“Credo siano finiti i tempi delle chiacchiere a vuoto, oggi più che mai dobbiamo essere in grado di essere concreti, di suscitare emozioni nei ragazzi, di offrire loro un bagno di memoria e di cultura, perché solo la cultura può allontanare i ragazzi da 5 partite di calcio consecutive al giorno che sono deleterie, o dall’Isola dei Famosi e dal ‘Grande Fratello’. Mio fratello, Peppino Impastato, non era un eroe, era un ragazzo come tanti altri, come gli studenti oggi presenti all’Istituto Alberghiero ‘De Cecco’, animato da una grande voglia di giustizia e di legalità e il suo valore aggiunto era l’essere figlio di un mafioso. Quando nostro zio, Cesare Manzella, un capomafia, saltò in aria per una bomba, dopo dieci giorni noi ragazzi, Peppino appena 15 anni, io 10, siamo andati sul luogo della strage e Peppino di fronte allo scempio disse ‘Se questa è la mafia io per tutta la mia vita mi batterò contro’ e ha tenuto fede alla promessa, morendo ucciso come mio zio, ma perché lottava contro la mafia”. Lo ha detto Giovanni Impastato, autore del libro ‘Oltre i cento passi’, fratello di Giuseppe Impastato, ucciso dalla mafia il 9 maggio 1978, e protagonista della seconda giornata del ‘Premio Nazionale Borsellino’ nell’Aula Magna dell’Istituto Alberghiero Ipssar ‘De Cecco’ di Pescara. Presenti, oltre alla Dirigente dell’Istituto Alessandra Di Pietro, anche la dirigente dell’Istituto Comprensivo 4 Daniela Morgione, accompagnata da 50 studenti delle scuole medie ‘Pascoli-Michetti’, e Leo Nodari, fondatore del Premio Nazionale ‘Falcone e Borsellino’.
“Parlare di legalità nelle scuole è fondamentale perché significa educare al rispetto delle regole, di se stessi, al merito, alla giustizia, all’integrità, al rispetto dell’altro, valori che sono essenziali nel processo formativo – ha detto la dirigente Di Pietro -. E questa comprensione passa anche attraverso il valore della testimonianza di persone che hanno rappresentato con la loro vita comportamenti di assoluta integrità, ovvero sono modelli positivi, uomini che hanno improntato la propria vita di persone e di professionisti al rispetto della legge e al rifiuto di logiche mafiose. Attraverso il ‘Premio Borsellino’ i nostri studenti stanno ascoltando testimoni privi di retorica, che stanno raccontando frammenti fondamentali della vita del nostro Paese”. “Sono onorata della collaborazione con l’Istituto Alberghiero e con la dirigente Di Pietro – ha detto la dirigente Morgione –, un rapporto che sta dando ai nostri ragazzi la possibilità di confrontarsi con la figura di un testimone della lotta per la legalità come Peppino Impastato, i nostri studenti hanno approfondito la sua storia e oggi hanno potuto sviscerare meglio il problema della mafia come ‘sistema’”. “La mafia sarà sconfitta – ha detto Leo Nodari – fino a quando ci saranno ragazzi come voi e testimoni come Giovanni Impastato che lotteranno contro la mentalità mafiosa che porta a emarginare, a far diventare qualcuno ‘ultimo’, a metterlo dietro, a costringerlo a subire. Peppino era un ragazzo che negli anni ’70, quando non si parlava della mafia, ha avuto il coraggio di sfidare ogni giorno la mafia e il malaffare nel suo paese, Cinisi. Oggi la scuola ha il dovere di battersi contro la mentalità mafiosa che significa corruzione, collusione, silenzio, far finta di non vedere, non sapere, non parlare. La nostra sfida è vincere l’indifferenza, perché se Peppino Impastato, Falcone, Borsellino, Dalla Chiesa, fossero stati indifferenti il nostro Paese non sarebbe quello che oggi conosciamo”. Quindi la parola a Giovanni Impastato “Mio fratello era un militante di sinistra ed era un giornalista, nato in una famiglia mafiosa, la mafia ce l’avevamo dentro casa, ma lui ha sempre rifiutato quella logica e ha iniziato a combatterla in maniera geniale, ossia ironizzando su di essa, rendendola ridicola attraverso una comunicazione innovativa e lo strumento della trasmissione radiofonica. Inizialmente ha fondato un giornale, ‘Idea’, che è stato dirompente, in cui portava avanti le sue denunce, attaccava la classe politica, gli amministratori collusi. Quando gli hanno chiuso il giornale non si è arreso, ma ha acceso i riflettori sulle battaglie ecologiche per tentare di salvaguardare la bellezza di un territorio che amava. Tutto questo gli è costato caro, innanzitutto in termini familiari, quando mio padre lo ha cacciato di casa, non per assenza di affetto, ma perché mio padre era vincolato alla mafia dal giuramento. Tant’è vero che mio padre, violando quel giuramento, volò sino agli Stati Uniti per cercare dai parenti mafiosi la protezione per Peppino: tornato ha portato una ‘cravatta’ a Badalamenti, un simbolo chiaro inviato dai parenti americani, ovvero che se avessero toccato Peppino, lui stesso, Badalamenti, avrebbe rischiato di morire strozzato dal nodo di quella cravatta, ma Badalamenti ha rifiutato la cravatta, e condannato mio padre perché non si sarebbe dovuto permettere di violare il giuramento e lo hanno ucciso. Mia madre, Felicia, è stata invece determinante: quando Peppino è stato buttato fuori di casa e ha trovato ricovero in un garage, lei gli portava da bere e mangiare e ha iniziato a studiare le carte con lui. Quando gli uccidono il marito, poi il figlio, questa donna è esplosa, non ha riconosciuto il figlio nella bara vuota, e ha detto a tutti ‘me lo avete fatto a pezzettini’. E dopo la lunga scia di sangue, dopo l’assassinio di Peppino, tornò un cugino dall’America per difendere l’onorabilità della famiglia mafiosa Impastato, per vendicarla e recuperare le posizioni perse. Ma mia madre, cui spettava l’ultima parola, si è rifiutata di accettare la vendetta, e ha detto ‘Peppino non era uno di voi e la vendetta non la voglio’, buttando tutti i parenti fuori di casa. Mia madre era moglie di un mafioso e madre di un militante che aveva lottato contro tutte le mafie e lei ha rispettato quel figlio fino alla morte. E ha avuto il coraggio di puntare il dito contro uno dei criminali più pericolosi, Tano Badalamenti accusandolo apertamente ‘Sei stato tu a uccidere mio figlio’ e raggiungendo l’obiettivo: guardarlo negli occhi e mandarlo in crisi”. Rispondendo alle domande degli studenti, Impastato ha poi sottolineato come “oggi si dovrebbe tornare al giornalismo d’impegno, purtroppo non esistono più le grandi inchieste. In Sicilia hanno ucciso 8 giornalisti. Dopo l’assassinio di mio fratello ho deciso di raccogliere la sua eredità, di dare continuità al suo lavoro, ed è cominciato il mio dialogo costante con Peppino, per il quale mi porto un unico peso, ossia il fatto di aver vissuto gli ultimi mesi isolato anche dal fratello. E dopo la sua morte è nata Casa Memoria: mia madre, coraggiosamente, ha deciso di tenere sempre aperta la porta della nostra casa dove ha raccolto tutte le cose di Peppino e dove ha accolto tutte le persone che lottavano alla ricerca della verità. Prima venivano gli amici di Peppino, poi la gente comune, a me e ai miei figli ha lasciato il compito di continuare a parlare della storia di Peppino dopo la sua morte per non disperderne la memoria e quando abbiamo capito che quella casa non apparteneva più solo alla famiglia Impastato, ma a tutti coloro che volevano vedere dov’era vissuto Peppino, abbiamo rinunciato alla proprietà e il Ministero dei Beni Culturali l’ha dichiarata ‘Patrimonio culturale’. L’offesa più grande subita è quando, nel tentativo di depistare le tracce sulla morte di Peppino, lo volevano far passare per un terrorista e contro questa accusa infamante abbiamo reagito facendo emergere la verità e restituendo dignità a una figura calpestata”. A fine giornata Sara Santoleri, rappresentante degli studenti nel Consiglio d’Istituto e studentessa della classe IV sezione A, indirizzo Accoglienza, ha letto un indirizzo di saluto nei confronti di Giovanni Impastato condiviso con gli studenti.