meridionale; noterete subito la differenza: il timbro più oscuro della nostra “i” farà apparire più rude il nostro linguaggio, ma certamente meno mielato e più fiero.
La stessa fierezza ci è assicurata dalla nostra “u“, per la quale, come per la “i“, registriamo due timbri diversi: uno normale, velare, simile a quello della corrispondente “u” italiana (ed è quella di “mbùt” – Mùttij = imbuto) e un’altra più vicina alla “o“, quindi prevelare (per distinguerla, l’abbiamo trascritta col segno “ụ“) come quella di “sụbbət” =subito, “tụtt” = tutto, “lụtt” = lutto e di ogni “u” tonica, purchè non sia preceduta da una della seguenti consonanti: b – k – f – m- p- v– (le cosiddette occlusive od esplosive) oppure da vocale.
Di influsso OSCO inoltre è sicuramente la sonorizzazione di “s” in “z” quando è preceduta da “n”.
Esempi: mànz mànz = mansueto, calmo calmo; anzjùs(e) per ansioso ecc.
Nelle iscrizioni OSCHE infatti leggiamo “kenzur” per il latino “censor”,”menzaru” per *mensarius, aggettivo costruito su “mensis” =mese;
Sono trascorsi ben 3.500 anni dall’arrivo degli Osci e le loro testimonianze sono dure a morire.
Quanti popoli invasori si sono avvicendati nelle nostre contrade! Quante lingue si sono sovrapposte al primigenio sostrato indoeuropeo! Eppure i colori dei suoni vocalici e tanti altri accidenti fonetici così cari al fiero popolo Celanese ancora sono espressione di un passato fiero ed autentico.
Nei tempi odierni, molti non si chiedono mai le motivazioni per cui paesi limitrofi parlino in maniera del tutto differente. Basta confrontare alcune frasi.
UNA POESIA DIALETTALE AVEZZANESE: – Ntunietta, chi te parla é Giuvannine, arrecchia poche a quele che te dice: de tanta brace, tutte é mó cenice, é tante fridde aventre ajie cammine! ‘Ne ciocche ce mettettede ‘ne pire e ce fionnette mmese ‘na fiammella; da principie se fice tutte nire, e ppò ardette che ‘na fiamma bella! Etc. etc. etc..
UNA POESIA DI COLLARMELE: –
LA SQUADR D JU C O LL
Finalment pur u Coll tè na squadr d pallon, i nu pubbl-c ca n moll ogni sua esibizion.
LA DELUSION
Cj si dat n’ogn d sp-ranz, cj si fatt tuccà u ciel c nu dit; etc. etc.
UNA POESIA IN CERCHIESE –
I TRE PONTI
Aje tre ponte stace nu ruscelle nascoste tra le fratte i j’alberitte,
ce stave tante belle funtanelle i chiù luntane stace nu laghitte.
Tant’anne sò passate, ma cu poste, è sempre u stesse, n’ha cagnate nente,
i fiure che renascene alle coste i na frescura ‘nfaccia se resente. Etc. etc.
COME SI VEDE nei dialetti di CERCHIO e COLLARMELE come anche in Aielli, l’uso della “U” è costante come articolo e spesso anche come finale della parola. Inoltre a Cerchio “AJE” (al) e “STAVE” – (stava) o “STACE” (sta’) sono abbastanza singolari.
Questi esempi di dialetti dell’area Marsica non riguardano Celano. Perché ?
Bhe, molti non si sono fatti due conti. Io ho una mia tesi ed abbastanza supportata ma sempre in attesa di ulteriori conferme e cioè:
I territori della Marsica, hanno subito due eventi enormi di per sé disastrosi per quel che riguarda la cultura, gli usi locali, e la modifica della popolazione, contaminando quelli che erano usi e costumi esistenti da migliaia di anni. Potrei benissimo dire ma lascio uno spiraglio a smentite, che alcuni usi, costumi, tradizioni e modi di parlare (quindi dialetto) originali sono proprio quelli usati ancora a Celano.
Lo so, sembro campanilista e forse lo sono e forse mi sbaglio ma a conti fatti tutto mi induce a pensare questo, seguite il mio ragionamento:
Celano all’inizio del 1800, era la cittadina più grande e popolosa della Marsica, man mano Avezzano si avvicinò ad essa e con il prosciugamento del Fucino la superò con l’impiantazione in loco di intere popolazioni della Toscana ed in alcuni casi del nord Italia per la lavorazione delle terre emerse.
Da lì a poco, un’altra, questa volta terribile vicenda legata al terremoto, causa 30.000 vittime nella Marsica. Solo Avezzano ebbe l’80 % dei residenti morti sotto le macerie 10.700 vittime su circa 13.000 abitanti. Altri centri quali Cerchio, Collarmele, Pesina, Gioia, Lecce etc. etc. ebbero anch’essi grosse percentuali di vittime rispetto agli abitanti. Come pensate che siano state rimpiazzate 30.000 e più persone nella marsica per la ricostruzione e per la lavorazione delle terre emerse?. Ebbene si, intere popolazioni questa volta anche dalla Puglia arrivano nel circondario e se da un lato arricchiscono con scambi culturali, economici, gli usi e costumi, dall’altro eliminano o quasi, la realtà originale del popolo Marso. E Celano come vive questi eventi?
Celano ha avuto in questi periodi all’incirca sempre 11.000 abitanti sia prima che dopo il prosciugamento del Lago Fucino. Il terremoto ha fatto circa 1600 vittime delle quali 1.000 a Paterno e 600 a Celano e come potete comprendere, nessuna sostituzione dato l’esiguo numero di persone, avrebbe potuto influenzare usi , costumi, tradizioni e dialetto di una Cittadina quasi intatta nel proprio tessuto sociale. Non è successo come in altri paesi (quasi tutti), dove quasi l’intera popolazione è stato sostituita da nuclei familiari che nulla avevano avuto da spartire con i Marsi.
A voi trarre le opportune considerazioni.
Giancarlo Sociali