di Franco Ricci *
SULMONA – E’ ancora fresco di stampa il volume di Antonio De Panfilis “Vita, opere e buona sorte di Domenico Santacroce” (Edizioni Tabula fati, Chieti, 2018, pp.163). Il testo si legge come un dialogo con l’interlocutore. E’ un ibrido tra saggio e narrativa. Un ritratto di Domenico Santacroce che narra tutto quanto il necessario che il lettore possa apprezzare, come grandi soddisfazioni e vicissitudini di una vita costruita con costanza, fermezza e delicatezza. La scrittura è pulita, scarna, con un tocco emotivo adatto per fare vivere il momento narrativo attraverso gli occhi di Domenico. Questa visione è nitida, onesta e pura. Niente ironia. Nessun viaggio idilliaco. Solo una dose leggera di autocritica per l’innocenza giovanile, che poi sfocia in una maturità sapiente e capace.
Raccontato poeticamente da Domenico, è stato abilmente trasposto in suggestiva narrazione dal giornalista e scrittore Antonio De Panfilis, che riporta il pensiero di Domenico e lo ripropone in maniera schietta e fedele. L’opera di Domenico è una testimonianza dello spirito, lo spirito abruzzese che ha piantato la sua bandiera ovunque sia atterrato. Uno spirito imprenditoriale che pensa prima di tutto alla comunità, al bene sociale, al lascito duraturo, piuttosto che al guadagno personale. Il tratto più accattivante di Domenico è proprio questa sua coraggiosa umiltà.
Mai per vantarsi dei propri risultati, e i momenti più difficili passano quasi come normalità benché grandi e determinanti. Immagina di lasciare Pratola Peligna in piena notte, un leggere fagotto, pochi centesimi in tasca, ma con una sua speranza nel cuore. Immagina il viaggio verso il gelido nord: treni, traghetti, ancora treni, verso le latitudini e le altezze della leggendaria Scozia, terra scarna e dura come il suo Abruzzo lasciato alle spalle. Un viaggio nel tempo: intenso, doloroso, straniante, onirico, commovente. Un self-coaching involontario. Appesantito da un’intera bottiglia di Cointreau, acquistata lungo il percorso in circostanze che si possono solo descrivere come comiche. Immagina Domenico, appena arrivato alla meta. Affamato. Con una fame – ricorda lui -“salendo spaventosamente” verso il Resort scozzese. Entrando in cucina era circondato da un imponente selezione dei migliori piatti che la cucina inglese avesse da offrire, ma condannato, per mancanza di confidenza con l’inglese, ad un “Milk tea”, ossia un the al latte.
Questo battesimo di brodo tiepido gli è servito per affrontare il lavoro stressante della brigata di sala. Il lavoro in sala si articola in fasi che si succedono secondo un ordine preciso. Il rispetto di quest’ordine, impara Domenico, assicura lo svolgimento ottimale per la preparazione dei piatti e la somministrazione efficace e professionale di alimenti e bevande ai commensali. L’impostazione del lavoro di cucina può variare in base alle dimensioni e alla tipologia delle aziende di ristorazione. Ma il fine rimane uguale: la cura degli ingredienti ed il controllo della sala garantisce la soddisfazione dei clienti.
Domenico rimane sempre attento. Sempre studioso e osservante. Sempre alla ricerca della risposta ad un’assillante domanda: sarà mai un buon cuoco, lo chef che voleva essere? Poi i soggiorni di lavoro in Europa. Il ritorno alla Valle Peligna è altrettanto memorabile. Immagina i suoi tentativi di rinnovare o almeno trascinare le tradizioni culinarie abruzzesi nel mondo contemporaneo spesso incontrato con sfiducia speculativa da chi serbava memorie dei giorni infausti del dopoguerra. “Santacro, pe’ piacer’, mo che purt’ i spaghetti’ nii mett’ allu becchier’”; un commento tanto ludico quanto mitico di un attonito commensale.
Le realizzazioni, poi, dei suoi sogni, che pian piano si concretizzano al fianco della sua consorte e anima gemella Antonella Di Cristofaro: una famiglia, poi due alberghi ed un B&B in pieno centro a Sulmona, in un edificio storico risalente al XVI Secolo. Gli orizzonti di Domenico sembrano sconfinati, il suo entusiasmo contagioso, la sua abilità professionale e imprenditoriale indiscusse.
Uno spirito anima le pagine del testo ed è l’anima di Domenico, che racconta la sua vita attraverso il lavoro.
Trovo il personaggio di Domenico la perfetta intersezione tra il curioso, spesso inciampante, ma serio, Marcovaldo ed il perspicace, percettivo, deciso, e ponderoso Palomar, ambedue personaggi della cosmologia dell’autore Italo Calvino. Il mondo di Domenico desta echi calviniani. Un mondo dove s’impara osservando la superficie delle cose. Un mondo spesso chiuso e acerbo come quello di Palomar, ma allo stesso momento pieno di vita, di vitalità e di passioni sensuali che vanno annusate, mangiate, costruite ed assemblate con maestria, come quello di Marcovaldo. Ora immagina un romanzo nero.
Il percorso, filo diretto del nostro protagonista, viene interrotto. Alla gioia e soddisfazione che il lettore intravede, all’avventura di Domenico si aggiunge la triste realtà di sentimenti provati, e sempre nuovi ogni volta, dell’animo umano. Una vera tragedia greca, qualcosa che scava a mani nude nell’animo umano e ne toglie frattaglie sanguinolente. Da personaggio abile e capace, sen non altro per la fugace visione dall’alto d’una vita che da lì si crede diversa e invincibile, Domenico riscontra la propria fragile dipendenza dall’altro per vivere.
Da un dipinto (l’arte è una passione per Domenico) che raffigura campi verdeggianti e cieli soleggiati, si volta pagina su un quadro che ruota intorno a personaggi che si aggrappano l’uno all’altro per non crollare, per non perdersi. Se il filo conduttore del libro è il coraggio e la forza di un uomo temprato nel crogiolo del duro lavoro per lunghe ore, la malattia lo rivela uomo dal carattere dolce come un confetto, ma avvolto in un velo duro di zucchero.
Un’idea fissa, una visione platonica guida Domenico in tutti i suoi sforzi e lo dirige sempre verso la stessa meta. Il successo si riassume nella capacità di aiutare il proprio territorio. Immaginata sin dalla gioventù e resa palpabile durante il suo percorso di vita, è e rimane un’idea pura. Bastava gettare via la materia brutta, il superfluo che anima le circostanze. La visione inalterata rimane sotto. Ma la malattia non dà scampo.
Nel 2003 a Domenico viene diagnosticata “quella malattia”. Seguono innumerevoli visite mediche, condanne a morte, angoscia e dolore per tutti la famiglia. La diagnosi, tuttavia, risveglia la tenacia del guerriero abruzzese che sfida il male oscuro con la stessa determinazione impegnata in tutte le sue avventure, sia pubbliche che private. Insoddisfatto dalle cure locali, va a Milano dove incontra Ermanno Leo, medico specializzato in chirurgia oncologica, e trova la forza e l’illuminazione, come commenta anche il dottore, “di diventare qualcos’altro”. C’è un parallelo: Domenico, artefice della propria carriera di cuoco, poi gestore della pianificazione del suo piccolo impero imprenditoriale, è ora e ancora l’artefice della prognosi della sua malattia.
E’ un libro molto commovente, anche per me che, sopravvissuto come ormai tanti al cancro, posso apprezzare la fatica tormentata verso il comune nemico. Le notti di preoccupazioni incondizionate, i dubbi sul futuro, la sensazione che il mondo avrebbe potuto finire al prossimo respiro, che qualsiasi sforzo sarebbe stato inutile tanto “mo é sciita la cartell’”, che si sarebbe lasciato non solo gli affari, ma anche la famiglia, da soli. Per Domenico la malattia arriva non come ostacolo alla purezza delle sue dichiarate intenzioni, ma come spinta a sconfiggere la patologia. Affronta il suo calvario con una nuova tenacia, nello stesso modo in cui affronta i suoi affari: con la certezza di arrivare, la capacità di fioccarsi sulle novità, con azioni precise, pratiche, ferme e compatte.
Anche merito dei suoi Maestri ai quali cui si ispira: gli Chef Gian Paolo Belloni, conosciuto come Zefferino, Gerard Boyer ed infine Ferran Andria, i quali alimentano sia il suo spirito imprenditoriale sia l’estro inventivo, poi l’amore per l’arte culinaria che lo lanciano sempre verso piatti più raffinati, completi e delicati. Per non dimenticare lo Chef e amico Nicola Pavia, il segnale alla verde età di tredici anni (il destino, come lo descrive lo stesso Domenico, lascia sempre un segnale nella sua vita) che un futuro nel settore della ristorazione è un sogno realizzabile. Storia, quindi, d’una presa di coscienza, d’una arte culinaria e di una straordinaria vita da raccontare.
Il libro, infine, è un testamento della vita e delle opere di Domenico Santacroce, cittadino, cuoco e poi imprenditore abruzzese di Pratola Peligna. Una vita vissuta all’insegna del sacrificio, ma anche di tante soddisfazioni e successi. Una vita di umili origini, come tale profondamente inserita nel contesto storico e sociale in cui vive. Una vita vissuta in piena risonanza del verbo “cuocere”.
Verbo clou, infatti, della vita di Domenico è il verbo cuocere, usando l’arte imparata in cucina per mescolare gli ingredienti della vita, buoni e cattivi, per far riaffiorare profumi e sapori di momenti lontani e ricordi preziosi.
Il racconto di questo percorso di vita si legge come una ricetta originale, simile a quelle presentate in appendice del testo, dopo i capitoli che raccontano:
Così la vita di Domenico, che ha come base di qualsiasi ricetta un solo ingrediente: il coraggio. Ingrediente al quale si aggiungono poi le materie prime di determinazione e positività. La perfetta trilogia che aiuta Domenico a superare la brutta avventura della malattia, incrociata nella vita. Per concludere, è un libro che si fa amare e facile nella sua letture. Ricco di lezioni di vita, che troppo spesso oggi sono sorvolate in quest’epoca di fast food e di giudizi perentori. Lo Chef Domenico Santacroce ambisce un pubblico di slow food, di apprezzamenti sinceri e di gusti profondi: come è la sua indole. Domenico, intanto, continua la sua straordinaria avventura e da aspettarsi ci sono altre meravigliose sorprese.
*docente Università di Ottawa