(di Nicola Facciolini)
“Zeus e voi altri dei, rendete forte questo mio figlio. E che un giorno, vedendolo tornare dal campo di battaglia, qualcuno dica: È molto più forte del padre” (Ettore, Iliade di Omero). Parlare del padre è oggi un imperativo categorico. Non basta un giorno di festa. Un padre insuperabile, è la peggiore iattura per un figlio, come insegna l’eroe omerico Ettore, quando nasce un padre nel figlio. D’altra parte, molti ignorano la potenza di San Giuseppe, il padre putativo di Gesù Cristo, patrono della Chiesa Universale. Non è casuale che la festa del 19 Marzo sia dedicata ai papà e alla famiglia naturale pianificata da Dio per l’Umanità, a immagine della Sacra Famiglia di Nazareth. Se sparisce il padre sparisce anche ogni responsabilità, e costruiamo un mondo di bambini perennemente litigiosi o di irosi (pre)adolescenti, adulti solo all’anagrafe, mai maturi. Un mondo ove nessuno più si fa carico di nessuno. Il padre è ed è chiamato ad esser colui che riesce a bilanciare tra loro autonomia e riferimento a valori normativi, attenzione a sé e all’altro, libertà e responsabilità, oggettività e soggettività. Un processo educativo è tale solo grazie a questo equilibrio, e alla presenza d’un padre a sua volta in relazione costruttiva con una sposa, la madre. È ancora possibile essere “padre” in Occidente, dopo circa 50 anni spesi a “uccidere il padre”, come chiedeva con insistenza la psicoanalisi freudiana, o a definirla superflua secondo la solita cultura radical chic dell’autonomia a tutti i costi, o a cancellarne la presenza come nelle leggi sull’aborto, o a renderla facoltativa in quelle sul matrimonio e l’educazione dei figli, o a ritenerla addirittura un puro costrutto culturale-sociale secondo l’ideologia del gender? In effetti questo clima così ostile ha creato nella società (italiana?) occidentale una sorta di oscuramento del padre, di cui è inevitabile pagare le conseguenze. La prima è che non solo non ci sono più “padri”, ma non ci sono più adulti, perché la paternità significa il pieno compimento del cammino della persona matura. Se la vita, infatti, è dono ricevuto che tende per natura sua a divenire bene donato, si diventa adulti quando si sceglie esplicitamente di passare dalla fase passiva della ricezione del dono a quella attiva del dono-di-sé. Adulto è colui che genera, che si prende cura dell’altro, che se ne sente responsabile e custode, che se ne carica peso e debolezza, anche nel male. Berdjaev osserva, al riguardo, che Caino ha ucciso Abele non quando l’ha colpito con violenza mortale, ma quando di fronte al Dio Creatore ha negato d’esser “custode” di Abele: non sentirsi responsabili dell’altro è ucciderlo! E ancora, lo stesso autore russo specifica che il giudizio finale sarà sulla stessa domanda, che Dio rivolgerà a ogni uomo, e forse in modo particolare a chi si sente buono, come Abele: “Che ne hai fatto di Caino?”. Ovvero la responsabilità nei confronti dell’altro, di qualsiasi altro, specie di chi sbaglia. Se sparisce il padre sparisce anche ogni responsabilità, e costruiamo un mondo di bambini perennemente litigiosi o di irosi (pre)adolescenti, adulti solo all’anagrafe. Un mondo ove nessuno più si fa carico di nessuno. E ancora, il padre è ed è chiamato a esser colui che riesce a bilanciare tra loro autonomia e riferimento a valori normativi, attenzione a sé e all’altro, libertà e responsabilità, oggettività e soggettività. Un processo educativo è tale solo grazie a questo equilibrio, e alla presenza d’un padre a sua volta in relazione costruttiva con una sposa, cioè la madre. E il discorso si estende naturalmente alla coppia naturale: le categorie padre e madre, maschile e femminile, sono complementari e irrinunciabili per una società sana e adulta, ove ognuno è complementare all’altro per generare assieme vita e felicità. Le “famiglie arcobaleno” non esistono né esisteranno mai in quanto non sono mai esistite sulla Terra, in nessuna cultura e civiltà. I legami affettivi originari, in armonia tra loro, sono costitutivi di identità. Al di fuori di essi c’è solo la confusione identitaria e il caos relazionale, ove nessuno è se stesso e in pace con sé e con l’altro: Sodoma e Gomorra. Ma il padre oggi è necessario anche sul piano della fede religiosa. Perché la paternità è pur sempre la prima caratteristica di Dio, e il padre terreno, col suo modo di porsi, di voler bene, di volere la crescita e la gioia del figlio, di farsi da parte per dargli spazio, è la prima immagine del Padre Dio Creatore per il figlio stesso. In quello stile relazionale nasce ogni cammino di fede, oppure s’interrompe o viene deformato per sempre. È un grande “mistero” che la qualità del rapporto con Dio dipenda in buona parte dalla qualità del rapporto originario col proprio genitore, ed è pure grande responsabilità per ogni padre e figlio! Per questo il papà è necessario ancor oggi, come sempre. Ma occorre, forse ancor più che un tempo, che vi siano nello Stato e nella Chiesa cammini formativi alla vocazione paterna maschile, a cominciare dalla scuola primaria. La più bella che ci sia, che molti non sperimentano nella vita semplicemente perché non educati nella vocazione alla famiglia! Sappiamo che i due eroi principali descritti da Omero sono Achille nell’Iliade e Ulisse nell’Odissea. C’è però un terzo eroe che s’incontra nella scena del grande assedio alla città di Troia, ovvero Ettore. Luigi Zoja, psicoanalista junghiano, in un libro straordinario intitolato “Il gesto di Ettore” lo descrive come l’eroe più intimo, modesto, privo di quella “hybris” (arroganza) tipica sia di Achille sia in Ulisse. Ettore è contemporaneamente guerriero e padre. Lui non combatte per la gloria personale, per essere ricordato nei secoli come il più valoroso dei guerrieri. Ettore combatte per difendere la sua gente dall’assedio, dall’invasione greca. Ettore è un eroe che vive costantemente in relazione agli altri, agli affetti, alla sua cultura e fede. Qual è il gesto che consegna Ettore alla storia come un padre degno di essere pienamente imitato nei secoli futuri? Per capirlo si deve fare un passo indietro. Ettore, come sappiamo, uccide Patroclo che si era travestito da Achille. Achille decide di riprendere la battaglia dopo che si era ritirato perché adirato con Agamennone, deciso soprattutto a vendicare il suo amato cugino. Ettore sa molto bene che Achille è il più valoroso dei Achei, è un semidio, quasi invincibile (secondo il mito, la sua parte vulnerabile è il tallone). Ettore è consapevole che affrontando Achille morirà, eppure non si ritira, nonostante le preghiere delle donne che cercano di dissuaderlo. Prima fra tutte la moglie Andromaca che lo accosta piangendo e, prendendogli la mano, dice: “Infelice, proprio il tuo valore ti ucciderà. Non hai pietà del piccolo ancora in fasce, né di me, che sarò vedova tra poco, quando gli Achei tutti insieme, ti assaliranno…Ettore tu sei per me sposo e insieme padre, madre, fratello. Non fare un figlio orfano, me vedova”. Il conflitto di Ettore è tra essere padre e marito vicino ai suoi affetti oppure scendere nella battaglia, morire e rischiare di consegnare per sempre Troia agli Achei. Ma egli non ha alcun dubbio, i suoi principi e la sua etica lo spingono verso quello che dev’essere, verso i suoi valori di combattente. E infatti risponde ad Andromaca: “Lo so. So tutto questo. Ma avrei troppa vergogna dei troiani e delle troiane se non fossi in battaglia. Da sempre ho imparato a essere forte…Dette queste parole, Ettore tende le braccia al figlio che si spaventa perché il padre ha l’armatura e l’elmo sovrastato da un’imponente chioma. A questo punto madre e padre sorridono. Ettore si sfila l’elmo, lo pone a terra e può abbracciare il figlio…Formulando un augurio per il futuro, alza il figlio in alto con le braccia e con il pensiero”. Continua Zoja, “questo gesto sarà per tutti i tempi il marchio del padre. Ettore prega per il bambino, sfidando le leggi dell’epica in suo favore”. Qual è questa sfida, rivoluzionaria, di Ettore padre? La vera rivoluzione sta nell’augurio che pronuncia a favore del figlio: “Zeus e voi altri dei, rendete forte questo mio figlio. E che un giorno, vedendolo tornare dal campo di battaglia, qualcuno dica: È molto più forte del padre”. Ettore è “un padre che sfida la tradizione classica ma anche moderna, che vorrebbe il padre in competizione con il figlio, timoroso che il figlio lo superi nel tempo, un padre preso da se stesso, direi troppo spaventato dall’altro, figli compresi. Che vuole bene ai figli ma sempre all’interno di una strada ben segnata che lo vuole dominante. Ma Ettore – prosegue Zoja – prega gli dei perché accordino proprio il contrario: che suo figlio diventi più forte di lui. Oggi non è facile immaginare un padre altrettanto generoso. Le interpretazioni prevalenti vedono nei rapporti padre-figlio una costante presenza d’invidia e di gelosia”. Nel giorno della festa del papà, il 19 Marzo in Italia, il gesto di Ettore dà una speranza nuova, per noi tutti e per le generazioni future. Il gesto di Ettore è la storia dei padri, quando cioè è nata la figura paterna. Il titolo completo del libro di Zoja è “Il gesto di Ettore- Preistoria, storia, attualità e scomparsa del padre”. L’autore inizia il saggio raccontando la vita nelle comunità preistoriche. In quel periodo i padri non esistevano e gli uomini, rispondendo ai loro istinti primari, semplicemente si accoppiavano e vagabondavano in cerca di cibo. Erano le donne che si occupavano dei figli, come la natura aveva stabilito. Con lo svilupparsi della civiltà, l’uomo, pur restando sempre cacciatore, iniziò a fare ritorno al focolare domestico e perciò non fu più semplicemente maschio ma anche padre, capace di assumersi responsabilità nei confronti del figlio, e quindi di adottare il proprio figlio. Secondo Zoja ogni assunzione di paternità consiste nell’adozione del figlio da parte del maschio. Il racconto prosegue con un viaggio nella mitologia greca e il racconto di tre storie esemplari, quella di Ettore, Ulisse ed Enea, ognuno dei quali vive la propria paternità in modo diverso. Il titolo del libro si riferisce all’episodio raccontato da Omero nell’Iliade che rimarrà famoso fino ai giorni nostri e segnerà un punto di svolta nella storia dei padri. Nel libro “Il gesto di Ettore” Zoja si occupa del cambiamento del ruolo del padre durante la rivoluzione industriale. In quel contesto storico il padre cessa infatti di essere agricoltore o artigiano, il cui sapere viene poi tramandato ai figli, e diventa operaio, con le conseguenti difficoltà economiche a cui costringe la famiglia e i figli e allo stesso tempo cessando di essere portatore di sapere e conoscenze. Per lo psicoanalista Zoja è l’origine etimologica stessa di madre e padre che denota quanto questi due ruoli siano in realtà completamente opposti e complementari. La parola madre deriva dal latino ed è colei che prepara il figlio alla vita, grazie al suo corpo e sopportando il dolore. L’etimologia della parola padre, anch’essa derivante dal latino, è strettamente connessa a quella di pane e patrimonio: il padre è infatti colui che provvede alla sopravvivenza della famiglia e al suo sostentamento, in altre parole è il pane della famiglia. Con le due guerre mondiali e l’avvio dell‘età contemporanea la società europea occidentale è completamente cambiata e la figura del padre ne ha fortemente risentito. Donne e madri che lavorano, divorzi, battaglie femministe, pseudo famiglie “moderne” non più basate sul matrimonio ma sull’ideologia gender spalleggiata dall’alta finanza, hanno comportato lo sbandamento e smarrimento dei padri, portandoli spesso a diventare uomini incapaci di provvedere alla famiglia e di ricoprire il loro ruolo paterno. Si sono trasformati, parafrasando le parole di Zoja, in “mezzuomini” che non hanno scelto di adottare consapevolmente il proprio figlio. Luigi Zoja non fornisce ai padri consigli comportamentali, il suo libro si limita solo a percorrere la strada che nelle civiltà sulla Terra ha portato i padri fino ai giorni nostri per comprendere meglio le difficoltà del ruolo genitoriale oggi mercanteggiato dall’ideologia di oligarchi senza scrupoli che usano Internet, il cinema e la televisione per i loro interessi, sulla pelle dei piccoli. La prima definizione di Giuseppe, il futuro custode di Gesù, che s’incontra nel Vangelo di Matteo è “giusto”. Leggiamo in Matteo 1,16.18-21.24: “Giacobbe generò Giuseppe, lo sposo di Maria, dalla quale è nato Gesù, chiamato Cristo. Così fu generato Gesù Cristo: sua madre Maria, essendo promessa sposa di Giuseppe, prima che andassero a vivere insieme si trovò incinta per opera dello Spirito Santo. Giuseppe suo sposo, poiché era uomo giusto e non voleva accusarla pubblicamente, pensò di ripudiarla in segreto. Mentre però stava considerando queste cose, ecco, gli apparve in sogno un angelo del Signore e gli disse: «Giuseppe, figlio di Davide, non temere di prendere con te Maria, tua sposa. Infatti il bambino che è generato in lei viene dallo Spirito Santo; ella darà alla luce un figlio e tu lo chiamerai Gesù: egli infatti salverà il suo popolo dai suoi peccati». Quando si destò dal sonno, Giuseppe fece come gli aveva ordinato l’angelo del Signore”.
Il promesso sposo di Maria, davanti all’inesplicabile gravidanza della sua fidanzata, non pensa al proprio orgoglio o alla propria dignità ferita: pensa invece a salvarla dalla cattiveria della gente, a salvarla dalla lapidazione a cui poteva essere condannata. Non vuole ripudiarla pubblicamente, e pensa di licenziarla in segreto. Ma subito, in quella comprensibile angoscia, in quella sofferenza, l’amore di Dio arriva a sollevarlo, un Angelo viene a parlargli, ad ispirargli la scelta più giusta, che è sempre quella di non aver paura: “Non temere di prendere con te Maria, tua sposa, perché quel che è generato in lei viene dallo Spirito Santo. Essa partorirà un figlio e tu lo chiamerai Gesù” (Mt 1,20). Giuseppe è un uomo obbediente. Un Angelo accompagna Giuseppe nei momenti più difficili della sua vita, e l’atteggiamento di Giuseppe davanti alle parole del messaggero celeste è sempre di fiduciosa obbedienza: prende Maria come sua sposa e quando l’Angelo, dopo la nascita di Gesù, torna ad avvertirlo del pericolo della persecuzione di Erode, fugge di notte con la sua famiglia in Egitto, un paese straniero, dove deve ricominciare tutto daccapo, procurarsi nuovamente un lavoro (da Matteo, al capitolo 13, apprendiamo anche del suo mestiere d’artigiano, quando gli abitanti di Nazareth, scettici, si domandano: “Non è forse il figlio del carpentiere?”) riguadagnarsi la fiducia dei vicini. E quando l’Angelo torna ancora ad avvisarlo della morte di Erode e gli ingiunge di tornare nel paese d’Israele, prende con sé moglie e figlio e si rifugia in Galilea, a Nazareth, ancora su consiglio dell’Angelo, creatura celeste sempre centrale nei Vangeli e nella fede cristiana apostolica. È indubbio che Giuseppe abbia amato Gesù con tutta la tenerezza che un padre ha per il proprio figlio: tutto ciò che Giuseppe fa è per proteggere ed educare questo “misterioso” bambino del Cielo, obbediente e saggio, che gli è stato affidato. Educare Gesù nell’immensa sproporzione del compito di dire al Figlio di Dio ciò che è giusto e ciò che non lo è. Deve essere stato umanamente difficile, dopo averlo cercato angosciosamente per tre giorni, durante i quali, senza avvertire né lui né sua madre, Gesù era rimasto nel Tempio di Gerusalemme a discutere con i dottori della legge, sentir dire a quel ragazzino dodicenne: “Non sapevate che io devo occuparmi delle cose del Padre mio?”. Ma forse è lo smarrimento che ogni padre prova quando si accorge che i propri figli non gli appartengono, e che il loro destino è nelle mani di Dio. Giuseppe non appare in nessuno dei quattro vangeli durante la vita pubblica di Gesù né sul Calvario né al momento della Resurrezione. Se ne può dedurre perciò che sia morto prima che Gesù iniziasse la Sua predicazione. Secondo la tradizione, Giuseppe sarebbe morto avendo accanto a sé Maria e Gesù, e per questa ragione è invocato anche come protettore dei morenti, dal momento che tutti noi preghiamo di lasciare questa Terra avendo accanto Gesù e sua Madre. Un legame speciale lega i Vescovi di Roma degli ultimi cento anni alla figura di San Giuseppe. Lo “stile” dello sposo di Maria e custode silenzioso di Gesù, ha ispirato in vari modi il loro ministero petrino a seconda dell’epoca e dell’esperienza personale. La sua sagoma allungata nel sonno, accanto al tavolo dove studia e provvede ai bisogni della Chiesa universale, è lì a ricordargli che anche in un sogno può nascondersi la voce di Dio. Da una vita, Jorge Mario Bergoglio tiene nelle stanze in cui ha vissuto e lavorato la statuetta di San Giuseppe dormiente, icona meno popolare in Occidente rispetto all’America Latina. Anche adesso la statuetta spicca nel suo studio a Casa Santa Marta. Questa immagine, e la devozione di Papa Francesco verso ciò che essa rappresenta, ha goduto di un’improvvisa popolarità mondiale quando qualche anno fa il Papa stesso ne ha parlato durante l’Incontro mondiale delle famiglie di Manila. Una confidenza che ha rivelato una consumata fiducia nella forza mediatrice del padre putativo di Gesù e un’ammirazione per il ruolo e per lo stile che Giuseppe ha sempre incarnato: “Io amo molto San Giuseppe perché è un uomo forte e silenzioso. Sulla mia scrivania ho un’immagine di San Giuseppe mentre dorme e quando ho un problema o una difficoltà io scrivo un biglietto su un pezzo di carta e lo metto sotto la statua di San Giuseppe affinché lui possa sognarlo. Questo gesto significa: prega per questo problema!” (Incontro con le famiglie a Manila, 16 Gennaio 2015). Dopo Pietro, molti Giovanni, Benedetto, Paolo, Gregorio ma nessun “Papa Giuseppe”, finora! L’anagrafe dei Pontificati non registra Vescovi di Roma con questo nome. Tanti di loro però, specie nell’ultimo secolo, lo hanno avuto come nome di Battesimo, quasi che l’uomo chiamato a custodire Gesù fosse un viatico per gli uomini chiamati a custodirne la Sua Chiesa. A inizio Novecento diventa Pio X Giuseppe Melchiorre Sarto e più tardi salgono al Soglio petrino Angelo Giuseppe Roncalli, Karol Józef Wojtyla e Joseph Ratzinger. Francesco non fa di nome Giuseppe ma celebra, grato, la sua Messa di inizio ministero il 19 Marzo 2013, che è poi il giorno dell’onomastico di chi lo ha preceduto. Richiami, o meglio “ricami” di una trama divina che offre una chiave di lettura discreta come il modello che la ispira. Arduo sarebbe ricordare le tappe che hanno portato la Chiesa Cattolica Apostolica a stabilire il culto di San Giuseppe, da Sisto V che alla fine del XV Secolo ne fissa la festa al 19 Marzo all’ultima decisione di Papa Francesco che, confermando la volontà di Benedetto XVI, il Primo Maggio 2013 decreta l’aggiunta del nome di San Giuseppe, Sposo della Beata Vergine Maria, nelle Preghiere eucaristiche II, III e IV (in precedenza, il 13 Novembre 1962, era stato Giovanni XXIII a stabilirne l’inserimento nell’antico Canone romano della Messa, accanto al nome di Maria e prima di quello degli Apostoli). Proprio Papa Roncalli, volendo affidare al “papà” putativo terreno di Gesù il Concilio Vaticano II, scrive nel 1961 la Lettera apostolica Le Voci, nella quale fa una sorta di sommario della devozione per San Giuseppe nutrita da suoi predecessori. Non sono grigie operazioni di “burocrazia” liturgica. Dietro ogni nuovo decreto si coglie un sentimento e una consapevolezza ecclesiale sempre più radicati che per esempio, come accade con Pio XII, possono arrivare a incidere anche nella vita civile. Il Primo Maggio 1955 è Domenica e una folla di lavoratori riempie Piazza San Pietro. Sono iscritti alle Acli e tanti di loro ricordano l’incontro con Pio XII di dieci anni prima, avvenuto il 13 Marzo del 1945, un mese e mezzo prima della fine di una guerra che ha lacerato profondamente l’Italia. Adesso c’è un Paese che cresce impetuosamente, il “boom” non è lontano, ma tra le fila dei cattolici italiani Papa Pacelli riconosce i “delusi”, quelli che lamentano una scarsa incisività della presenza cristiana “nella vita pubblica”, mentre l’ideologia laicista liberale e socialista sembrano farla da padrone. Pio XII imbastisce un discorso energico, richiama le Acli alla loro identità perché si impegnino per la “pace sociale” e alla fine, quasi come un colpo di scena, il “regalo” che sorprende ed entusiasma: “Affinché vi sia presente questo significato (…) amiamo di annunziarvi la Nostra determinazione d’istituire, come di fatto istituiamo, la festa liturgica di S. Giuseppe artigiano, assegnando ad essa precisamente il giorno 1° maggio. Gradite, diletti lavoratori e lavoratrici, questo Nostro dono? Siamo certi che sì, perché l’umile artigiano di Nazareth non solo impersona presso Dio e la S. Chiesa la dignità del lavoratore del braccio, ma è anche sempre il provvido custode vostro e delle vostre famiglie”. Quattro anni più tardi la Chiesa è guidata da un uomo che avrebbe voluto chiamarsi “Papa Giuseppe”. Vi rinuncia perché, dice, “ciò non è d’uso tra i Papi”, ma la spiegazione tradisce la nostalgia e svela il forte attaccamento a San Giuseppe di Giovanni XXIII. L’occasione è l’incontro che il 19 Marzo del 1959 Papa Roncalli fa con un gruppo di addetti alla nettezza urbana. L’anno successivo, in un radiomessaggio del Primo Maggio 1960, il “Papa buono” conclude intonando una preghiera a S. Giuseppe lavoratore: “Fa’ che anche i tuoi protetti comprendano di non essere soli nel loro lavoro, ma sappiano scoprire Gesù accanto a sé, accoglierlo con la grazia, custodirlo fedelmente, come Tu hai fatto. E ottieni che in ogni famiglia, in ogni officina, in ogni laboratorio, ovunque un cristiano lavora, tutto sia santificato nella carità, nella pazienza, nella giustizia, nella ricerca del ben fare, affinché abbondanti discendano i doni della celeste predilezione”. Anche Paolo VI non fa di nome Giuseppe, ma dal 1963 al 1969 in particolare non c’è anno in cui non celebri una Messa nella solennità del 19 Marzo. Ogni omelia diventa così tassello di un ritratto personale in cui Papa Montini si mostra affascinato dalla “completa, sommessa dedizione” di Giuseppe alla sua missione, dall’uomo “forse timido” ma dotato “di una grandezza sovrumana che incanta”. E che non lo fa arretrare nonostante accettare una sposa come Maria e un figlio come Gesù significhi essere un alieno tra gli uomini del suo tempo. Dice in una considerazione del 1969: “Un uomo perciò, S. Giuseppe, impegnato, come ora si dice, per Maria, l’eletta fra tutte le donne della terra e della storia, sempre sua vergine sposa, non già fisicamente sua moglie, e per Gesù, in virtù di discendenza legale, non naturale, sua prole. A lui i pesi, le responsabilità, i rischi, gli affanni della piccola e singolare sacra famiglia. A lui il servizio, a lui il lavoro, a lui il sacrificio, nella penombra del quadro evangelico, nel quale ci piace contemplarlo, e certo, non a torto, ora che noi tutto conosciamo, chiamarlo felice, beato. È Vangelo questo. In esso i valori dell’umana esistenza assumono diversa misura da quella con cui siamo soliti apprezzarli: qui ciò ch’è piccolo diventa grande”. In 26 anni di pontificato Giovanni Paolo II ha una infinità di occasioni per parlare di San Giuseppe che, racconterà, prega intensamente ogni giorno. Questa devozione si riassume nel documento che gli dedica il 15 Agosto 1989, giorno di pubblicazione dell’Esortazione apostolica Redemptoris Custos, scritta 100 anni dopo la Quamquam Pluries di Leone XIII. Nel documento Papa Wojtyla scandaglia la vita di Giuseppe in ogni suo atto e sensibile com’è agli aspetti del matrimonio cristiano offre una profonda lettura del rapporto tra i due sposi di Nazareth. Ovvero della “grazia di vivere insieme il carisma della verginità e il dono del matrimonio”, che riprende in un’udienza generale del 1996 rovesciando peraltro un falso mito: “La difficoltà di accostarsi al mistero sublime della loro comunione sponsale ha indotto alcuni, sin dal II Secolo, ad attribuire a Giuseppe un’età avanzata e a considerarlo il custode, più che lo sposo di Maria. È il caso di supporre, invece, che egli non fosse allora un uomo anziano, ma che la sua perfezione interiore, frutto della grazia, lo portasse a vivere con affetto verginale la relazione sponsale con Maria”. Dell’uomo che Matteo nel Vangelo chiama “giusto”, il Patrono della Chiesa universale, dei lavoratori e di un’infinità di città e luoghi non si conoscono parole ma solo silenzi. Che dunque vanno compresi come fossero parole e pensieri. In quest’apparente assenza si addentra anche Papa Benedetto XVI e ne estrae la ricchezza di una vita completa, di un uomo-sfondo che,sostiene in un Angelus del 2005, con il suo esempio senza proclami inciderà sulla crescita di Gesù l’uomo-Dio: “Un silenzio grazie al quale Giuseppe, all’unisono con Maria, custodisce la Parola di Dio (…) un silenzio intessuto di preghiera costante, preghiera di benedizione del Signore, di adorazione della sua santa volontà e di affidamento senza riserve alla sua provvidenza. Non si esagera se si pensa che proprio dal “padre” Giuseppe Gesù abbia appreso – sul piano umano – quella robusta interiorità che è presupposto dell’autentica giustizia, la “giustizia superiore”, che Egli un giorno insegnerà ai suoi discepoli”. Dalla piccola “parrocchia” di Santa Marta, Papa Francesco ha riflettuto a lungo sul Santo al quale affida ogni preoccupazione. “L’uomo che custodisce, l’uomo che fa crescere, l’uomo che porta avanti ogni paternità e ogni mistero, ma non prende nulla per sé”, ha elencato in una delle Messe del mattino. In definitiva, sottolinea il 20 Marzo 2017, Giuseppe è l’uomo che agisce anche quando dorme perché sogna quello che Dio vuole. E dunque: “Io oggi vorrei chiedere, ci dia a tutti noi la capacità di sognare perché quando sogniamo le cose grandi, le cose belle, ci avviciniamo al sogno di Dio, le cose che Dio sogna su di noi. Che ai giovani dia – perché lui era giovane – la capacità di sognare, di rischiare e prendere i compiti difficili che hanno visto nei sogni. E ci dia a tutti noi la fedeltà che generalmente cresce in un atteggiamento giusto, lui era giusto, cresce nel silenzio – poche parole – e cresce nella tenerezza che è capace di custodire le proprie debolezze e quelle degli altri”. Cinque anni fa, nella Solennità di San Giuseppe, Papa Francesco celebra la Messa di inizio del ministero petrino. Una data, quella del 19 Marzo, scelta non a caso dal Vescovo di Roma che, nello sposo della Vergine Maria, ha sempre visto la fortezza e la sapienza di Dio. In tre momenti diversi, sono tre le riflessioni di Francesco su San Giuseppe: il Santo a cui il Papa è particolarmente devoto. Nella prima, Papa Bergoglio insegna: “Giuseppe è custode, perché sa ascoltare Dio, si lascia guidare dalla sua volontà, e proprio per questo è ancora più sensibile alle persone che gli sono affidate, sa leggere con realismo gli avvenimenti, è attento a ciò che lo circonda, e sa prendere le decisioni più sagge. In lui cari amici, vediamo come si risponde alla vocazione di Dio, con disponibilità, con prontezza”. Alle famiglie, nella Mall of Asia Arena il 16 Gennaio 2015, Francesco rivela: “Io amo molto San Giuseppe perché è un uomo forte e silenzioso. Sulla mia scrivania ho un’immagine di San Giuseppe mentre dorme e quando ho un problema o una difficoltà io scrivo un biglietto su un pezzo di carta e lo metto sotto la statua di San Giuseppe affinchè lui possa sognarlo. Ora consideriamo il secondo aspetto: “alzarsi con Gesù e Maria”. Questi preziosi momenti di riposo, di pausa con il Signore in preghiera, sono momenti che vorremmo forse poter prolungare. Ma come san Giuseppe, una volta ascoltata la voce di Dio, dobbiamo riscuoterci dal nostro sonno; dobbiamo alzarci e agire come famiglie (Rm 13,11). La fede non ci toglie dal mondo, ma ci inserisce più profondamente in esso”. Nell’omelia mattutina alla Casa Santa Marta, il 20 Marzo 2017, il Papa osserva: “Io oggi vorrei chiedere, ci dia a tutti noi la capacità di sognare perché quando sogniamo le cose grandi, le cose belle, ci avviciniamo al sogno di Dio, le cose che Dio sogna su di noi. Che ai giovani dia – perché lui era giovane – la capacità di sognare, di rischiare e prendere i compiti difficili che hanno visto nei sogni. E ci dia a tutti noi la fedeltà che generalmente cresce in un atteggiamento giusto, lui era giusto, cresce nel silenzio – poche parole – e cresce nella tenerezza che è capace di custodire le proprie debolezze e quelle degli altri”. Nel Decreto per la menzione del nome di San Giuseppe nelle Preghiere eucaristiche II, III, IV del Messale Romano, della Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti, si legge: “Mediante la cura paterna di Gesù, San Giuseppe di Nazareth, posto a capo della Famiglia del Signore, adempì copiosamente la missione ricevuta dalla grazia nell’economia della salvezza e, aderendo pienamente agli inizi dei misteri dell’umana salvezza, è divenuto modello esemplare di quella generosa umiltà che il cristianesimo solleva a grandi destini e testimone di quelle virtù comuni, umane e semplici, necessarie perché gli uomini siano onesti e autentici seguaci di Cristo. Per mezzo di esse quel Giusto, che si è preso amorevole cura della Madre di Dio e si è dedicato con gioioso impegno all’educazione di Gesù Cristo, è divenuto il custode dei più preziosi tesori di Dio Padre ed è stato incessantemente venerato nei secoli dal popolo di Dio quale sostegno di quel corpo mistico che è la Chiesa. Nella Chiesa cattolica i fedeli hanno sempre manifestato ininterrotta devozione per San Giuseppe e ne hanno onorato solennemente e costantemente la memoria di Sposo castissimo della Madre di Dio e Patrono celeste di tutta la Chiesa, al punto che già il Beato Giovanni XXIII, durante il Sacro Santo Concilio Ecumenico Vaticano II, decretò che ne fosse aggiunto il nome nell’antichissimo Canone Romano. Il Sommo Pontefice Benedetto XVI ha voluto accogliere e benevolmente approvare i devotissimi auspici giunti per iscritto da molteplici luoghi, che ora il Sommo Pontefice Francesco ha confermato, considerando la pienezza della comunione dei Santi che, un tempo pellegrini insieme a noi nel mondo, ci conducono a Cristo e a lui ci uniscono. Pertanto, tenuto conto di ciò, questa Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti, in virtù delle facoltà concesse dal Sommo Pontefice Francesco, di buon grado decreta che il nome di San Giuseppe, Sposo della Beata Vergine Maria, sia d’ora in avanti aggiunto nelle Preghiere eucaristiche II, III e IV della terza edizione tipica del Messale Romano, apposto dopo il nome della Beata Vergine Maria come segue: nella Preghiera eucaristica II: « ut cum beata Dei Genetrice Virgine Maria, beato Ioseph, eius Sponso, beatis Apostolis »; nella Preghiera eucaristica III: « cum beatissima Virgine, Dei Genetrice, Maria, cum beato Ioseph, eius Sponso, cum beatis Apostolis »; nella Preghiera eucaristica IV: « cum beata Virgine, Dei Genetrice, Maria, cum beato Ioseph, eius Sponso, cum Apostolis ». Quanto ai testi redatti in lingua latina, si utilizzino le formule che da ora sono dichiarate tipiche. La Congregazione stessa si occuperà in seguito di provvedere alle traduzioni nelle lingue occidentali di maggior diffusione; quelle da redigere nelle altre lingue dovranno essere preparate, a norma del diritto, dalla relativa Conferenza dei Vescovi e confermate dalla Sede Apostolica tramite questo Dicastero. Nonostante qualsiasi cosa in contrario”. Nella Lettera Apostolica Le Voci di Giovanni XXIII, il 19 Marzo 1961, anno terzo di Pontificato, si legge: “Venerabili Fratelli e diletti figli! Le voci che da tutti i punti della terra arrivano sino a Noi, in espressione di lieta attesa e di voti per il felice successo del Concilio Ecumenico Vaticano II, sollecitano ognor più il Nostro spirito a trar profitto dalla buona disposizione di tanti cuori semplici e sinceri, rivolti con amabile spontaneità ad implorazione di aiuto celeste, ad aumento di fervore religioso, a chiarezza di direzione pratica per tutto ciò che la celebrazione conciliare suppone e ci promette di incremento della vita intima e sociale della Chiesa, e di rinnovamento spirituale del mondo intero. Ed ecco farcisi incontro, apparizione della nuova primavera di quest’anno, e sui margini della sacra Liturgia Pasquale, la figura mite ed amabile di S. Giuseppe, lo sposo augusto di Maria, tanto caro alle intimità delle anime più sensibili alle attrazioni dell’ascetica cristiana, e delle sue espressioni di pietà religiosa, contenute e modeste, ma tanto più gustate e soavi. Nel culto della Santa Chiesa, Gesù, Verbo di Dio fatto uomo, ebbe subito la sua adorazione incomunicabile come splendore della sostanza del Padre suo, irradiantesi nella gloria dei Santi. Maria, la genitrice sua, gli corse dappresso sino dai primi secoli, nelle figurazioni delle catacombe e delle basiliche, piamente venerata: sancta Maria mater Dei. Giuseppe, invece, oltre qualche sprazzo della sua figura ricorrente qua e là negli scritti dei Padri, rimane per secoli e secoli in un suo nascondimento caratteristico, quasi come figura di ornamento nel quadro della vita del Salvatore. E ci volle del tempo prima che il suo culto penetrasse dagli occhi nel cuore dei fedeli, e ne traesse elevazioni speciali di preghiera e di fiducioso abbandono. Queste furono le gioie fervorose riservate alle effusioni dell’età moderna: oh! quanto copiose ed imponenti; e di queste Ci è particolarmente gradito cogliere subito un rilievo ben caratteristico e significativo. Tra i diversi postulata che i Padri del Concilio Vaticano I al loro riunirsi in Roma presentarono a Pio IX, i due primi riguardavano S. Giuseppe. Innanzi tutto si chiedeva che il suo culto prendesse un posto più elevato nella sacra Liturgia: recava la firma di 153 Vescovi. L’altro, sottoscritto da 43 Superiori Generali di Ordini Religiosi, supplicava per la proclamazione solenne di S. Giuseppe a Patrono della Chiesa universale. Pio IX accolse con letizia l’uno e l’altro voto. Dagli inizi del suo pontificato egli aveva fissato la festa e la liturgia per il patrocinio di S. Giuseppe la domenica III dopo Pasqua. Già dal 1854, in una vibrante e devota allocuzione, aveva indicato in S. Giuseppe la più sicura speranza della Chiesa dopo la Santa Vergine: e l’8 dicembre 1870, a Concilio Vaticano sospeso dagli avvenimenti politici, colse la felice coincidenza della festa della Immacolata per la proclamazione più solenne ed ufficiale di S. Giuseppe a Patrono della Chiesa universale e per la elevazione della festa del 19 marzo a celebrazione liturgica di rito doppio di prima classe. Fu quello — dell’8 dicembre 1870 — un breve ma grazioso e mirabile Decreto « Urbi et Orbi » veramente degno dell’Ad perpetuam rei memoriam, che apri una vena di ricchissime e preziose ispirazioni ai Successori del nono Pio. Ecco infatti l’immortale Leone XIII uscirsene per la festa dell’Assunta del 1889 con la Lettera « Quamquam pluries », il documento più ampio e copioso che un Papa abbia mai pubblicato ad onore del padre putativo di Gesù, elevato nella sua luce caratteristica di modello dei padri di famiglia e dei lavoratori . È di là che si iniziò la bella preghiera: «A te, O Beato Giuseppe », che di tanta soavità soffuse la Nostra fanciullezza. Il Santo Pontefice Pio X aggiunse a quelle di papa Leone espressioni molteplici di devozione e di amore per S. Giuseppe, accogliendo di buon grado la dedica fatta a lui di un trattato che ne illustra il culto; moltiplicando il tesoro delle Indulgenze sopra la recita delle Litanie, così care e così placide a dirsi. Come suonano bene le parole per questa concessione! Sanctissimus Dominus Noster Pius Papa X inclytum patriarcham S. Joseph, divim Redemptoris patrem putativum, Deiparae Virginis sponsum purissimum et catholicae Ecclesiae potentem apud Deum Patronum, — e, vedete finezza di sentimento personale — cuius glorioso nomine a nativitate decoratur, peculiari atque constante religione ac pie tate complectitur . E le altre con cui fece annunziare il perché di nuovi favori concessi: ad augendum cultum erga S. Joseph, Ecclesiae universalis Patronum . Allo scoppiare della prima grande guerra Europea, mentre gli occhi di S. Pio X si socchiusero alla vita di quaggiù, ecco levarsi provvidenzialmente papa Benedetto XV ed attraversare quale astro benefico di universale consolazione gli anni dolorosi dal 1914 al 1918. Anch’egli tenne ben presto a promuovere il culto del Santo Patriarca. E a lui infatti che si deve la introduzione di due nuovi prefazi al Canone della Messa: quello appunto di S. Giuseppe e quello della Messa dei morti, associando l’uno e l’altro felicemente in due decreti dello stesso giorno, 9 aprile 1919, come a richiamo di una concomitanza e fusione di dolore e di conforto tra le due famiglie: quella celeste di Nazaret, di cui S. Giuseppe era il capo legale, e l’immensa famiglia umana afflitta da universale costernazione per le innumerevoli vittime della guerra devastatrice. Che mesto, ma insieme soave e felice accostamento: S. Giuseppe da una parte, e dall’altra il signifer sanctus Michaël: ambedue in atto di presentare le anime dei defunti al Signore in lucem sanctam. Nell’anno successivo — 25 luglio 1920 — papa Benedetto tornava in argomento nel cinquantenario allora in preparazione della proclamazione — già compiuta da Pio IX — di S. Giuseppe a Patrono della Chiesa universale: e vi ritornava in luce di teologica dottrina col Motu proprio Bonum sane, tutto spirante tenerezza e singolare fiducia. Oh! che bel riaccendersi della figura mite e benigna del Santo, fatto invocare dal popolo cristiano a protezione della Chiesa militante, nell’atto stesso del riaprirsi delle sue migliori energie a spirituale e anche a materiale ricostruzione, dopo tante calamita: e a conforto di tanti milioni di vittime umane, trattenute al valico dell’agonia, e per le quali papa Benedetto volle impegnare presso i Vescovi, e le molte associazioni pie sparse nel mondo, il supplice intervento della preghiera a S. Giuseppe, patrono dei morenti. Sulle stesse tracce di raccomandata fervorosa devozione al Santo Patriarca, i due ultimi Pontefici — l’undecimo e il duodecimo Pio — ambedue di sempre cara e venerata memoria — si succedettero in viva ed edificante fedeltà di richiamo, di esortazione, di elevazione. Per quattro volte almeno Pio XI in solenni allocuzioni di vario riferimento ad illustrazione di nuovi Santi e sovente nelle annuali ricorrenze del 19 marzo — così nel 1928, e poi nel 1935, ed ancora nel 1937 — colse l’occasione di esaltare le varie luci di cui si adorna la fisionomia spirituale del Custode di Gesù, dello Sposo castissimo di Maria, del pio e modesto operaio di Nazaret, e del Patrono della Chiesa universale, egida potente di difesa contro gli sforzi dell’ateismo mondiale, inteso al dissolvimento delle nazioni cristiane. Pio XII colse egualmente dal suo antecessore la nota maestra nello stesso tono, lui pure in numerose allocuzioni, sempre cosi belle, vibranti e felici. Come quando il 10 aprile del 1940 invitava i giovani sposi a porsi sotto il sicuro e soave manto dello Sposo di Maria: e nel 1945 chiamava gli ascritti alle Associazioni Cristiane dei Lavoratori ad onorarlo come alto esempio, e come invitta difesa delle loro schiere: e dieci anni dopo, nel 1955, annunciava la istituzione della festa annuale di S. Giuseppe artigiano. Di fatto questa festa di istituzione recentissima, fissata al 1° maggio, viene a sopprimere quella del mercoledì della seconda settimana dopo l’ottava di Pasqua, mentre la festa tradizionale del 19 marzo segnerà d’oggimai la data più solenne e definitiva del Patrocinio di S. Giuseppe sopra la Chiesa universale. Lo stesso Santo Padre Pio XII si compiacque ornare come di preziosissima corona il petto di S. Giuseppe di una fervida preghiera proposta alla devozione dei sacerdoti e fedeli di tutto il mondo, arricchendone la recita di Indulgenze copiose. Una preghiera a carattere eminentemente professionale e sociale, come si addice a quanti sono soggetti alla legge del lavoro, che e per tutti «legge di onore, di vita pacifica e santa, preludio della felicita immortale ». Fra l’altro vi si dice: Siate con noi, o S. Giuseppe, nei nostri momenti di prosperità, quando tutto ci invita a gustare onestamente i frutti della nostra fatica; ma siate con noi soprattutto e sosteneteci nelle ore della tristezza, quando sembra che il cielo voglia chiudersi sopra di noi e che per sino gli strumenti del nostro lavoro debbano sfuggire dalle nostre mani. Venerabili Fratelli e diletti figli: questi richiami di storia e di pietà religiosa è parso anche a Noi opportuno proporre alla attenzione devota delle vostre anime, educate alla finezza del sentire e del vivere cristiano e cattolico, giusto in questa ricorrenza del 19 marzo, in cui la festa di S. Giuseppe coincide coll’inizio del tempo di Passione, e ci prepara ad una intensa familiarità coi misteri più commoventi e salutari della sacra liturgia. Le disposizioni che impongono il velo sopra le immagini di Gesù Crocifisso, di Maria e dei Santi durante le due settimane che preparano la Pasqua, sono un invito ad un raccoglimento intimo e sacro circa le comunicazioni col Signore attraverso la preghiera, che deve essere meditazione e supplicazione frequente e viva. Il Signore, la Vergine benedetta e i Santi sono in attesa delle nostre confidenze: e queste è ben naturale che si volgano su ciò che meglio corrisponde alle sollecitudini della Chiesa cattolica universale. Al centro e al posto preminente di queste sollecitudini sta senza dubbio il Concilio Ecumenico Vaticano, la cui aspettazione è ormai nei cuori di quanti credono in Gesù Redentore, appartengano essi alla Chiesa Cattolica nostra Madre, o ad alcune delle varie confessioni da essa separate, e pur ansiose da parte di molti di un ritorno di unità e di pace, secondo l’insegnamento e la preghiera di Cristo al Padre Celeste. È ben naturale che questo richiamo alla voce dei Papi dell’ultimo secolo sia tutto inteso a suscitare la cooperazione del mondo cattolico al buon successo del grande disegno di ordine, di elevazione spirituale e di pace a cui un Concilio Ecumenico è chiamato. Tutto è grande e degno di rilievo nella Chiesa, quale Gesù l’ha costituita. Nella celebrazione di un Concilio convengono attorno ai Padri le personalità più distinte del mondo ecclesiastico e ricche di doni eccelsi di dottrina teologica e giuridica, di capacità organizzativa, di alto spirito apostolico. Questo è il Concilio: il Papa al vertice, intorno a lui e con lui Cardinali, Vescovi di ogni rito e di ogni paese, dottori e maestri competentissimi nelle varie gradazioni e loro specializzazioni. Ma il Concilio è fatto per tutto il popolo cristiano che vi è interessato per quella circolazione più perfetta di grazia, di vitalità cristiana, che renda più facile e spedito l’acquisto dei beni veramente preziosi della vita presente, e assicuri le ricchezze dei secoli eterni. Tutti quindi sono interessati al Concilio, ecclesiastici e laici, grandi e piccoli di ogni parte del mondo, di ogni classe, di ogni stirpe, di ogni colore: e se un protettore celeste è indicato ad impetrare dall’alto, nella sua preparazione e nel suo svolgimento, quellavirtus divina, per cui esso sembra destinato a segnare un’epoca nella storia della Chiesa contemporanea, a nessuno dei Celesti meglio può essere affidato che a S. Giuseppe, capo augusto della Famiglia di Nazaret, e protettore della Santa Chiesa. Riascoltando in eco le voci dei Papi di questo ultimo secolo di storia nostra, come Ci accadde, ancora Ci toccano il cuore gli accenti caratteristici di Pio XI, anche per quel suo modo meditato e calmo di esprimersi. Esse ci vengono all’orecchio giusto da un discorso pronunciato il 19 marzo 1928, in un accenno che egli non seppe, non volle tacere ad onore di S. Giuseppe, come amava salutarlo, S. Giuseppe caro e benedetto. « È suggestivo, egli diceva, l’osservare da vicino e quasi veder brillare l’una accanto all’altra due magnifiche figure che si accompagnano agli inizi della Chiesa: innanzitutto quella di S. Giovanni Battista, che si affaccia dal deserto, talora con voce tonante, e talvolta con mite dolcezza: talora come il leone che rugge e tal altra come l’amico che gode della gloria dello sposo, e offre in faccia al mondo il fasto meraviglioso del suo martirio. Poi la figura robustissima di Pietro che ascolta dal Maestro Divino le magnifiche parole: “andate e predicate a tutto il mondo”: e per lui personalmente: “tu sei Pietro, e sopra questa pietra io edificherò la mia Chiesa”. Missione grande, divinamente fastosa e clamorosa ». Così diceva Pio XI. E poi proseguiva, oh! come felicemente: « Fra questi grandi personaggi, tra queste due missioni, ecco apparire la persona e la missione di S. Giuseppe, che passa invece raccolta, tacita, quasi inavvertita e sconosciuta nella umiltà, nel silenzio, un silenzio che non doveva illuminarsi se non più tardi, un silenzio a cui doveva ben succedere, e veramente alto, il grido, la voce, la gloria nei secoli ». Oh! la invocazione, oh! il culto di S. Giuseppe a protezione del Concilio Ecumenico Vaticano II. Venerabili Fratelli e figliuoli di Roma, Fratelli e figliuoli diletti di tutto il mondo: è a questo punto che Noi desideravamo di condurvi, inviandovi questa Lettera apostolica giusto nel giorno 19 marzo, in cui nella celebrazione di S. Giuseppe, Patrono della Chiesa universale, poteva venire alle vostre anime l’eccitamento ad una ripresa straordinaria di fervore, per una partecipazione orante più viva, ardente e continuata alle sollecitudini della Santa Chiesa, maestra e madre, docente e dirigente di questo straordinario avvenimento del Concilio Ecumenico XXI, e Vaticano II, di cui tutta la pubblica stampa mondiale si occupa con interessamento vivo, e con attenzione rispettosa. Vi è ben noto che una prima fase della organizzazione del Concilio è in attività tranquilla, operosa e consolante. A cento e cento, prelati ed ecclesiastici distintissimi, convenuti da tutte le regioni del mondo, qui si succedono nell’Urbe, distribuiti in varie e ben ordinate sezioni, impegnate ciascuna al proprio nobile lavoro, sulle tracce di preziose indicazioni contenute in una serie di imponenti volumi, recanti il pensiero, l’esperienza, i suggerimenti raccolti dalla intelligenza, dalla saggezza, dal vibrante fervore apostolico di ciò che costituisce la vera ricchezza della Chiesa Cattolica del passato, del presente e dell’avvenire. Il Concilio Ecumenico non domanda per il suo compimento, e per il suo successo, che luce di verità e di grazia, disciplina di studio e di silenzio, pace serena di menti e di cuori. Questo dalla parte nostra umana. Dall’alto è l’aiuto celeste che il popolo cristiano deve invocare con una cooperazione viva di preghiera, con uno sforzo di vita esemplare, che anticipi e sia saggio della disposizione ben decisa da parte di ciascuno dei fedeli ad applicare poi gli insegnamenti e gli indirizzi, che verranno proclamati nella conclusione auspicatissima del grande avvenimento, che ora è già in corso promettente e felice. Venerabili Fratelli e diletti figliuoli. Il luminoso pensiero di papa Pio XI del 19 marzo 1928 ci persegue ancora. Qui da Roma la Cattedrale sacrosanta del Laterano splende sempre nella gloria del Battista. Ma nel tempio massimo di S. Pietro, dove si venerano ricordi preziosi di tutta la Cristianità, c’è pure un altare per S. Giuseppe: e Noi intendiamo, e Ce lo proponiamo in data di oggi 19 marzo 1961, che l’altare di S. Giuseppe si rivesta di splendore novello, più ampio e più solenne: e divenga punto di attrazione e di pietà religiosa per singole anime, per folle innumeri. È sotto queste volte celestiali del tempio Vaticano che si raccoglieranno intorno al Capo della Chiesa le schiere dei componenti il Collegio Apostolico convenute da tutti i punti, anche più distanti dell’Orbe, per il Concilio Ecumenico. O S. Giuseppe! Qui, qui è il tuo posto di Protector universalis Ecclesiae. Ti abbiamo voluto porgere attraverso le voci e i documenti dei Nostri immediati antecessori dell’ultimo secolo — da Pio IX a Pio XII — un serto di onore, in eco alle testimonianze di affettuosa venerazione, che ormai si sollevano da tutte le nazioni cattoliche e da tutte le regioni missionarie. Siici sempre protettore. Che il tuo spirito interiore di pace, di silenzio, di buon lavoro e di preghiera, a servizio della Santa Chiesa, ci vivifichi sempre e ci allieti in unione con la tua Sposa benedetta, la dolcissima e Immacolata Madre nostra, in amore fortissimo e soave di Gesù, il re glorioso ed immortale dei secoli e dei popoli. Cosi sia”. Papa Pio XII, nel suo discorso in occasione della solennità di San Giuseppe Artigiano, in piazza San Pietro Domenica 1° Maggio 1955, dichiara: “Poco più di dieci anni or sono, l’11 marzo 1945, in un momento delicato della storia della Nazione italiana, e specialmente della classe lavoratrice, Noi ricevemmo per la prima volta in Udienza le Acli. Sappiamo, diletti figli e figlie, che voi tenete in grande onore quel giorno, in cui aveste il pubblico riconoscimento della Chiesa, la quale, nel lungo corso della sua storia, è sempre stata premurosa di corrispondere alle necessità dei tempi, ispirando ai fedeli il pensiero e il proposito di unirsi in particolari Associazioni a tale scopo. Così le Acli entrarono in scena, con l’approvazione e la benedizione del Vicario di Cristo. Fin dalle origini Noi mettemmo le vostre Associazioni sotto il potente patrocinio di S. Giuseppe. Non vi potrebbe essere infatti miglior protettore per aiutarvi a far penetrare nella vostra vita lo spirito del Vangelo. Come invero allora dicemmo (Discorsi e Radiomessaggi, vol. VII, pag. 10), dal Cuore dell’Uomo-Dio, Salvatore del mondo, questo spirito affluisce in voi e in tutti gli uomini; ma è pur certo che nessun lavoratore ne fu mai tanto perfettamente e profondamente penetrato quanto il Padre putativo di Gesù, che visse con Lui nella più stretta intimità e comunanza di famiglia e di lavoro. Così, se voi volete essere vicini a Cristo, Noi anche oggi vi ripetiamo « Ite ad Ioseph »: Andate da Giuseppe! (Gen. 41,55). Le Acli dunque debbono far sentire la presenza di Cristo ai loro propri membri, alle loro famiglie e a tutti quelli che vivono nel mondo del lavoro. Non vogliate mai dimenticare che la vostra prima cura è di conservare e di accrescere la vita cristiana nel lavoratore. A tal fine non basta che soddisfacciate e esortiate a soddisfare gli obblighi religiosi; occorre anche che approfondiate la vostra conoscenza della dottrina della fede, e che comprendiate sempre meglio ciò che importa l’ordine morale del mondo, stabilito da Dio, insegnato e interpretato dalla Chiesa, in ciò che concerne i diritti e i doveri del lavoratore di oggi. Noi quindi benediciamo questi vostri sforzi, e specialmente i corsi e le lezioni che opportunamente organizzate, non meno che i sacerdoti e i laici che vi prestano l’opera loro come insegnanti. Non si farà mai abbastanza in questo campo; tanto grande è il bisogno di una formazione metodica, attraente e sempre adattata alle circostanze locali. Si eviti con ogni premura che il felice esito del lavoro generoso, speso per stabilire ed estendere il regno di Dio, venga intralciato o fatto naufragare col cedere ad ambizioni personali o a rivalità di gruppi particolari. Sappiano le Acli che avranno sempre il Nostro appoggio, finchè si atterranno a queste norme e daranno alle altre organizzazioni l’esempio di uno zelo disinteressato nel servizio della causa cattolica. Da lungo tempo pur troppo il nemico di Cristo semina zizzania nel popolo italiano, senza incontrare sempre e dappertutto una sufficiente resistenza da parte dei cattolici. Specialmente nel ceto dei lavoratori esso ha fatto e fa di tutto per diffondere false idee sull’uomo e il mondo, sulla storia, sulla struttura della società e della economia. Non è raro il caso in cui l’operaio cattolico, per mancanza di una solida formazione religiosa, si trova disarmato, quando gli si propongono simili teorie; non è capace di rispondere, e talvolta persino si lascia contaminare dal veleno dell’errore. Questa formazione le Acli debbono dunque sempre più migliorare, persuase come sono che esercitano in tal guisa quell’apostolato del lavoratore fra i lavoratori, che il Nostro Predecessore Pio XI di f. m. auspicava nella sua Enciclica «Quadragesimo anno » (Acta Ap. Sedis, vol. XXIII pag. 226). La formazione religiosa del cristiano, e specialmente del lavoratore, è uno degli offici principali dell’azione pastorale moderna. Come gl’interessi vitali della Chiesa e delle anime hanno imposto la istituzione di scuole cattoliche per i fanciulli cattolici, così anche la vera e profonda istruzione religiosa degli adulti è una necessità di primo ordine. In tal modo voi siete sulla buona via; continuate con coraggio e perseveranza, e non lasciatevi sviare da erronei principi. Poichè questi erronei principi sono all’opera! Quante volte Noi abbiamo affermato e spiegato l’amore della Chiesa verso gli operai! Eppure si propaga largamente l’atroce calunnia che « la Chiesa è alleata del capitalismo contro i lavoratori »! Essa, madre e maestra di tutti, è sempre particolarmente sollecita verso i figli che si trovano in più difficili condizioni, e anche di fatto ha validamente contribuito al conseguimento degli onesti progressi già ottenuti da varie categorie di lavoratori. Noi stessi nel Radiomessaggio natalizio del 1942 dicevamo: «Mossa sempre da motivi religiosi, la Chiesa condannò i vari sistemi del socialismo marxista, e li condanna anche oggi, com’è suo dovere e diritto permanente di preservare gli uomini da correnti e influssi, che ne mettono a repentaglio la salvezza eterna. Ma la Chiesa non può ignorare o non vedere che l’operaio, nello sforzo di migliorare la sua condizione, si urta contro qualche congegno, che, lungi dall’essere conforme alla natura, contrasta con l’ordine di Dio e con lo scopo che Egli ha assegnato per i beni terreni. Per quanto fossero e siano false, condannabili e pericolose le vie, che si seguirono; chi, e soprattutto qual sacerdote o cristiano, potrebbe restar sordo al grido, che si solleva dal profondo, e il quale in un inondo di un Dio giusto invoca giustizia e spirito di fratellanza?» (Discorsi e Radiomessaggi, vol. IV pag. 336-337). Gesù Cristo non attende che Gli si apra il cammino per penetrare le realtà sociali, con sistemi che non derivano da Lui, si chiamino essi «umanesimo laico» a «socialismo purgato dal materialismo ». Il suo regno divino di verità e di giustizia è presente anche nelle regioni ove l’opposizione fra le classi minaccia incessantemente di avere il sopravvento. Perciò la Chiesa non si restringe ad invocare questo più giusto ordine sociale, ma ne indica i principi fondamentali, sollecitando i reggitori dei popoli, i legislatori, i datori di lavoro e i direttori delle imprese di metterli ad esecuzione. Ma il Nostro discorso si volge ora particolarmente ai cosiddetti «, delusi » fra i cattolici italiani. Non mancano essi infatti, soprattutto fra giovani anche di ottime intenzioni, i quali avrebbero aspettato di più dall’azione delle forze cattoliche nella vita pubblica del Paese. Noi non parliamo qui di coloro, il cui entusiasmo non è sempre accompagnato da un calmo e sicuro senso pratico riguardo a fatti presenti e futuri e alle debolezze dell’uomo comune. Ci riferiamo piuttosto a quelli, i quali riconoscono bensì i notevoli progressi conseguiti nonostante la difficile condizione del Paese, ma risentono dolorosamente che le loro possibilità e capacità, di cui hanno piena consapevolezza, non trovano campo per essere messe in valore. Senza dubbio essi avrebbero una risposta al loro lamento, se leggessero attentamente il programma delle Acli, che esige la partecipazione effettiva del lavoro subordinato nella elaborazione della vita economica e sociale della Nazione e chiede che nell’interno delle imprese ognuno sia realmente riconosciuto come un vero collaboratore. Non abbiamo bisogno d’insistere su questo argomento, da Noi stessi già sufficientemente trattato in altre occasioni. Ma vorremmo richiamare l’attenzione di quei delusi sul fatto che né nuove leggi né nuove istituzioni sono bastevoli per dare al singolo la sicurezza di essere al riparo da ogni costrizione abusiva e di potersi liberamente evolvere nella società. Tutto sarà vano, se l’uomo comune vive nel timore di subire l’arbitrio e non perviene ad affrancarsi dai sentimento che egli sia soggetto al buono o cattivo volere di coloro che applicano le leggi o che come pubblici ufficiali dirigono le istituzioni e le organizzazioni; se Si accorge che nella vita quotidiana tutto dipende da relazioni, che egli forse non ha, a differenza di altri; se sospetta che, dietro la facciata di quel che si chiama Stato, si cela il giuoco di potenti gruppi organizzati. L’azione delle forze cristiane nella vita pubblica importa dunque certamente che si promuova la promulgazione di buone leggi e la formazione di istituzioni adatte ai tempi; ma significa anche più che si bandisca il dominio delle frasi vuote e delle parole ingannatrici, e che l’uomo comune si senta appoggiato e sostenuto nelle sue legittime esigenze ed attese. Occorre formare una opinione pubblica che, senza cercare lo scandalo, indichi con franchezza e coraggio le persone e le circostanze, che non sono conformi alle giuste leggi ed istituzioni, o che nascondono slealmente ciò che è vero. Non basta per procurare l’influsso al semplice cittadino il mettergli in mano la scheda di voto o altri simili mezzi. Se egli vuol essere associato alle classi dirigenti, se vuole, per il bene di tutti, porre talvolta rimedio alla mancanza di idee proficue e vincere l’egoismo invadente, deve possedere egli stesso le intime energie necessarie e la fervida volontà di contribuire ad infondere una sana morale in tutto l’ordinamento pubblico. Ecco il fondamento della speranza che Noi esprimevamo alle Acli or sono dieci anni e che ripetiamo oggi con raddoppiata fiducia dinanzi a voi. Nel movimento operaio possono subire reali delusioni soltanto coloro, che dirigono il loro sguardo unicamente all’aspetto politico immediato, al giuoco delle maggioranze. L’opera vostra si svolge nello stadio preparatorio — e così essenziale — della politica. Per voi si tratta di educare ed avviare il vero lavoratore cristiano mediante la vostra « formazione sociale» alla vita sindacale e politica e di sostenere e facilitare tutta la sua condotta per mezzo della vostra « azione sociale » e del vostro « servizio sociale ». Continuate dunque senza debolezze l’opera finora prestata; in tal guisa aprirete a Cristo un adito immediato nel mondo operaio, e mediatamente poi anche negli altri gruppi sociali. È questa l’« apertura » fondamentale, senza la quale ogni altra « apertura » in qualunque senso non sarebbe che una capitolazione delle forze che si dicono cristiane. Diletti figli e figlie, presenti in questa sacra Piazza; e voi lavoratori e lavoratrici del mondo tutto, che Noi teneramente abbracciamo con paterno affetto, simile a quello con cui Gesù avvinceva a sè le moltitudini fameliche di verità e di giustizia; siate certi che in ogni occorrenza avrete al vostro fianco una guida, un difensore, un Padre. DiteCi apertamente, sotto questo libero cielo di Roma: Saprete voi riconoscere, tra tante voci discordi e ammalianti a voi rivolte da varie parti, alcune per insidiare le vostre anime, altre per umiliarvi come uomini, o per defraudarvi dei legittimi vostri diritti come lavoratori, saprete riconoscere chi è e sarà sempre la vostra sicura guida, chi il fedele vostro difensore, chi il sincero vostro Padre? Si, diletti lavoratori; il Papa e la Chiesa non possono sottrarsi alla divina missione di guidare, proteggere, amare soprattutto i sofferenti, tanto più cari, quanto più bisognosi di difesa e di aiuto, siano essi operai o altri figli del popolo. Questo dovere ed Impegno Noi, Vicario di Cristo, desideriamo di altamente riaffermare, qui, in questo giorno del 1° maggio, che il mondo del lavoro ha aggiudicato a sé, come propria festa, con l’intento che da tutti si riconosca la dignità del lavoro, e che questa ispiri la vita sociale e le leggi, fondate sull’equa ripartizione di diritti e di doveri. In tal modo accolto dai lavoratori cristiani, e quasi ricevendo il crisma cristiano, il 1° maggio, ben lungi dall’essere risveglio di discordie, di odio e di violenza, è e sarà un ricorrente invito alla moderna società per compiere ciò che ancora manca alla pace sociale. Festa cristiana, dunque; cioè, giorno di giubilo per il concreto e progressivo trionfo degli ideali cristiani della grande famiglie del lavoro. Affinchè vi sia presente questo significato, e in certo modo quale immediato contraccambio per i numerosi e preziosi doni, arrecatici da ogni regione d’Italia, amiamo di annunziarvi la Nostra determinazione d’istituire — come di fatto istituiamo — la festa liturgica di S. Giuseppe artigiano, assegnando ad essa precisamente il giorno 1° maggio. Gradite, diletti lavoratori e lavoratrici, questo Nostro dono? Siamo certi che sì, perchè l’umile artigiano di Nazareth non solo impersona presso Dio e la S. Chiesa la dignità del lavoratore del braccio, ma è anche sempre il provvido custode vostro e delle vostre famiglie. Con tale augurio sulle labbra e nel cuore, diletti figli e figlie, e con la certezza che ricorderete questa giornata così densa di santi propositi, così fulgida di buone speranze, così promettente per quanto è stato compiuto, invochiamo dall’Altissimo le più elette benedizioni su di voi, sui vostri congiunti, sui degenti negli ospedali e nei sanatori, sui campi e le officine, sulle vostre Acli e sulla loro grande e nobile attività, sui datori di lavoro, sulla diletta Italia e sul mondo tutto del lavoro, a Noi sempre caro. Discenda dai cieli sulla terra, da voi lavorata e fecondata in ossequio al primordiale divino precetto, la Nostra paterna Apostolica Benedizione!”. Nel radiomessaggio di Giovanni XXIII ai lavoratori, in occasione della festività di San Giuseppe Artigiano, Domenica 1° Maggio 1960, si legge: “Diletti figli e figlie! Per la seconda volta nel corso dell’anno liturgico, la Chiesa ripropone ai fedeli la venerazione del suo Patrono universale. Ed oggi S. Giuseppe si ripresenta nella figura sua caratteristica di umile artigiano, di lavoratore. È quindi naturale che il Nostro pensiero vada verso le sin gole regioni e città, ove si svolge la vita di ogni giorno: alle case, alle scuole, agli uffici, ai negozi, alle fabbriche, alle officine, ai laboratori, a tutti i luoghi santificati dal lavoro intellettuale o manuale, nelle varie e nobili forme che esso riveste, secondo le forze e le capacità di ciascuno. Pensiamo alle famiglie di tutti voi che Ci ascoltate, specialmente a quelle che con docilità si aprono ai voleri della Provvidenza, o che nascondono trepidando un dolore, una malattia, una prova. E su tutti questi luoghi, il Nostro cuore ama raffigurarsi, paternamente china su le fatiche e le pene di ciascuno, l’immagine serena del Custode di Gesù e Sposo purissimo della Santa Vergine, a benedire, a incoraggiare, a sorreggere, a confortare. Com’è consolante pensare che col suo aiuto ogni famiglia cristiana, esercitata nel lavoro, può rispecchiare fedelmente l’esempio e l’immagine della Sacra Famiglia di Nazareth, in cui la costante laboriosità, pur fra le strettezze della vita, fu congiunta col più ardente amore di Dio, e con l’adeguamento generoso ai suoi amabili voleri! Questo è in fondo il significato della festa odierna. Proponendo l’esempio di S. Giuseppe a tutti gli uomini, che nella legge del lavoro trovano segnata la loro condizione di vita, la Chiesa intende richiamarli alla considerazione della loro grande dignità, e invitarli a fare delle loro attività un mezzo potente di perfezionamento personale, e di merito eterno. Il lavoro è infatti un’alta missione: esso è per l’uomo come una collaborazione intelligente ed effettiva con Dio Creatore, dal quale ha ricevuto i beni della terra, per coltivarli e farli prosperare. E quanto in esso è di fatica e di dura conquista, rientra nel disegno redentore di Dio, che avendo salvato il mondo attraverso l’amore e i dolori del suo Unigenito Figlio, rende le umane sofferenze prezioso strumento di santificazione, se unite a quelle di Cristo. Quanta luce getta su queste verità l’esempio di Nazareth, dove il lavoro è accettato gioiosamente, come adempimento della volontà divina! E quale grandezza acquista la figura silenziosa e nascosta di S. Giuseppe per lo spirito con cui egli compie la missione affidatagli da Dio! Poiché la vera dignità dell’uomo non si misura dall’orpello di risultati strepitosi, ma dalle disposizioni interiori di ordine e di buona volontà. Diletti figli e figlie! Ecco dunque, in questo splendore che proviene dal celeste modello, quale deve essere l’attitudine e la disposizione, a cui improntare il lavoro, peso e onore della vita di ogni uomo. Purtroppo errate ideologie esaltanti da un lato la libertà sfrenata, dall’altro la soppressione della personalità, hanno cercato di scoronare il lavoratore della sua grandezza, riducendolo ad uno strumento di lotta o abbandonandolo a se stesso; si è voluto seminare contesa e discordia, contrapponendo fra di loro le varie categorie della vita sociale : si è tentato perfino di staccare le masse del lavoro da quel Dio che solo è protettore e vindice degli umili e da cui abbiamo la vita, il movimento e la esistenza, come se la condizione di lavoratori debba esimere dal dovere di conoscerlo, onorarlo e servirlo. Il Nostro cuore piange quando considera che tanti nostri figli, pur onesti e retti, hanno potuto lasciarsi sollecitare da tali teorie, dimenticando che nel Vangelo, illustrato nei documenti sociali del Pontificato Romano, sta l’avviamento alla soluzione a tutti i loro problemi: sta l’ansia di nuove riforme unita al rispetto per i valori fondamentali.
Diletti figli e figlie, guardate fiduciosamente avanti sulle vie che sono aperte al vostro cammino! La Chiesa conta su di voi, per diffondere nel mondo del lavoro la dottrina e la pace di Cristo. Il vostro operato sia per voi sempre una nobile missione, di cui Dio solo può essere l’ispiratore e il premio. Regni nei rapporti reciproci della vita sociale la vera carità, il mutuo rispetto, la volontà di collaborazione, un clima familiare e fraterno, secondo i luminosi suggerimenti della Lettera di Paolo ai Colossesi, letta nella Messa odierna : « Qualunque cosa diciate o facciate, fate tutto nel nome del Signore Gesù Cristo, rendendo per Lui grazie a Dio e Padre. Qualunque cosa facciate, fatela di cuore, come per il Signore, e non per gli uomini: sapendo che dal Signore avrete la mercede della eredità. Servite a Cristo Signore ». I lavoratori sanno che la Chiesa maternamente li segue con vivo e sollecito affetto: ed è soprattutto vicina a quanti compiono nel nascondimento lavori ingrati e pesanti, che gli altri forse non conoscono o non abbastanza stimano: vicina a chi ancora non ha una stabile occupazione, ed è esposto ad angosciosi interrogativi per l’avvenire della famiglia che cresce: vicina a chi la malattia o la sventura sul lavoro ha dolorosamente provato. Da parte Nostra non lasceremo occasione per invitare quanti hanno responsabilità di poteri o di mezzi, ad adoperarsi affinché sempre migliori condizioni di vita e di lavoro vi siano garantite, e specialmente affinché il diritto ad una stabile e dignitosa occupazione sia assicurato a tutti. E fermamente confidiamo che si sappiano comprendere, con sempre più sollecita sensibilità, le pene dei lavoratori: si vada spontaneamente incontro alle loro legittime aspirazioni di uomini liberi, creati a immagine e somiglianza di Dio: e si cerchi di alleviarne le ansie in spirito di giustizia e carità, e di leale collaborazione nel mutuo rispetto dei corrispondenti diritti e doveri. Ma gli sforzi, anche più generosi, non approderebbero che a poca cosa, senza l’aiuto divino: perciò vi invitiamo a elevare in questa giornata ferventi suppliche al Signore, affinché la sua protezione, per intercessione di S. Giuseppe, accompagni ed allieti i vostri sforzi, e compia i vostri desideri. Oh, S. Giuseppe, Custode di Gesù, Sposo castissimo di Maria, che hai trascorso la vita nell’adempimento perfetto del dovere, sostentando col lavoro delle mani la Sacra Famiglia di Nazareth, proteggi propizio coloro che, fidenti, a Te si rivolgono. Tu conosci le loro aspirazioni, le loro angustie, le loro speranze: ed essi a Te ricorrono, perchè sanno di trovare in Te chi li capisce e protegge. Anche Tu hai sperimentato la prova, la fatica, la stanchezza: ma, pure in mezzo alle preoccupazioni della vita materiale, il tuo animo, ricolmo della più profonda pace, esultò di gioia inenarrabile per l’intimità col Figlio di Dio, a Te affidato, e con Maria, sua dolcissima Madre. Fa’ che anche i tuoi protetti comprendano di non essere soli nel loro lavoro, ma sappiano scoprire Gesù accanto a sé, accoglierlo con la grazia, custodirlo fedelmente, come Tu hai fatto. E ottieni che in ogni famiglia, in ogni officina, in ogni laboratorio, ovunque un cristiano lavora, tutto sia santificato nella carità, nella pazienza, nella giustizia, nella ricerca del ben fare, affinché abbondanti discendano i doni della celeste predilezione. Diletti figli e figlie! Con questa preghiera, Noi invochiamo su tutti voi la continua assistenza del Signore: e affinché l’odierna festa trovi in ogni cuore fervida corrispondenza di consensi e di propositi santi, amiamo salutare le vostre persone, la famiglia di ciascuno di voi, i luoghi della quotidiana fatica con una particolare, confortatrice Benedizione Apostolica, affinché in tutti e sempre si compia la volontà del Signore”. Nell’omelia per la solennità di San Giuseppe, Mercoledì 19 Marzo 1969, Paolo VI dichiara: “Fratelli e Figli carissimi! La festa di oggi ci invita alla meditazione su S. Giuseppe, il padre legale e putativo di Gesù, nostro Signore, e dichiarato, per tale funzione ch’egli esercitò verso Cristo, durante l’infanzia e la giovinezza, protettore della Chiesa, che di Cristo continua nel tempo e riflette nella storia l’immagine e la missione. È una meditazione che sembra, a tutta prima, mancare di materia : che cosa di lui, San Giuseppe, sappiamo noi, oltre il nome ed alcune poche vicende del periodo dell’infanzia del Signore? Nessuna parola di lui è registrata nel Vangelo; il suo linguaggio è il silenzio, è l’ascoltazione di voci angeliche che gli parlano nel sonno, è l’obbedienza pronta e generosa a lui domandata, è il lavoro manuale espresso nelle forme più modeste e più faticose, quelle che valsero a Gesù Ia qualifica di «figlio del falegname» (Matth. 13,55); e null’altro: si direbbe la sua una vita oscura, quella d’un semplice artigiano, priva di qualsiasi accenno di personale grandezza. Eppure questa umile figura, tanto vicina a Gesù ed a Maria, la Vergine Madre di Cristo, figura così inserita nella loro vita, così collegata con Ia genealogia messianica da rappresentare la discendenza fatidica e terminale della progenie di David (Matth. 1,20), se osservata con attenzione, si rileva così ricca di aspetti e di significati, quali la Chiesa nel culto tributato a S. Giuseppe, e quali la devozione dei fedeli a lui riconoscono, che una serie di invocazioni varie saranno a lui rivolte in forma di litania. Un celebre e moderno Santuario, eretto in suo onore, per iniziativa d’un semplice religioso laico, Fratel André della Congregazione della Santa Croce, quello appunto di Montréal, nel Canada, porrà in evidenza con diverse cappelle, dietro l’altare maggiore, dedicate tutte a S. Giuseppe, i molti titoli che Io rendono protettore dell’infanzia, protettore degli sposi, protettore della famiglia, protettore dei lavoratori, protettore delle vergini, protettore dei profughi, protettore dei morenti…Se osservate con attenzione questa vita tanto modesta, ci apparirà più grande e più avventurata ed avventurosa di quanto il tenue profilo della sua figura evangelica non offra alla nostra frettolosa visione. S. Giuseppe, il Vangelo lo definisce giusto (Matth. 1, 19); e lode più densa di virtù e più alta di merito non potrebbe essere attribuita ad un uomo di umile condizione sociale ed evidentemente alieno dal compiere grandi gesti. Un uomo povero, onesto, laborioso, timido forse, ma che ha una sua insondabile vita interiore, dalla quale vengono a lui ordini e conforti singolarissimi, e derivano a lui la logica e la forza, propria delle anime semplici e limpide, delle grandi decisioni, come quella di mettere subito a disposizione dei disegni divini la sua libertà, la sua legittima vocazione umana, la sua felicità coniugale, accettando della famiglia la condizione, la responsabilità ed il peso, e rinunciando per un incomparabile virgineo amore al naturale amore coniugale che la costituisce e la alimenta, per offrire così, con sacrificio totale, l’intera esistenza alle imponderabili esigenze della sorprendente venuta del Messia, a cui egli porrà il nome per sempre beatissimo di Gesù (Matth. 1, 21), e che egli riconoscerà frutto dello Spirito Santo, e solo agli effetti giuridici e domestici suo figlio. Un uomo perciò, S. Giuseppe, «impegnato», come ora si dice, per Maria, l’eletta fra tutte le donne della terra e della storia, sempre sua vergine sposa, non già fisicamente sua moglie, e per Gesù, in virtù di discendenza legale, non naturale, sua prole. A lui i pesi, le responsabilità, i rischi, gli affanni della piccola e singolare sacra famiglia. A lui il servizio, a lui il lavoro, a lui il sacrificio, nella penombra del quadro evangelico, nel quale ci piace contemplarlo, e certo, non a torto, ora che noi tutto conosciamo, chiamarlo felice, beato. È Vangelo questo. In esso i valori dell’umana esistenza assumono diversa misura da quella con cui siamo soliti apprezzarli: qui ciò ch’è piccolo diventa grande (ricordiamo l’effusione di Gesù, al capo undecimo di San Matteo: «Io Ti rendo lode, o Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai nascoste queste cose – le cose del regno messianico! – ai sapienti ed ai dotti, che hai rivelate ai piccoli»); qui ciò ch’è misero diventa degno della condizione sociale del Figlio di Dio fattosi Figlio dell’uomo; qui ciò ch’è elementare risultato d’un faticoso e rudimentale lavoro artigiano serve ad addestrare all’opera umana l’operatore del cosmo e del mondo ( Io. 1,3 ; 5,17) e a dare umile pane alla mensa di Colui che definirà Se stesso «il Pane della vita» (Io. 6,48). Qui ciò ch’è perduto per amore di Cristo, è ritrovato (Matth. 10,39), e chi sacrifica per lui la propria vita di questo mondo, la conserva per la vita eterna (Io. 12,25). San Giuseppe è il tipo del Vangelo, che Gesù, lasciata la piccola officina di Nazareth, e iniziata la sua missione di profeta e di maestro, annuncerà come programma per la redenzione dell’umanità; S. Giuseppe è il modello degli umili che il cristianesimo solleva a grandi destini; S. Giuseppe è la prova che per essere buoni e autentici seguaci di Cristo non occorrono «grandi cose», ma si richiedono solo virtù comuni, umane, semplici, ma vere ed autentiche. E qui la meditazione sposta lo sguardo, dall’umile Santo al quadro delle nostre condizioni personali, come avviene di solito nella disciplina dell’orazione mentale; e stabilisce un accostamento, un confronto tra lui e noi; un confronto dal quale non abbiamo da gloriarci, certamente; ma dal quale possiamo trarre qualche buono incitamento; all’imitazione, come nelle nostre rispettive circostanze è possibile; alla sequela, nello spirito e nella pratica concreta di quelle virtù che nel Santo troviamo così rigorosamente delineate. Di una specialmente, della quale oggi tanto si parla, della povertà. E non ci lasceremo turbare per le difficoltà, che essa oggi, in un mondo tutto rivolto alla conquista della ricchezza economica, a noi presenta, quasi fosse contraddittoria alla linea di progresso ch’è obbligo perseguire, e paradossale e irreale in una società del benessere e del consumo. Noi ripenseremo, con S. Giuseppe povero e laborioso, e lui stesso tutto impegnato a guadagnar qualche cosa per vivere, come i beni economici siano pur degni del nostro interesse cristiano, a condizione che non siano fini a se stessi, ma mezzi per sostentare la vita rivolta ad altri beni superiori; a condizione che i beni economici non siano oggetto di avaro egoismo, bensì mezzo e fonte di provvida carità; a condizione, ancora, che essi non siano usati per esonerarci dal peso d’un personale lavoro e per autorizzarci a facile e molle godimento dei così detti piaceri della vita, ma siano invece impiegati per l’onesto e largo interesse del bene comune. La povertà laboriosa e dignitosa di questo Santo evangelico ci può essere ancora oggi ottima guida per rintracciare nel nostro mondo moderno il sentiero dei passi di Cristo, ed insieme eloquente maestra di positivo e onesto benessere, per non smarrire quel sentiero nel complicato e vertiginoso mondo economico, senza deviare, da un lato, nella conquista ambiziosa e tentatrice della ricchezza temporale, e nemmeno, dall’altro, nell’impiego ideologico e strumentale della povertà come forza d’odio sociale e di sistematica sovversione. Esempio dunque per noi, San Giuseppe. Cercheremo d’imitarlo; e quale protettore lo invocheremo, come la Chiesa, in questi ultimi tempi, è solita a fare, per sé, innanzi tutto, con una spontanea riflessione teologica sul connubio dell’azione divina con l’azione umana nella grande economia della Redenzione, nel quale la prima, quella divina, è tutta a sé sufficiente, ma la seconda, quella umana, la nostra, sebbene di nulla capace (Io. 15,5) non è mai dispensata da un’umile, ma condizionale e nobilitante collaborazione. Inoltre protettore la Chiesa lo invoca per un profondo e attualsimo desiderio di rinverdire la sua secolare esistenza di veraci virtù evangeliche, quali in S. Giuseppe rifulgono; ed infine protettore lo vuole la Chiesa per l’incrollabile fiducia che colui, al quale Cristo volle affidata la protezione della sua fragile infanzia umana, vorrà continuare dal Cielo la sua missione tutelare a guida e difesa del Corpo mistico di Cristo medesimo, sempre debole, sempre insidiato, sempre drammaticamente pericolante. E poi per il mondo invocheremo S. Giuseppe, sicuri che nel, cuore, ora beato d’incommensurabile sapienza e potestà, dell’umile operaio di Nazareth si alberghi ancora e sempre una singolare e preziosa simpatia e benevolenza per l’intera umanità. Così sia”. Nella Esortazione Apostolica Redemptoris Custos di Giovanni Paolo II sulla figura e la missione di San Giuseppe nella vita di Gesù Cristo e della Chiesa, pubblicata in Roma, presso San Pietro, il 15 Agosto – solennità dell’Assunzione della beata Vergine Maria – dell’Anno Domini 1989, undecimo di pontificato, si legge: “Chiamato ad essere il custode del redentore, «Giuseppe fece come gli aveva ordinato l’angelo del Signore e prese con sè la sua sposa» (Mt 1,24). Ispirandosi al Vangelo, i padri della Chiesa fin dai primi secoli hanno sottolineato che san Giuseppe, come ebbe amorevole cura di Maria e si dedicò con gioioso impegno all’educazione di Gesù Cristo (S. Irenaei, «Adversus haereses», IV, 23, 1: S. Ch. 100/2, 692-694), così custodisce e protegge il suo mistico corpo, la Chiesa, di cui la Vergine santa è figura e modello. Nel centenario della pubblicazione dell’epistola enciclica «Quamquam Pluries» di papa Leone XIII (die 15 aug. 1889: «Leonis XIII P. M. Acta», IX [1890] 175-182) e nel solco della plurisecolare venerazione per san Giuseppe, desidero offrire alla vostra considerazione, cari fratelli e sorelle, alcune riflessioni su colui al quale Dio «affidò la custodia dei suoi tesori più preziosi» (S. Rituum Congreg., «Quemadmodum Deus», die 8 dec. 1870: «Pii IX P. M. Acta», pars I, vol. V, 282; Pii IX, «Inclytum Patriarcham», die 7 iul. 1871: «l. c.» 331-335). Con gioia compio questo dovere pastorale, perché crescano in tutti la devozione al patrono della Chiesa universale e l’amore al Redentore, che egli esemplarmente servì. In tal modo l’intero popolo cristiano non solo ricorrerà con maggior fervore a san Giuseppe e invocherà fiduciosamente il suo patrocinio, ma terrà sempre dinanzi agli occhi il suo umile, maturo modo di servire e di «partecipare» all’economia della salvezza (S. Ioannis Chrysostomi, «In Matth. Hom.», V, 3: PG 57, 57s; Dottori della Chiesa e Sommi Pontefici, anche in base all’identità del nome, hanno indicato il prototipo di Giuseppe di Nazareth in Giuseppe d’Egitto per averne in qualche modo adombrato il ministero e la grandezza di custode dei più preziosi tesori di Dio Padre, il Verbo Incarnato e la sua Santissima Madre: cfr. v. g., S. Bernardi, «Super “Missus est” Hom.», II, 16: «S. Bernardi Opera», IV, 33s; Leonis XII, «Quamquam Pluries», die 15 aug. 1889: «l. c.» 179). Ritengo, infatti, che il riconsiderare la partecipazione dello sposo di Maria al riguardo consentirà alla Chiesa, in cammino verso il futuro insieme con tutta l’umanità, di ritrovare continuamente la propria identità nell’ambito di tale disegno redentivo, che ha il suo fondamento nel mistero dell’Incarnazione. Proprio a questo mistero Giuseppe di Nazaret «partecipò» come nessun’altra persona umana, ad eccezione di Maria, la madre del Verbo incarnato. Egli vi partecipò insieme con lei, coinvolto nella realtà dello stesso evento salvifico, e fu depositario dello stesso amore, per la cui potenza l’eterno Padre «ci ha predestinati ad essere suoi figli adottivi per opera di Gesù Cristo» (Ef1,5). «Giuseppe figlio di Davide, non temere di prendere con te Maria, tua sposa, perché quel che è generato in lei viene dallo Spirito Santo. Ella partorirà un figlio, e tu lo chiamerai Gesù; egli infatti salverà il suo popolo dai suoi peccati» (Mt 1,20-21). In queste parole è racchiuso il nucleo centrale della verità biblica su san Giuseppe, il momento della sua esistenza a cui in particolare si riferiscono i padri della Chiesa. L’evangelista Matteo spiega il significato di questo momento, delineando anche come Giuseppe lo ha vissuto. Tuttavia, per comprenderne pienamente il contenuto ed il contesto, è importante tener presente il passo parallelo del Vangelo di Luca. Infatti, riferendoci al versetto che dice: «Ecco come avvenne la nascita di Gesù Cristo: sua madre Maria, essendo promessa sposa di Giuseppe, prima che andassero a vivere insieme si trovò incinta per opera dello Spirito Santo» (Mt 1,18), l’origine della gravidanza di Maria «per opera dello Spirito Santo» trova una descrizione più ampia ed esplicita in quel che leggiamo in Luca circa l’Annunciazione della nascita di Gesù: «L’angelo Gabriele fu mandato da Dio in una città della Galilea, chiamata Nazaret, a una vergine, promessa sposa di un uomo della casa di Davide, chiamato Giuseppe. La vergine si chiamava Maria» (Lc 1,26-27). Le parole dell’angelo: «Ti saluto, o piena di grazia, il Signore è con te» (Lc 1,28), provocarono un turbamento interiore in Maria ed insieme la spinsero a riflettere. Allora il messaggero tranquillizza la Vergine ed al tempo stesso le rivela lo speciale disegno di Dio a suo riguardo: «Non temere, Maria, perché hai trovato grazia presso Dio. Ecco, concepirai e partorirai un figlio, e lo chiamerai Gesù. Egli sarà grande e chiamato Figlio dell’Altissimo; il Signore Dio gli darà il trono di Davide suo padre» (Lc 1,30-32). L’Evangelista aveva poco prima affermato che, al momento dell’Annunciazione, Maria era «promessa sposa di un uomo della casa di Davide, chiamato Giuseppe». La natura di queste «nozze» viene spiegata indirettamente, quando Maria, dopo aver udito ciò che il messaggero aveva detto della nascita del Figlio, chiede: «Come avverrà questo? Non conosco uomo» (Lc 1,34). Allora le giunge questa risposta: «Lo Spirito Santo scenderà su di te, su di te stenderà la sua ombra la potenza dell’Altissimo. Colui che nascerà sarà dunque santo e chiamato Figlio di Dio» (Lc 1,35). Maria, anche se già «sposata» con Giuseppe, rimarrà vergine, perché il bambino, concepito in lei sin dall’Annunciazione, era concepito per opera dello Spirito Santo. A questo punto il testo di Luca coincide con quello di Matteo (1,18) e serve a spiegare ciò che in esso leggiamo. Se, dopo le nozze con Giuseppe, Maria «si trovò incinta per opera dello Spirito Santo», questo fatto corrisponde a tutto il contenuto dell’Annunciazione e, in particolare, alle ultime parole pronunciate da Maria: «Avvenga di me quello che hai detto» (Lc 1,38). Rispondendo al chiaro disegno di Dio, Maria col trascorrere dei giorni e delle settimane si rivela davanti alla gente e davanti a Giuseppe come «incinta», come colei che deve partorire e porta in sé il mistero della maternità. In queste circostanze «Giuseppe suo sposo che era giusto e non voleva ripudiarla, decise di licenziarla in segreto» (Mt 1,19). Egli non sapeva come comportarsi di fronte alla «mirabile» maternità di Maria. Certamente cercava una risposta all’inquietante interrogativo, ma soprattutto cercava una via di uscita da quella situazione per lui difficile. «Mentre dunque stava pensando a queste cose, gli apparve in sogno un angelo del Signore e gli disse: “Giuseppe, figlio di Davide, non temere di prendere con te, Maria, tua sposa, perché quel che è generato in lei viene dallo Spirito Santo. Ella partorirà un figlio, e tu lo chiamerai Gesù: egli infatti salverà il suo popolo dai suoi peccati”» (Mt 1,20-21). Esiste una stretta analogia tra l’«Annunciazione» del testo di Matteo e quella del testo di Luca. Il messaggero divino introduce Giuseppe nel mistero della maternità di Maria. Colei che secondo la legge è la sua «sposa», rimanendo vergine, è divenuta madre in virtù dello Spirito Santo. E quando il Figlio, portato in grembo da Maria, verrà al mondo, dovrà ricevere il nome di Gesù. Era, questo, un nome conosciuto tra gli Israeliti ed a volte veniva dato ai figli. In questo caso, però, si tratta del Figlio che – secondo la promessa divina – adempirà in pieno il significato di questo nome: Gesù – Yehossua’, che significa: Dio salva. Il messaggero si rivolge a Giuseppe come allo «sposo di Maria», a colui che a suo tempo dovrà imporre tale nome al Figlio che nascerà dalla Vergine di Nazaret, a lui sposata. Si rivolge, dunque, a Giuseppe affidandogli i compiti di un padre terreno nei riguardi del Figlio di Maria. «Destatosi dal sonno, Giuseppe fece come gli aveva ordinato l’angelo del Signore e prese con sé la sua sposa» (Mt 1,24). Egli la prese in tutto il mistero della sua maternità, la prese insieme col Figlio che sarebbe venuto al mondo per opera dello Spirito Santo: dimostrò in tal modo una disponibilità di volontà, simile a quella di Maria, in ordine a ciò che Dio gli chiedeva per mezzo del suo messaggero. Quando Maria, poco dopo l’Annunciazione, si recò nella casa di Zaccaria per visitare la parente Elisabetta, udì, proprio mentre la salutava, le parole pronunciate da Elisabetta «piena di Spirito Santo» (Lc 1,41). Oltre alle parole che si ricollegavano al saluto dell’angelo nell’Annunciazione, Elisabetta disse: «E beata colei che ha creduto nell’adempimento delle parole del Signore» (Lc1,45). Queste parole sono state il pensiero-guida dell’enciclica «Redemptoris Mater», con la quale ho inteso approfondire l’insegnamento del Concilio Vaticano II che afferma: «La beata Vergine avanzò nella peregrinazione della fede e serbò fedelmente la sua unione col Figlio sino alla Croce» («Lumen Gentium», 58), «andando innanzi» («Lumen Gentium», 63) a tutti coloro che mediante la fede seguono Cristo. Ora, all’inizio di questa peregrinazione la fede di Maria si incontra con la fede di Giuseppe. Se Elisabetta disse della Madre del Redentore: «Beata colei che ha creduto», si può in un certo senso riferire questa beatitudine anche a Giuseppe, perché rispose affermativamente alla Parola di Dio, quando gli fu trasmessa in quel momento decisivo. Per la verità, Giuseppe non rispose all’«annuncio» dell’angelo come Maria, ma «fece come gli aveva ordinato l’angelo del Signore e prese con sé la sua sposa». Ciò che egli fece è purissima «obbedienza della fede» ( Rm 1,5; 16,26; 2Cor 10,5-6). Si può dire che quello che Giuseppe fece lo unì in modo del tutto speciale alla fede di Maria: egli accettò come verità proveniente da Dio ciò che ella aveva già accettato nell’Annunciazione. Il Concilio insegna: «A Dio che rivela è dovuta “l’obbedienza della fede”, per la quale l’uomo si abbandona totalmente e liberamente a Dio, prestandogli il “pieno ossequio dell’intelletto e della volontà” e assentendo volontariamente alla rivelazione da lui fatta» («Dei Verbum», 5). La frase sopracitata, che tocca l’essenza stessa della fede, si applica perfettamente a Giuseppe di Nazaret. Egli, pertanto, divenne un singolare depositario del mistero «nascosto da secoli nella mente di Dio» (Ef 3,9), come lo divenne Maria, in quel momento decisivo che dall’Apostolo è chiamato «la pienezza del tempo», allorché «Dio mandò il suo Figlio, nato da donna» per «riscattare coloro che erano sotto la legge», perché «ricevessero l’adozione a figli» (Gal 4,4-5). «Piacque a Dio – insegna il Concilio – nella sua bontà e sapienza di rivelare se stesso e manifestare il mistero della sua volontà ( Ef 1,9), mediante il quale gli uomini per mezzo di Cristo, Verbo fatto carne, nello Spirito Santo hanno accesso al Padre e sono resi partecipi della divina natura (Ef 2,18; 2Pt 1,4)» («Dei Verbum», 2). Di questo mistero divino Giuseppe è insieme con Maria il primo depositario. Insieme con Maria – ed anche in relazione a Maria – egli partecipa a questa fase culminante dell’autorivelazione di Dio in Cristo, e vi partecipa sin dal primo inizio. Tenendo sotto gli occhi il testo di entrambi gli evangelisti Matteo e Luca, si può anche dire che Giuseppe è il primo a partecipare alla fede della Madre di Dio, e che, così facendo, sostiene la sua sposa nella fede della divina Annunciazione. Egli è anche colui che è posto per primo da Dio sulla via della «peregrinazione della fede», sulla quale Maria – soprattutto dal tempo del Calvario e della Pentecoste – andrà innanzi in modo perfetto («Lumen Gentium», 63). La via propria di Giuseppe, la sua peregrinazione della fede si concluderà prima, cioè prima che Maria sosti ai piedi della Croce sul Golgota e prima che ella – ritornato Cristo al Padre – si ritrovi nel Cenacolo della Pentecoste nel giorno della manifestazione al mondo della Chiesa, nata nella potenza dello Spirito di verità. Tuttavia, la via della fede di Giuseppe segue la stessa direzione, rimane totalmente determinata dallo stesso mistero, del quale egli insieme con Maria era divenuto il primo depositario. L’Incarnazione e la Redenzione costituiscono un’unità organica ed indissolubile, in cui l’«economia della rivelazione avviene con eventi e parole intimamente connessi tra loro» («Dei Verbum», 2). Proprio per questa unita papa Giovanni XXIII, che nutriva una grande devozione per san Giuseppe, stabilì che nel canone romano della Messa, memoriale perpetuo della Redenzione, fosse inserito il suo nome accanto a quello di Maria, e prima degli apostoli, dei Sommi Pontefici e dei martiri (S. Rituum Congreg., «Novis hisce temporibus, die 13 nov. 1962: AAS 54 [1962]). Come si deduce dai testi evangelici, il matrimonio con Maria è il fondamento giuridico della paternità di Giuseppe. E’ per assicurare la protezione paterna a Gesù che Dio sceglie Giuseppe come sposo di Maria. Ne segue che la paternità di Giuseppe – una relazione che lo colloca il più vicino possibile a Cristo, termine di ogni elezione e predestinazione ( Rm 8,28s) – passa attraverso il matrimonio con Maria, cioè attraverso la famiglia. Gli evangelisti, pur affermando chiaramente che Gesù è stato concepito per opera dello Spirito Santo e che in quel matrimonio è stata conservata la verginità (Mt 1,18-24; Lc 1,26-34), chiamano Giuseppe sposo di Maria e Maria sposa di Giuseppe (Mt 1,16.18-20.24; Lc 1,27; 2,5). Ed anche per la Chiesa, se è importante professare il concepimento verginale di Gesù, non è meno importante difendere il matrimonio di Maria con Giuseppe, perché giuridicamente è da esso che dipende la paternità di Giuseppe. Di qui si comprende perché le generazioni sono state elencate secondo la genealogia di Giuseppe. «Perché – si chiede santo Agostino – non lo dovevano essere attraverso Giuseppe? Non era forse Giuseppe il marito di Maria? (…) La Scrittura afferma, per mezzo dell’autorità angelica, che egli era il marito. Non temere, dice, di prendere con te Maria come tua sposa, perché quel che è generato in lei viene dallo Spirito Santo. Gli viene ordinato di imporre il nome al bambino, benché non nato dal suo seme. Ella, dice, partorirà un figlio, e tu lo chiamerai Gesù. La Scrittura sa che Gesù non è nato dal seme di Giuseppe, poiché a lui preoccupato circa l’origine della gravidanza di lei è detto: viene dallo Spirito Santo. E tuttavia non gli viene tolta l’autorità paterna, dal momento che gli è ordinato di imporre il nome al bambino. Infine, anche la stessa Vergine Maria, ben consapevole di non aver concepito Cristo dall’unione coniugale con lui, lo chiama tuttavia padre di Cristo» («Sermo 51», 10, 16: PL 38, 342). Il Figlio di Maria è anche figlio di Giuseppe in forza del vincolo matrimoniale che li unisce: «A motivo di quel matrimonio fedele meritarono entrambi di essere chiamati genitori di Cristo, non solo quella madre, ma anche quel suo padre, allo stesso modo che era coniuge di sua madre, entrambi per mezzo della mente, non della carne» (S. Augustini, «De nuptiis et concupiscentia» I, 11, 12: PL 44, 421; Eiusdem, «De consensu evangelistarum», II, 1, 2: PL 34, 1071; Eiusdem, «Contra Faustum», III, 2: PL 42, 214). In tale matrimonio non mancò nessuno dei requisiti che lo costituiscono: «In quei genitori di Cristo si sono realizzati tutti i beni delle nozze: la prole, la fedeltà, il sacramento. Conosciamo la prole, che è lo stesso Signore Gesù; la fedeltà, perché non c’è nessun adulterio; il sacramento, perché non c’è nessun divorzio» (S. Augustini, «De nuptiis et concupiscentia», I, 11, 13: PL 44, 421; Eiusdem, «Contra Iulianum», V, 12, 46: PL 44, 810). Analizzando la natura del matrimonio, sia sant’Agostino che san Tommaso la collocano costantemente nell’«indivisibile unione degli animi», nell’«unione dei cuori», nel «consenso» (S. Augustini, «Contra Faustum», XXIII, 8: PL 42, 470s; Eiusdem, «De consensu evangelistarum», II, 1, 3: PL 34, 1072; Eiusdem, «Sermo 51», 13, 21: PL 38, 344s; S. Thomae, «Summa Theologiae», III, q. 29, a. 2, in conclus.), elementi che in quel matrimonio si sono manifestati in modo esemplare. Nel momento culminante della storia della salvezza, quando Dio rivela il suo amore per l’umanità mediante il dono del Verbo, è proprio il matrimonio di Maria e Giuseppe che realizza in piena «libertà» il «dono sponsale di sé» nell’accogliere ed esprimere un tale amore («Insegnamenti di Giovanni Paolo II», III, 1 [1980] 88-92.148-152.428-431). «In questa grande impresa del rinnovamento di tutte le cose in Cristo, il matrimonio, anch’esso purificato e rinnovato, diviene una realtà nuova, un sacramento della nuova Alleanza. Ed ecco che alle soglie del Nuovo Testamento, come già all’inizio dell’Antico, c’è una coppia. Ma, mentre quella di Adamo ed Eva era stata sorgente del male che ha inondato il mondo, quella di Giuseppe e di Maria costituisce il vertice, dal quale la santità si espande su tutta la terra. Il Salvatore ha iniziato l’opera della salvezza con questa unione verginale e santa, nella quale si manifesta la sua onnipotente volontà di purificare e santificare la famiglia, questo santuario dell’amore e questa culla della vita» (Pauli VI, «Allocutio ad Motum “Equipes Notre-Dame», 7, die 4 maii 1970: Insegnamenti di Paolo VI, VIII [1970] 428. Luades Familiae Nazarethanae, quae domesticae communitatis perfectum habendum est exemplar, similes inveniuntur, v. g., apud Leonis XIII, «Neminem Fugit», die 14 iun. 1892: «Leonis XIII P. M. Acta», XII [1892] 149s; apud Benedicti XV, «Bonum Sane», die 25 iul. 1920: AAS 12 [1920] 313-317). Quanti insegnamenti da ciò derivano oggi per la famiglia! Poiché «l’essenza ed i compiti della famiglia sono ultimamente definiti dall’amore» e «la famiglia riceve la missione di custodire, rivelare e comunicare l’amore, quale riflesso vivo e reale partecipazione dell’amore di Dio per l’umanità e dell’amore di Cristo Signore per la Chiesa sua sposa» («Familairis Consortio», 17), e nella santa Famiglia, in questa originaria «Chiesa domestica» («Familiaris Consortio», 49; «Lumen Gentium», 11; «Apostolicam Actuositatem», 11) che tutte le famiglie cristiane debbono rispecchiarsi. In essa, infatti, «per un misterioso disegno di Dio è vissuto nascosto per lunghi anni il Figlio di Dio: essa, dunque, è il prototipo e l’esempio di tutte le famiglie cristiane» («Familiaris Consortio», 85). San Giuseppe è stato chiamato da Dio a servire direttamente la persona e la missione di Gesù mediante l’esercizio della sua paternità: proprio in tal modo egli coopera nella pienezza dei tempi al grande mistero della Redenzione ed è veramente «ministro della salvezza» (S. Ioannis Chrysostomi, «In Matth. Hom.», V, 3: PG 57, 57s). La sua paternità si è espressa concretamente «nell’aver fatto della sua vita un servizio, un sacrificio, al mistero dell’incarnazione e alla missione redentrice che vi è congiunta; nell’aver usato dell’autorità legale, che a lui spettava sulla sacra Famiglia, per farle totale dono di sè, della sua vita, del suo lavoro; nell’aver convertito la sua umana vocazione all’amore domestico nella sovrumana oblazione di sè, del suo cuore e di ogni capacità nell’amore posto a servizio del Messia germinato nella sua casa» («Insegnamenti di Paolo VI», IV [1966] 110). La liturgia, ricordando che sono stati affidati «alla premurosa custodia di san Giuseppe gli inizi della nostra redenzione» («Missale Romanum», Collecta «in Sollemnitate S. Ioseph Sponsi B.V.M») precisa anche che «Dio lo ha messo a capo della sua famiglia, come servo fedele e prudente, affinché custodisse come padre il suo Figlio unigenito» («Missale Romanum», Praefatio «in Sollemnitate S. Ioseph Sponsi B.V.M.»). Leone XIII sottolinea la sublimità di questa missione: «Egli tra tutti si impone nella sua augusta dignità, perché per divina disposizione fu custode e, nell’opinione degli uomini, padre del Figlio di Dio. Donde conseguiva che il Verbo di Dio fosse sottomesso a Giuseppe, gli obbedisse e gli prestasse quell’onore e quella riverenza che i figli debbono al loro padre» («Quamquam Pluries», die 15 aug. 1889: «Leonis XIII P. M. Acta», IX [1890] 178). Poiché non è concepibile che a un compito così sublime non corrispondano le qualità richieste per svolgerlo adeguatamente, bisogna riconoscere che Giuseppe ebbe verso Gesù «per speciale dono del Cielo, tutto quell’amore naturale, tutta quell’affettuosa sollecitudine che il cuore di un padre possa conoscere» (Pii XII, «Nuntius radiophonicus ad alumnos transmissus in Scholis Catholicis Foederatarum Americae Civitatum discentes», die 19 febr. 1958: AAS 50 [1958] 174). Con la potestà paterna su Gesù, Dio ha anche partecipato a Giuseppe l’amore corrispondente, quell’amore che ha la sua sorgente nel Padre, «dal quale prende nome ogni paternità nei cieli e sulla terra» (Ef 3,15). Nei Vangeli è presentato chiaramente il compito paterno di Giuseppe verso Gesù. Difatti, la salvezza, che passa attraverso l’umanità di Gesù, si realizza nei gesti che rientrano nella quotidianità della vita familiare, rispettando quella «condiscendenza» inerente all’economia dell’Incarnazione. Gli evangelisti sono molto attenti a mostrare come nella vita di Gesù nulla sia stato lasciato al caso, ma tutto si sia svolto secondo un piano divinamente prestabilito. La formula spesso ripetuta: «Così avvenne, affinché si adempissero…» e il riferimento dell’avvenimento descritto a un testo dell’antico testamento tendono a sottolineare l’unità e la continuità del progetto, che raggiunge in Cristo il suo compimento. Con l’Incarnazione le «promesse» e le «figure» dell’antico testamento divengono «realtà»: luoghi, persone, avvenimenti e riti si intrecciano secondo precisi ordini divini, trasmessi mediante il ministero angelico e recepiti da creature particolarmente sensibili alla voce di Dio. Maria è l’umile serva del Signore, preparata dall’eternità al compito di essere madre di Dio; Giuseppe è colui che Dio ha scelto per essere «l’ordinatore della nascita del Signore» (Origenis, «Hom. XIII in Lucam» 7: S. Ch. 87, 214), colui che ha l’incarico di provvedere all’inserimento «ordinato» del Figlio di Dio nel mondo, nel rispetto delle disposizioni divine e delle leggi umane. Tutta la vita cosiddetta «privata» o «nascosta» di Gesù è affidata alla sua custodia. Recandosi a Betlemme per il censimento in ossequio alle disposizioni della legittima autorità, Giuseppe adempì nei riguardi del Bambino il compito importante e significativo di inserire ufficialmente il nome «Gesù, figlio di Giuseppe di Nazaret» (Gv 1,45) nell’anagrafe dell’impero. Tale iscrizione manifesta in modo palese l’appartenenza di Gesù al genere umano, uomo fra gli uomini, cittadino di questo mondo, soggetto alle leggi e istituzioni civili, ma anche «salvatore del mondo». Origene descrive bene il significato teologico inerente a questo fatto storico, tutt’altro che marginale: «Poiché il primo censimento di tutta la terra avvenne sotto Cesare Augusto, e tra tutti gli altri anche Giuseppe si fece registrare insieme con Maria sua sposa, che era incinta, poiché Gesù venne alla luce prima che il censimento fosse compiuto, a chi consideri con diligente attenzione sembrerà esprimere una sorte di mistero il fatto che nella dichiarazione di tutta la terra dovesse essere censito anche Cristo. In tal modo, con tutti registrato, tutti egli poteva santificare, con tutta la terra inscritto nel censimento, alla terra offriva la comunione con sè, e dopo questa dichiarazione tutti gli uomini della terra scriveva nel libro dei viventi, onde quanti avessero creduto in lui, fossero poi inscritti nel cielo con i Santi di colui a cui è la gloria e l’impero nei secoli dei secoli. Amen» («Hom. XI in Lucam», 6: S. Ch. 87, 194 et 196).Quale depositario del mistero «nascosto da secoli nella mente di Dio», e che comincia a realizzarsi davanti ai suoi occhi «nella pienezza del tempo», Giuseppe è insieme con Maria, nella notte di Betlemme, testimone privilegiato della venuta del Figlio di Dio nel mondo. Così scrive Luca: «Ora, mentre si trovavano in quel luogo, si compirono per lei i giorni del parto. Diede alla luce il suo figlio primogenito, lo avvolse in fasce e lo depose in una mangiatoia, perché non c’era posto per loro nell’albergo» (Lc 2,6-7). Giuseppe fu testimone oculare di questa nascita, avvenuta in condizioni umanamente umilianti, primo annuncio di quella «spoliazione» (Fil 2,5-8), a cui Cristo liberamente accondiscese per la remissione dei peccati. Nello stesso tempo egli fu testimone dell’adorazione dei pastori, giunti sul luogo della nascita di Gesù dopo che l’angelo aveva recato loro questa grande, lieta notizia (Lc 2,15-16); più tardi fu anche testimone dell’omaggio dei magi, venuti dall’Oriente (Mt 2,11). Essendo la circoncisione del figlio il primo dovere religioso del padre, Giuseppe con questo rito ( Lc 2,21) esercita il suo diritto-dovere nei riguardi di Gesù. Il principio secondo il quale i riti dell’antico testamento sono l’ombra della realtà (Eb 9,9s; 10,1), spiega perché Gesù li accetti. Come per gli altri riti, anche quello della circoncisione trova in Gesù il «compimento». L’alleanza di Dio con Abramo, di cui la circoncisione era segno (Gen 17,13), raggiunge in Gesù il suo pieno effetto e la sua perfetta realizzazione, essendo Gesù il «sì» di tutte le antiche promesse (2Cor 1,20). In occasione della circoncisione, Giuseppe impone al bambino il nome di Gesù. Questo nome è il solo nel quale si trova la salvezza (At 4,12); ed a Giuseppe ne era stato rivelato il significato al momento della sua «annunciazione»: «E tu lo chiamerai Gesù: egli, infatti, salverà il suo popolo dai i suoi peccati» (Mt 1,21). Imponendo il nome, Giuseppe dichiara la propria legale paternità su Gesù e, pronunciando il nome, proclama la di lui missione di salvatore. Questo rito, riferito da Luca (2,22s), include il riscatto del primogenito e illumina la successiva permanenza di Gesù dodicenne nel tempio. Il riscatto dei primogenito è un altro dovere del padre, che è adempiuto da Giuseppe. Nel primogenito era rappresentato il popolo dell’alleanza, riscattato dalla schiavitù per appartenere a Dio. Anche a questo riguardo Gesù, che è il vero «prezzo» del riscatto (1Cor 6,20; 7,23; 1Pt 1,19), non solo «compie» il rito dell’antico testamento, ma nello stesso tempo lo supera, non essendo egli un soggetto da riscattare, ma l’autore stesso del riscatto. L’Evangelista rileva che «il padre e la madre di Gesù si stupivano delle cose che si dicevano di lui» (Lc 2,33) e, in particolare, di ciò che disse Simeone, indicando Gesù, nel suo cantico rivolto a Dio, come la «salvezza preparata da Dio davanti a tutti i popoli» e «luce per illuminare le genti e gloria del suo popolo Israele» e, più avanti, anche come «segno di contraddizione» (Lc 2,30-34). Dopo la presentazione al tempio l’evangelista Luca annota: «Quando ebbero tutto compiuto secondo la legge del Signore, fecero ritorno in Galilea, alla loro città di Nazaret. Il bambino cresceva e si fortificava, pieno di sapienza, e la grazia di Dio era sopra di lui» (Lc 2,39-40). Ma, secondo il testo di Matteo, prima ancora di questo ritorno in Galilea, è da collocare un evento molto importante, per il quale la divina Provvidenza ricorre di nuovo a Giuseppe. Leggiamo: «Essi (i magi) erano appena partiti, quando un angelo del Signore apparve in sogno a Giuseppe e gli disse: “Alzati, prendi con te il bambino e sua madre e fuggi in Egitto, e resta là finché non ti avvertirò, perché Erode sta cercando il bambino per ucciderlo”» (Mt 2,13). In occasione della venuta dei magi dall’Oriente, Erode aveva saputo della nascita del «re dei Giudei» (Mt 2,2). E quando i magi partirono, egli «mandò ad uccidere tutti i bambini di Betlemme e del suo territorio dai due anni in giù» (Mt 2,16). In questo modo, uccidendo tutti, voleva uccidere quel neonato «re dei Giudei», del quale era venuto a conoscenza durante la visita dei magi alla sua corte. Allora Giuseppe, avendo udito in sogno l’avvertimento, «prese con sè il bambino e sua madre nella notte e fuggì in Egitto, dove rimase fino alla morte di Erode, perché si adempisse ciò che era stato detto dal Signore per mezzo del profeta: “Dall’Egitto ho chiamato mio figlio”» (Mt 2,14-15; Os 11,1). In tal modo la via del ritorno di Gesù da Betlemme a Nazaret passò attraverso l’Egitto. Come Israele aveva preso la via dell’esodo «dalla condizione di schiavitù» per iniziare l’antica alleanza, così Giuseppe, depositario e cooperatore del mistero provvidenziale di Dio, custodisce anche in esilio colui che realizza la nuova alleanza. Dal momento dell’Annunciazione Giuseppe insieme con Maria si trovò in un certo senso nell’intimo del mistero nascosto da secoli nella mente di Dio e che si era rivestito di carne: «Il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi» (Gv 1,14). Egli abitò in mezzo agli uomini, e l’ambito della sua dimora fu la santa Famiglia di Nazaret – una delle tante famiglie di questa cittadina della Galilea, una delle tante famiglie della terra di Israele. Ivi Gesù cresceva e «si fortificava, pieno di sapienza, e la grazia di Dio era sopra di lui» (Lc 2,40). I Vangeli riassumono in poche parole il lungo periodo della vita «nascosta», durante il quale Gesù si prepara alla sua missione messianica. Un solo momento è sottratto da questo «nascondimento» ed è descritto dal vangelo di Luca: la pasqua di Gerusalemme, quando Gesù aveva dodici anni. Gesù partecipò a questa festa come un giovane pellegrino insieme con Maria e Giuseppe. Ed ecco: «Trascorsi i giorni della festa, mentre riprendeva la via del ritorno, il fanciullo Gesù rimase a Gerusalemme, senza che i genitori se ne accorgessero» (Lc 2,43). Passato un giorno, se ne resero conto ed iniziarono le ricerche «tra i parenti e i conoscenti». «Dopo tre giorni lo trovarono nel tempio, seduto in mezzo ai dottori, mentre li ascoltava e li interrogava. E tutti quelli che lo udivano erano pieni di stupore per la sua intelligenza e le sue risposte» (Lc 2,46-47). Maria domanda: «Figlio, perché ci hai fatto cosi? Ecco, tuo padre ed io, angosciati, ti cercavamo» (Lc 2,48). La risposta di Gesù fu tale che i due «non compresero le sue parole». Aveva detto: «Perché mi cercavate? Non sapevate che io devo occuparmi delle cose del Padre mio?» (Lc 2,49-50). Udì questa risposta Giuseppe, per il quale Maria aveva appena detto «tuo padre». Difatti così tutti dicevano e pensavano: «Gesù era figlio, come si credeva, di Giuseppe» (Lc 3,23). Nondimeno, la risposta di Gesù nel tempio doveva rinnovare nella consapevolezza del «presunto padre» ciò che questi aveva udito una notte, dodici anni prima: «Giuseppe,… non temere di prendere con te Maria, tua sposa, perché quel che è generato in lei viene dallo Spirito Santo». Già da allora egli sapeva di essere depositario del mistero di Dio, e Gesù dodicenne evocò esattamente questo mistero: «Devo occuparmi delle cose del Padre mio». La crescita di Gesù «in sapienza, in età e in grazia» (Lc 2,52) avvenne nell’ambito della santa Famiglia sotto gli occhi di Giuseppe, che aveva l’alto compito di «allevare», ossia di nutrire, di vestire e di istruire Gesù nella legge e in un mestiere, in conformità ai doveri assegnati al padre. Nel sacrifico eucaristico la Chiesa venera la memoria anzitutto della gloriosa sempre Vergine Maria, ma anche del beato Giuseppe (cfr. «Missale Romanum», «Prex Eucharistica I»), perché «nutrì colui che i fedeli dovevano mangiare come pane di vita eterna» (S. Rituum Congreg., «Quemadmodum Deus», die 8 dec. 1870: «Pii IX P. M. Acta», pars I, vol V, 282). Da parte sua, Gesù «era loro sottomesso» (Lc 2,51), ricambiando col rispetto le attenzioni dei suoi «genitori». In tal modo volle santificare i doveri della famiglia e del lavoro, che prestava accanto a Giuseppe. Nel corso della sua vita, che fu una peregrinazione nella fede, Giuseppe, come Maria, rimase fedele sino alla fine alla chiamata di Dio. La vita di lei fu il compimento sino in fondo di quel primo «fiat» pronunciato al momento dell’Annunciazione, mentre Giuseppe – come è già stato detto – al momento della sua «annunciazione» non proferì alcuna parola: semplicemente egli «fece come gli aveva ordinato l’angelo del Signore» (Mt 1,24). E questo primo «fece» divenne l’inizio della «via di Giuseppe». Lungo questa via i Vangeli non annotano alcuna parola detta da lui. Ma il silenzio di Giuseppe ha una speciale eloquenza: grazie ad esso si può leggere pienamente la verità contenuta nel giudizio che di lui dà il Vangelo: il «giusto» (Mt 1,19). Bisogna saper leggere questa verità, perché vi è contenuta una delle più importanti testimonianze circa l’uomo e la sua vocazione. Nel corso delle generazioni la Chiesa legge in modo sempre più attento e consapevole una tale testimonianza, quasi estraendo dal tesoro di questa insigne figura «cose nuove e cose antiche» (Mt 13,52). L’uomo «giusto» di Nazaret possiede soprattutto le chiare caratteristiche dello sposo. L’Evangelista parla di Maria come di «una vergine, promessa sposa di un uomo… chiamato Giuseppe» (Lc 1,27). Prima che comincia a compiersi «il mistero nascosto da secoli» (Ef 3,9), i Vangeli pongono dinanzi a noi l’immagine dello sposo e della sposa. Secondo la consuetudine del popolo ebraico, il matrimonio si concludeva in due tappe: prima veniva celebrato il matrimonio legale (vero matrimonio), e solo dopo un certo periodo, lo sposo introduceva la sposa nella propria casa. Prima di vivere insieme con Maria, Giuseppe quindi era già il suo «sposo»; Maria però, conservava nell’intimo il desiderio di far dono totale di sè esclusivamente a Dio. Ci si potrebbe domandare in che modo questo desiderio si conciliasse con le «nozze». La risposta viene soltanto dallo svolgimento degli eventi salvifici, cioè dalla speciale azione di Dio stesso. Fin dal momento dell’Annunciazione Maria sa che deve realizzare il suo desiderio verginale di donarsi a Dio in modo esclusivo e totale proprio divenendo madre del Figlio di Dio. La maternità per opera dello Spirito Santo è la forma di donazione, che Dio stesso si attende dalla Vergine, «promessa sposa» di Giuseppe. Maria pronuncia il suo «fiat». Il fatto di esser lei «promessa sposa» a Giuseppe è contenuto nel disegno stesso di Dio. Ciò indicano entrambi gli evangelisti citati, ma in modo particolare Matteo. Sono molto significative le parole dette a Giuseppe: «Non temere di prendere con te Maria, tua sposa, perché quel che è generato in lei viene dallo Spirito Santo» (Mt 1,20). Esse spiegano il mistero della sposa di Giuseppe: Maria è vergine nella sua maternità. In lei «il Figlio dell’Altissimo» assume un corpo umano e diviene «il figlio dell’uomo». Rivolgendosi a Giuseppe con le parole dell’angelo, Dio si rivolge a lui come allo sposo della Vergine di Nazaret. Ciò che si è compiuto in lei per opera dello Spirito Santo esprime al tempo stesso una speciale conferma del legame sponsale, esistente già prima tra Giuseppe e Maria. Il messaggero chiaramente dice a Giuseppe: «Non temere di prendere con te Maria, tua sposa». Pertanto, ciò che era avvenuto prima – le sue nozze con Maria – era avvenuto per volontà di Dio e, dunque, andava conservato. Nella sua divina maternità Maria deve continuare a vivere come «una vergine, sposa di uno sposo» (Lc 1,27). Nelle parole dell’«annunciazione» notturna Giuseppe ascolta non solo la verità divina circa l’ineffabile vocazione della sua sposa, ma vi riascolta, altresì, la verità circa la propria vocazione. Quest’uomo «giusto» che, nello spirito delle più nobili tradizioni del popolo eletto, amava la Vergine di Nazaret ed a lei si era legato con amore sponsale, è nuovamente chiamato da Dio a questo amore. «Giuseppe fece come gli aveva ordinato l’angelo del Signore e prese con sé la sua sposa» (Mt 1,24); quello che è generato in lei «viene dallo Spirito Santo»: da tali espressioni non bisogna forse desumere che anche il suo amore di uomo viene rigenerato dallo Spirito Santo? Non bisogna forse pensare che l’amore di Dio, che è stato riversato nel cuore umano per mezzo dello Spirito Santo (Rm 5,5), forma nel modo più perfetto ogni amore umano? Esso forma anche – ed in modo del tutto singolare – l’amore sponsale dei coniugi, approfondendo in esso tutto ciò che umanamente è degno e bello, ciò che porta i segni dell’esclusivo abbandono, dell’alleanza delle persone e dell’autentica comunione sull’esempio del mistero trinitario. «Giuseppe… prese con sè la sua sposa, la quale, senza che egli la conoscesse, partorì un figlio» (Mt 1,24-25). Queste parole indicano un’altra vicinanza sponsale. La profondità di questa vicinanza, la spirituale intensità dell’unione e del contatto tra le persone – dell’uomo e della donna – provengono in definitiva dallo Spirito, che dà la vita (Gv 6,63). Giuseppe, obbediente allo Spirito, proprio in esso ritrovò la fonte dell’amore, del suo amore sponsale di uomo, e fu questo amore più grande di quello che «l’uomo giusto» poteva attendersi a misura del proprio cuore umano.Nella liturgia Maria è celebrata come «unita a Giuseppe, uomo giusto, da un vincolo di amore sponsale e verginale» («Collectio Missarum de Beata Maria Virgine», I, «Sancta Maria de Nazareth», Praefatio). Si tratta, infatti, di due amori che rappresentano congiuntamente il mistero della Chiesa, vergine e sposa, la quale trova nel matrimonio di Maria e Giuseppe il suo simbolo. «La verginità e il celibato per il Regno di Dio non solo non contraddicono alla dignità del matrimonio, ma la presuppongono e la confermano. Il matrimonio e la verginità sono i due modi di esprimere e di vivere l’unico mistero dell’alleanza di Dio col suo popolo» («Familiaris Consortio», 16), che è comunione di amore tra Dio e gli uomini. Mediante il sacrificio totale di sè Giuseppe esprime il suo generoso amore verso la Madre di Dio, facendole «dono sponsale di sé». Pur deciso a ritirarsi per non ostacolare il piano di Dio che si stava realizzando in lei, egli per espresso ordine angelico la trattiene con sè e ne rispetta l’esclusiva appartenenza a Dio. D’altra parte, è dal matrimonio con Maria che sono derivati a Giuseppe la sua singolare dignità e i suoi diritti su Gesù. «E’ certo che la dignità di Madre di Dio poggia sì alto, che nulla vi può essere di più sublime; ma perché tra la beatissima Vergine e Giuseppe fu stretto un nodo coniugale, non c’è dubbio che a quell’altissima dignità, per cui la Madre di Dio sovrasta di gran lunga tutte le creature, egli si avvicinò quanto mai nessun altro. Poiché il connubio è la massima società e amicizia, a cui di sua natura va unita la comunione dei beni, ne deriva che, se Dio ha dato come sposo Giuseppe alla Vergine, glielo ha dato non solo a compagno della vita, testimone della verginità e tutore dell’onestà, ma anche perché partecipasse, per mezzo del patto coniugale, all’eccelsa grandezza di lei» (Leone XIII, «Quamquam Pluries», die 15 aug. 1889: «Leonis XIII P. M. Acta» IX [190] 177s). Un tale vincolo di carità costituì la vita della santa Famiglia prima nella povertà di Betlemme, poi nell’esilio in Egitto e, successivamente, nella dimora a Nazaret. La Chiesa circonda di profonda venerazione questa Famiglia, proponendola quale modello a tutte le famiglie. Inserita direttamente nel mistero dell’Incarnazione, la Famiglia di Nazaret costituisce essa stessa uno speciale mistero. Ed insieme – così come nella Incarnazione – a questo mistero appartiene la vera paternità: la forma umana della famiglia del Figlio di Dio – vera famiglia umana, formata dal mistero divino. In essa Giuseppe è il padre: non è la sua una paternità derivante dalla generazione; eppure, essa non è «apparente», o soltanto «sostitutiva», ma possiede in pieno l’autenticità della paternità umana, della missione paterna nella famiglia. E’ contenuta in ciò una conseguenza dell’unione ipostatica: umanità assunta nell’unità della Persona divina del Verbo-Figlio, Gesù Cristo. Insieme con l’assunzione dell’umanità, in Cristo è anche «assunto» tutto ciò che è umano e, in particolare, la famiglia, quale prima dimensione della sua esistenza in terra. In questo contesto è anche «assunta» la paternità umana di Giuseppe. In base a questo principio acquistano il loro giusto significato le parole rivolte da Maria a Gesù dodicenne nel tempio: «Tuo padre ed io… ti cercavamo». Non è questa una frase convenzionale: le parole della Madre di Gesù indicano tutta la realtà dell’Incarnazione, che appartiene al mistero della Famiglia di Nazaret. Giuseppe, il quale sin dall’inizio accettò mediante «l’obbedienza della fede» la sua paternità umana nei riguardi di Gesù, seguendo la luce dello Spirito Santo, che per mezzo della fede si dona all’uomo, certamente scopriva sempre più ampiamente il dono ineffabile di questa sua paternità. Espressione quotidiana di questo amore nella vita della Famiglia di Nazaret è il lavoro. Il testo evangelico precisa il tipo di lavoro, mediante il quale Giuseppe cercava di assicurare il mantenimento alla Famiglia: quello di carpentiere. Questa semplice parola copre l’intero arco della vita di Giuseppe. Per Gesù sono questi gli anni della vita nascosta, di cui parla l’Evangelista dopo l’episodio avvenuto al tempio: «Partì dunque con loro e tornò a Nazaret e stava loro sottomesso» (Lc 2,51) Questa «sottomissione», cioè l’obbedienza di Gesù nella casa di Nazaret, viene intesa anche come partecipazione al lavoro di Giuseppe. Colui che era detto il «figlio del carpentiere» aveva imparato il lavoro dal suo «padre» putativo. Se la Famiglia di Nazaret nell’ordine della salvezza e della santità è l’esempio e il modello per le famiglie umane, lo è analogamente anche il lavoro di Gesù a fianco di Giuseppe carpentiere. Nella nostra epoca la Chiesa ha messo questo in rilievo pure con la memoria liturgica di san Giuseppe artigiano, fissata al primo maggio. Il lavoro umano e, in particolare, il lavoro manuale trovano nel Vangelo un accento speciale. Insieme all’umanità del Figlio di Dio esso è stato accolto nel mistero dell’Incarnazione, come anche è stato in particolare modo redento. Grazie al banco di lavoro presso il quale esercitava il suo mestiere insieme con Gesù, Giuseppe avvicinò il lavoro umano al mistero della Redenzione. Nella crescita umana di Gesù «in sapienza, in età e in grazia» ebbe una parte notevole la virtù della laboriosità, essendo «il lavoro un bene dell’uomo» che «trasforma la natura» e rende l’uomo «in un certo senso più uomo» («Laborem Exersens», 9). L’importanza del lavoro nella vita dell’uomo richiede che se ne conoscano ed assimilino i contenuti «per aiutare tutti gli uomini ad avvicinarsi per il suo tramite a Dio, creatore e redentore, a partecipare ai suoi piani salvifici nei riguardi dell’uomo e del mondo e per approfondire nella loro vita l’amicizia con Cristo, assumendo mediante la fede viva una partecipazione alla sua triplice missione: di sacerdote, di profeta e di re» («Laborem Exercens», 24. Hac recentiore aetate Summi Pontifices assidue S. Ioseph tamquam operariorum opificumque «exemplum» exhibuerunt; cfr. v. g., Leonis XIII, «Quamquam Pluries», die 15 aug. 1889»: «Leonis XIII P. M. Acta», IX [1890] 180; Benedicti XV, «Bonum Sane» die 25 iul. 1920: AAS 12 [1920] 314-316; Pii XII, «Allocutio», die 11 mar. 1945: AAS 37 [1945] 72; Eiusdem, «Allocutio», die 1 maii 1955: AAS 47 [1955] 406; Ioannis XXIII, «Nuntius radiophonicus», die 1 maii 1960: AAS 52 [1960] 398). Si tratta, in definitiva, della santificazione della vita quotidiana, che ciascuno deve acquisire secondo il proprio stato e che può esser promossa secondo un modello accessibile a tutti: «San Giuseppe è il modello degli umili che il cristianesimo solleva a grandi destini; San Giuseppe è la prova che per essere buoni ed autentici seguaci di Cristo non occorrono “grandi cose”, ma si richiedono solo virtù comuni, umane, semplici, ma vere ed autentiche» («Insegnamenti di Paolo VI», VII [1969] 1268). Anche sul lavoro di carpentiere nella casa di Nazaret si stende lo stesso clima di silenzio, che accompagna tutto quanto si riferisce alla figura di Giuseppe. E’ un silenzio, però che svela in modo speciale il profilo interiore di questa figura. I Vangeli parlano esclusivamente di ciò che Giuseppe «fece»; tuttavia, consentono di scoprire nelle sue «azioni», avvolte dal silenzio, un clima di profonda contemplazione. Giuseppe era in quotidiano contatto col mistero «nascosto da secoli», che «prese dimora» sotto il tetto di casa sua. Questo spiega, ad esempio, perché santa Teresa di Gesù, la grande riformatrice del Carmelo contemplativo, si fece promotrice del rinnovamento del culto di san Giuseppe nella cristianità occidentale. Il sacrificio totale, che Giuseppe fece di tutta la sua esistenza alle esigenze della venuta del Messia nella propria casa, trova la ragione adeguata nella «sua insondabile vita interiore, dalla quale vengono a lui ordini e conforti singolarissimi, e derivano a lui la logica e la forza, propria delle anime semplici e limpide, delle grandi decisioni, come quella di mettere subito a disposizione dei disegni divini la sua libertà, la sua legittima vocazione umana, la sua felicità coniugale, accettando della famiglia la condizione, la responsabilità ed il peso, e rinunciando per un incomparabile virgineo amore al naturale amore coniugale che la costituisce e la alimenta» («Insegnamenti di Paolo VI», VII [1969] 1268).Questa sottomissione a Dio, che è prontezza di volontà nel dedicarsi alle cose che riguardano il suo servizio, non è altro che l’esercizio della devozione, la quale costituisce una delle espressioni della virtù della religione (S. Thomae, «Summa Theologiae», II-II, q. 82, a. 3, ad 2). La comunione di vita tra Giuseppe e Gesù ci porta a considerare ancora il mistero dell’Incarnazione proprio sotto l’aspetto dell’umanità di Cristo, strumento efficace della divinità in ordine alla santificazione degli uomini: «In forza della divinità le azioni umane di Cristo furono per noi salutari, causando in noi la grazia sia in ragione del merito, sia per una certa efficacia» (S. Thomae, «Summa Theologiae», II-II, q. 8, a. 1, ad 1). Tra queste azioni gli evangelisti privilegiano quelle riguardanti il mistero pasquale, ma non omettono di sottolineare l’importanza del contatto fisico con Gesù in ordine alle guarigioni (ex. gr., Mc 1,41) e l’influsso da lui esercitato su Giovanni il Battista, quando entrambi erano ancora nel grembo materno ( Lc 1,41-44). La testimonianza apostolica non ha trascurato – come si è visto – la narrazione della nascita di Gesù, della circoncisione, della presentazione al tempio, della fuga in Egitto e della vita nascosta a Nazaret a motivo del «mistero» di grazia contenuto in tali «gesti», tutti salvifici, perché partecipi della stessa sorgente di amore: la divinità di Cristo. Se questo amore attraverso la sua umanità si irradiava su tutti gli uomini, ne erano certamente beneficiari in primo luogo coloro che la volontà divina aveva collocato nella sua più stretta intimità: Maria sua madre e il padre putativo Giuseppe (Pii XII, «Haurietis Aquas», III, die 15 maii 1956: AAS 48 [1956] 329s). Poiché l’amore «paterno» di Giuseppe non poteva non influire sull’amore «filiale» di Gesù e, viceversa, l’amore «filiale» di Gesù non poteva non influire sull’amore «paterno» di Giuseppe, come inoltrarsi nelle profondità di questa singolarissima relazione? Le anime più sensibili agli impulsi dell’amore divino vedono a ragione in Giuseppe un luminoso esempio di vita interiore. Inoltre, l’apparente tensione tra la vita attiva e quella contemplativa trova in lui un ideale superamento, possibile a chi possiede la perfezione della carità. Seguendo la nota distinzione tra l’amore della verità («caritas veritatis») e l’esigenza dell’amore («necessitas caritatis») (S. Thomae, «Summa Theologiae», II-II, q. 182, a. 1, ad 3), possiamo dire che Giuseppe ha sperimentato sia l’amore della verità, cioè il puro amore di contemplazione della verità divina che irradiava dall’umanità di Cristo, sia l’esigenza dell’amore, cioè l’amore altrettanto puro del servizio, richiesto dalla tutela e dallo sviluppo di quella stessa umanità. In tempi difficili per la Chiesa Pio IX, volendo affidarla alla speciale protezione del santo patriarca Giuseppe, lo dichiarò «Patrono della Chiesa cattolica» (S. Rituum Congreg., «Quemadmodum Deus», die 8 dec. 1870: «Pii IX P. M. Acta», pars I, vol. V, 283). Il Pontefice sapeva di non compiere un gesto peregrino, perché a motivo dell’eccelsa dignità concessa da Dio a questo suo fedelissimo servo, «la Chiesa, dopo la Vergine Santa, sposa di lui, ebbe sempre in grande onore e ricolmò di lodi il beato Giuseppe, e di preferenza a lui ricorse nelle angustie» (S. Rituum Congreg., «Quemadmodum Deus, die 8 dec. 1870: «Pii IX P. M. Acta+, pars I, vol. V, 282s). Quali sono i motivi di tanta fiducia? Leone XIII li espone così: «Le ragioni per cui il beato Giuseppe deve essere considerato speciale Patrono della Chiesa, e la Chiesa, a sua volta, ripromettersi moltissimo dalla tutela e dal patrocinio di lui, nascono principalmente dall’essere egli sposo di Maria e padre putativo di Gesù… Giuseppe fu a suo tempo legittimo e naturale custode, capo e difensore della divina Famiglia… E’ dunque cosa conveniente e sommamente degna del beato Giuseppe, che, a quel modo che egli un tempo soleva tutelare santamente in ogni evento la famiglia di Nazaret, così ora copra e difenda col suo celeste patrocinio la Chiesa di Cristo» («Quamquam Pluries», die 15 aug. 1889: «Leonis XIII P. M. Acta», IX [1890] 177-179). Questo patrocinio deve essere invocato ed è necessario tuttora alla Chiesa non soltanto a difesa contro gli insorgenti pericoli, ma anche e soprattutto a conforto del suo rinnovato impegno di evangelizzazione nel mondo e di rievangelizzazione in quei «paesi e nazioni dove – come ho scritto nell’esortazione apostolica “Christifideles Laici” – la religione e la vita cristiana erano un tempo quanto mai fiorenti», e che «sono ora messi a dura prova» (34). Per portare il primo annuncio di Cristo o per riportarlo laddove esso è trascurato o dimenticato, la Chiesa ha bisogno di una speciale «virtù dall’alto» (Lc 24,49; At 1,8), donazione certo dello Spirito del Signore non disgiunta dall’intercessione e dall’esempio dei suoi santi. Oltre che nella sicura protezione, la Chiesa confida anche nell’insigne esempio di Giuseppe, un esempio che supera i singoli stati di vita e si propone all’intera comunità cristiana, quali che siano in essa la condizione e i compiti di ciascun fedele. Come è detto nella costituzione del Concilio Vaticano II sulla divina Rivelazione, l’atteggiamento fondamentale di tutta la Chiesa deve essere quello del «religioso ascolto della Parola di Dio» («Dei Verbum», 1), ossia dell’assoluta disponibilità a servire fedelmente la volontà salvifica di Dio, rivelata in Gesù. Già all’inizio della Redenzione umana troviamo incarnato il modello dell’obbedienza, dopo Maria, proprio in Giuseppe, colui che si distingue per la fedele esecuzione dei comandi di Dio. Paolo VI invitava a invocarne il patrocinio «come la Chiesa, in questi ultimi tempi, è solita a fare, per sè, innanzitutto, con una spontanea riflessione teologica sul connubio dell’azione divina con l’azione umana nella grande economia della redenzione, nel quale la prima, quella divina, è tutta a sè sufficiente ma la seconda, quella umana, la nostra, sebbene di nulla capace (Gv15,5), non è mai dispensata da un’umile, ma condizionale e nobilitante collaborazione. Inoltre, protettore la Chiesa lo invoca per un profondo e attualissimo desiderio di rinverdire la sua secolare esistenza di veraci virtù evangeliche, quali in San Giuseppe rifulgono» («Insegnamenti di Paolo VI», VII [1969] 1268). La Chiesa trasforma queste esigenze in preghiera. Ricordando che Dio ha affidato gli inizi della nostra Redenzione alla custodia premurosa di san Giuseppe, gli chiede di concederle di collaborare fedelmente all’opera di salvezza, di donarle la stessa fedeltà e purezza di cuore che animò Giuseppe nel servire il Verbo incarnato e di camminare sull’esempio e per l’intercessione del santo, davanti a Dio nelle vie della santità e della giustizia («Missale Romanum», Collecta; Super oblata «in Sollemnitate S. Ioseph Sponsi B.M.V.»; Post communio «in Missa votiva S. Ioseph»). Già cento anni fa Papa Leone XIII esortava il mondo cattolico a pregare per ottenere la protezione di san Giuseppe, patrono di tutta la Chiesa. L’epistola enciclica «Quamquam Pluries» si richiamava a quell’«amore paterno» che Giuseppe «portava al fanciullo Gesù», ed a lui, «provvido custode della divina Famiglia», raccomandava «la cara eredità che Gesù Cristo acquistò col suo sangue». Da allora la Chiesa – come ho ricordato all’inizio – implora la protezione di san Giuseppe – «per quel sacro vincolo di carità che lo strinse all’Immacolata Vergine Madre di Dio» e gli raccomanda tutte le sue sollecitudini, anche per le minacce che incombono sulla famiglia umana.
Ancora oggi abbiamo numerosi motivi per pregare nello stesso modo: «Allontana da noi, o padre amatissimo, questa peste di errori e di vizi…, assistici propizio dal cielo in questa lotta col potere delle tenebre…; e come un tempo scampasti dalla morte la minacciata vita del bambino Gesù, così ora difendi la santa Chiesa di Dio dalle ostili insidie e da ogni avversità» («Oratio ad Sanctum Iosephum», quae proxime sequitur textum ipsius Epist. Enc. «Quamquam Pluries”» die 15 aug. 1889: «Leone XIII P. M. Acta», IX [1890] 183). Ancora oggi abbiamo perduranti motivi per raccomandare a san Giuseppe ogni uomo. Auspico vivamente che il presente ricordo della figura di Giuseppe rinnovi anche in noi gli accenti della preghiera che un secolo fa il mio predecessore raccomandò di innalzare a lui. E’ certo, infatti, che questa preghiera e la figura stessa di Giuseppe acquistano una rinnovata attualità per la Chiesa del nostro tempo, in relazione al nuovo millennio cristiano. Il Concilio Vaticano II ha di nuovo sensibilizzato tutti alle «grandi cose di Dio», a quell’«economia della salvezza», della quale Giuseppe fu speciale ministro. Raccomandandoci, dunque, alla protezione di colui al quale Dio stesso «affidò la custodia dei suoi tesori più preziosi e più grandi» (S. Rituum Congreg., «Quemadmodum Deus, die 8 dec. 1870: «Pii IX P M. Acta», pars I, vol. V, 282), impariamo al tempo stesso da lui a servire l’«economia della salvezza». Che san Giuseppe diventi per tutti un singolare maestro nel servire la missione salvifica di Cristo, compito che nella Chiesa spetta a ciascuno e a tutti: agli sposi ed ai genitori, a coloro che vivono del lavoro delle proprie mani o di ogni altro lavoro, alle persone chiamate alla vita contemplativa come a quelle chiamate all’apostolato. L’uomo giusto, che portava in sè tutto il patrimonio dell’antica alleanza, è stato anche introdotto nell’«inizio» della nuova ed eterna alleanza in Gesù Cristo. Che egli ci indichi le vie di questa alleanza salvifica sulla soglia del prossimo millennio, nel quale deve perdurare e ulteriormente svilupparsi la «pienezza del tempo» ch’è propria del mistero ineffabile della Incarnazione del Verbo. Che san Giuseppe ottenga alla Chiesa ed al mondo, come a ciascuno di noi, la benedizione del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo”. Nell’udienza generale di Mercoledì 21 Agosto 1996, Giovanni Paolo II insegna: “Presentando Maria come “vergine”, il Vangelo di Luca aggiunge che era “promessa sposa di un uomo della casa di Davide, chiamato Giuseppe” (Lc 1, 27). Queste informazioni appaiono, a prima vista, contraddittorie. Occorre notare che il termine greco usato in questo passo non indica la situazione di una donna che ha contratto il matrimonio e vive pertanto nello stato matrimoniale, ma quella del fidanzamento. A differenza di quanto avviene nelle culture moderne, però, nel costume giudaico antico l’istituto del fidanzamento prevedeva un contratto e aveva normalmente valore definitivo: introduceva, infatti, i fidanzati nello stato matrimoniale, anche se il matrimonio si compiva in pienezza allorché il giovane conduceva la ragazza nella sua casa. Al momento dell’Annunciazione, Maria si trova dunque nella situazione di promessa sposa. Ci si può domandare perché mai abbia accettato il fidanzamento, dal momento che aveva fatto il proposito di rimanere vergine per sempre. Luca è consapevole di tale difficoltà, ma si limita a registrare la situazione senza apportare spiegazioni. Il fatto che l’Evangelista, pur evidenziando il proposito di verginità di Maria, la presenti ugualmente come sposa di Giuseppe costituisce un segno della attendibilità storica di ambedue le notizie. Si può supporre che tra Giuseppe e Maria, al momento del fidanzamento, vi fosse un’intesa sul progetto di vita verginale. Del resto, lo Spirito Santo, che aveva ispirato a Maria la scelta della verginità in vista del mistero dell’Incarnazione e voleva che questa avvenisse in un contesto familiare idoneo alla crescita del Bambino, poté ben suscitare anche in Giuseppe l’ideale della verginità. L’Angelo del Signore, apparendogli in sogno, gli dice: “Giuseppe, figlio di Davide, non temere di prendere con te Maria, tua sposa, perché quel che è generato in lei viene dallo Spirito Santo” (Mt 1, 20). Egli riceve così la conferma di essere chiamato a vivere in modo del tutto speciale la via del matrimonio. Attraverso la comunione verginale con la donna prescelta per dare alla luce Gesù, Dio lo chiama a cooperare alla realizzazione del suo disegno di salvezza. Il tipo di matrimonio verso cui lo Spirito Santo orienta Maria e Giuseppe è comprensibile solo nel contesto del piano salvifico e nell’ambito di un’alta spiritualità. La realizzazione concreta del mistero dell’Incarnazione esigeva una nascita verginale che mettesse in risalto la filiazione divina e, al tempo stesso, una famiglia che potesse assicurare il normale sviluppo della personalità del Bambino. Proprio in vista del loro contributo al mistero dell’Incarnazione del Verbo, Giuseppe e Maria hanno ricevuto la grazia di vivere insieme il carisma della verginità e il dono del matrimonio. La comunione d’amore verginale di Maria e Giuseppe, pur costituendo un caso specialissimo, legato alla realizzazione concreta del mistero dell’Incarnazione, è stata tuttavia un vero matrimonio (Giovanni Paolo II, Redemptoris custos, 7). La difficoltà di accostarsi al mistero sublime della loro comunione sponsale ha indotto alcuni, sin dal II secolo, ad attribuire a Giuseppe un’età avanzata e a considerarlo il custode, più che lo sposo di Maria. È il caso di supporre, invece, che egli non fosse allora un uomo anziano, ma che la sua perfezione interiore, frutto della grazia, lo portasse a vivere con affetto verginale la relazione sponsale con Maria. La cooperazione di Giuseppe al mistero dell’Incarnazione comprende anche l’esercizio del ruolo paterno nei confronti di Gesù. Tale funzione gli è riconosciuta dall’angelo che, apparendogli in sogno, lo invita a dare il nome al Bambino: “Essa partorirà un figlio e tu lo chiamerai Gesù: egli infatti salverà il suo popolo dai suoi peccati” (Mt 1, 21). Pur escludendo la generazione fisica, la paternità di Giuseppe fu una paternità reale, non apparente. Distinguendo tra padre e genitore, un’antica monografia sulla verginità di Maria – il De Margarita (IV sec.) – afferma che “gli impegni assunti dalla Vergine e da Giuseppe come sposi fecero sì che egli potesse essere chiamato con questo nome (di padre); un padre tuttavia che non ha generato”. Giuseppe dunque esercitò nei confronti di Gesù il ruolo di padre, disponendo di un’autorità a cui il Redentore si è liberamente “sottomesso” (Lc 2, 51), contribuendo alla sua educazione e trasmettendogli il mestiere di carpentiere. Sempre i cristiani hanno riconosciuto in Giuseppe colui che ha vissuto un’intima comunione con Maria e Gesù, deducendo che anche in morte ha goduto della loro presenza consolante ed affettuosa. Da tale costante tradizione cristiana si è sviluppata in molti luoghi una speciale devozione alla Santa Famiglia ed in essa a san Giuseppe, Custode del Redentore. Il Papa Leone XIII gli affidò, com’è noto, il patrocinio su tutta la Chiesa”. Nella preghiera dell’Angelus di Domenica 18 Dicembre 2005, IV d’Avvento, Papa Benedetto XVI osserva: “In questi ultimi giorni dell’Avvento la liturgia ci invita a contemplare in modo speciale la Vergine Maria e san Giuseppe, che hanno vissuto con intensità unica il tempo dell’attesa e della preparazione della nascita di Gesù. Desidero quest’oggi rivolgere lo sguardo alla figura di san Giuseppe. Nell’odierna pagina evangelica san Luca presenta la Vergine Maria come “sposa di un uomo della casa di Davide, chiamato Giuseppe” (Lc 1, 27). È però l’evangelista Matteo a dare maggior risalto al padre putativo di Gesù, sottolineando che, per suo tramite, il Bambino risultava legalmente inserito nella discendenza davidica e realizzava così le Scritture, nelle quali il Messia era profetizzato come “figlio di Davide”. Ma il ruolo di Giuseppe non può certo ridursi a questo aspetto legale. Egli è modello dell’uomo “giusto” (Mt 1, 19), che in perfetta sintonia con la sua sposa accoglie il Figlio di Dio fatto uomo e veglia sulla sua crescita umana. Per questo, nei giorni che precedono il Natale, è quanto mai opportuno stabilire una sorta di colloquio spirituale con san Giuseppe, perché egli ci aiuti a vivere in pienezza questo grande mistero della fede. L’amato Papa Giovanni Paolo II, che era molto devoto di san Giuseppe, ci ha lasciato una mirabile meditazione a lui dedicata nell’Esortazione apostolica Redemptoris Custos, “Custode del Redentore”. Tra i molti aspetti che pone in luce, un accento particolare dedica al silenzio di san Giuseppe. Il suo è un silenzio permeato di contemplazione del mistero di Dio, in atteggiamento di totale disponibilità ai voleri divini. In altre parole, il silenzio di san Giuseppe non manifesta un vuoto interiore, ma, al contrario, la pienezza di fede che egli porta nel cuore, e che guida ogni suo pensiero ed ogni sua azione. Un silenzio grazie al quale Giuseppe, all’unisono con Maria, custodisce la Parola di Dio, conosciuta attraverso le Sacre Scritture, confrontandola continuamente con gli avvenimenti della vita di Gesù; un silenzio intessuto di preghiera costante, preghiera di benedizione del Signore, di adorazione della sua santa volontà e di affidamento senza riserve alla sua provvidenza. Non si esagera se si pensa che proprio dal “padre” Giuseppe Gesù abbia appreso – sul piano umano – quella robusta interiorità che è presupposto dell’autentica giustizia, la “giustizia superiore”, che Egli un giorno insegnerà ai suoi discepoli (Mt 5, 20). Lasciamoci “contagiare” dal silenzio di san Giuseppe! Ne abbiamo tanto bisogno, in un mondo spesso troppo rumoroso, che non favorisce il raccoglimento e l’ascolto della voce di Dio. In questo tempo di preparazione al Natale coltiviamo il raccoglimento interiore, per accogliere e custodire Gesù nella nostra vita”. Nella meditazione mattutina nella cappella Domus Sanctae Marthae, Lunedì 20 Marzo 2017, Papa Francesco si sofferma proprio sulla figura del santo patrono della Chiesa universale. In lui il Pontefice indica il modello di «uomo giusto», di «uomo capace di sognare», di «custodire» e «portare avanti» il «sogno di Dio» sull’uomo. Per questo lo propone come esempio per tutti e in particolar modo per i giovani, ai quali Giuseppe insegna a non perdere mai «la capacità di sognare, di rischiare» e di assumersi «compiti difficili». La meditazione di Francesco prende spunto dalla liturgia della parola che parla di «discendenza, eredità, paternità, filiazione, stabilità»: tutte espressioni, fa notare, «che sono un promessa ma poi si concentrano in un uomo, in un uomo che non parla, non dice una sola parola, un uomo del quale si dice che era giusto, soltanto. E poi un uomo che noi vediamo che agisce come un uomo obbediente». Giuseppe, appunto. Un uomo, prosegue il Papa, «del quale non sappiamo neppure l’età» e che «porta sulle sue spalle tutte queste promesse di discendenza, di eredità, di paternità, di filiazione, di stabilità del popolo». Una grande responsabilità che però, come si legge nel vangelo di Matteo (1, 16.18-21.24), si ritrova tutta concentrata «in un sogno». Apparentemente, osserva il Vescovo di Roma, tutto ciò sembra «troppo sottile», troppo labile. Eppure proprio questo «è lo stile di Dio» nel quale Giuseppe si ritrova appieno: lui, un «sognatore» è capace «di accettare questo compito, questo compito gravoso e che ha tanto da dirci a noi in questo tempo di forte senso di orfanezza». Così egli accoglie «la promessa di Dio e la porta avanti in silenzio con fortezza, la porta avanti perché quello che Dio vuole sia compiuto». Ecco quindi delineata «la figura di Giuseppe: l’uomo nascosto, l’uomo del silenzio, l’uomo che fa da padre adottivo; l’uomo che ha la più grande autorità in quel momento senza farla vedere». Un uomo, rivela il Papa, che potrebbe «dirci tante cose», eppure «non parla», che potrebbe «comandare», giacché comanda sul Figlio di Dio, eppure «obbedisce». A lui, al suo cuore, Dio confida «cose deboli»: infatti «una promessa è debole», così come è debole «un bambino», ma anche «una ragazza della quale lui ha avuto un sospetto». Debolezze che poi continuano anche negli eventi successivi: «pensiamo alla nascita del bambino, alla fuga in Egitto…». «Tutte queste debolezze», spiega Papa Bergoglio, Giuseppe «le prende in mano, le prende nel cuore e le porta avanti come si portano avanti le debolezze, con tenerezza, con tanta tenerezza, con la tenerezza con la quale si prende in braccio un bambino». La liturgia, perciò, offre l’esempio dell’«uomo che non parla ma obbedisce, l’uomo della tenerezza, l’uomo capace di portare avanti le promesse perché divengano salde, sicure; l’uomo che garantisce la stabilità del regno di Dio, la paternità di Dio, la nostra filiazione come figlio di Dio». Ecco perché, rivela il Papa, «Giuseppe mi piace pensarlo come il custode delle debolezze», anche «delle nostre debolezze». Infatti egli «è capace di far nascere tante cose belle dalle nostre debolezze, dai nostri peccati». Egli «è custode delle debolezze perché divengano salde nella fede». Un compito fondamentale che Giuseppe «ha ricevuto in sogno», perché lui era «un uomo capace di sognare». Quindi egli non solo «è custode delle nostre debolezze, ma anche possiamo dire che è il custode del sogno di Dio: il sogno di nostro Padre, il sogno di Dio, della redenzione, di salvarci tutti, di questa ricreazione, è confidato a lui». «Grande questo falegname!» esclama il Pontefice, sottolineando ancora una volta come egli, «zitto, lavora, custodisce, porta avanti le debolezze, è capace di sognare». E a lui, rileva Francesco, «io oggi vorrei chiedere: ci dia a tutti noi la capacità di sognare perché quando sogniamo le cose grandi, le cose belle, ci avviciniamo al sogno di Dio, le cose che Dio sogna su di noi». In conclusione, una particolare intercessione: «Che ai giovani dia — perché lui era giovane — la capacità di sognare, di rischiare e prendere i compiti difficili che hanno visto nei sogni». E a tutti i cristiani, infine, doni «la fedeltà che generalmente cresce in un atteggiamento giusto, cresce nel silenzio e cresce nella tenerezza che è capace di custodire le proprie debolezze e quelle degli altri»”. © Nicola Facciolini