Il movimento socio-culturale più significativo degli ultimi cinquant’anni raccontato da chi, quegli anni, li ha vissuti nell’entroterra italiano
Il ’68 non passò dalle nostre parti e se passò noi non ce ne accorgemmo.
Ci arrivarono invece i capelli lunghi, le camicie a fiori, le zeppe, i “blue jeans” scampanati, le canzoni pacifiste d’oltreoceano e quelle di protesta di Guccini, Dalla, De André, Bertoli, De Gregori, dei Rokes.
Nella nostra ingenuità provinciale, con una visione fiabesca di un mondo appena immaginato al di là delle cime della bella addormentata[1] e nel silenzio di una Natura ancora incontaminata, cantavamo a squarciagola ‘Ma che colpa abbiamo noi’ e ‘Dio è morto’ senza tuttavia afferrarne appieno il significato di frustrazione ed inquietudine che animò la Beat generation.
Nessuno si accorse dei profondi cambiamenti sociali che stavano avvenendo intorno a noi; nessuno comprese realmente le lunghe battaglie fatte per la libertà e la dignità delle donne, tanto che l’emancipazione femminile arrivò nei nostri paesi con molto ritardo.
In quegli anni, un comportamento insolito, un make-up vistoso, una sigaretta fumata “sfacciatamente” in pubblico, persino la bieca fantasia di un conoscente animato da sentimenti di rancore aveva il potere di innescare un malevolo chiacchiericcio virale. Un processo dannoso ed irreversibile che escludeva la vittima dalla comunità, isolandola. Vessazioni, pettegolezzi, battute alle spalle che, in un piccolo agglomerato dell’entroterra italiano, avevano il potere di disgregare esistenze e nuclei familiari al pari del cyberbullismo dei nostri giorni. In molti lasciarono la provincia per allontanarsi da pregiudizi e maldicenze spesso gratuite e a dover fare i conti a vita con insicurezze e paure.
Nonostante le quotidiane ed esaustive informazioni del neo Tg delle 13,30 curato da un giovanissimo Piero Angela, attraversammo distratti anche gli anni di piombo o, secondo la definizione di Indro Montanelli, gli anni di fango che annerirono le cronache italiane qualche stagione più tardi.
Pur seguendo in televisione gli avvenimenti terroristici di quel periodo, non eravamo del tutto consapevoli della criticità delle tensioni sociali che si respiravano nelle grandi città. L’unica conseguenza tangibile e visibile a tutti fu la chiusura al pubblico del centro di controllo satellitare Telespazio del Fucino, che fino a quel momento era stata tappa turistica obbligata di parenti e amici che arrivavano da lontano.
Ho impiegato alcuni lustri per comprendere l’antinomia tra i ragazzi in eskimo accalcati davanti ai magazzini Porrini di Avezzano e quelli con il loden, posizionati a pochi metri di distanza, di fronte all’uscita del Gran Caffè. Non furono soltanto contrasti generazionali, ma un solco politico netto e profondo che ancora oggi divide intere generazioni di disincantati.
Alina Di Mattia