L’Aquila / La Politica della Scienza al Voto. È l’alba della Democrazia. Onorevoli colleghi, le Elezioni Politiche A.D. 2018 del 4 Marzo, per la XVIII Legislatura del Parlamento italiano, interrogano la coscienza dei cittadini sulla Sovranità scientifica e tecnologica dell’Italia, la colonna portante del Sistema Paese e del futuro dei giovani. “Nessun Paese può sopprimere la verità e vivere bene”, insegna Ezra Pound. La campagna elettorale, intellettualmente umiliante per la manifesta incapacità dei suoi epigoni, è ormai prossima al suo epilogo, ma i temi della ricerca scientifica e dell’Università, pur riconosciuti elementi decisivi per lo sviluppo del PIL e per il futuro di una Nazione avanzata che aspira ad essere il Giappone dell’Europa, sembrano del tutto estranei al dibattito elettorale italiano e stentano a conquistare le prime pagine dei giornali, contrariamente a quanto normalmente accade negli altri Paesi. Come cittadini consapevoli, e non meri consumatori e codici a barre, gli Italiani hanno il dovere di decidere liberamente chi votare sulla base di precise informazioni circa i programmi su questi temi delle diverse coalizioni e formazioni politiche che si affrontano. Come pensate di aumentare il numero dei laureati italiani, assai esiguo rispetto alla media europea, garantendo al contempo standard elevati di qualità didattica? Come garantirete che le Università italiane siano finanziate sulla base del merito, premiando le più competitive a livello internazionale in fatto di ricerca, innovazione, didattica e terza missione, a fronte di un gap crescente tra Atenei delle diverse Regioni italiane e in particolare tra Nord e Sud della Nazione? Che ne pensate della proposta di abolire i concorsi universitari, affidando alla responsabilità degli Atenei e a una rigorosa valutazione a posteriori (con severe sanzioni per chi non seleziona sulla base del merito) il reclutamento dei docenti e ricercatori come accade nei Paesi anglosassoni? Qual è la vostra posizione sulla possibile abolizione del valore legale del titolo di studio e sul passaggio a un regime di libera competizione tra Università? Come migliorereste l’efficienza amministrativa delle Università che oggi sono vincolate alle regole della Pubblica Amministrazione? Potreste tracciare l’identikit della figura ideale che vedreste come vostro Ministro dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca: con o senza laurea? Lettera Aperta alle forze politiche da parte di 19 scienziati italiani che si occupano di cambiamenti climatici e ambiente. L’Italia è ultima per numero di laureati. Subito emerge la misura concreta dal gap che si registra rispetto a tutti gli altri Paesi. Per numero di laureati nella fascia d’età compresa fra 25 e 34 anni, l’Italia risulta ultima. In verità, la scomoda posizione non riguarda solo la classifica del Belpaese. La nostra Nazione ha il minor numero di laureati in questa fascia d’età fra tutti quelli dell’Unione Europea e anche fra tutti i 40 Paesi OECD. Su cento giovani in questa fascia di età, in Italia i laureati sono appena 26, contro i 41 della Spagna, i 52 del Regno Unito, i 60 del Giappone e, addirittura, i 70 della Corea del Sud. Siamo molto al di sotto sia della media dell’Unione Europea (40% di laureati) sia della media OECD (43% di laureati). Alla faccia delle norme costituzionali ampiamente tradite. L’Italia è un Paese con scarsa mobilità sociale! Dove anche l’Università è un ascensore bloccato. La nostra Nazione non investe nella conoscenza. Chi si appresta a governare l’Italia nei prossimi anni non può nè deve ignorare l’appello che giunge dal mondo della Scienza. Gli scienziati, dal canto loro, invitano tutti i cittadini italiani a votare i candidati che dichiareranno pubblicamente di prendere impegni su questi punti fondamentali: rispetto degli accordi di Parigi sottoscritti dall’Italia nell’ambito della COP21; promuovere conoscenza e consapevolezza delle crisi ambientali che stiamo vivendo; adottare politiche fiscali che favoriscano la transizione da fossili a rinnovabili; definire entro la XVIII Legislatura obiettivi strategici per attivare una transizione sostenibile: bando ai combustibili fossili entro l’Anno Domini 2040, riduzione dell’uso di energia pro capite, dematerializzazione dei processi industriali. Nel Programma Definitivo di Casa Pound Italia sulla Ricerca scientifica e tecnologica (https://www.youtube.com/watch?v=1DFrGmZbzVo&feature=youtu.be) si evince che ben il 5% del PIL sarà destinato alla ricerca pubblica (https://www.docdroid.net/Bg8qGdw/programma-casapound-2018.pdf#page=19) con il potenziamento del CNR. In generale siamo al sesto posto al mondo per indice di citazioni scientifiche, fatto che trova conferma nella massiccia presenza dell’Italia fra i vincitori di ERC Grants negli ultimi 10 anni. Questo nonostante in Italia si spenda in Ricerca e Sviluppo una percentuale di Pil (1,3%) molto minore rispetto alla maggior parte dei Paesi dell’area OCSE (media del 2,4%) e nonostante il basso numero di ricercatori: appena 5 ogni 1.000 occupati. In Israele, il Paese dove se ne contano di più, sono 17 per 1.000 occupati, in Finlandia e Danimarca 15, in USA Francia e Gran Bretagna quasi 10. Insomma, non c’è dubbio che con quel poco che abbiamo sappiamo produrre una ricerca scientifica eccellente. Gli Elon Musk e i Leonardo italiani oggi preferiscono comunque trasferirsi all’Estero per dare vita alle loro invenzioni. Solo potenziando l’istruzione universitaria, la scienza e la tecnologia, e promuovendo il trasferimento delle scoperte di base alle aziende della Nazione, l’Italia può ambire a guadagnare il suo status di Paese sviluppato, riconquistando il terzo posto nella classifica delle potenze spaziali per giocare un ruolo nella nuova Economia della Conoscenza e del Credito che sta plasmando il mondo di oggi. Il forte appello, dunque, è quello di governare la Nazione per elaborare in tempi brevi visioni reali che mettano in atto provvedimenti per affrontare e vincere la sfida all’inquinamento e ai cambiamenti climatici e per tutelare le risorse del Pianeta Terra. Come legare il giudizio etico semplicemente agli avvenimenti che si sono prodotti, sapendo che questi stessi avvenimenti non sono che una delle possibilità, e forse nemmeno la più rilevante, tra quelle che avrebbero potuto tradursi in atto? Grazie al Cnr e al celebre gruppo romano dei Ragazzi di via Panisperna, guidato da Enrico Fermi che ottenne risultati fondamentali nella fisica del nucleo, coronati nel 1938 dal premio Nobel conferito allo stesso Fermi, l’Italia divenne la Patria della Fisica. “Quello che veramente ami rimane, il resto è scorie. Quello che veramente ami non ti sarà strappato. Quello che veramente ami è la tua vera eredità. Il mondo a chi appartiene, a me, a loro o a nessuno? Prima venne il visibile, quindi il palpabile”, osserva Ezra Pound nel Canto 81 dei “Pisani”. Dove nasce la Sovranità.
(di Nicola Facciolini)
“Nessun Paese può sopprimere la verità e vivere bene” (Ezra Pound). Onorevoli colleghi, le Elezioni Politiche A.D. 2018 del 4 Marzo, per la XVIII Legislatura del Parlamento italiano, interrogano la coscienza dei cittadini sulla Sovranità scientifica e tecnologica dell’Italia, la colonna portante del Sistema Paese e del futuro dei giovani. La campagna elettorale, intellettualmente umiliante per la manifesta incapacità dei suoi epigoni, è ormai prossima al suo epilogo, ma i temi della Ricerca scientifica e dell’Università, pur riconosciuti elementi decisivi per lo sviluppo del PIL e per il futuro di una Nazione avanzata che aspira ad essere il Giappone dell’Europa, sembrano del tutto estranei al dibattito elettorale italiano e stentano a conquistare le prime pagine dei giornali, contrariamente a quanto normalmente accade negli altri Paesi. Come cittadini consapevoli, e non meri consumatori e codici a barre, gli Italiani hanno il dovere di decidere liberamente chi votare sulla base di precise informazioni circa i programmi su questi temi delle diverse coalizioni e formazioni politiche che si affrontano. Per questo, pare ragionevole formulare sei semplici domande per i leader politici candidati a governare l’Italia nei prossimi cinque anni, senza inciuci di regime e ingerenze estere. Come pensate di aumentare il numero dei laureati italiani, assai esiguo rispetto alla media europea, garantendo al contempo standard elevati di qualità didattica? Come garantirete che le Università italiane siano finanziate sulla base del merito, premiando le più competitive a livello internazionale in fatto di ricerca, innovazione, didattica e terza missione, a fronte di un gap crescente tra Atenei delle diverse Regioni italiane e in particolare tra Nord e Sud del Paese? Che ne pensate della proposta di abolire i concorsi universitari, affidando alla responsabilità degli Atenei e a una rigorosa valutazione a posteriori (con severe sanzioni per chi non seleziona sulla base del merito) il reclutamento dei docenti e ricercatori come accade nei Paesi anglosassoni? Qual è la vostra posizione sulla possibile abolizione del valore legale del titolo di studio e sul passaggio a un regime di libera competizione tra Università? Come migliorereste l’efficienza amministrativa delle Università che oggi sono vincolate alle regole della Pubblica Amministrazione? Potreste tracciare l’identikit della figura ideale che vedreste come vostro Ministro dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca: con o senza laurea? Gli Italiani esprimono un desiderio che pensiamo sia largamente condiviso: nei programmi elettorali di ogni partito o movimento una delle priorità deve essere la formazione universitaria per tutti. L’accesso al terzo e più alto livello di studi è decisivo non solo per la crescita culturale di una Nazion, e non sarebbe davvero poco, ma anche per la competizione mondiale, come ne conviene la maggior parte degli economisti, nella società della conoscenza. Ebbene, nel settore Università l’Italia rappresenta, almeno in parte, un’anomalia rispetto agli altri Paesi europei e asiatici più avanzati del mondo. Per verificarlo basta leggere un’analisi comparata tra l’Italia e altre nazioni europee e non, con cui per varie ragioni conviene confrontarsi: Spagna, Francia, Germania e Regno Unito che, nonostante la Brexit unilaterale, è ancora formalmente nell’Unione. Fuori dall’Europa, gli Usa, il Giappone e la Corea. I dati sono omogenei e si basano tutti sull’ultimo rapporto “Education at a glance 2017” pubblicato di recente dall’OECD. L’Italia è ultima per numero di laureati. Subito emerge la misura concreta dal gap che si registra rispetto a tutti questi Paesi. Per numero di laureati nella fascia d’età compresa fra 25 e 34 anni, l’Italia risulta ultima. In verità, la scomoda posizione non riguarda solo la nostra classifica. La nostra Nazione ha il minor numero di laureati in questa fascia d’età fra tutti quelli dell’Unione Europea e anche fra tutti i 40 Paesi OECD. Su cento giovani in questa fascia di età, in Italia i laureati sono appena 26, contro i 41 della Spagna, i 52 del Regno Unito, i 60 del Giappone e, addirittura, i 70 della Corea del Sud. Siamo molto al di sotto sia della media dell’Unione Europea (40% di laureati) sia della media OECD (43% di laureati). Alla faccia delle norme costituzionali ampiamente tradite. Il gap è evidente ed enorme. È questo dato di importanza assoluta, tale da imporre una nuova Politica non solo dell’Università ma anche economica dell’Italia? Secondo molti analisti sicuramente, proprio perché un alto livello di studi costituisce un prerequisito per competere nella società della conoscenza, senza il cui “latte” non vi può essere ricchezza nè sovranità nè giustizia sociale. Se è così, il recupero di questo gap deve essere in testa all’agenda politica del Paese e, dunque, della discussione in campagna elettorale. Naturalmente, dovono essere individuate le precise cause che hanno prodotto il gap. Perché nel nostro Paese dell’euromoneta, da dieci anni in crisi economica, c’è un così basso numero di laureati? Perché non c’è una percezione forte dell’esistenza di questo gap e, anzi, molti sostengono addirittura che di giovani con la laurea ce n’è anche troppi? Probabilmente la causa va ricercata nella specializzazione produttiva della nostra Nazione in una Unione Europea a trazione franco-germanica soffocante. Non esiste una domanda di laureati da parte delle nostre industrie, la maggior parte delle quali delocalizzate all’Estero, da parte della nostra agricoltura, da parte dei nostri servizi. L’ascensore sociale in Italia non funziona più. Altri dati forniscono una prova quantitativa del fatto che nella nostra Nazione non funziona l’ascensore costituzionale sociale. E che neppure la Cultura riesce a rompere gli steccati che separano quelle che una volta si chiamavano “classi sociali”. Tra i pochi laureati che abbiamo in Italia, infatti, solo il 14% non ha alcuno dei genitori laureati. E poiché la laurea è in relazione abbastanza stretta con il gruppo sociale di appartenenza, se ne ricava che su 100 ragazzi di età compresa tra i 25 e i 34 anni in Italia, solo 3,6 hanno effettuato una, per così dire, “transizione di stato” ben costruita fin dall’infanzia s’intende, senza rimanere vittima del bullismo dei “figli di papà”! Contro i 7,0 della Francia, gli 8,2 della Spagna, i 12,0 del Giappone, i 13,0 del Regno Unito e addirittura i 18,2 della Corea del sud. L’Italia è un Paese con scarsa mobilità sociale! Dove anche l’Università è un ascensore bloccato. Ancora una volta, questa condizione non è solo un problema di equità costituzionale, ma anche economico. Perché solo i Paesi con elevata mobilità sociale sono economicamente dinamici e floridi. Eppure, anche nella nostra Nazione che ha una bassa domanda di alta formazione, laurearsi conviene. Nella fascia di età compresa tra i 25 e i 64 anni, gli occupati sono l’80% tra i laureati e solo il 71% tra i non laureati. La differenza di 9 punti percentuali. Questo è un dato generale: in ogni Paese e in ogni condizione economica, chi ha la laurea trova più facilmente lavoro. Laurearsi conviene anche in Italia. E non solo perché chi la possiede, la “buona” laurea, trova più facilmente lavoro, ma anche perché ha, in media, un reddito decisamente più alto. Fatto 100 il reddito medio di un occupato senza laurea, il reddito di un occupato con laurea è di 141, ovvero superiore del 41%. È anche vero, tuttavia, che la differenza di reddito data dalla laurea raggiunge il 66% in Germania e il 76% negli Stati Uniti d’America. In media, in Europa un laureato guadagna il 53% in più di un non laureato e nei paesi OECD la media è del 56%. Dunque, in Italia conviene laurearsi sempre. Ma sul mercato del lavoro il titolo ottiene meno gratificazione che altrove. Questo chiama in causa, ancora una volta, la specializzazione produttiva del nostro Sistema Paese. Ed è una delle cause che spingono una quota consistente dei nostri pochi giovani laureati a cercare un lavoro all’Estero, magari per sempre, dove è più facile trovarlo e si è remunerati meglio. Certamente incidono le tasse scolastiche che ogni anno un ragazzo che si iscrive all’università deve pagare. In Italia sono un po’ meno che in Spagna e decisamente meno che nei Paesi extraeuropei. Tuttavia è anche vero che in molti Paesi europei, soprattutto del Nord, le tasse universitarie sono quasi del tutto assenti o, comunque, ci sono facilitazioni (borse di studio, alloggi, “card” per i trasporti e altro) correlate ai “crediti” universitari che non abbiamo in Italia. In altri termini, nei Paesi del Nord Europa, che sono quelli economicamente più dinamici e floridi, il costo dell’istruzione universitaria è “socializzato”. Perché i benefici non sono solo per i singoli che si laureano, ma per l’intera comunità. A quanto ammontano questi costi? La spesa media annua per studente nell’intero ciclo educativo, dalle elementari all’università, nei Paesi OECD come in Europa si aggira intorno ai 9.500 dollari. In Italia la spesa è più bassa. Anzi, Spagna a parte, è la più bassa di tutte. Ma la differenza rispetto agli altri Paesi non è enorme. L’Italia spende per ciascun suo studente il 5,9% in meno della media dei Paesi OECD. Molto diversamente vanno le cose per l’università. L’Italia spende ogni anno per ogni studente universitario 11.510 dollari. Una cifra che, a differenza da quanto sostenuto da qualche illustre economista qualche anno fa, la pone in coda, ancora una volta, alla classifica generale. Solo la Corea del Sud, che però laurea il triplo dei suoi giovani rispetto all’Italia, spende di meno. Ma quello che è importante è il gap rispetto alla media OECD che coincide con quella europea: 16.100 dollari o poco più. L’Italia spende per ciascuno dei suoi studenti universitari il 28,7% in meno rispetto alla media dei Paesi OECD. Riassumendo: sempre rispetto alla media dei Paesi OECD, l’Italia laurea il 26% di giovani nella fascia di età compresa tra i 25 e i 34 anni e per ciascuno dei suoi pochi studenti spende circa il 29% in meno. Questi dati indicano che la nostra Nazione non investe nella conoscenza. E, in particolare, nella formazione universitaria. Per chi avesse qualche dubbio ulteriore, lo può sciogliere dando uno sguardo alla variazione della spesa pubblica nel settore Educazione tra gli Anni del Signore 2010 e 2014, ovvero nel pieno della crisi economica che continua a scuotere il “mondo occidentale”, in particolare l’Italia, a partire dal 2007. Ebbene, in questi anni la spesa pubblica in Educazione è cresciuta nei Paesi OECD del 3%. È aumentata del 20% in Corea del Sud. È rimasta immutata in Francia e in Germania. Mentre è diminuita del 12% in Italia e del 14% in Spagna. In altri termini l’Italia ha risposto alla crisi non riducendo, ma allargando il gap educativo rispetto a quasi tutti gli altri Paesi. La domanda sorge spontanea in questa campagna elettorale: c’è qualche forza politica che intende invertire la marcia, che ne è capace? Insegnava il Derek Bok, rettore della prestigiosa Università di Harvard negli Usa: “Se pensate che l’istruzione sia costosa, provate con l’ignoranza”. Ecco, finora l’Italia ha pensato che l’istruzione fosse troppo costosa e ha tagliato gli investimenti, fatta eccezione per qualche regalìa elettorale regionale! L’impressione è che stiamo già pagando i costi in tempo reale, e non solo in termini economici, dell’ignoranza dei nostri governanti e politici “camerieri dei banchieri” come amava definirli il grande poeta Ezra Pound. È sorprendente infatti che, nonostante tutto, la campagna elettorale in Italia non abbia mai toccato il tema della Ricerca scientifica e tecnologica, considerata evidentemente dai politici della “governace” mediocratica come un argomento trascurabile, meno urgente perché meno “sondabile” dagli stregoni dei sondaggi pilotati. Eppure investire in Scienza e Ricerca è una delle strade maestre per far ripartire l’Economia e l’Innovazione nella Nazione, a sovranità monetaria riconquistata s’intende. Lo ha capito molto bene il Presidente russo Valdimir Putin che, alla vigilia del suo quarto mandato, nei giorni del suo insediamento ha sempre mostrato uno spiccato interesse verso la Scienza in Russia, in particolare verso gli investimenti strategici nei settori dell’intelligenza artificiale, dell’informatica, dello spazio e delle misure contro il cambiamento climatico. Lo ha capito ancora di più Putin, che grazie anche al suo retroterra da giurista, ha ben chiaro che la competizione internazionale si gioca sul terreno della conoscenza, lanciandosi all’inseguimento di Israele e Corea del sud (4,5%), Svizzera, Giappone, Svezia e Austria (dal 3 al 3,5% Pil). L’Italia stagna da anni intorno ad un investimento in Ricerca dell’1,2-1,3% sul Pil, in compagnia di Spagna, Paesi balcanici e dell’Est europeo, e ben staccata da Francia, Gran Bretagna e Nord Europa. Siamo quindi lontani sia dalla media del finanziamento UE del 2% sia dalla media dei Paesi OCSE del 2,4%, e a meno della metà del valore minimo del 3% consigliato dalla Commissione Europea per assicurare la crescita e la creazione di un meccanismo virtuoso di indotti positivi. Eppure spendiamo in armamenti e difesa Nato la bellezza di 100 milioni di euro al giorno! Non va meglio se consideriamo il numero dei ricercatori italiani rispetto agli altri Paesi, anche limitandoci a quelli più vicini. Con 4,9 ricercatori ogni mille lavoratori, la nostra Nazione ne ha poco meno della metà della media dei Paesi dell’OCSE (8,2) e meno della Spagna (6,6) e ovviamente di Paesi come la Germania (9), la Gran Bretagna (9,2) e la Francia (10). Coerentemente, siamo gli ultimi in Europa riguardo alla percentuale di laureati tra i giovani fra i 25 e i 34 anni: solo il 24%. È giunta l’ora quindi di prendere molto sul serio il nostro deficit nel campo della ricerca e dell’istruzione superiore e farne un punto qualificante nei programmi elettorali dei partiti e dei movimenti. Non tragga in inganno il “segnale incoraggiante” arrivato negli ultimi mesi dal finanziamento alla ricerca di base con il bando PRIN (Progetti di Ricerca di Interesse Nazionale) del MIUR, che per la prima volta si è attestato sui 400 milioni di euro, seguito dal finanziamento dei dipartimenti universitari più meritevoli secondo le valutazioni dell’Agenzia Anvur. Perché saranno direttamente responsabili gli Atenei, con prevedibile sostanziale aggravio delle tasse universitarie in caso di mancato rispetto dei parametri previsti. Si tratta infatti, ancora una volta, di interventi estemporanei che vanno resi costanti e sistematici, inseriti in una programmazione nazionale che porti molto rapidamente l’Italia a investire in ricerca e sviluppo il 5% del Pil, creando anche le opportune facilitazioni ai privati per aumentare il loro contributo, in Italia particolarmente basso, sempre sotto il diretto controllo dello Stato. Tutti i centri di ricerca italiani, di cui il CNR è l’esempio mirabile fin dall’Anno Domini 1923, devono prima di tutto poter contare su una dotazione adeguata per sviluppare le loro linee di ricerca che spesso riescono ad essere ancora competitive in ambito internazionale grazie all’impegno quasi volontario dei giovani, i quali ancora credono nel loro lavoro e che, peraltro, vengono pagati circa la metà dei loro colleghi all’Estero. È necessario creare un ambiente fertile di innovazione locale (“ricerca diffusa”) finanziando non solo i gruppi di eccellenza già consolidati, che spesso riescono ad attrarre finanziamenti dalla Commissione Europea, ma anche i gruppi giovani e promettenti che non hanno ancora la solidità e l’autorevolezza per poter aspirare a un finanziamento internazionale. Solo così si potrà creare un ecosistema favorevole all’innovazione e capace di attrarre talenti dall’Estero. Garantita la ricerca diffusa, bisogna poi aumentare il finanziamento competitive, quindi attraverso bandi, che nella nostra Nazione rappresenta ancora una percentuale infima rispetto al budget totale allocato annualmente alle Università e agli Enti di ricerca, erogato per lo più attraverso fondi ordinari che a malapena pagano gli stipendi del personale e solo marginalmente sono finalizzati a specifici progetti di ricerca e innovazione immediatamente “industrializzabili” e fruibili dalla società. Anche per questo, da anni gli scienziati invocano la creazione di una Agenzia Nazionale della Ricerca, magari legata al CNR, che valuti in modo indipendente la qualità dei progetti e li finanzi di conseguenza, come da anni fanno le “charities” come Telethon e AIRC, l’Associazione italiana per la ricerca sul cancro. Non c’è Paese sviluppato che non abbia una o più agenzie di questo tipo, capaci di far crescere sempre più la competitività internazionale dei loro gruppi di ricerca. Chi si appresta a governare l’Italia nei prossimi anni non può nè deve ignorare l’appello che giunge dal mondo della Scienza. Solo potenziando l’istruzione universitaria, la scienza e la tecnologia, e promuovendo il trasferimento delle scoperte di base alle aziende della Nazione, l’Italia può ambire a guadagnare il suo status di Paese sviluppato, riconquistando il terzo posto nella classifica delle potenze spaziali, e giocare un ruolo nella nuova Economia della Conoscenza che sta plasmando il mondo di oggi. In che modo le Elezioni Politiche italiane del 4 Marzo 2018 decidono del futuro della nostra Nazione? Si dibatte giustamente di certezza del lavoro stabile, sicurezza, immigrazione clandestina, salute, tasse, guerre umanitarie, sviluppo economico, traffici di esseri umani, cioè dei temi che preoccupano maggiormente gli Italiani. Perché allora una Lettera Aperta alle forze politiche da parte di 19 scienziati italiani che si occupano di cambiamenti climatici e ambiente? Proprio per parlare di questi temi, in verità. Perché l’ambiente non è un argomento in più da introdurre nella campagna elettorale, bensì il quadro all’interno del quale, già oggi e ancor più in futuro, è inscritta l’innovazione e la sopravvivenza della nostra Nazione nel Mediterraneo, il contesto di cui è necessario tenere conto per poter risolvere, in modo efficace e scientificamente fondato, le emergenze planetarie che più ci interessano. Da Italiani. I mutamenti climatico ambientali sono infatti un fenomeno globale che già oggi è particolarmente evidente in Italia. Negli anni più recenti ne sono state colpite: le nostre attività produttive, prima fra tutte l’agricoltura che deve affrontare il moltiplicarsi di eventi climatici estremi, con l’alternarsi di siccità e inondazioni, nel quadro di una complessiva riduzione delle risorse idriche tale da compromettere i raccolti in diverse regioni; i nostri fragili territori: l’intensificarsi delle alluvioni si inserisce in un contesto idrogeologico già molto critico, mentre l’erosione e l’innalzamento del mare colpiscono le zone costiere; la nostra salute: l’aggravarsi delle ondate di calore e l’incremento dell’inquinamento atmosferico di origine fotochimica aumentano le patologie e la nostra stessa mortalità. È ormai chiaro come i prossimi 5 anni saranno decisivi, in Italia, nel Mediterraneo e nel mondo, per cercare di cambiare direzione e mitigare il riscaldamento globale attraverso il costante abbandono dei combustibili fossili inquinanti. Gli scienziati hanno identificato molte possibili soluzioni scientificamente fondate e rilevato come esse incidano sui temi prioritari di questa campagna elettorale italiana che non dovrebbe essere influenzata dalle potenze estere, stile “Usagate”. Prendiamo il lavoro. Lo sviluppo di un sistema energetico più efficiente e basato sulle energie rinnovabili, molto presto di natura “termonucleare”, è un modo concreto per creare nuovi posti di lavoro in Italia e, contemporaneamente, contribuire a evitare ulteriori danni climatici peggiori nella biosfera. Investire in ricerca e sviluppo e in un settore agricolo che deve adattarsi ai mutamenti in atto attraverso tecniche innovative e nuove professionalità, sarebbe un fattore di competitività per la nostra Nazione. Instaurare cicli produttivi circolari, che riutilizzino le materie prime, in un contesto di crescente scarsità di una serie di risorse, darebbe vita a produzioni manifatturiere “made in Italy” ad alta innovazione e in larga misura non de localizzabili, dunque di qualità superiore, senza sfruttare i giovani “schiavi” orientali che i media “mainstream” italiani faticano a intervistare! Un piano nazionale di tutela del territorio e di gestione delle risorse idriche, oltre a creare occupazione locale, sarebbe importante anche per la sicurezza dei cittadini. E un piano nazionale di lotta all’inquinamento atmosferico a partire dalle aree urbane, oltre a favorire imprenditoria innovativa, ridurrebbe i problemi di salute e allo stesso tempo la spesa sanitaria, che oggi sta esplodendo sempre più, complice l’euromoneta del debito. Venendo all’immigrazione clandestina, progetti bilaterali di cooperazione per l’esportazione di tecnologie rinnovabili e l’adattamento nella Zona del Sahel, da cui proviene circa il 90% circa dei “migranti” che arrivano in Italia illegalmente, i sopravvissuti del Sahara, del Mediterraneo e dei trafficanti di esseri umani, aiuterebbero ad attenuare gli strani fenomeni “migratori” dall’Africa, terra ricchissima di ogni ben di Dio sulla faccia della Terra, in quanto il recupero di terreni degradati o desertificati ed il ripristino di aree coltivate e foreste offrirebbe alle popolazioni locali, sconfitta la corruzione, le risorse per restare nei loro Paesi invece di “invadere” una Italia sempre più povera. Questi sono alcuni esempi tratti dalla nostra analisi, che offriamo al dibattito pubblico politico. Così, nel rivolgersi a chi si sta preparando a governare la Nazione senza interferenze estere, la persona italiana di buon senso che ama la propria Patria, avulsa sia dal “populismo” qualunquista sia dal “furore” oligarchico usurario, chiede di poter contribuire al dibattito per offrire agli elettori la possibilità di una scelta ponderata, logica e feconda. In particolare, chiede a tutte le forze politiche di intervenire, al massimo livello possibile, ad un incontro pubblico con i membri del CNR. Le direzioni intraprese devono essere scientificamente adeguate. In questo momento così cruciale, speriamo che i media vogliano seguire ed alimentare un dibattito così importante. Nel Programma Definitivo di Casa Pound Italia sulla Ricerca scientifica e tecnologica (https://www.youtube.com/watch?v=1DFrGmZbzVo&feature=youtu.be) si evince che ben il 5% del PIL sarà destinato alla ricerca pubblica (https://www.docdroid.net/Bg8qGdw/programma-casapound-2018.pdf#page=19) con il potenziamento del CNR. Fra gli Italiani che si avvicinano alle elezioni è diffusa la percezione della profonda crisi socioeconomica in cui versa la Nazione, segnata da una mai così ampia diffusione della povertà, della disoccupazione e dello scollamento tra società, politica e istituzioni. Mentre al contempo fasce ristrette della popolazione godono di ricchezze sempre maggiori, nel segno di una crescente diseguaglianza tra i livelli sociali della popolazione, tra i diversi territori, e tra le diverse generazioni. La classe media in Italia è oggi povera. Manca invece quasi del tutto nell’opinione pubblica una percezione chiara dell’incombente crisi ambientale e climatica, e dell’estrema necessità di agire speditamente all’interno della classe dirigente politica e amministrativa italiana, magari autonomamente rispetto all’Europa continentale che sembra ignorare i fatti dell’Italia mediterranea. In fondo siamo come l’Inghilterra. È fondamentale cercare soluzioni integrali che considerino le interazioni dei sistemi naturali tra loro e con i sistemi sociali. Non ci sono due crisi separate, una ambientale e un’altra sociale-politica, bensì una sola e complessa crisi socio-ambientale dei valori. Le direttrici per la soluzione richiedono un approccio integrale per combattere la povertà, per restituire la dignità agli esclusi e nello stesso tempo per prendersi cura della Natura, come insegna Papa Francesco nella “Laudato si”, al n. 139. Dal punto di vista ambientale, tre diversi fenomeni mettono a rischio il nostro benessere e l’ecosistema: inquinamento, cambiamenti climatici ed eccessivo sfruttamento delle risorse naturali. Tre fenomeni spesso contraddittori e poco conosciuti dai cittadini italiani al voto, che hanno effetti di breve e lungo termine sulla salute, sul benessere, ma anche sulla nostra economia ancora in crisi. Una linea comune attraversa questi tre fenomeni: l’Energia. Abbiamo di fronte due scenari: mantenere invariato il modello economico basato sullo sfruttamento dei combustibili fossili nell’economia del debito, oppure ridurre i consumi energetici inquinanti e utilizzare le fonti rinnovabili per inaugurare l’Economia del Credito alla persona. Solo la seconda soluzione, oggi matura e perseguibile, può farci uscire dalla crisi ambientale, sociale ed economica dell’Italia. Fondamentale è ovviamente la Sovranità monetaria. Alla comunità scientifica non è chiaro se la politica abbia deciso implicitamente di perseguire la prima strada oppure se è convinta della ineluttabile necessità della seconda. È chiaro, tuttavia, che non vi possono essere mediazioni queste sì “populiste”, non si possono contemporaneamente promuovere investimenti sulle fonti rinnovabili e sulle fonti fossili, occorre definire una Strategia Italiana che preveda la conversione completa verso il secondo modello in 20-30 anni, e il sistema economico e sociale si allineerà a questi obiettivi. Alla Politica spetta il compito di decidere la strategia e gli strumenti per promuovere la transizione dai combustibili fossili alle energie rinnovabili, tra cui la termonucleare voluta dalla Destra innovatrice di Casa Pound Italia. Il forte appello, dunque, è quello di governare la Nazione per elaborare in tempi brevi visioni reali che mettano in atto provvedimenti per affrontare e vincere la sfida all’inquinamento e ai cambiamenti climatici e per tutelare le risorse del Pianeta Terra. Gli scienziati, dal canto loro, invitano tutti i cittadini italiani a votare i candidati che dichiareranno pubblicamente di prendere impegni su questi punti fondamentali: rispetto degli accordi di Parigi sottoscritti dall’Italia nell’ambito della COP21; promuovere conoscenza e consapevolezza delle crisi ambientali che stiamo vivendo; adottare politiche fiscali che favoriscano la transizione da fossili a rinnovabili; definire entro la XVIII Legislatura obiettivi strategici per attivare una transizione sostenibile: bando ai combustibili fossili entro l’Anno Domini 2040, riduzione dell’uso di energia pro capite, dematerializzazione dei processi industriali. Il “Science, Technology and Industry Scoreboard 2017” di OCSE, che racconta il presente e il futuro della rivoluzione digitale, parla chiaro: le cinque parole chiave oggi sono: “Internet of Things”, “Mobile technologies”, “Cloud computing”, Intelligenza artificiale e “Big Data”. Una carovana che avanza a ritmi serrati (basti pensare agli oltre 18mila brevetti nell’ambito dell’Intelligenza Artificiale del 2015 contro i 700 dell’anno 2000) trainata dall’Oriente: Cina, Corea del Sud, Giappone, Taiwan e ovviamente gli Stati Uniti d’America dove la scienza comincia dalle Elementari. Parlare di innovazione su questi temi chiave e di ricerca scientifica non significa però guardare nella stessa direzione. E l’Italia ne è un ottimo esempio: nonostante la nostra ottima posizione quanto a pubblicazioni di qualità, nel campo della innovazione tecnologica e del trasferimento tecnologico soprattutto su Big Data e sulla Intelligenza Artificiale segniamo il passo. Un esempio è dato dal comparto del Machine Learning, frontiera nell’universo dell’Intelligenza Artificiale. Secondo quanto riporta OCSE, l’Italia è al quinto posto a livello mondiale per numero di articoli scientifici sul tema: davanti a noi solo Stati Uniti, Cina, Gran Bretagna e India. Eppure, se guardiamo le classifiche sul numero di brevetti siamo molto lontani dalla vetta. In generale siamo al sesto posto al mondo per indice di citazioni, fatto che trova conferma nella massiccia presenza dell’Italia fra i vincitori di ERC Grants negli ultimi 10 anni. Questo nonostante in Italia si spenda in Ricerca e Sviluppo una percentuale di PIL (1,3%) molto minore rispetto alla maggior parte dei Paesi dell’area OCSE (media del 2,4%) e nonostante il basso numero di ricercatori: appena 5 ogni 1.000 occupati. In Israele, il Paese dove se ne contano di più, sono 17 per 1.000 occupati, in Finlandia e Danimarca 15, in USA Francia e Gran Bretagna quasi 10. Insomma, non c’è dubbio che con quel poco che abbiamo sappiamo produrre una ricerca scientifica eccellente. Centrale oggi, chiosa il rapporto OCSE, è sicuramente la questione della ricerca privata. In Italia, come illustrano i dati preliminari del progetto MicroBeRD di OCSE che misura l’impatto del sostegno pubblico alle imprese, il 55% degli investimenti in R&S provengono da privati, ossia aziende ma anche associazioni no profit. Nei Paesi dove il trasferimento tecnologico è più elevato, al pari del ritorno economico degli investimenti in ricerca, l’apporto degli investimenti privati supera il 70%. Oltre ad avere privati molto più generosi in spese in ricerca e sviluppo rispetto all’Italia dell’attuale regime, il rapporto OCSE segnala come l’incremento esplosivo dei brevetti e altri strumenti della proprietà intellettuale e del design nel campo della Intelligenza Artificiale e della Information Technology nel mondo si regga per l’80% su un pugno di colossi industriali, prima fra tutti la Samsung che supera come investimento complessivo alla ricerca & sviluppo l’intero budget pubblico italiano. Inoltre, in Italia è più marcato rispetto ad altri Paesi il fatto che siano le grandi aziende con oltre 250 dipendenti, e operative da anni, a coprire la maggior parte degli investimenti in ricerca e sviluppo. Solo l’1,6% degli investimenti industriali italiani è rappresentato da realtà giovani, piccole e dinamiche. Forse perché, osserva OCSE, cruciale è il livello di supporto che i governi danno alle aziende per fare innovazione, e ancora una volta l’Italia dell’attuale regime mostra di essere fanalino di coda. Da osservare infine come il rilancio degli investimenti in ricerca da fonte privata soprattutto nel mondo digitale, particolarmente evidente negli anni della crisi economica iniziata nel 2007 e mai cessata, configuri una tendenza a una specie di “privatizzazione” e in buona misura alla “secretazione” della conoscenza che apre scenari non rassicuranti sulle ricadute pubbliche di queste ricerche e delle relative applicazioni. Gli Elon Musk e i Leonardo italiani oggi preferiscono comunque trasferirsi all’Estero per dare vita alle loro invenzioni. Per chi su questi temi ha l’occhio un po’ più smaliziato, incappare in notizie di scienza in televisione è spesso come cercare un ago in un pagliaio. Schivata la politica si passa alla cronaca, e prima di accorgercene siamo già allo sport e poi ai titoli di coda, tra un gossip casereccio e l’altro di bassa lega. A scienza e scienziati, quasi sempre, neppure un accenno sulle Tv italiane. Fatta eccezione per i canali europei digitali dedicati come “Focus” (canale 56). Probabilmente l’intuito inganna, è vero, ma nel verso contrario. E, a ben vedere, di scienza nel servizio pubblico si parla forse ancora meno di quanto penseremmo. Negli ultimi sei mesi, raccontano i dati dell’Agenzia garante delle comunicazioni, per ogni ora di telegiornali Rai (pagati in bolletta dal contribuente italiano) di scienza e scienziati si è parlato per poco meno di trenta secondi. Naturalmente i numeri senza contesto significano poco, per cui conviene dare qualche termine di paragone. Della stessa fetta di tempo, politici e partiti hanno occupato 24 minuti, soggetti e organi costituzionali 16, altri 4 al Vaticano e le briciole a ciò che resta, scienza inclusa. Il futuro non conta! L’indicatore che usiamo per computare quanto spazio i Tg dedicano ai vari soggetti prende il nome di “tempo di antenna” e, come ricorda l’Agcom stessa, misura “il tempo dedicato dal giornalista all’illustrazione di un argomento o evento”, insieme al tempo “in cui il soggetto parla direttamente in voce”. È un numero che, se andiamo a guardare i dettagli, anche all’interno del servizio pubblico varia molto. Il Tg1, per parte sua, è il notiziario che presta più attenzione a politici e partiti e al Vaticano, mentre nel telegiornale di Rai3 i valori della politica calano di diversi punti. Quanto a quest’ultimo aspetto, invece, il Tg2 risulta un po’ come una via di mezzo fra entrambi. Se però mettiamo per un momento da parte il Palazzo e cerchiamo le voci più minoritarie, stabilendo forse un po’ arbitrariamente di considerare solo chi non supera l’8% del totale, il Vaticano è di gran lunga il soggetto non politico più visibile. L’unica eccezione potrebbe essere il Tg3, in cui esso precede comunque gli altri, ma quanto meno ha un distacco minore. Per trovare esperti e scienziati, in ciascuno dei Tg del servizio pubblico, dobbiamo invece scendere molto più in basso. L’ordine dei notiziari, dalla prima alla terza rete, riflette anche il crescente peso della scienza nella programmazione. Nel caso più significativo del Tg3 il tempo di notizia arriva al più all’1,5% del totale: comunque un terzo di quanta attenzione ricevono, per esempio, i sindacati. In questa analisi sono state considerate soltanto le edizioni principali dei notiziari, le più seguite, e di esse è stata calcolata la media complessiva negli ultimi sei mesi. A guardare come cambiano le cose nel tempo, in Rai la visione della scienza sembra essere legata soprattutto a temi di attualità. Quando si verifica un qualche evento notiziabile lo spazio a essa dedicato cresce, ma si tratta di brevi picchi su uno sfondo tutto sommato assente. Fa eccezione il Tg1, il più seguito e insieme “politico” dei notiziari del servizio pubblico, dove invece a prescindere da quel che succede nel resto del mondo per incappare in qualche notizia scientifica bisogna sforzarsi parecchio. La preferenza dei giornalisti Rai per la politica, d’altra parte, ha una natura profonda. Certo anche in quel caso ci sono alti e bassi, dovuti con tutta probabilità a giornate più o meno vivaci in termini di notizie dal Palazzo. Ma anche con il minimo raggiunto in pieno Agosto, di politici e partiti propriamente detti si è parlato comunque per il 30% del tempo totale. Un’altra fetta tutto sommato stabile, anzi anche in leggera crescita, comprende soggetti e organi costituzionali, che anche se con un ruolo diverso appartengono anch’essi a una sfera affine a quella della politica. L’immagine che emerge è quella di un servizio pubblico completamente dominato dalla politica e dai politici, evidentemente responsabili dell’Italia di oggi. Certo si tratta di temi che meritano di essere affrontati, ma è difficile pensare che la quasi totalità del discorso pubblico di un’intera Nazione debba fermarsi lì e a scapito di tutto il resto, scienza e futuro degli Italiani inclusi. Se l’Italia è al quinto posto a livello mondiale per numero di articoli scientifici nell’ambito del Machine Learnig. Qualche settimana fa Kaggle, un’azienda che opera nell’ambito della “Data Science”, ha pubblicato i risultati di un sondaggio condotto in molti Paesi del mondo, riguardante lo stato dell’arte della forza lavoro in questo settore. Un totale di oltre 16mila persone coinvolte formate nell’ambito del ML fra attualmente occupati e non, oltre 200 delle quali in Italia. In media, chi lavora nel Machine Learning ha circa 30 anni, ma questo valore varia da Paese a Paese. Per esempio, il rispondente medio dall’India era di circa 9 anni più giovane del rispondente medio dall’Australia. In Italia la media è di 34 anni nel complesso, e di 29 anni per le donne, sebbene queste ultime siano decisamente sottorappresentate in termini numerici: solo 29 su 238 rispondenti italiani era donna. La percentuale più alta degli intervistati ha conseguito un master, che corrisponde alla nostra laurea specialistica, ma quelli con i salari più alti, cioè oltre 150mila dollari annui, in media sono quelli che hanno anche conseguito un dottorato. A definirsi ricercatore o scienziato, è solo una piccola fetta del campione: circa il 18% degli italiani, e il 13% del totale, ma a ben vedere essi rappresentano il terzo gruppo per tipo di lavoro. La maggioranza di chi lavora nel ML si definisce Data Scientist, un quinto del totale in Italia; ci sono poi gli sviluppatori (14%) e, a seguire, gli scienziati (13%, a cui si aggiunge un 5% di persone che si definiscono ricercatori). A chiudere la classifica i vecchi programmatori (meno del 3% dei 16mila intervistati) e i “data miner”, che sono pochissimi: l’1% nel complesso e lo 0,6% degli intervistati italiani. Solo due terzi di questo “esercito” ha un lavoro inquadrato come “full time” (il 70% in Italia e il 65% nel mondo). Solo l’1% in Italia e il 5% del totale lavora “part-time” e circa il 10% è “freelance”. Interessante è notare che una grossa fetta di queste persone al momento dell’intervista non lavorava o non lavorava nel settore: in Italia, fra i 238 intervistati l’8% stava cercando lavoro e il 6,7% non lavorava ma neanche cercava un’occupazione in questo campo. Il “gender gap” è qui molto evidente: il 18% delle donne italiane intervistate formate nel settore si è dichiarata disoccupata e in cerca di lavoro, mentre un altro 7,4 % era disoccupata ma nemmeno cercava un lavoro. Quanto si guadagna in questo campo? I rispondenti italiani, pochi in realtà, solo 67, guadagnano come media 45mila euro annui, 10mila dollari in meno rispetto ai colleghi nel resto del mondo. Su oltre 3700 risposte, la media globale è stata di 55mila dollari annui. Per le donne nel complesso le cose vanno un po’ peggio, con una media di 52 mila dollari, un dato che non è stato possibile raccogliere per l’Italia, a causa del campione troppo esiguo. Tutto questo però non deve stupire, se consideriamo anche solo che le donne impegnate full time in Italia sono il 63% delle donne lavoratrici nel settore, contro il 71,6% degli uomini. Vale la pena di fare un tuffo nel passato scientifico dell’Europa: “Carissimo Heisenberg!”. “Carissimo Bohr!”. Due grandi fisici si incontrano a Copenaghen. Il primo, Werner Heisenberg, ha solo quarant’anni, ma è direttore dell’Istituto Kaiser Wilhelm per la Fisica a Berlino ed è già famoso per i suoi contributi alla Fisica Quantistica. Il secondo, Niels Bohr, ha un’età più avanzata, 65 anni: potrebbe essere suo padre, e in qualche modo lo è davvero sul piano scientifico. Infatti, quindici anni prima Werner, appena laureato, è andato a studiare con lui a Copenaghen, e insieme hanno creato una nuova fisica. Di questa scienza inattesa e quasi paradossale Niels Bohr è riconosciuto da tutti come il fondatore. Ci sono eventi che possono passare inosservati ma che concentrano, quasi come la luce attraverso una lente, un fascio di problematiche e di complessità di un’epoca storica. E l’incontro tra Bohr e Heisenberg è sicuramente uno di questi. Esso si svolge nel Settembre del 1941, nella Danimarca occupata dai nazisti. I due amici e colleghi di un tempo sono ora irrimediabilmente separati e addirittura contrapposti a causa delle loro appartenenze. Niels Bohr subisce la minacciosa invasione straniera, mentre Werner Heisenberg, a differenza di tanti altri fisici, come in particolare Albert Einstein, è rimasto in patria e, anzi, ha fatto una carriera prestigiosa. C’è certamente, nei due scienziati, la nostalgia di un tempo in cui la ricerca era una contemplazione della realtà, nel caso specifico della realtà sub-microscopica, senza che questa contemplazione avesse nulla a che fare col resto del mondo, con le armi e i conflitti. Ma il mondo è ormai intrecciato alla scienza, anche perché dagli Anni Trenta del Novecento, quando a Copenaghen si decifravano i singolari fenomeni quantistici, agli Anni Quaranta, in quel breve decennio, sono stati proprio gli sviluppi della fisica a portarla pericolosamente vicina al mondo in fiamme! Negli Anni Trenta, l’atomo non era più quell’entità indivisibile che il suo nome suggerisce: già si sapeva che era costituito da particelle ancora più elementari, cariche e neutre. Cercando di indagare la struttura interna degli atomi pesanti, Enrico Fermi scoprì a Roma la possibilità di scindere l’Uranio in elementi più leggeri, realizzando in un certo senso l’antico sogno degli alchimisti. Così grazie al CNR e al celebre gruppo romano dei Ragazzi di via Panisperna, guidato da Enrico Fermi che ottenne risultati fondamentali nella fisica del nucleo, coronati nel 1938 dal premio Nobel conferito allo stesso Fermi, l’Italia divenne la Patria della Fisica. È l’isotopo 235 dell’Uranio a venire scisso da un neutrone incidente, producendo Bario, Kripton e due altri neutroni carichi di energia. In piena era mussoliniana con il CNR quasi fin su le stelle, prima delle leggi razziali! Divenne allora possibile immaginare una struttura per rendere utilizzabile questa Energia: un reattore nucleare, che sarebbe dovuto sorgere in Italia e non a Chicago, in cui i neutroni emessi dalle scissioni dell’Uranio235 vengono rallentati per aumentare la probabilità di cattura da parte di altri atomi dello stesso isotopo, e la moltiplicazione a catena viene opportunamente controllata. Ma se fosse possibile concentrare l’Uranio235, arricchendo la sua percentuale nell’Uranio238 naturale, pensarono nello stesso istante i fisici sulle due sponde dell’Atlantico, dopo le leggi razziali italiane del 1938 e l’arrivo di Fermi negli Usa, si riuscirebbe forse a costruire una bomba di inaudita potenza. Due colleghi fisici, Leo Szilard e Eugene Wigner ne parlarono ad Albert Einstein, il quale il 2 Agosto 1939 scrisse al presidente Franklin D. Roosevelt, segnalandogli l’estremo pericolo di una possibile bomba a fissione germanica, attraverso la “via” del Deuterio. A questa lettera seguirono il Progetto Manhattan e, nel 1945, le due bombe nucleari americane su Hiroshima e Nagasaki. La seconda di questa bombe (“a implosione”) venne costruita su una base diversa. Essa si fondava sul fatto che i neutroni veloci sono assorbiti dall’Uranio238, l’isotopo dell’uranio più abbondante in natura. Di qui, attraverso una catena di trasmutazioni, si arriva al Plutonio239. Quest’ultimo è a sua volta fissionabile, proprio come l’Uranio235, e lo può sostituire in quantità decisamente minori in una reazione a catena. Dunque, anche la costruzione di un reattore, di per sé strumento pacifico per la produzione di energia, ha potuto far parte di un progetto militare americano! L’incontro tra i due grandi fisici si svolge nel 1941. Sia in Germania sia in America sono iniziate le attività segrete per arrivare a una bomba nucleare che “atomica” non è mai stata! Si scoprirà, dopo la guerra, che Heisenberg è a capo del programma tedesco. I maggiori fisici dell’epoca, con poche eccezioni, tra cui Albert Einstein e Niels Bohr, si stanno impegnando nell’uno o nell’altro progetto. Dunque la Fisica dei Quanti non è più una pura contemplazione del mondo sub-atomico, ma è divenuta un’attività carica di oscure minacce e di laceranti dilemmi etici. Ecco perché, quasi prevedendo tutto questo, Bertolt Brecht, esule a Copenaghen, inorridisce ascoltando alla radio nel 1939 la conferma della fissione dell’Uranio. L’incontro tra i due scienziati si svolge dunque in questo quadro di bella fisica e di foschi presagi. Ma perché Werner Heisenberg andò a Copenaghen nel Settembre del 1941? Le versioni proposte dai due protagonisti, su sollecitazione degli storici della scienza, sono profondamente diverse. Heisenberg ha affermato di aver escluso che fosse possibile costruire una bomba, pur teoricamente fattibile, in tempi brevi, e di essere interessato soltanto a un reattore per la produzione di energia. Bohr, invece, ha scritto di aver avuto la chiara impressione che Heisenberg fosse direttamente impegnato in un programma militare tedesco e volesse addirittura coinvolgere anche lui, o almeno avere informazioni su una possibile attività nucleare americana. È stata proprio questa discrepanza a interessare e affascinare Michael Frayn, autore teatrale di grande successo, oltre che studioso di storia della scienza. E lo ha spinto a comporre nel 1998 un testo, “Copenaghen”, che è stato messo in scena in tutto il mondo. Si tratta di un esempio molto interessante di teatro ispirato alla scienza, non solo nel senso che mette in scena personaggi centrali della fisica del Novecento, non solo nel senso che al suo interno sono presenti temi di fisica e di epistemologia, ma anche perché la struttura stessa del testo teatrale si ispira alla Fisica Quantistica. Diversi dibattiti e convegni sono stati stimolati da quest’opera. Il testo infatti tocca molteplici aspetti: la fisica del Novecento, le sue implicazioni conoscitive, la responsabilità etica dello scienziato, la concezione stessa della storia. In Italia, “Copenaghen” è stato messo in scena per 10 anni, dal 2000 al 2010, da Mauro Avogadro con gli attori Umberto Orsini (Bohr), Massimo Popolizio (Heisenberg), Giuliana Lojodice (Margrethe Bohr, moglie di Niels), ed è stato da poco ripreso nella stagione 2017-2018. Il testo è pubblicato in italiano dalla casa editrice Sironi. Perché, dunque, Werner Heisenberg andò a Copenaghen da Niels Bohr nel 1941? Che cosa si dissero, in quell’occasione, i due scienziati? Fin dalle primissime battute, viene proposto da Margrethe, la moglie di Niels Bohr, quello che sarà il tema centrale del testo di Frayn. Siamo in un tempo indeterminato, dopo la morte dei tre protagonisti. Lungo tutto il testo teatrale, questo tempo si intreccia con quello del 1941 e con il ricordo degli Anni Venti in modi diversi e sottili. È affascinante questa molteplicità di tempi che la magia del teatro rende di volta in volta presenti senza cambiamenti di scena o di costumi. Il tono delle incalzanti domande di Margrethe è quello di chi pensa che una risposta possa venire trovata: una risposta precisa e univoca, che dissipi finalmente ogni dubbio. La posizione di Bohr, invece, sembra essere ormai di distacco, di rinuncia a una risposta non più necessaria: insomma, secondo lui, non è opportuno “disturbare gli spiriti del passato” come concordarono i due scienziati in occasione di un loro incontro nel Dopoguerra. Ciò non significa, come già sappiamo, che egli non ricordi il senso di quel viaggio e lo svolgimento di quel colloquio. Ma i suoi ricordi sono così diversi da quelli di Heisenberg, e addirittura in contrasto con essi, da far pensare a una radicale impossibilità di ricostruire univocamente e oggettivamente quell’evento storico. Questo è appunto uno dei temi centrali di “Copenaghen”. L’originalità della proposta di Frayn è quella di collegare questa impossibilità all’interpretazione di Copenaghen della meccanica quantistica proposta da Bohr, uno dei pilastri fondanti dell’attuale fisica quantistica. Egli, cioè, utilizzerà i concetti sviluppati da Bohr, da Heisenberg e da altri (tra cui Erwin Schrödinger, l’irriducibile rivale del giovane Werner) come metafore per la comprensione delle modalità e dei limiti della conoscenza della mente umana e degli eventi storici. Il che porterà a utilizzarli anche come metafore strutturanti del testo teatrale. L’affascinante ricostruzione della passione scientifica condivisa in quei lontani Anni Venti, magici anche per l’Italia scientifica, permette di riproporre efficacemente in termini di immagini quotidiane i concetti centrali della meccanica quantistica. Viene risolto così brillantemente il problema di comunicare ai lettori e agli spettatori almeno qualche frammento dell’universo culturale entro cui i personaggi in scena si muovono, almeno qualche elemento che favorisca un’empatica condivisione del loro amore per la scienza. In primo luogo, viene proposto il Principio di Indeterminazione di Heisenberg: esso afferma l’impossibilità di conoscere completamente e contemporaneamente la posizione e la velocità di una particella, o di un qualunque oggetto, addirittura, afferma paradossalmente Heisenberg nel testo teatrale, dello stesso Niels Bohr che percorre la stanza a grandi passi, senza perturbare la situazione osservata. Perché l’osservazione di una particella richiede di farla interagire anche solo con un atomo, o con una minuscola quantità di radiazione, la cui influenza non può venire trascurata! Secondo Bohr, autore dell’interpretazione di “Copenaghen”, la situazione è ancora più complessa. Essa è legata all’insopprimibile dualità degli elementi del mondo sub-microscopico, che possono essere descritti in modo complementare come particelle o come onde. E i dati sperimentali si possono interpretare a volte con un modello, a volte con un altro, in relazione con la struttura dell’esperimento, cioè in relazione con la domanda che lo scienziato pone alla natura attraverso l’esperimento stesso. Un esempio classic, a cui scherzosamente si accenna anche nel testo teatrale, è quello del sorprendente esperimento delle due fenditure effettuato con Elettroni: quell’esperimento che i lettori di una rivista scientifica americana “Physics World” hanno indicato nel 2002 come il più bello di tutta la storia della fisica. In “Copenaghen”, questo esperimento è introdotto attraverso il ricordo della straordinaria velocità di Heisenberg sugli sci, di fronte alla scelta improvvisa di curvare a destra o a sinistra. Si consideri una situazione come questa. Un diaframma con due fenditure parallele, abbastanza larghe per far passare una palla da tennis. Poi si prenda un cannoncino che spara palle da tennis e uno schermo su cui le palle, arrivando, lasciano un segno. Si tratta di una situazione molto semplice. Parecchie palline rimbalzeranno sul diaframma, ma alcune passeranno da una delle due fenditure (o di qua o di là, come Heisenberg che scia velocemente) e arriveranno sullo schermo. Addirittura, potremmo filmare il tutto ad alta velocità, poi rallentare il film e seguire la traiettoria di ogni pallina. Dopo un certo tempo, che cosa ci aspettiamo di vedere? Due strisce verticali, con un po’ di dispersione ai lati per gli urti che alcune palline hanno avuto con i bordi delle fenditure. Abbiamo studiato oggetti materiali che nella loro concretezza si muovono e producono risultati prevedibili. Ora consideriamo un caso diverso, pur sempre materiale: un’onda sulla superficie dell’acqua che si avvicina alle due fenditure. Ognuna delle due fenditure che lascia passare l’onda diventa, al di là del diaframma, sorgente di una nuova onda, e le due nuove onde interferiscono tra loro: dove tutte e due hanno una cresta, le loro ampiezze si sommano, mentre dove una ha una cresta e l’altra una valle, si annullano. Sullo schermo le onde disegneranno allora una figura di interferenza: un massimo al centro e poi tanti picchi ai lati di ampiezza minore. All’inizio dell’Ottocento, Thomas Young ha fatto questo esperimento con onde luminose. Naturalmente, in questo caso le fenditure debbono avere una larghezza molto molto minore, dell’ordine di un micrometro, ossia di un millesimo di millimetro, e una distanza tra loro dello stesso ordine di grandezza. Il risultato è simile a quello delle onde sulla superficie di un liquido. Questo è stato un esperimento molto importante, perché all’epoca era prevalente la teoria corpuscolare della luce proposta da Newton, mentre qui appare evidente la necessità di un’interpretazione ondulatoria. A Copenaghen, Niels Bohr e i suoi collaboratori immaginano di fare questo esperimento con Elettroni: effettuano, cioè, un esperimento mentale, come si usa dire nel gergo dei fisici. Certo, ci vorrebbero fenditure oltre mille volte più sottili di quelle di Young. E prevedono che, anche in questo caso, si vedranno sullo schermo delle frange di interferenza, come quelle delle onde o della luce. Eppure gli Elettroni sono particelle! Particelle che si comportano come onde! Il risultato dell’esperimento, effettuato diversi anni dopo, richiede un’interpretazione in termini di onde: secondo l’interpretazione di Copenaghen, si tratta di “onde di probabilità” che interferiscono tra loro, fornendo la “distribuzione di probabilità” di trovare la traccia di ogni singolo Elettrone sullo schermo. Questo esperimento è stato fatto per la prima volta nel 1976 da tre giovani fisici nello scantinato dell’Istituto di Fisica di Bologna. La considerazione degli Elettroni come particelle funziona benissimo per spiegare il puntino lasciato da ogni singolo Elettrone quando colpisce lo schermo, ma non per spiegare perché sullo schermo si formi una figura d’interferenza: perché, cioè, si abbia una serie regolare di strisce chiare dove gli Elettroni arrivano e strisce scure dove non arrivano. Che cosa succede se spariamo un Elettrone alla volta? L’Elettrone, in qualche modo, passa simultaneamente attraverso le due fenditure. Con che cosa interferisce quel singolo Elettrone? Paul Dirac, uno dei più importanti fisici del Novecento, diceva che “interferisce con se stesso”. Ecco un paradosso della nuova fisica! Ma qui ci interessa questo aspetto: ogni volta che un Elettrone viene sparato, e sullo schermo si forma un puntino, l’Elettrone ha realizzato una delle moltissime possibilità dell’evento. Soltanto l’osservazione ripetuta permette di farsi un’idea della distribuzione di probabilità, e quindi delle molte possibilità tra le quali l’Elettrone ogni volta ne sceglie una, “ancora per poco” non sappiamo come, se non in termini probabilistici. A questo livello microscopico viene a cadere così il determinismo, cioè il sapere con certezza, date le condizioni iniziali, come evolverà un sistema, su cui si basa la fisica classica. Gli oggetti quantistici sembrano vivere in mondi astratti intessuti di probabilità, che solo l’osservazione blocca in stati precisi. Dunque, l’Elettrone come oggetto osservabile esiste soltanto quando viene osservato. Non possiamo nemmeno chiederci attraverso quale delle due fenditure è passato. Questa è la conclusione paradossale che ha convinto i più grandi fisici del Novecento. Con l’eccezione di Albert Einstein che ha sempre sostenuto la teoria quantistica come solo l’abbozzo di una teoria più ampia nella quale i paradossi, sintomi di incompletezza, spariranno. Ma l’osservazione, come ci ha detto Heisenberg, è una perturbazione, per cui questa nuova fisica non è indipendente dall’osservatore! Forse l’affermazione più drastica su questa nuova fisica è stata proprio quella di Niels Bohr: “Non esiste un mondo quantistico. C’è solo una descrizione fisica astratta quantistica. È sbagliato pensare che lo scopo della fisica sia scoprire come è fatta la natura. La fisica riguarda solo quello che possiamo dire della natura”. In altre parole, la fisica costruisce modelli del mondo, non scopre la verità del mondo. Una posizione filosofica non nuova, che però assume nel testo di Frayn un significato che trascende la scienza. In un tempo indeterminato, Bohr e la moglie si chiedono il senso della visita del giovane collega: forse si parlerà di fissione nucleare! Nel frattempo Heisenberg, pensieroso, si avvia verso la loro casa, per una riedizione del misterioso incontro del 1941. L’incontro sta per avere luogo. Come si è già accennato, non si tratta di un ricordo, ma di una vera e propria riedizione dell’incontro stesso. Infatti, è come se i personaggi, e Heisenberg in primo luogo, non sapessero ancora come l’incontro si svolgerà. Questo è il nucleo strutturale dell’intera opera di Frayn: da un luogo e un tempo indeterminati si passa non al ricordo del passato, ma a una sua riedizione, anzi, a molteplici riedizioni. L’analogia è con l’esperimento di fisica quantistica prima ricordato: solo ripetendolo più volte si può avere un’idea delle molteplici possibilità che in esso erano contenute prima che avesse luogo. Un po’ come le elezioni politiche italiane dominate dal Rosatellum e da forze politiche che preferiscono stare all’opposizione! I due scienziati escono ancora una volta, come negli anni ormai lontani, per una passeggiata. In questa riedizione dell’incontro del 1941, Heisenberg e Bohr riprovano a cogliere e a condividere la verità di quell’incontro sul quale, in vita, le loro testimonianze sono state così diverse. Inizia così una conversazione che presto però si rivela difficile, per l’inevitabile presenza, tra i due interlocutori, della drammatica situazione politica che, al di là dei loro sentimenti, li rende nemici. Margrethe è la distaccata e pensosa testimone dell’incontro. Heisenberg ripropone ciò che allora avvenne, o meglio, ciò che non avvenne, ciò che egli non riuscì a dire chiaramente all’antico maestro. Il problema centrale, per lui, è il dilemma etico con cui i fisici sono confrontati. La decisione sulla costruzione di una bomba, egli afferma con angoscia, sarà prima o poi nelle nostre mani di scienziati. Bohr, però, obietta di non credere che la vera ragione del viaggio fosse quella della risposta da dare, prima o poi, come fisici ai politici. A meno che Heisenberg non sospetti l’esistenza di un programma americano. In quel caso, ammette il fisico Tedesco, egli stesso sarebbe certamente disposto a lavorare per i nazisti, pur di salvare la propria amata patria. Su questo insanabile contrasto, l’incontro si interrompe bruscamente, e Heisenberg se ne va. A questo punto, la proposta di Bohr è quella di dare una nuova versione del colloquio, non attraverso la riflessione retrospettiva, ma attraverso una seconda messa in scena. Frayn sviluppa così sul palcoscenico una sorta di esperimento mentale del quale non è possibile conoscere un esito univoco, ma soltanto i diversi esiti possibili, ripetendolo più volte. All’inizio del nuovo colloquio, l’interesse si sposta sugli Anni Venti e sugli entusiasmanti sviluppi della fisica teorica di cui i due scienziati sono stati protagonisti. Ancora una volta, nelle parole di Heisenberg, l’amore per la fisica si intreccia all’amore per il proprio Paese. La conversazione prosegue toccando una questione centrale di fisica: come mai Heisenberg sbagliò clamorosamente la valutazione della quantità di Uranio235 necessaria per permettere la reazione a catena? Come mai non scrisse correttamente le equazioni? Forse volutamente, perché non cercava affatto di costruire una bomba? Questo è ciò che egli sostenne dopo la guerra. Ed è ciò che sembra emergere, pur con qualche ambiguità, dalle conversazioni segretamente registrate tra i fisici tedeschi, tenuti prigionieri dai servizi segreti britannici nel 1945 a Farm Hall, una località non lontana da Cambridge. Tra due cifre molto diverse (cinquanta chilogrammi, una tonnellata) si colloca tutto il mistero del comportamento di Heisenberg all’interno del programma “atomico” nazista, del quale, si scoprì in seguito, era il responsabile fin dal 1939. Si tratta di una forbice la cui importanza sembra essere stata inspiegabilmente, forse inconsciamente, sottovalutata da un teorico del suo livello. A meno che non l’abbia fatto di proposito, per rallentare il programma nucleare germanico. Ancora una volta, il colloquio si interrompe. In questo caso, l’immagine di sé proposta da Heisenberg, che però non convince Bohr, è quella, piuttosto ambigua, di chi ha attuato una sorta di resistenza nei riguardi della ricerca militare, in un disperato sforzo di salvaguardare contemporaneamente gli studi sui reattori. Ma, anche sui reattori, l’ambiguità rimane. Lo scopo era quello di produrre energia o piuttosto quello di produrre Plutonio? Ancora una volta, nell’ambito della metafora, Bohr propone una nuova, ultima riedizione del colloquio. Per la terza volta, i due fisici si dispongono a mettere in scena l’incontro sotto lo sguardo di Margrethe. La situazione, osserva Bohr, forzerà Heisenberg verso uno stato definito, mentre in precedenza “i suoi pensieri sono stati dovunque e in nessun luogo, come particelle inosservate”. Questa nuova edizione del colloquio fotograferà, per così dire, pensieri e discorsi in una delle loro possibili esplicazioni. Così facendo, però, non potrà non perturbarli. Lo sviluppo di questo nuovo colloquio è inatteso, come può accadere in un esperimento di fisica, e getta nuova luce sulla situazione. Infatti, il silenzio di Bohr nel corso del colloquio del 1941 si può interpretare, propone Frayn attraverso Margrethe, come un atto di amicizia, di rispetto della complessità dei pensieri e dei sentimenti dell’antico allievo, che forse desiderava sopra ogni altra cosa “stringere una mano amica”, ed essere “capito laddove non riusciva neppure a capire se stesso”. Solo dopo la morte, sembra suggerire Frayn con la scelta di questa struttura teatrale, quando l’azione è ormai radicalmente impossibile, si può tentare di ritrovare la complessa verità delle intenzioni e dei pensieri, immaginando molteplici sviluppi possibili del colloquio. La sua verità sarà allora il fascio di tutti questi sviluppi, e non soltanto la verità dei fatti, spesso sconosciuta ma comunque insufficiente per la conoscenza, e inoltre inadeguata a fondare un discorso etico. Come legare, infatti, il giudizio etico semplicemente agli avvenimenti che si sono prodotti, sapendo che questi stessi avvenimenti non sono che una delle possibilità, e forse nemmeno la più rilevante, tra quelle che avrebbero potuto tradursi in atto? Come giudicare Heisenberg soltanto in base al fatto che il programma atomico nazista da lui diretto non ha avuto le conseguenze tragiche che hanno caratterizzato invece il Progetto Manhattan? Come giudicare Bohr unicamente per la sua collaborazione più o meno marginale a quest’ultimo programma? Chi, dunque, è più colpevole? Chi è più responsabile tra i due, nel contesto della tragedia bellica? Più in generale, a quale etica fare riferimento? A un’etica dei risultati, oppure a un’etica delle intenzioni, delle motivazioni, delle scelte, anch’esse peraltro impossibili da cogliere in modo univoco? Al termine del lungo esperimento mentale di Michael Frayn, si presenta il tema di ciò che resterà dopo tutti questi tentativi di capire, dopo i loro protagonisti, dopo i fantasmi che ne hanno occupato la mente e il cuore. Forse l’Europa è stata salvata dalle bombe tedesche da “quell’unico breve istante a Copenaghen”. Ma questo non è che uno dei possibili risultati dell’esperimento mentale sull’incontro del 1941. Un incredibile esperimento teatrale ispirato all’interpretazione di “Copenaghen” della meccanica quantistica, la quale ha portato con sé, secondo Frayn, implicazioni significative per la comprensione delle intenzioni, dei pensieri e dei comportamenti umani. Più che mai, negli anni bui della guerra, le scelte dei fisici, le scelte di impegnarsi o meno su un programma di ricerca nucleare, sono state cariche di un enorme peso etico. La ricerca ha mostrato la sua inevitabile dimensione tecnologica e politica accanto a quella conoscitiva, straordinariamente affascinante e apparentemente pura. Come non vedere il fascino e la bellezza delle scoperte di fisica che in quegli anni si sono succedute? Come non vedere, nello stesso tempo, le terribili implicazioni belliche e insieme le auspicate conseguenze pacifiche? È qui che l’Europa e l’Italia hanno perduto la loro Sovranità! Al di là delle responsabilità dei singoli scienziati, la scienza ha perduto per sempre, in quegli anni, l’alone di purezza tanto caro agli scienziati, la caratteristica di una disinteressata contemplazione del mondo e delle sue leggi per diventare piuttosto uno sviluppo di strumenti concettuali per agire sul mondo e trasformarlo. Essa si inserisce quindi inevitabilmente nel mondo, con il suo carico di ambiguità e, come è stato detto, di peccato. Serve dunque una sinergia tra il mondo scientific, la politica e l’impresa, attraverso progetti di ricerca, dottorati e assegni di ricerca, in cui saranno protagonisti i giovani che troveranno nella libera Scienza un luogo unico per la loro formazione e professionalizzazione in ambito tecnologico. Si tratta di offrire programmi di formazione ad altissima specializzazione post laurea e cioè la possibilità di trovare uno sbocco lavorativo di tipo industriale e tecnologicamente avanzato che inauguri una strategia industriale italiana fondata sulla ricerca, sulla conoscenza, sulla qualità dell’innovazione. Le eccellenze scientifiche e tecnologiche, messe a sistema, sono un patrimonio enorme su cui puntare. “La ricerca di base condotta dall’Infn – rivela il Presidente Fernando Ferroni – interseca sempre più la realtà culturale e produttiva del Paese, grazie anche al conseguente sviluppo di nuove tecnologie che portano alla realizzazione di prodotti innovativi destinati al mercato anche internazionale. Sarà possibile formare nuove figure professionali in grado di dare il loro importante contributo alla crescita della conoscenza, della tecnologia e dell’economia del nostro Paese”. L’attezione di oggi è dunque rivolto al trasferimento rapido ed efficace delle conoscenza e degli sviluppi tecnologici alla società e al territorio. “Quello che veramente ami rimane, il resto è scorie. Quello che veramente ami non ti sarà strappato. Quello che veramente ami è la tua vera eredità. Il mondo a chi appartiene, a me, a loro o a nessuno? Prima venne il visibile, quindi il palpabile”, rileva Ezra Pound nel Canto 81 dei “Pisani”. Dove nasce la Sovranità nell’alba della Democrazia.
© Nicola Facciolini