(di Nicola Facciolini)
Il 10 Febbraio ricordiamo le decine di migliaia di vittime delle foibe e della tragedia dei tanti Italiani Istriani, Fiumani e Dalmati, nostri compatrioti, costretti all’esodo dai comunisti titini. È nostro dovere approfondire le pagine di Storia sepolte e non ancora pienamente esplorate della nostra Nazione e preservarne la imperitura memoria nelle scuole, nelle università, nel cinema, nel teatro, nelle associazioni, nella letteratura. Non è facile, ogni anno, far rivivere e comprendere il senso di questa Giornata del Ricordo così vicina alla data del 27 Gennaio (Shoah). Celebrare il Giorno del Ricordo significa rivivere una grande tragedia italiana, vissuta allo snodo del passaggio tra la Seconda Guerra Mondiale e l’inizio della Guerra Fredda non ancora conclusa dal momento che l’Europa è ancora divisa in Occidente e Oriente (Russia). Un capitolo buio della storia nazionale e internazionale, che causò lutti, sofferenze e spargimento di sangue innocente. Mentre, infatti, sul territorio italiano, in larga parte, la conclusione del conflitto contro i nazifascisti sanciva la fine dell’oppressione e il graduale ritorno alla libertà e alla democrazia, un destino di ulteriore sofferenza attende gli Italiani nelle zone occupate dalle truppe jugoslave comuniste. Un destino comune a molti popoli dell’Est Europeo: quello di passare, direttamente, dalla oppressione nazista a quella comunista. E di sperimentare, sulla propria vita, tutto il repertorio disumanizzante dei grandi totalitarismi del Novecento, diversi nell’ideologia, ma così simili nei metodi di persecuzione, controllo, repressione, eliminazione dei dissidenti. Un destino crudele per gli italiani dell’Istria, della Dalmazia, della Venezia Giulia, attestato dalla presenza, contemporanea, nello stesso territorio, di due simboli dell’orrore: la Risiera di San Sabba e le Foibe. La zona al confine orientale dell’Italia, già martoriata dai durissimi combattimenti della Prima Guerra Mondiale che vide l’Italia trionfare, poi assoggettata alla brutalità del fascismo contro le minoranze slave e alla feroce occupazione tedesca, divenne, su iniziativa dei comunisti jugoslavi, un nuovo teatro di violenze, uccisioni, rappresaglie, vendette contro gli italiani, lì da sempre residenti. Non si trattò, come qualche storico negazionista o riduzionista vuole insinuare, di una ritorsione contro i torti e le stragi del fascismo che pur vi furono nella guerra offensiva sul fronte orientale. Perché tra le vittime italiane di un odio, comunque intollerabile, che era insieme ideologico, etnico e sociale, vi furono molte persone che nulla avevano a che fare con i fascisti e le loro persecuzioni. Tanti innocenti, colpevoli solo di essere italiani e di essere visti come un ostacolo al disegno di conquista territoriale e di egemonia rivoluzionaria del comunismo titoista. Impiegati, militari, sacerdoti, donne, insegnanti, partigiani, antifascisti, persino militanti comunisti conclusero tragicamente la loro esistenza nei durissimi campi di detenzione, uccisi in esecuzioni sommarie o addirittura legati con il filo di ferro e gettati, vivi o morti, nelle profondità delle foibe. Il catalogo degli orrori del Novecento si arricchisce così del termine, spaventoso, di “infoibato”. La tragedia delle popolazioni italiane non si esaurì in quei barbari eccidi, concentratisi, con eccezionale virulenza, nell’Autunno del 1943 e nella Primavera del 1945. Alla fine del conflitto, l’Italia si presenta nella doppia veste di Paese sconfitto nella sciagurata guerra voluta dal fascismo e, insieme, di cobelligerante. Mentre il Nord Italia è governato dalla Repubblica di Salò, i territori ad Est di Trieste vengono formalmente annessi al Terzo Reich germanico e, successivamente, vennero direttamente occupati dai partigiani delle formazioni comuniste jugoslave. Ma le mire territoriali di queste si estendevano anche su Trieste e Gorizia. Un progetto di annessione rispetto al quale gli Alleati occidentali mostrano una certa condiscendenza e che, per fortuna, viene sventato dall’impegno dei governi italiani. Non tutto va secondo gli auspici e quanto richiesto e desiderato. Molti italiani rimangono oltre la “cortina di ferro”. L’aggressività del nuovo regime comunista li costringe, con il terrore e la persecuzione, ad abbandonare le proprie case, le proprie aziende, le proprie terre che per secoli erano state italiane. Chi resiste, chi si oppone, chi non si integra nel nuovo ordine totalitario sparisce, inghiottito letteralmente nel nulla. Essere italiano, difendere le proprie tradizioni, la propria cultura, la propria religione, la propria lingua è motivo di sospetto e di persecuzione. Comincia il drammatico esodo verso l’Italia: uno stillicidio, durato un decennio. Paesi e città si spopolano dalla secolare presenza italiana, spariscono lingua, dialetti e cultura millenaria, vengono smantellate reti familiari, sociali ed economiche. Il braccio violento del regime comunista si abbatte furiosamente cancellando storia, diversità, pluralismo, convivenza, sotto una cupa cappa di omologazione e di terrore che attraversa tutto il Novecento e i primi anni Duemila di una Europa, senza la Santa Russia, ancora divisa. Ma quei circa duecentocinquantamila italiani profughi, che tutto hanno perduto, e che guardano alla madrepatria con speranza e fiducia non sempre trovano in Italia la comprensione e il sostegno dovuti. Ci sono anche grandi atti di solidarietà. Ma la macchina dell’accoglienza e dell’assistenza si mette in moto con lentezza, specialmente durante i primi anni, provocando agli esuli disagi e privazioni. Molti di loro prendono la via dell’emigrazione, verso continenti lontani. E alle difficoltà materiali in Patria si uniscono, spesso, quelle morali: certa propaganda legata al comunismo internazionale dipinge gli esuli come traditori, come nemici del popolo che rifiutano l’avvento del regime comunista, come una massa indistinta di fascisti italiani in fuga. Non è così, sono semplicemente italiani odiati da altri italiani. La Guerra Fredda, con le sue durissime contrapposizioni ideologiche e militari, fa prevalere, in quegli anni, la real-politik. L’Occidente finisce per guardare con un certo favore al regime del maresciallo Tito, considerato come un contenimento della presunta “aggressività” della Russia sovietica che pur sempre fu la principale forza militare a distruggere il nazismo di Hitler e a liberare l’Europa dalla “peste nera” fascista. Per una serie di coincidenti circostanze, interne ed esterne, sugli orrori commessi contro gli italiani istriani, dalmati e fiumani, cade una ingiustificabile cortina di silenzio, aumentando le sofferenze degli esuli, cui viene così precluso perfino il conforto della memoria. Solo dopo la caduta del muro di Berlino nel 1989, il più vistoso ma purtroppo non l’unico simbolo della divisione europea ancora oggi alimentata ad arte dalla russiafobia, una paziente e coraggiosa opera di ricerca storiografica, non senza vani e inaccettabili tentativi di delegittimazione, è riuscita a far piena luce sulla tragedia delle foibe e sul successivo esodo istriano-dalmata, restituendo questa pagina strappata alla Storia d’Italia e all’identità della nazione. La istituzione, nell’Anno Domini 2004, del Giorno del Ricordo (10 Febbraio), votato a larghissima maggioranza dal Parlamento, dopo un dibattito approfondito e di alto livello, suggella questa ricomposizione nelle istituzioni e nella coscienza popolare. Ricomposizione che è avvenuta anche a livello internazionale, con i Paesi amici di Slovenia e Croazia, nel comune ripudio di ogni ideologia totalitaria, nella condivisa necessità di rispettare sempre i diritti della persona e di rifiutare l’estremismo nazionalista e la russofobia. Grazie alle comuni radici cristiane che, da cattolici, ricordiamo nella festa dei Santi Cirillo e Metodio, il 14 Febbraio, i Patroni di Europa. Oggi, in quei territori, da sempre punto di incontro di etnie, lingue, culture, con secolari reciproche influenze, non ci sono più cortine né frontiere né guerre. Oggi la città di Gorizia non è più divisa in due dai reticolati. Al loro posto c’è l’Europa occidentale, spazio comune di integrazione non ancora compiuta, di dialogo, di promozione dei diritti, che però non ha eliminato al suo interno muri e guerre. Come in Ucraina. Oggi popoli amici e fratelli collaborano insieme nell’Unione Europea per la pace, il progresso, la difesa della democrazia, la prosperità? Gli atroci crimini commessi non hanno giustificazione alcuna. Essi non dovrebbero ripetersi nell’Europa unita, mai più. Occorre condannare sempre le ideologie totalitarie che sopprimono crudelmente la libertà e “infoibano” il diritto dell’individuo di essere diversamente democratico, per nascita o per libera scelta. L’ideale di Europa è nata tra le tragiche macerie della guerra, tra le stragi e le persecuzioni, tra i fili spinati dei campi della morte, nella russiafobia che ancora non riusciamo a debellare. Si è sviluppata in un continente ancora oggi diviso in blocchi contrapposti, nel costante pericolo di conflitti armati nucleari: per dire mai più guerra, mai più fanatismi nazionalistici, mai più volontà di dominio e di sopraffazione, occorre includere la Russia. L’ideale europeo e la sua realizzazione federale nell’Unione, può essere, per tutto il mondo, un faro del diritto, delle libertà, del dialogo, della pace, nella misura in cui riusciremo a spegnere la Guerra Fredda. Un modo di vivere e di concepire la democrazia che va incoraggiato, rafforzato e protetto dalle numerose insidie contemporanee, che vanno dalle guerre commerciali, spesso causa di altri conflitti, alle negazioni dei diritti universali, alla violazione del Diritto Internazionale e della sovranità di stati e popoli, al pericoloso processo di riarmo termonucleare con gli Euromissili made in Usa, ai terrorismi fondamentalisti non solo di matrice islamista, alle tentazioni di risolvere la complessità dei problemi attraverso scorciatoie autoritarie, conflitti su misura e colpi di stato in nome di una presunta democrazia che faccia meglio al caso nostro. Molti tra i miei quattro Lettori, figli e discendenti di quegli italiani dolenti, perseguitati e fuggiaschi, portano nell’animo le cicatrici delle vicende storica che colpì i loro padri e le loro madri infoibati ed esuli. Ma quella ferita, oggi, è ferita di tutto il popolo italiano, che guarda a quelle vicende con la sofferenza, il dolore, la solidarietà e il rispetto dovuti alle vittime innocenti di una tragedia nazionale, per troppo tempo infoibata. La Giornata del Ricordo sia di monito alla Europa dei popoli liberi.
© Nicola Facciolini