Intervista a Licia Cardillo Di Prima, finalista Kaos 2016: "La scrittura riempie la vita, ma non dà mai certezze

La cinquina dei libri finalisti all’edizione 2016 del premio Kaos è composta solo di donne: fra queste c’è Licia Cardillo Di Prima, scrittrice famosa per la sua classe di nobildonna, per i vini che produce e per la sua passione per la storia della Sicilia. Il romanzo “Una pietra dall’aria” (Dario Flaccovio editore, 168 pagg., €15) è ambientato tra i cortili della zona della Tardara. All’inizio della nostra intervista ci rivela…

“Sto apprendendo da lei la notizia che il mio romanzo “Una pietra dall’aria” è finalista al Premio Kaos, afferma. Mi gratifica molto il riconoscimento dei lettori e, in questo caso, della giuria. Non me l’aspettavo. La scrittura riempie la vita, ma non dà mai certezze. Semina solo dubbi.”

Secondo lei, qual è del libro l’aspetto più avvincente e convincente?

“Una pietra dall’aria” è un viaggio nella luce e nelle tenebre, nel lato oscuro dell’indole dei siciliani, ma anche nella voglia di riscatto che c’è in ciascuno di noi. È anche la riflessione sull’eredità scomoda, sulla tragedia di chi si ritrova, per pesanti retaggi familiari, chiuso in un sistema che non gli appartiene e che fa la scelta di rompere il conformismo, di portare avanti la sua piccola grande battaglia per cambiare se stesso e gli altri. Mi auguro che sia questo l’aspetto più avvincente e convincente.

La struttura narrativa è stata pensata e concepita così sin dall’inizio?

Quando inizio a scrivere un romanzo, ho solo un’idea, non tutta la struttura. Un seme piantato in terra che, da un giorno all’altro, mette radici, poi foglie e fiori. L’idea si arricchisce gradualmente, anche perché m’invade totalmente, facendomi entrare in un’altra dimensione, in una sorta di ebbrezza creativa, che mi distrae da tutto e da tutti, anche da me stessa.

Quanto conta il luogo di ambientazione nella storia? come s’intreccia con la vita dei personaggi che la popolano?

I luoghi di ambientazione contano molto. In questo romanzo sono il punto focale della narrazione. Ineluttabili coprotagonisti della storia. Tardara è una gola sul Lago Arancio, aspra, selvaggia, con speroni rocciosi che si levano come le quinte di un teatro. È un luogo sublime, che fa paura e nello stesso tempo affascina. Sembra la metafora della Sicilia, dove tutto si muove su due piani: bellezza e orrore, luce e lutto, grandezza e la miseria. Per questo l’ho scelto.  Io vivo a Sambuca di Sicilia, “Il borgo più bello d’Italia 2016”  che possiede una straordinaria varietà di paesaggi, dal Lago Arancio, al Bosco del Pomo, al Genuardo, al sito greco-punico di Adranone. Un godimento per l’occhio. Uno stimolo per chi ama scrivere. Basta guardare e tradurre in parole le suggestioni.

Rispetto al passato, nei suoi paesaggi e nel carattere dei suoi abitanti, la Sicilia è meno aspra e silente?

Chi ritiene che la Sicilia sia una terra aspra deve ricredersi. Nel giro di quarant’anni, le Terre Sicane hanno mutato volto. I seminativi hanno ceduto spazio ai vigneti, che, qui, hanno ritrovato il loro habitat.  Chi osserva il territorio dall’alto, ha l’impressione di vedere un’enorme scacchiera, una geometria varia di forme e colori che rivelano ordine e razionalità. La Sicilia è meno aspra rispetto al passato e, sicuramente, meno silente. Sono lontani i tempi durante i quali la parola “mafia” erano impronunciabile, e molto più netti i confini tra legalità e illegalità.

Approfitta anche della scrittura per ribadire il suo profondo amore per i vini?

Coltura e cultura si equivalgono. Il mio lavoro fa da pendant a quello della mia famiglia. La nostra cantina – di cui si occupano mio marito e i miei figli, soprattutto Davide, – sorge sul Lago Arancio, un luogo fantastico, ampiamente descritto nel mio romanzo.  Produciamo vini biologici che raccontano la fatica, la passione e il rigore con cui sono prodotti. Il top è il Villamaura, un Syrah in purezza.

 

Come riassumerebbe il suo amore per il vino? 

Eccolo in questi versi che chiudono una poesia dedicata a mio marito, Gaspare: “Al ritorno/ spillasti la bottiglia migliore/Il vino rosso rubino/un Syrah invecchiato in cantina/ tinse le tue e le mie labbra  e scaldò la memoria/ Ora non ci perdiamo più tra i filari/ Il fuoco lo attizziamo col vino maturato negli anni/ Ha dentro la tempesta/i profumi del bosco/l’amore/e persino il dolore/ Ha dentro la vita/ E tu continui a berla con me”.

Se potesse riscrivere una pagina della storia siciliana quale sceglierebbe e perché?

Se potessi farlo, cancellerei quella straordinaria frase di Tomasi di Lampedusa “il peccato che noi siciliani non perdoniamo mai è semplicemente quello di ‘fare’, non perché non sia vera, ma perché vorrei che non lo fosse”. Giovanni Zambito.

 

Redazione - Il Faro 24

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