L’Aquila / La Scienza italiana tra illusioni, colpi di stato e fake news made in Europe. Perché l’Italia ne esce così male? Gli scienziati italiani, pochi ma in grande maggioranza buoni, sono maltrattati oltre ogni limite di decenza. L’Italia è un paese in difficoltà. Per la sua incapacità di innovare che deriva, a sua volta, da una cultura scientifica insufficiente anche tra le classi dirigenti. L’Italia non ha mai brillato negli ERC grants. Quest’anno, dei 269 ricercatori premiati gli Italiani sono 16, contro 50 Inglesi, 40 Germanici, 29 Francesi e 21 Spagnoli. Il ranking delle università e dei centri che ospitano i vincitori non è certo esaltante: 66 in Gran Bretagna che si predispone a lasciare l’Europa, 42 in Germania con una emigrata italiana: Alessandra Moretti all’Ospedale universitario Rechts der Isar, e Giuseppe Caire, Università Tecnica di Berlino; 34 in Francia con l’italiano Giovanni Marsicano in forza all’Inserm; 18 in Spagna, 16 nei Paesi Bassi con Stefano Stramigioli all’Università di Twente), 13 in Svizzera con Marco Mazzotti, Istituto Tecnico Federale di Zurigo, a pari merito con Israele, e finalmente 11 in Italia. Seguono Svezia (10), Belgio (8), Austria (7), Danimarca (5), Finlandia (4), Irlanda (3), Ungheria e Norvegia (2), Lussemburgo, Portogallo, Slovenia e Turchia (1). La Ricerca non ha frontiere ed è l’impresa più internazionale che vi sia. Ma il paragone con i Mondiali Fifa di Calcio in Russia viene spontaneo: una grande squadra, una grande storia, nella polvere come la nazionale azzurra e la sovranità istituzionale e politica degli Italiani. Un declino costante nei finanziamenti alla ricerca e all’università ha caratterizzato la politica italiana degli ultimi 15 anni, portando alla lenta asfissia del sistema e alla fuga irreversibile dei talenti all’estero, con alcune lodevoli eccezioni. La componente di finanziamento competitivo in Italia è stata sempre un decimo di quella degli altri Paesi ai quali ci si ostina follemente a paragonarsi: prima di tutto Gran Bretagna, Germania e Francia. Nessun governo in Italia ha preso in considerazione l’istituzione di una Agenzia della Ricerca capace di valutare con metodi accettabili e di finanziare conseguentemente i migliori, come si usa in quasi tutti i Paesi della Unione Europea, in Russia e ancora di più negli Stati Uniti d’America. E ciò nonostante sono ancora tanti i talenti italiani, come dimostra la buona posizione che l’Italia riesce a tenere almeno nella produzione di letteratura scientifica di qualità, e la lista di coloro che ancora riescono ad assicurare ai centri e alle università italiane quegli 11 Grants. I vincitori degli Advanced grants ERC A.D. 2018 in Italia sono: Paolo Tonella, Fondazione Bruno Kessler; Rino Rappuoli, Toscana Life Sciences, Siena; Lorenzo Pavesi, Università di Trento; Giammarco Ottaviano, Università Bocconi; Benedetta Mennucci, Università di Pisa; Stefano Leonardi, Università di Roma, La Sapienza; Maria Sofia Lannutti, Università di Pavia; Mauro Giacca, Università di Trieste; Antonella Ghignoli, Università di Roma La Sapienza; Andrea Cavagna, Consiglio Nazionale delle Ricerche; Salvatore Maria Aglioti, Università di Roma La Sapienza. Ma senza un cambio deciso di rotta fino a quando reggerà il sistema? Siamo sicuri che anche di questo stanno parlando le delegazioni dei partiti che in questi giorni si avvicendano nelle sale dorate del Quirinale prima delle prossime Elezioni Politiche sovraniste? Il CNR, insieme ad alcuni dei più importanti Enti Pubblici di Ricerca di Francia (CNRS), Germania (Helmoltz e Leibniz) e Spagna (CSIC), ha dato vita a Bruxelles a un Manifesto (http://www.mff4researchandinnovation.eu/) che sottolinea la necessità di un prossimo bilancio UE, per il periodo 2021-2027, con maggiori fondi per le attività di Ricerca e Innovazione. Anche le grandi organizzazioni scientifiche, che hanno per tradizione una vocazione governativa, percepiscono a torto o a ragione un crescente pericolo per la libertà di ricerca; e avvertono, almeno in questa contingenza storica, le ottime opportunità che offre un’alleanza organica con l’opinione pubblica. Ragioni che valgono soprattutto per l’Italia che sta perdendo sotto gli occhi di tutti, per bocca del Capo dello Stato, la sua sovranità scientifica, economica, istituzionale e politica. Il Brunswick, nel Land della Bassa Sassonia, non molto lontano da Hannover, ha di che esserne fiero. Il recente rapporto pubblicato a Bruxelles, “Science, Research and Innovation Performance of the EU 2018. Strengthening the foundations for Europe’s future”, con il 9,5% di investimenti rispetto al Prodotto interno lordo, lo classifica primo tra le trenta aree a maggiore intensità di R&S (ricerca scientifica e tecnologica) dell’Unione Europea. Certo, il Brunswick è un’area piuttosto piccola, con i suoi 250.000 abitanti non supera un quartiere di Roma o di Milano. Ma non è sola. L’area di Stoccarda, che ospita due industrie importanti come la Mercedes-Benz e la Porsche, figura al terzo posto, con il 6,2% di investimenti in R&S rispetto al Pil. E l’intera Germania conta ben sei aree ad alta intensità di R&S tra le prime 12 classificate dal rapporto. Per quanto riguarda l’Italia, non entra in classifica. Tra le trenta aree europee più avanzate nell’economia della conoscenza, di cui l’intensità di R&S è il principale anche se non unico indicatore, non ce n’è neppure una colorata di bianco, rosso e verde. A dimostrazione che l’Italia è ai margini di questa economia. Nell’anno 2000 gli investimenti della Cina rappresentavano il 5% del totale mondiale. Nel 2016 erano già saliti al 21%. Al contrario, quelli dell’Europa, che nel 2000 rappresentavano il 25% del totale mondiale, sono scesi al 20% nel 2016. Non meglio è andata agli Stati Uniti, che sulla bilancia globale sono passati nel medesimo periodo dal 37 al 27%. La Cina ha aumentato l’intensità degli investimenti a ritmi impressionanti, passando dallo 0,89% del Pil nell’anno 2000 al 2,07% del 2015. Ma non c’è solo il Paese del Celeste Impero del Dragone. Nel medesimo periodo la Corea del Sud è passata dal 2,18 al 4,23% e il Giappone dal 2,91 al 3,29%. In altri termini nella geografia della ricerca c’è un evidente “shift” dall’Occidente verso l’Oriente, dall’Atlantico all’Indopacifico. Che l’Occidente non accetta a cuor leggero. Con buona pace di chi crede che le fake news siano un fenomeno essenzialmente giornalistico, emendabili sempre e comunque dalla Scienza. Secondo il ben noto dossier di Lancet dedicato al tema, lo spreco nella ricerca ammonterebbe a circa 200 miliardi di dollari all’anno, pari all’85% dell’investimento mondiale in ricerca, dove la mancata riproducibilità degli studi giocherebbe una parte non secondaria insieme ad altri difettacci, come la futilità di molti studi, i conflitti di interesse, l’incompletezza, la cultura della segretezza, e non ultimo la burocrazia che tutto inghiotte. “Scoperta. Come la ricerca scientifica può aiutare a cambiare l’Italia” , il libro di Roberto Defez. La colpa è degli scienziati italiani.
(di Nicola Facciolini)
“Chi ha raggiunto lo stadio di non meravigliarsi più di nulla dimostra semplicemente di aver perduto l’arte del ragionare e del riflettere” (Max Planck). La Scienza italiana tra illusioni, colpi di stato e fake news made in Europe, è in grado offrire di questi tempi ogni ben di Dio. Nell’annunciare i 269 vincitori della nuova tornata degli Advanced Grants A.D. 2018, per un totale di 653 milioni di euro, l’European Research Council illustra alcuni temi delle ricerche premiate con una serie di domande del tipo: l’inquinamento atmosferico modifica il cervello dei bambini? Le nuove tecniche di medicina rigenerativa del cuore possono salvare più vite dagli infarti? Perché i batteri sono molto aggressivi fra di loro? E così via. Manca però la domanda chiave dimenticata persino dal Presidente della Repubblica nel recente “scivolone” incostituzionale di Domenica 27 Maggio: perché l’Italia ne esce così male? Gli Advanced sono i riconoscimenti “senior” più ambìti in Europa sia per la cifra ragguardevole (in media due milioni di euro) sia per il prestigio dell’European Research Council che insieme al Sklodowska Curie da dieci anni rappresenta la principale fonte di finanziamento sovranazionale dell’eccellenza della ricerca di base. Caratteristica di questo finanziamento è che va al ricercatore libero di scegliere la struttura più adatta per svolgere le sue ricerche. L’Italia non ha mai brillato negli ERC grants. I centri e le università italiane tradizionalmente non ospitano quasi mai un vincitore ERC straniero e pure gli Italiani sono sempre stati pochi (420 in 10 anni) rispetto ai numeri di Regno Unito (230 solo nel 2015), Germania e Francia. Il tasso di successo delle proposte degli Italiani negli anni 2007-2015 è del 5% rispetto a una media dell’11%. Ci si consolava tuttavia, come solo il Belpaese dei colpi di stato “bianchi” è capace di consolarsi, osservare quanti Italiani sviluppavano i loro progetti ERC all’estero. Cervelli in fuga, ma figli nostri. Quest’anno, dei 269 ricercatori premiati gli Italiani sono 16, contro 50 Inglesi, 40 Germanici, 29 Francesi e 21 Spagnoli. Il ranking delle università e dei centri che ospitano i vincitori non è certo esaltante: 66 in Gran Bretagna che si predispone a lasciare l’Europa, 42 in Germania con una emigrata italiana: Alessandra Moretti all’Ospedale universitario Rechts der Isar, e Giuseppe Caire, Università Tecnica di Berlino; 34 in Francia con l’italiano Giovanni Marsicano in forza all’Inserm; 18 in Spagna, 16 nei Paesi Bassi con Stefano Stramigioli all’Università di Twente), 13 in Svizzera con Marco Mazzotti, Istituto Tecnico Federale di Zurigo, a pari merito con Israele, e finalmente 11 in Italia. Seguono Svezia (10), Belgio (8), Austria (7), Danimarca (5), Finlandia (4), Irlanda (3), Ungheria e Norvegia (2), Lussemburgo, Portogallo, Slovenia e Turchia (1). La ricerca non ha frontiere ed è l’impresa più internazionale che vi sia. Ma il paragone con i Mondiali Fifa di Calcio in Russia viene spontaneo: una grande squadra, una grande storia, nella polvere come la nazionale azzurra e la sovranità istituzionale e politica degli Italiani. Un declino costante nei finanziamenti alla ricerca e all’università ha caratterizzato la politica italiana degli ultimi 15 anni, portando alla lenta asfissia del sistema e alla fuga irreversibile dei talenti all’estero, con alcune lodevoli eccezioni. La componente di finanziamento competitivo in Italia è stata sempre un decimo di quella degli altri Paesi ai quali ci si ostina follemente a paragonarsi: prima di tutto Gran Bretagna, Germania e Francia. Nessun governo in Italia ha preso in considerazione l’istituzione di una Agenzia della Ricerca capace di valutare con metodi accettabili e di finanziare conseguentemente i migliori, come si usa in quasi tutti i Paesi della Unione Europea, in Russia e ancora di più negli Stati Uniti d’America. Risultato: appiattimento, carestia, precariato tra gli scienziati e i ricercatori italiani destinati all’espatrio e all’abbandono delle strutture di ricerca esistenti. E ciò nonostante sono ancora tanti i talenti italiani, come dimostra la buona posizione che l’Italia riesce a tenere almeno nella produzione di letteratura scientifica di qualità, e la lista di coloro che ancora riescono ad assicurare ai centri e alle università italiane quegli 11 Grants. Ma senza un cambio deciso di rotta fino a quando reggerà il sistema? Siamo sicuri che anche di questo stanno parlando le delegazioni dei partiti che in questi giorni si avvicendano nelle sale dorate del Quirinale prima delle prossime Elezioni Politiche sovraniste? I vincitori degli Advanced grants ERC A.D. 2018 in Italia sono: Paolo Tonella, Fondazione Bruno Kessler; Rino Rappuoli, Toscana Life Sciences, Siena; Lorenzo Pavesi, Università di Trento; Giammarco Ottaviano, Università Bocconi; Benedetta Mennucci, Università di Pisa; Stefano Leonardi, Università di Roma, La Sapienza; Maria Sofia Lannutti, Università di Pavia; Mauro Giacca, Università di Trieste; Antonella Ghignoli, Università di Roma La Sapienza; Andrea Cavagna, Consiglio Nazionale delle Ricerche; Salvatore Maria Aglioti, Università di Roma La Sapienza. Il CNR, insieme ad alcuni dei più importanti Enti Pubblici di Ricerca di Francia (CNRS), Germania (Helmoltz e Leibniz) e Spagna (CSIC), ha dato vita a Bruxelles a un Manifesto che sottolinea la necessità di un prossimo bilancio UE, per il periodo 2021-2027, con maggiori fondi per le attività di Ricerca e Innovazione. Il Manifesto descrive lo stato dell’arte ed espone alcuni elementi fattuali a sostegno della condivisa esigenza di un nuovo Programma Quadro per la Ricerca Europa (FP9) più opportunamente finanziato e strutturato, così come più volte richiamato dalla Comunità Scientifica Europea, ma anche dalle istituzioni dell’Unione Europea dalle quali dipende la sovranità effettiva degli Italiani, come apprendiamo dalla viva voce del Presidente della Repubblica. Il Presidente del CNR, come pure i suoi omologhi nei rispettivi Paesi promotori dell’iniziativa, ha provveduto a richiamare l’attenzione dei principali “stakeholder” nazionali sulla necessità di aderire e diffondere i contenuti del Manifesto “MFF for Research & Innovation” (Multiannual Financial Framework) che intende costituire la base di partenza di una campagna di sensibilizzazione che verrà promossa anche con una giornata nazionale. Con i promotori dell’iniziativa si intende poi organizzare un evento a Bruxelles per richiamare le istituzioni UE sensibili alla richiesta di un bilancio UE più onesto, in grado di rispondere alle sfide che l’Europa dovrà affrontare nei prossimi anni, e per le quali la Scienza e la Ricerca giocheranno un ruolo fondamentale insieme alla Russia. Il momento è particolarmente opportuno, considerando che alla fine di Maggio la Commissione Europea presenta al Parlamento e al Consiglio una proposta di bilancio 2021-2027, e la cui discussione su articolerà almeno per i prossimi 18 mesi. Segnali preoccupanti però giungono dall’Europa. È utile ricordare che la cornice geopolitica ed economica europea è profondamente mutata rispetto a quella che ha definito l’attuale Quadro Finanziario Pluriennale: ci sono nuove sfide all’orizzonte, pressioni sociali interne ed esterne al Palazzo dei burocrati, una nuova ondata di conflitti ed una situazione finanziaria europea tutt’altro che stabile e rassicurante. Non esiste ancora una Costituzione Europea né una Patria Europa a cui appellarsi, nonostante i proclami del Presidente della Repubblica. Come prima cosa occorrerà appurare quale potrà essere l’entità del bilancio UE 2021-2027, con il Regno Unito che a sarà già fuori della UE e altri Stati membri che, come l’Italia, agitati da un crescente euroriformismo, non nascondono la tentazione di seguire la stessa strada in compagnia di Ungheria, Polonia e Austria. Sarà quindi difficile raggiungere i 1.000 miliardi a disposizione dell’attuale bilancio 2014-2020. Ci sono poi le esigenze emergenti (clandestini, colpi di stato, Progetto Iter, lotta alle guerre umanitarie, alle malattie trascurate, al cambiamento climatico, sviluppo burocratico europeo) che stanno già assorbendo fondi nell’attuale bilancio, e che non appaiono purtroppo in via di risoluzione. Un negoziato incerto si profila sul bilancio UE. Nel prossimo negoziato in Consiglio per l’allocazione del budget complessivo tra i capitoli del bilancio, si assisterà quindi al consueto scontro tra i Paesi favorevoli alla riduzione della dotazione (Paesi Bassi, Svezia, Germania e altri), quelli Amici della Coesione, tipicamente i nuovi entrati, e gli altri Stati membri che si affanneranno a congetturare se vi sia maggiore ritorno rinforzando la politica agricola e la coesione (allocazione prestabilita) o la competitività (a ritorno incerto). L’attuale panorama politico ed economico della UE è stato infatti profondamente influenzato dalla recente e grave crisi economica che a stento in Italia si vuole, per atto di fede più che di scienza economica, progressivamente lasciare alle spalle. Diversi Stati membri hanno iniziato a realizzare “riforme strutturali” in linea con quanto indicato dalla Commissione Europea nelle raccomandazioni specifiche per ogni Paese. In questo scenario “liquido”, la ricerca e la innovazione stanno diventando una precondizione per la nostra economia e per la nostra società del XXI Secolo. Investire in nuove generazioni di beni e servizi di alta qualità e valore, è fondamentale per promuovere la crescita e ridurre la disoccupazione e le guerre. Questi obiettivi possono nascere solo da nuovi prodotti e servizi originati dalla ricerca, dalle scoperte tecnologiche e dall’innovazione. Come l’uso dell’energia nucleare per viaggiare tra le stelle e per produrre energia infinita dalla fusione dell’Idrogeno. Queste nuove opportunità possono essere la chiave per creare, insieme alla Russia, un ecosistema solido per un mercato del lavoro che in Europa solo attività ad alto contenuto di conoscenza possono generare, accrescendo la percezione che la Nuova Unione europea stia adottando azioni efficaci per affrontare questioni fondamentali per i propri cittadini e preservando la competitività sul mercato globale senza più sacrificare la sovranità politica degli Stati membri. I Paesi che hanno maggiormente investito in ricerca e innovazione sono stati infatti quelli maggiormente resilienti durante la crisi economica, e anche quelli in cui gli investimenti sono stati più efficienti. La ricerca e l’innovazione devono quindi, più che mai, essere considerate essenziali per rilanciare la competitività dell’Europa, creare posti di lavoro altamente qualificati a lungo termine e affrontare le sfide della società, riportando tutta l’Europa (Russia compresa) nel proprio percorso di crescita nel quale le nuove tecnologie avranno un impatto fondamentale su salute, alimentazione, risorse idriche, trasporti, comunicazione, sicurezza, ambiente, energia, produzione e protezione dei dati, scoperta ed esplorazione umana di nuovi mondi alieni ricchi di ogni ben di Dio che sulla Terra va esaurendosi. Il prossimo quadro finanziario pluriennale 2021-2027 costituirà una sfida politica significativa e un’occasione unica per gli Stati membri della UE, attraverso un finanziamento adeguato con un aumento sostanziale dell’attuale dotazione di bilancio (passando dagli 80 miliardi di euro di Horizon 2020 a 160 miliardi di euro) per concretizzare questi auspici. I numeri sono alti. Ma servono per il nostro futuro. Duecentoventicinque addetti in tutti gli Uffici di trasferimento tecnologico delle università italiane, che salgono a 280 se comprendiamo gli IRCCS e i centri di ricerca. Detto così sembra un’inezia. Eppure secondo l’Associazione Netval, che ha pubblicato il suo “XIV Rapporto sul trasferimento tecnologico”, c’è motivo di essere moderatamente ottimisti. Secondo i dati del rapporto, 56 università hanno un ufficio che si occupa di brevetti, licenze e “spin-off”, 23 dei quali costituiti fra il 2004 e il 2006. E anche se i 225 pionieri che si occupano di valorizzare la ricerca dei centri di ricerca quasi totalmente pubblici sono ancora una piccola frazione rispetto alle controparti di altri Paesi, si assiste negli ultimi anni a un miglioramento graduale in quasi tutti i parametri del trasferimento tecnologico. Segno di un clima che sta cambiando e che orienta anche la nostra Accademia italiana a qualche timida apertura al mondo del business e del rapporto con l’impresa territoriale. Il numero medio di addetti per università è passato da 3,8 a 4,2 dal 2015 al 2016, ultimo anno considerato nel rapporto, con un massimo di circa 10 addetti nelle 5 università di punta, quasi tutte situate nel Nord dell’Italia. Nel portafoglio delle 56 università considerate i brevetti sono 3.917, di cui nell’ultimo anno 278 brevetti ottenuti. L’intero sistema delle università italiane spende 8 milioni di euro per questi uffici che dovrebbero costituire un ponte fra il mondo della ricerca e quello del mercato e dell’industria. Certo, se lo raffrontiamo al fondo ordinario per le università, pari a circa 5,5 miliardi di euro, è davvero niente, considerando che la valorizzazione della ricerca costituirebbe il cuore della terza missione. In media ogni università spende 240mila euro per la protezione della proprietà intellettuale contro i 53 dell’anno precedente. L’altro grande capitolo degli uffici “TT” è l’avvio di spin-off, considerati dagli stessi addetti ancora più strategici dei brevetti. Alla fine del 2017, il numero delle piccole imprese germinate in un terreno accademico era 1.373, con un buon tasso di sopravvivenza. “Sono evidenti i casi di università che hanno puntato molto sulle imprese spin-off, in tempi diversi, come il Politecnico di Torino (le cui spin-off rappresentano circa il 6% del totale nazionale), l’Università di Genova (3,7%), Padova e Scuola Sant’Anna (3,5%) e Firenze, Pisa e Tor Vergata (3,1%) e il Politecnico di Milano (3,0%). Negli IRCCS la situazione è leggermente diversa: da 6 imprese spin-off costituite nel 2014, si è passati a 12 spin-off costituite nel 2016, la maggiore provenienza degli spin-off deriva dagli IRCCS pubblici, spiega il rapporto Netval. Negli ultimi anni l’Associazione ha compiuto una serie di viaggi di studio, dalla Palestina al Regno Unito dove la delegazione italiana ha potuto rendersi conto di cosa potrebbe significare investire davvero nella valorizzazione economica della ricerca. A parte il caso irriproducibile della società israelo-palestinese, colpisce l’esempio dell’Imperial College di Londra che ha dato vita alle “Imperial innovations”, società che gestisce l’innovazione per conto dell’ateneo londinese con più di 250 brevetti negli ultimi anni, un investimento corrente di 250 milioni di sterline e numerosi spin-out all’attivo. I Britannici non parlano mai di spin-off! L’esempio è stato seguito più recentemente da Cambridge, Oxford e University College: volendo vedere il bicchiere mezzo pieno, come si impone di fare il Presidente di Netval, Andrea Piccaluga della Scuola Superiore Sant’Anna, ora che tutte le università hanno un Ufficio di Trasferimento Tecnologico si potrebbe avviare la “fase 2” che passa attraverso la collaborazione di più centri e atenei, con la sperimentazione di forme societarie specializzate nell’economia e marketing della ricerca. Alla nascita della Fondazione per l’innovazione delle Università di Bergamo, Pavia e Milano-Bicocca, si aggiungono le sperimentazioni di Trento, Bologna e Padova. La “fase 2” richiede però alcune piccole riforme per consentire al nostro sistema di valorizzare la conoscenza generata dai propri ricercatori. Eccole in sintesi: modificare l’Articolo 65 del Codice della Proprietà Industriale (https://www.ricercagiuridica.com/codici/vis.php?num=17009) che non vede in Italia riconoscere ai ricercatori privati la proprietà esclusiva delle invenzioni, contrariamente a quanto avviene altrove; finanziare adeguatamente anche le “proof of concept”, cioè la fase che precede la richiesta del brevetto, cosa molto rara nei nostri centri; incentivare i risultati delle università nella terza missione (la produttività scientifica è importante, ma senza uno sbocco commerciale, secondo Netval, resta monca); cambiare la legge sulle società partecipate, che di fatto esclude da questo genere di partecipazioni con gli spin-off da parte del mondo accademico, laddove utile; facilitare i finanziamenti liberi all’imprenditorialità di origine universitaria, controllata da un adeguato sistema di monitoraggio; rafforzare in termini economici e legislativi gli uffici di TT e il reclutamento di figure qualificate per questi compiti; fare formazione, per esempio ai dottorandi sui fondamenti di economia e marketing della ricerca (basterebbero corsi da 20 ore per diffondere competenze minime); facilitare le donazioni alle università e ai centri di ricerca oltre agli strumenti attuali, così come gli incentivi fiscali per chi vuole fare donazioni alla ricerca pubblica in generale; creare le condizioni per la presenza anche in Italia di centri di ricerca di imprese straniere; rafforzare il ruolo delle nostre ambasciate all’estero perché diventino volani dei processi di internazionalizzazione della ricerca. Un Programma Scientifico Grande. Ma non impossibile se si è sovrani. Recentemente il Ministero della Salute ha reso noti i fondi destinati per il triennio 2017-2019 alla ricerca finalizzata innovativa in ambito biomedico: un totale di 95 milioni di euro di cui 50 milioni riferiti all’anno finanziario 2016 e 45 milioni riferiti all’anno finanziario 2017. Si tratta di cifre assai inferiori rispetto al precedente bando, pubblicato nel Giugno 2016, che stabiliva l’erogazione, riferita agli anni finanziari 2014 -2015, di 135.392.176,05 euro di cui 54.460.000 euro destinati ai progetti riservati ai giovani ricercatori. La novità positiva è che il bando del Ministero apre agli under 33 sotto l’etichetta di “starting grant” di ispirazione ERC. Per il triennio 2017-19 il bando prevede dunque diverse categorie. Anzitutto ci sono i Progetti ordinari di ricerca finalizzata (RF) che verranno finanziati per 32.176.113,80 euro complessivi (erano 53 milioni nel precedente bando), di cui 17.085.779,10 euro riferiti all’anno finanziario 2016, di cui almeno euro 500.000,00 da assegnare ai progetti ordinari che prevedono la collaborazione con ricercatori italiani stabilmente residenti ed operanti all’estero da almeno tre anni; e 15.090.334,70 riferiti invece all’anno finanziario 2017. Ci sono poi i Progetti cofinanziati (CO), progetti di ricerca presentati da ricercatori cui è assicurato un finanziamento privato da aziende con attività in Italia al fine di garantire lo sviluppo di idee o prodotti il cui brevetto è in proprietà del ricercatore del Servizio Sanitario Nazionale o della struttura del servizio sanitario nazionale presso cui opera o del destinatario istituzionale. Per i progetti cofinanziati verranno erogati 5 milioni di euro, la stessa cifra del precedente bando, di cui 500mila euro riferiti all’anno finanziario 2016 e 4,5 milioni di euro riferiti all’anno finanziario 2017. I Programmi di Rete (NET) hanno invece lo scopo di creare partenariati di ricerca e innovazione per lo sviluppo di studi altamente innovativi e caratterizzati dall’elevato impatto sul Servizio Sanitario Nazionale. Il finanziamento complessivo è sceso a 8,1 milioni di euro (nel triennio precedente i programmi di rete erano stati finanziati per 12,6 milioni di euro), di cui 7 milioni riferiti all’anno finanziario 2016 e il restante 1,1 milione riferito all’anno finanziario 2017, di cui euro 600.000,00 quale fondo di compensazione per l’Istituto Superiore di Sanità, l’Agenzia per i servizi sanitari regionali ed INAIL, per un massimo di euro 100.000,00 per area tematica di interesse. Infine, le risorse destinate ai giovani, che rappresentano la maggior parte dei finanziamenti erogati per il prossimo triennio, anche se si tratta di cifre più basse rispetto al triennio precedente. I Progetti ordinari presentati da giovani ricercatori (GR), destinati a chi ha meno di 40 anni, verranno finanziati per 49.723.886,20 euro complessivi (contro i 54.460.000 euro nel precedente bando) di cui 25.414.200,90 euro riferiti all’anno finanziario 2016 e 24.309.665,30 euro riferiti all’anno finanziario 2017, di cui massimo euro 5.000.000,00 destinati ai progetti “starting grant” rivolti appunto a chi ha meno di 33 anni. Per qualcuno è già riflusso. Per altri è un segno di evoluzione positiva, di maturità. Ma è certo che la “March for Science” che si è tenuta lo scorso 14 Aprile in 200 città del mondo (150 città negli Usa, 50 nel resto del mondo, comprese 4 città italiane) ha numeri decisamente inferiori a quelli, per certi versi clamorosi, dell’esordio. Un anno fa, il 22 Aprile 2017 per la precisione. La seconda edizione della “Marcia per la Scienza” ha registrato la partecipazione di appena un terzo delle città rispetto a quelle che dettero vita al clamoroso primo evento: 200, appunto, invece di 600. Nel 2017 a marciare per la Scienza in tutto il pianeta Terra furono un milione di persone. A Londra la débâcle quantitativa è stata evidente: in piazza il 14 Aprile sono scesi in 80, a dispetto dei 10.000 dello scorso anno, e non hanno neppure potuto marciare. A Roma, nessuno. A Berlino, pochi. A Washington non molti. Questi sono i numeri di un riflusso. Ma è un riflusso solo apparente, dicono organizzatori e sponsor, tra cui l’American Association for the Advancement of Science (AAAS) degli Stati Uniti, una delle più grandi e prestigiose associazioni scientifiche del mondo, editrice, tra l’altro, della rivista Science. Perché in meno di dodici mesi “March for Science” è maturata. Non sta morendo. Al contrario, è più viva che mai. Per una volta hanno forse ragione gli ottimisti. È infatti un segno di maturità che la manifestazione abbia conservato il suo carattere globale. “March for Science” è nata certo negli Stati Uniti, sull’onda di un’avversione forte della comunità scientifica americana alle politiche di ricerca e ambientali di Donald Trump. Ma si estese subito a tutto il mondo. E un milione di persone scese in piazza per chiedere maggiore libertà di ricerca, più fondi, più impegno per contrastare i cambiamenti del clima accelerati dall’Uomo. L’edizione 2018 ha conservato questo carattere globale. Un quarto delle città che hanno aderito alla “March for Science” si trova fuori dagli Stati Uniti. Sono rappresentati tutti i continenti: città indiane per l’Asia, Abuja (Nigeria) per l’Africa, Città del Messico (Messico) per l’America a Sud degli Usa; Sidney per l’Australia. In Europa non solo Londra e Berlino, ma anche Mosca. E quattro città in Italia: Firenze, con l’iniziativa “Indivisible TUScany”; Rimini, con una manifestazione organizzata dal CICAP, il Comitato Italiano per il Controllo delle Affermazioni sulle Pseudoscienze; Bologna, con il convegno “Teach-in BO March for Science 2018”; Palermo con la marcia organizzata dall’Unione degli Atei e degli Agnostici Razionalisti (UAAR). Povera Scienza alimentata dalla Santa Romana Chiesa dell’eppur credeva di Galileo Galilei! I motivi della protesta e della proposta sono, nel complesso, gli stessi dello scorso anno. Ma sono stati declinati in maniera diversa nei diversi Paesi e città. Così se negli Stati Uniti prevale ancora il “no” agli attacchi alla libertà di ricerca e al disimpegno dalle politiche di contrasto dei cambiamenti climatici di Trump, in India sono scesi in piazza perché gli investimenti in ricerca siano portati al 3% del Prodotto interno lordo (Pil). Un segno di accresciuta maturità sociale è considerato anche il fatto che negli Stati Uniti, ma anche altrove, gli slogan scanditi siano stati anche a favore di politiche più sostenibili non solo da un punto di vista ecologico ma anche sociale. Oltre che di politiche “evidence based”, fondate su prove di efficacia e non sulle “fake news” tanto care ai media italiani. Ma, secondo Science, i segni di un’accresciuta maturità di “March for Science” non stanno solo nell’aver individuato più temi che coinvolgono la società per intero, ma nell’essersi trasformata da protesta spontanea in movimento organizzato. Un movimento che rivendica una propria autonomia. E, infatti, si è deciso di staccarsi dagli “Earth Day”, la Giornata della Terra che si celebra il 22 Aprile, e di tenere l’edizione 2018 in una giornata diversa, il 14 Aprile. Non per marcare un distacco dai temi ambientali, ma per attestare l’avvenuta creazione di un movimento globale per la Scienza del tutto autonomo. Che il movimento sia in corso di rapida organizzazione è un fatto: negli Stati Uniti si sta dando una struttura agile e chiara: con una direzione, ovviamente eletta, anche se senza burocrazia né quartier generali. Il movimento “March for Science” si sta dando una struttura diffusa, ma non caotica. Riuscirà? Difficile dirlo. Ma il tentativo è da seguire con attenzione, perché mai nella storia una parte così rilevante della comunità scientifica ha cercato di accreditarsi nella società come gruppo riconoscibile di opinione ad ampio spettro. Di opinione politica e non solo scientifica in senso stretto. Che “March for Science” stia diventando un movimento lo dimostra, dopo il 22 Aprile 2017, la rete sempre più fitta di eventi e di relazioni che mettono in contatto ricercatori e grande pubblico. Non si tratta solo di una speranza. Negli Stati Uniti il movimento organizzato dispone di una “mailing list” con oltre 230.000 indirizzi di persone, anche non esperte, che vengono regolarmente consultate e invitate ad aderire a campagne con un carattere non solo scientifico ma prevalentemente sociale: come la richiesta al Congresso Usa di finanziare progetti di ricerca per lo studio della violenza perpetrata con armi da fuoco che stanno massacrando la gioventù americana. Il movimento ha messo in atto anche progetti di comunicazione della Scienza al grande pubblico. È il caso di “Two Scientists Walk Into a Bar”: due scienziati vanno al bar per parlare di Scienza! La rete coinvolge 25 bar di San Diego, in California, dove due ricercatori spendono due ore sorseggiando qualcosa e parlando di Scienza. Il fatto non costituisce una novità in sé visto che è già stato inventato da Star Trek! In Italia li chiamiamo, ormai da molto tempo, “caffè scientifici”. Ma è abbastanza inedito il fatto che questi eventi di comunicazione di massa nascano in maniera più o meno spontanea e locale, e si inseriscano subito nella più ampia rete del movimento organizzato. E che il movimento intenda perseguire la strada del rafforzamento della sua struttura, lo dimostra sia la “call” estesa agli attivisti, tutti volontari, del movimento per ritrovarsi a Luglio a Chicago in un summit di tre giorni e aumentare le proprie capacità di organizzazione e di comunicazione, pianificare nuove iniziative e reclutare altri volontari; sia l’invito dei leader di “March for Science” degli Stati Uniti per organizzare un sistema di finanziamento dal basso di piccoli progetti di ricerca. Si conta di trovare fondi, attraverso una raccolta estesa a tutto il mondo. Una prima fonte di finanziamento viene dalla vendita di un libro dal titolo eloquente, “Science Not Silence: Voices from the March for Science Movement”, con le parole e le immagini della prima Marcia del 22 Aprile. In questo ormai articolato processo di trasformazione da fenomeno spontaneo a movimento organizzato, anche se dal basso, è un segno di maturità il fatto che, almeno negli Stati Uniti, “March for Science” non stia perdendo l’appoggio delle istituzioni scientifiche. Primo fra tutti quello dell’Associazione Americana per l’Avanzamento delle Scienze. Il movimento non ha dunque solo un carattere orizzontale, ma può contare sul sostegno verticale di prestigiose e influenti istituzioni. Un sostegno che dovrebbe essere seguito in Europa e in Italia, dove enti pubblici di ricerca e società scientifiche, seguendo l’esempio dell’AAAS, potrebbero proporsi come “nodi” della rete dei movimenti per la Scienza. I motivi che spingono l’American Association for the Advancement of Science e altre istituzioni negli Usa sono due: anche le grandi organizzazioni scientifiche, che hanno per tradizione una vocazione governativa, percepiscono a torto o a ragione un crescente pericolo per la libertà di ricerca; e avvertono, almeno in questa contingenza storica, le ottime opportunità che offre un’alleanza organica con l’opinione pubblica. Ragioni che valgono soprattutto per l’Italia che sta perdendo sotto gli occhi di tutti, per bocca del Capo dello Stato, la sua sovranità scientifica, economica, istituzionale e politica. Nel 2017 il Collins Dictionary nomina “Fake news” la parola dell’anno, a fronte di una presenza sui media aumentata del 365% rispetto all’anno precedente. Come i riferimenti al nome del professor Savona in Italia. I tentativi per arginare il fenomeno sono molti. Ma se fosse possibile prevenirlo? Un recente studio condotto dai ricercatori Michela Del Vicario (IMT di Lucca), Walter Quattrociocchi (Ca’ Foscari), Antonio Scala (ISC-CNR Sapienza) e Fabiana Zollo (Ca’ Foscari) propone un modello di analisi del comportameno degli utenti sui social media al fine di individuare in anticipo le notizie e gli argomenti con maggiori probabilità di diventare oggetto di fake news. L’analisi è stata condotta su Facebook, con un dataset di 300mila notizie tratte da testate ufficiali e 50mila post scelti da pagine che veicolano notizie false. Secondo gli autori, il vero campanello d’allarme è l’aumento della polarizzazione, ovvero l’estremizzazione delle opinioni degli utenti: il 91% dei topic polarizzanti analizzati è anche argomento di fake news. Secondo Walter Quattrociocchi “innanzitutto è cambiato il modo di accesso alle informazioni e alla conoscenza e, cambiando questo, cambia tutto. Siamo passati da un paradigma di mediazione (di giornalisti ed esperti) a un processo molto più diretto. Con la diffusione dei social media, ci si aspettava che avendo accesso a molte più informazioni le persone si sarebbero aperte a nuove prospettive e nuovi punti di vista. Ma gli studi e le analisi condotti finora ci dicono l’opposto: davanti a tante fonti di informazione possibili, ognuno cerca quella più vicina alla propria visione del mondo. Questo è il confirmation bias”. Studi precedenti mostrano infatti come il “confirmation bias” giochi un ruolo centrale nella “information cascade”, ovvero nel passaggio di notizie che si assumono come vere ma la cui veridicità non è verificabile sulla base delle informazioni fornite. “Il confirmation bias porta alla nascita di echo chambers, cioè gruppi di persone che si aggregano in comunità di interesse, con credenze e obiettivi condivisi. Nelle echo chambers – spiega Walter Quattrociocchi – le opinioni individuali non vengono discusse, bensì rafforzate e polarizzate. Le informazioni discordanti spesso vengono semplicemente ignorate. Il fact-checking, la verifica dei fatti, ha grossi limiti. Si cerca di combattere le fake news dicendo “la verità ce l’ho io: eccola”, ma non funziona più. Dobbiamo capire che le fake news sono solo la punta dell’iceberg. Il vero danno lo fanno le segregazioni in gruppi, in narrative che non si parlano. Si combattono solo con nuove narrazioni. L’essere umano non è razionale, come ci ostiniamo a credere, bensì ha una visione del mondo che è emotiva e percettiva. La comunicazione deve essere mirata al fabbisogno informativo dell’utente. Lo scherno e la presunzione di autorità aumentano solo la polarizzazione. Bisogna entrare nell’echo chamber, capire quali siano i bisogni informativi degli individui e il motivo della loro resistenza”. Tracciare la disinformazione su topic potenzialmente polarizzanti come salute, cibo, ambiente, immigrazione e sicurezza: è ciò che si propone di fare il progetto pilota “Pandoors”, una collaborazione tra l’Università Ca’ Foscari di Venezia e la London School of Economics and Political Science. L’obiettivo è monitorare l’accesso alle notizie sui social media, ricostruire e mappare l’architettura di pagine ed echo chambers e le loro narrative, cercando segnali di polarizzazione e confirmation bias in modo da prevenirli. “Al momento stiamo lavorando sulle immigrazioni in Italia – rivela Walter Quattrociocchi – ma stiamo ancora cercando di capire quali siano le leve giuste su cui agire. Ogni echo chamber ha una propria predisposizione a una specifica narrativa, che veicola una particolare visione del mondo. L’obiettivo è di intercettarla e veicolare storie che siano coerenti con quella visione del mondo. Sfruttare il confirmation bias, non fare finta che non esista. Il che poi significa comunicare con un essere umano e non con una macchina”. Le fake news dominano il discorso mediatico italiano. “È importante ricordarsi sempre che l’essere umano è profondamente irrazionale. E poi, in realtà, fake news è un fake term, un termine falso – osserva Walter Quattrociocchi – parte dal presupposto che la realtà sia divisibile tra vero e falso e che una notizia possa essere solo vera o falsa, ma non è così. Forse dobbiamo prenderci tutti meno sul serio”. Il Brunswick, nel Land della Bassa Sassonia, non molto lontano da Hannover, ha di che esserne fiero. Il recente rapporto pubblicato a Bruxelles, “Science, Research and Innovation Performance of the EU 2018. Strengthening the foundations for Europe’s future”, con il 9,5% di investimenti rispetto al Prodotto interno lordo, lo classifica primo tra le trenta aree a maggiore intensità di R&S (ricerca scientifica e tecnologica) dell’Unione Europea. Certo, il Brunswick è un’area piuttosto piccola, con i suoi 250.000 abitanti non supera un quartiere di Roma o di Milano. Ma non è sola. L’area di Stoccarda, che ospita due industrie importanti come la Mercedes-Benz e la Porsche, figura al terzo posto, con il 6,2% di investimenti in R&S rispetto al Pil. E l’intera Germania conta ben sei aree ad alta intensità di R&S tra le prime 12 classificate dal rapporto. Per quanto riguarda l’Italia, non entra in classifica. Tra le trenta aree europee più avanzate nell’economia della conoscenza, di cui l’intensità di R&S è il principale anche se non unico indicatore, non ce n’è neppure una colorata di bianco, rosso e verde. A dimostrazione che l’Italia è ai margini di questa economia. Ebbene, la Germania intende continuare in questa “Science, Research and Innovation Performance”, tant’è che negli accordi del nuovo ennesimo governo guidato da Angela Merkel è scritto nero su bianco che il Paese intende aumentare gli investimenti in R&S puntando al 3,5% del PIL: il che collocherebbe l’intera Germania al tredicesimo posto tra le aree a maggiore intensità di ricerca d’Europa. E al top tra i più grandi Paesi del mondo. Ma non tutta l’Europa è Germania. Anzi, tra le 504 pagine del rapporto emerge un quadro dell’Unione con molti scuri, oltre che con diversi chiari. Il rapporto va letto per intero, per coglierli tutti. Ma l’analisi comparata tra l’Europa e le altre grandi aree del mondo, anche tra i Paesi interni all’Unione, che ci offrono Ana Correia, Richard Deiss e Dermot Lally nel terzo capitolo della prima parte, sono la base per ogni altra considerazione. Anche perché è un’analisi dinamica. Rivela come sono cambiati i rapporti nella geografia della ricerca tra l’Anno del Signore 2000 e l’Anno Domini 2016. Già l’esordio del capitolo è illuminante. Nell’anno 2000 gli investimenti della Cina rappresentavano il 5% del totale mondiale. Nel 2016 erano già saliti al 21%. Al contrario, quelli dell’Europa, che nel 2000 rappresentavano il 25% del totale mondiale, sono scesi al 20% nel 2016. Non meglio è andata agli Stati Uniti, che sulla bilancia globale sono passati nel medesimo periodo dal 37 al 27%. La Cina ha aumentato l’intensità degli investimenti a ritmi impressionanti, passando dallo 0,89% del Pil nell’anno 2000 al 2,07% del 2015. Ma non c’è solo il Paese del Celeste Impero del Dragone. Nel medesimo periodo la Corea del Sud è passata dal 2,18 al 4,23% e il Giappone dal 2,91 al 3,29%. In altri termini nella geografia della ricerca c’è un evidente “shift” dall’Occidente verso l’Oriente, dall’Atlantico all’Indopacifico. Che l’Occidente non accetta a cuor leggero. Nulla di preoccupante, se questa globalizzazione della ricerca non vedesse gli altri correre e l’Europa camminare al passo e non stare ferma. In realtà sono tutte le regioni di quello che una volta veniva chiamato Occidente a restare ferme. Nel corso degli ultimi diciassette anni, infatti, anche Giappone e Stati Uniti hanno sostanzialmente segnato il passo e hanno aumentato di poco le loro performance. Mentre la crescita di Cina e Corea del Sud, che il rapporto mette a confronto con l’Europa, è stata a dir poco spettacolare. Ma Stati Uniti e Giappone sono in una posizione alta. La loro intensità di investimenti sfiora o supera il 3%. Mentre l’Europa, con il suo stentato 2,0%, è ormai ultima tra tutte i grandi Paesi presi in considerazione. Anche la Cina ci ha superato. Gli investimenti in R&S hanno due gambe: l’una pubblica, che premia un po’ di più la ricerca di base; l’altra privata, che tende verso l’innovazione tecnologica. Ebbene, questo è il dato principale che emerge dal rapporto, entrambe questa gambe in Europa sono ferme. L’Europa vanta un’antica tradizione di investimenti pubblici. E, di conseguenza, una particolare attenzione alla ricerca di base. Ma è almeno dall’Anno Domini 2009 che gli investimenti pubblici ristagnano se non diminuiscono. Gli Stati europei, con meno dello 0,7% di investimenti pubblici in R&S rispetto al Pil, stanno alimentando sempre meno il motore che produce innovazione e nuova conoscenza. Non molto diversamente vanno le cose in Giappone e Stati Uniti. Al contrario, Cina e Corea del Sud smentiscono molti luoghi comuni e investono sempre più quattrini pubblici nella Ricerca. La Cina è passata da meno dello 0,4 allo 0,5% pieno di investimenti pubblici in R&S. La Corea del Sud da meno dello 0,6 allo 0,9%. È oggi tra i grandi investitori quello che mette sul piatto della bilancia più quattrini in assoluto. Anche l’asse del motore della Ricerca si sta spostando a Oriente. Ma non diversamente vanno le cose nella ricerca industriale. L’andamento è sostanzialmente analogo. L’intensità degli investimenti privati è in lenta crescita in Europa e Giappone, stagnante negli Stati Uniti, per quanto enorme, in termini assoluti. In Cina, invece, sono passati dallo 0,5% del Pil dell’anno 2000 all’1,6% del 2015. Più che raddoppiati. In Corea del Sud dall’1,6 al 3,4%. Più che raddoppiati. Anche in questo caso è evidente che la bilancia dell’innovazione e dell’alta tecnologia pende sempre più verso Oriente. E tuttavia il quadro è più articolato. L’Unione Europea ha al suo interno un atteggiamento molto diversificato nei confronti della ricerca scientifica e dello sviluppo tecnologico. Basta un’analisi comparata tra cinque diverse gradi aree per rendersene conto. C’è un’area “teutonica” cui dovremmo aggiungere anche la Svizzera, anche se non fa parte dell’Unione Europea, che propone investimenti molto vicini al 3,0% che è l’obiettivo che gli Europei si sono dati a Barcellona nel 2002 per fare dell’Europa l’area leader al mondo dell’economia della conoscenza. Quest’area è in grado di competere alla pari anche con le più aggressive Tigri del Sudest asiatico, oltre che con Giappone e Stati Uniti. C’è un’area di mezzo “anglo-francese” che tende a divergere al suo interno, e non solo per la Brexit, e che mostra già una certa fatica a tenere il passo. C’è poi l’area “mediterranea”, di cui fa parte l’Italia, che è decisamente indietro. Infine ci sono i Paesi ex comunisti. Tutti piuttosto indietro. Ma non tutti allo stesso modo. Quelli dell’Europa centrale, più vicini, fisicamente ed economicamente, alla Germania, sono un passo più avanti degli altri. Poi c’è la Russia che eccelle nella ricerca spaziale e militare ma difetta nella manifattura e nella produzione industriale di massa. Ecco, l’Europa non solo risulta, speriamo solo momentaneamente, perdente rispetto alle aree più avanzate del mondo. Ma giunge a giocare la sua partita in maniera estremamente frammentata. Troppo, per poter sperare di vincerla. E anche solo di pareggiarla. “L’innovazione è il driver principale dell’economia europea, e globale più in generale”, dichiara Benoit Battistelli, Presidente dello “European Patent Office” presentando a Bruxelles i risultati della sua organizzazione per l’anno 2017. Il numero di “application”, ovvero di richieste depositate da industrie, piccole e medie imprese, università, istituti di ricerca e singoli individui per proteggere la proprietà intellettuale delle loro invenzioni, è aumentata del 3,9% rispetto al 2016, stabilendo il nuovo record di 165.590 richieste. I brevetti accettati sono stati 105.635 contro i 95.940 del 2016. “La correlazione tra spinta innovativa e crescita dell’economia, afferma Battistelli, non è una novità”, ma un recente studio realizzato insieme a EUIPO, lo “European Union Intellectual Property Office”, ne ha misurato per la prima volta la dimensione. Secondo il Presidente la catena di trasmissione è rappresentata dagli investimenti in ricerca e sviluppo. Battistelli snocciola numeri e statistiche relativi ai brevetti depositati presso EPO in un’affollata sala della Biblioteca Solvay, nel Parc Léopold dove hanno sede le principali istituzioni comunitarie europee a Bruxelles. Lo European Patent Office gestisce tutto il processo di richiesta e deposito dei brevetti che garantiscono la proprietà intellettuale nei suoi 38 Stati membri, i 28 Paesi membri dell’Unione Europea e 10 Stati fuori dall’Unione (Albania, Svizzera, Islanda, Liechtenstein, Principato di Monaco, Macedonia, Norvegia, Serbia, San Marino, Turchia). Gli Stati che sono interessati a garantire i propri diritti di proprietà intellettuale nel mercato europeo si rivolgono all’EPO. Partiamo dai Paesi di residenza dei richiedenti. Nel 2017 il 53% delle application proveniva da Stati che non fanno parte dell’EPO: Stati Uniti (26%), Giappone (13%), Cina (5%), Corea del Sud (4%). A crescere di più sono state le richieste provenienti dalla Cina, che sono passate da 7.142 nel 2016 a 8.330 nel 2017, +16,6%. Globalmente le richieste da Paesi che non appartengono a EPO sono cresciute del 5%. Segno, secondo Battistelli, dell’interesse delle imprese straniere nel mercato europeo. Per quanto riguarda invece gli Stati membri EPO, il primo posto della classifica, in termini di numero di richieste, è occupato dalla Germania che, con circa 25.500 richieste, rappresenta il 15,4% del totale per l’anno 2017. L’Italia si piazza al sesto posto tra i Paesi membri EPO, dopo Francia, Svizzera, Paesi Bassi e Regno Unito: le richieste depositate nel 2017 da inventori residenti in Italia sono state 4.312, il 4,3% in più dell’anno precedente. Si tratta di un tasso di crescita annuale sensibilmente più alto della media dei Paesi EPO, che si attesta al 2,8%. Se poi si considerano solo i Paesi che hanno depositato più di 4.000 richieste, l’Italia è lo Stato che è cresciuto di più in assoluto, seguito dal Giappone, con un aumento annuale del 3,5%. Si ripropone così il paradosso italiano: con un finanziamento in R&S del 1,3% del Pil notevolmente più basso della media OCSE, l’Italia sembra credere nell’innovazione. Certo guardando al numero di application per milione di abitanti, l’Italia è sensibilmente sotto la media europea: 76 richieste per milione di abitanti contro le 134 della media UE (dai 412 dei Paesi Bassi, ai 316 della Germania fino ai 157 francesi). Fuori dall’Europa il primato va alla Svizzera, con 884 richieste di brevetto per milione di abitanti inviate all’EPO nel 2017, seguono il Giappone (172), Israele (167), Stati Uniti (130) e la Repubblica di Corea (122). La Cina, pur avendo realizzato la crescita annuale maggiore in termine di numero totale, ha depositato solo 6 richieste ogni milione di abitanti. Un altro dato interessante riguarda la natura delle istituzioni da cui provengono le application. Nel 2017 a farla da padrone sono ancora una volta le grande imprese, responsabili del 69% delle richieste, seguono le piccole e medie imprese e i singoli inventori con il 24%, arrivano infine le università e gli istituti di ricerca con il 7%. La situazione è cambiata di poco negli ultimi cinque anni. Quest’anno c’è però una novità: l’ente che ha depositato più richieste di brevetto nel 2017, precisamente 2.398, è l’azienda cinese Huawei, il colosso degli smartphone! Seguono la germanica Siemens (2.220), le coreane LG (2.056) e Samsung (2.016) e la statunitense Qualcomm (1.854). Ma quali sono i campi in cui si fa più innovazione? Al primo posto, come ormai accade dal 2008, ci sono le tecnologie mediche, seguite dal settore digitale e dalle tecnologie per computer, che dal 2014 hanno scalzato via le invenzioni legate alle macchine elettriche e all’energia. In Italia è la movimentazione il settore da cui proviene il maggior numero di richieste di brevetto indirizzate allo European Patent Office, seguito dai trasporti e dalle tecnologie medicali. Tra le aziende italiane quella ad aver depositato più brevetti nel 2017 è la Ansaldo Energia, seguita dalla G.D., che realizza macchine per la produzione e il confezionamento di sigarette, produzione di filtri e altri prodotti del tabacco, e dalla Fiat Chrysler Automobile. Per quanto riguarda la distribuzione geografica delle richieste provenienti dall’Italia nel 2017, si conferma al primo posto la Lombardia, con 1.424 richieste, seguita, anche se con grande distacco, da Emilia Romagna (698), Veneto (585), Piemonte (490), Toscana (325), Lazio (214), Trentino Alto Adige (112), Friuli Venezia Giulia (107) e Liguria (102). Le altre regioni hanno depositato meno di 100 richieste di brevetto nel 2017. Vale la pena menzionare la Basilicata che è passata da una richiesta nel 2016 a 7 richieste nel 2017, la Calabria da 9 a 18 richieste, la Sardegna da 10 a 15 richieste. Per quanto riguarda le città, Milano è ancora la città a maggiore potenziale innovativo (890 richieste nel 2017). Seguono Torino (322), Bologna (284) e Roma (187). I risultati presentati a Bruxelles riguardano anche la gestione dello European Patent Office, in termini di efficienza e qualità. È chiaro infatti che il costo e la velocità dei processi di valutazione e di opposizione, ma anche quelli di indagine preliminare, le cosiddette “searches”, che servono a stabilire il potenziale interesse di un mercato verso una innovazione tecnologica, sono un fattore determinante nella decisione di un’azienda o di un individuo di fare richiesta di brevetto. L’obiettivo di EPO negli ultimi anni è stato dunque quello di ridurre i costi, aumentare la velocità delle valutazioni mantenendo però alti standard di qualità. Per farlo la dirigenza ha aumentato la componente altamente qualificata del personale, gli esaminatori, riducendo la parte amministrativa. Anche nel 2017 si conferma la tendenza positiva degli ultimi anni, sia in termini di velocità (i processi di valutazione nel 2017 si sono svolti tutti in meno di 15 mesi, quelli di opposizione in meno di 22 mesi) sia di riduzione dei costi (-21%). Questo ha permesso di ridurre ulteriormente il cosiddetto “back log”, ovvero il carico di brevetti in attesa di valutazione. Il presidente EPO torna poi su una questione spinosa, quella dello “Unitary Patent”, il Brevetto Unico Europeo. Attualmente infatti lo European Patent Office rilascia un fascio di brevetti, uno per ogni Paese membro EPO, ovvero per ogni Paese che sottoscrive la European Patent Convention che lo ha istituito nel 1973. Tuttavia gli inventori sono costretti a interagire con i singoli uffici brevetti nazionali, seppure con il coordinamento di EPO. Lo Unitary Patent garantirebbe automaticamente la protezione dell’invenzione su tutto il territorio dell’Unione Europea, attraverso l’interazione con un unico interlocutore, l’EPO, durante tutto il processo: “application”, “grant”, “opposition”, “infringement”. Già lo scorso anno Battistelli aveva assicurato che nel 2017 sarebbe stato rilasciato il primo brevetto unico, ma la questione è stata bloccata dalla Germania che pur avendo ottenuto l’approvazione del Parlamento pare non abbia ancora ratificato l’Agreement on a Unified Patent Court, il trattato internazionale che sancisce l’entrata in vigore del brevetto unico. L’opposizione della Germania è motivata da una possibile incompatibilità con la legge teutonica, che renderebbe illegittimo il voto parlamentare. Ma potrebbero esserci altri problemi, legati ai dubbi sulla indipendenza dell’EPO e dunque sulla sua capacità di gestire il processo. Se il giudizio della Corte Costituzionale tedesca tardasse ad arrivare, ci sarebbe poi una terza questione da risolvere: l’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea, pianificata per il 2019. Si devono infatti verificare tre condizioni affinché l’Agreement on a Unified Patent Court entri in vigore: deve essere in forza il Regolamento “Bruxelles I” che stabilisce quali corti hanno giurisdizione in cause di natura civile o commerciale tra individui residenti in Paesi diversi dell’Unione, della ratifica di almeno 13 Paesi dell’Unione e della ratifica dei tre Paesi che nel 2012 hanno depositato il più alto numero di brevetti (Francia, Germania, Regno Unito). Le prime due condizioni si sono già verificate, mentre per la terza manca l’approvazione della Germania. Se nel frattempo il Regno Unito uscisse dall’Unione Europea sarebbe necessario rivedere l’accordo. Battistelli si è dichiarato comunque ottimista che la Corte Costituzionale tedesca respingerà l’opposizione entro l’anno. Giovani e lavoro: come stanno le cose davvero? AlmaLaurea ha recentemente pubblicato i risultati di un sondaggio che ha coinvolto un’ampio campione di ragazzi diplomati nel 2014, cioè nati nel 1995 o negli anni appena precedenti, per capire oggi, a 22 anni, com’è la loro vita, fra chi studia e chi (anche) lavora. A tre anni dal diploma lavora circa un giovane su 3 (il 27%). Un altro 18% studia e lavora e il 44% di loro studia solamente. Complessivamente il 68% delle ragazze si è iscritto all’università, contro il 57% dei maschi. Nel dettaglio nel 2017 lavora il 60% dei diplomati in un istituto professionale, il 42% di chi ha frequentato un istituto tecnico e il 7,6% dei liceali. Coniuga invece università e lavoro, tendenzialmente piccoli lavoretti, un liceale su 4 (il 24%), un diplomato tecnico su 6 (il 13%) e un diplomato professionale su 10 (il 9,2%). Nel complesso dei diplomati nell’Anno Domini 2014, la fetta più grossa dei contratti, uno su 3, è “non standard”, ovvero contratti a chiamata e qualsiasi contratto a tempo determinato, in ugual misura fra maschi e femmine. Il 15% di loro ha contratti “formativi”, mentre un altro 15% lavora senza nessun contratto, e qui il gap di genere si fa sentire: non ha contratto il 23% delle ragazze che lavora contro l’11% dei maschi. A tre anni dal diploma le occupate sono di più rispetto agli occupati: 1300 femmine e 1255 maschi fra chi ha risposto al sondaggio. Complessivamente sono di più i ragazzi che lavorano soltanto (32% contro il 22% delle ragazze) ma sono di più le ragazze che studiano e lavorano rispetto ai maschietti (23% delle ragazze contro 13% dei ragazzi). In ogni caso, un diplomato maschio su quattro che lavora nel 2017 gode di un contratto a tempo indeterminato, contro il 13% delle ragazze. La diffusione del part-time inoltre è doppia nelle ragazze rispetto ai ragazzi, anche se il 18% di loro (la percentuale è uguale fra maschi e femmine) ha partecipato a uno stage extracurriculare in azienda. Il risultato si nota anche in termini economici. In media la retribuzione mensile netta fra i maschi diplomati nel 2014 che lavorano è di 968 euro, contro i 649 euro delle ragazze. Quanto pesa invece il tipo di diploma sulla scelta di proseguire o meno gli studi e sull’ambito effettivamente scelto? Fra i diplomati professionali esattamente un terzo ha scelto di andare all’università, e solo l’1,3% dopo 3 anni si è effettivamente laureato, mentre nessuno ha scelto di proseguire gli studi con un corso di laurea magistrale. Va un pochino meglio fra chi ha frequentato un istituto tecnico: il 4,4% di loro si è laureato dopo 3 anni, di cui l’1,9% è attualmente iscritto a un corso di laurea magistrale. Fra i liceali invece le cose sono diverse: l’11,2% di loro è già laureato, di cui il 6,3% sta già proseguendo gli studi. Al contrario, ha abbandonato gli studi universitari il 3% dei liceali, l’8% dei diplomati tecnici e il 9% dei diplomati professionali. Un ultimo aspetto davvero interessante che emerge da questo sondaggio di AlmaLaurea è che la maggior parte di chi da un istituto professionale passa all’università sceglie un corso di laurea in discipline umanistiche. Parliamo di un diplomato professionale su 3 (il 34%). Il 25% di loro sceglie discipline economico-sociali, il 12% professioni sanitarie, quasi uno su 10 (il 9,2%) materie scientifiche e solo il 7% ingegneria e architettura. Fra i liceali, invece, uno su 5 sceglie discipline umanistiche, e quasi altrettanti ingegneria o architettura. Il 16% di loro si è iscritto a corsi di laurea in discipline mediche e un altro 15% a corsi di laurea in ambito economico e sociale. Solo un liceale su 6 ha scelto di dedicarsi alla Scienza, tanti quanti i diplomati agli istituti tecnici, anche se il gap fra maschi e femmine a riguardo non è molto marcato. Rimane tuttavia ancora ben marcata la differenza storica fra ragazzi e ragazze che scelgono di iscriversi a discipline umanistiche e ingegneristiche. Il 30% delle ragazze del 1995 si è iscritto a corsi di laurea in discipline umanistiche, e solo il 9,4% a ingegneria o architettura. Al contrario, l’8,9% dei maschi ha scelto discipline umanistiche e il 30% ingegneria o architettura. Un segno importante da cui ripartire per parlare di cultura scientifica italiana. Sempre secondo quanto emerge dal recente rapporto di Almalaurea, i dottori di ricerca italiani non sembrano essere molto soddisfatti della propria condizione attuale, specie quanto a possibilità di carriera. Solo poco più della metà (il 58%) di chi ha risposto al questionario (2.409 dottori di ricerca del 2016 provenienti da 15 atenei italiani) ha dichiarato che se potesse tornare indietro intraprenderebbe lo stesso percorso di studi. Un altro 25% si iscriverebbe a un dottorato simile all’estero (una persona su 3 fra quelli che durante il dottorato hanno effettivamente svolto un periodo all’estero) mentre 8 ragazzi su 100 cambierebbero decisamente strada. Perdita di interesse? Offerta didattica scadente? No, obiettività sulla difficoltà di fare carriera in Italia o per lo meno di continuare il proprio percorso qui. Tre dati sono interessanti a questo proposito: il fatto che il 54% dei rispondenti abbia dichiarato che la possibilità di carriera è fra priorità per la scelta professionale post-dottorato, il fatto che nella valutazione che i dottori hanno dato alla propria esperienza, la voce “prospettive di carriera” è quella che ha ottenuto di gran lunga il punteggio più basso (5,8 su 10); e infine che solo il 21% in media dei dottori proverà a intraprendere la carriera accademica in Italia, cioè fare ricerca nel pubblico. Per la parte scientifica le cose vanno anche peggio: solo il 16% dei dottori in “hard science” pensa che sceglierà di tentare la strada dell’Accademia italiana, il 17% degli ingegneri e il 18% dei dottorati in discipline biomediche. Spera di restare invece il 30% dei dottorati in discipline umanistiche e in scienze economiche, giuridiche e sociali. In generale a voler fare ricerca, che sia nel pubblico o nel privato, in Italia o all’estero, o un corso di post-doc, è il 60% di chi ha ottenuto un dottorato nel 2016. Altro aspetto caratterizzante l’esperienza di dottorato è rappresentato dalla possibilità di pubblicare i risultati delle proprie ricerche. Nel 2016 però 2 dottori di ricerca su 10 non hanno pubblicato nei tre anni alcun articolo e, se consideriamo gli articoli a firma multipla su riviste internazionali, 4 su 10 non ne hanno. Le pubblicazioni a firma multipla su riviste internazionali sono molto presenti tra i dottori delle scienze di base e tra quelli della vita (rispettivamente l’82% e l’83%). Inoltre, solo la metà dei dottori di ricerca, precisamente il 48%, ha svolto un periodo di studio all’estero e quasi tutti per iniziativa volontaria: solo per l’8% si è trattato di un’esperienza obbligatoria prevista dal piano di studio. C’è infine la questione non certo secondaria dei finanziamenti. Solo il 77% dei dottorati è oggi finanziato, il che significa che più di 2 dottorati su 10 hanno dovuto pagarsi questi 3 o 4 anni di tasca propria, con differenze significative all’interno delle aree disciplinari: si va dall’89% dei dottorati con borsa per le scienze di base al 69% per le scienze umane. Niente di strano: sono numeri in linea con il D.M. 45/2013 che ha stabilito che per ciascun corso di dottorato attivato debbano essere erogati finanziamenti per almeno il 75% dei posti disponibili. Ed è vero anche che l’ultimo rapporto dell’ANVUR evidenzia per il periodo 2010-2014 un aumento della percentuale dei posti di dottorato finanziati, passati dal 61% all’80%. Tuttavia, il numero complessivo dei posti di dottorato, sia finanziati sia non finanziati, attivati nello stesso periodo è sceso da 12.093 a 9.297. Che si tratti di una delle conseguenze di questa prassi di finanziare non tutti i dottorati oppure no, sta di fatto che solo il 13% dei dottorati del 2016 proviene da una famiglia che lavora nell’esecutivo, che secondo la definizione di Almalaurea comprende operai, qualsiasi forma di lavoratore subalterno e assimilato e tutti coloro che sono considerati “impiegati esecutivi”, con contratti di diverso tipo. Al contrario, un dottorato su 3 proviene da famiglie di classe sociale molto elevata, figli di importanti dirigenti, o stimati professionisti. In particolare i dottori di ricerca in scienze economiche, giuridiche e sociali e in ingegneria provengono più frequentemente da contesti culturalmente più elevati: ha almeno un genitore laureato rispettivamente il 54% e il 50% dei dottori. È interessante osservare infine che questa forbice diventa sempre più marcata mano a mano che si sale nel livello di istruzione: “Rispetto ai laureati di secondo livello del 2016 – si legge nel rapporto Almalaurea – è nettamente più elevata la quota dei dottori di ricerca che provengono da famiglie con almeno un genitore laureato: sono il 44%, 10 punti percentuali in più di quanto osservato tra i laureati. Situazione analoga si osserva anche se si guarda al contesto socio-economico: il 31% dei dottori proviene da famiglie di estrazione elevata, contro il 25% dei laureati di secondo livello”. Che esistano pregiudizi di genere è un fatto talmente scontato che non mette conto dilungarsi in spiegazioni. Ma la scienza ne è immune? Quali e quanti pregiudizi si annidano ancora, in maniera conscia o inconscia, nella mente e nelle azioni di chi partecipa o gestisce un’impresa scientifica? È una delle domande del progetto europeo “GENERA1” destinato a studentesse e studenti degli istituti secondari superiori italiani. Il progetto GENERA si pone l’obiettivo di identificare e mettere in atto una serie di azioni positive per promuovere cambiamenti culturali e istituzionali attraverso lo sviluppo di Gender Equality Plan (GEP) nelle università e negli enti di ricerca europei per garantire l’uguaglianza di genere nella Scienza tramite strumenti che mirano a identificare e rimuovere pratiche che possono produrre “gender bias”. Il progetto intende proporre strategie innovative per superare le distorsioni legate al genere, nonché monitorare i progressi che hanno luogo nelle istituzioni attraverso lo sviluppo di indicatori di genere. Ci si è indirizzati in particolare nel campo della Fisica, disciplina un tempo particolarmente maschile data la scarsa presenza di ragazze negli studi universitari, prima, e di donne nei vari livelli di carriera, poi. Si parte dalla Fisica per individuare vie e strumenti che possano essere estesi a tutte le altre discipline. Tra i principali obiettivi del progetto: valutare lo stato delle questioni di genere nelle organizzazioni partner attraverso l’analisi statistica di dati amministrativi; identificare esigenze e azioni specifiche per migliorare la parità di genere nelle istituzioni partner; fornire linee guida per la realizzazione di GEPs; sostenere le organizzazioni coinvolte nell’attuazione di GEPs personalizzati; creare una rete europea di enti e istituzioni di ricerca e universitarie per promuovere la parità di genere nel campo della Fisica; configurare un sistema di monitoraggio a lungo termine dell’impatto delle misure prese. Tra le varie attività messe già in atto da questo progetto, oltre all’identificazione di indicatori per il monitoraggio dello stock e del flusso del personale di ricerca dedicato, allo studio delle varie realtà presenti nelle istituzioni dei 13 Paesi partecipanti, il CNR e l’INFN hanno ideato e promosso il concorso “Donne e ricerca in fisica: stereotipi e pregiudizi”, che ha avuto una prima edizione lo scorso anno. Ai partecipanti si chiede di preparare un breve video che illustri attività e personalità delle ricercatrici nei vari aspetti personali e professionali della loro vita, nonché il loro contributo all’impresa scientifica, mettendo l’accento sul permanere di stereotipi e pregiudizi che ne ostacolano il cammino. I video presentati nel corso della passata edizione spaziano dalla ricostruzione storica del percorso accidentato delle donne, alla presentazione tramite metafore, degli ostacoli sempre più alti da superare nell’impari corsa di uomini e donne verso il traguardo della parità. Alcuni studenti si sono lanciati in vere e proprie indagini nel loro ambito di riferimento, la scuola, per verificare il livello di conoscenza del contributo delle scienziate e del permanere degli stereotipi. Stupisce, ma forse non troppo, che al di là di Marie Curie e Rita Levi Montalcini ben poco si conosca e che ancora molti giovani rispondano a specifiche domande sulla scarsa presenza di scienziate asserendo in vario modo che la Fisica, e la Scienza in generale, “non è roba da donne”! L’interesse per la Scienza è comunque ben radicato. Il “cloud” derivante dai commenti dei ragazzi lo testimonia. Il percorso culturale da compiere è di certo ancora lungo e deve necessariamente partire dalla scuola, ma uno dei commenti fatti dai ragazzi fa ben sperare nella significatività di progetti quali GENERA e di azioni di stimolo e divulgazione quali il concorso, uno dei partecipanti ha infatti scritto: “Questo progetto ha tolto dei pregiudizi che non sapevamo di avere”. La faceva facile il filosofo della scienza Karl Popper quando identificava nella regolarità e nella riproducibilità i due pilastri della Ricerca scientifica. In realtà, per le scienza biomediche ma non solo, la riproducibilità è una bella gatta da pelare. Secondo alcuni un miraggio. Secondo uno studio di Nature, in media solo fra l’11 e il 25% degli studi in fase preclinica viene replicato per lo sviluppo di un farmaco. In un altro storico studio, i ricercatori della società Amgen non sono stati in grado di riprodurre 47 dei 53 studi di base importanti sul cancro prodotti nelle università. Secondo l’énfant terrible della metodologia della scienza, John Ioannidis, “la maggioranza degli studi pubblicati sono falsi”. Per esempio, a un’analisi retrospettiva di un set di articoli su studi clinici “highly cited”, le conclusioni del 16% di questi articoli venivano confutate da successivi articoli, mentre un altro 16% veniva considerevolmente ridimensionato da studi successivi. Con buona pace di chi crede che le fake news siano un fenomeno essenzialmente giornalistico, emendabili sempre e comunque dalla Scienza. Riprodurre uno studio in biologia si scontra con alcune trappole: la complessità dei fenomeni biologici, le condizioni ambientali nelle sperimentazioni animali, la validazione dei reagenti, per non parlare dei veri e propri difetti metodologici degli studi, come la mancata randomizzazione e cecità dei “trial”. Sta di fatto che secondo il ben noto dossier di Lancet dedicato al tema, lo spreco nella ricerca ammonterebbe a circa 200 miliardi di dollari all’anno, pari all’85% dell’investimento mondiale in ricerca, dove la mancata riproducibilità degli studi giocherebbe una parte non secondaria insieme ad altri difettacci, come la futilità di molti studi, i conflitti di interesse, l’incompletezza, la cultura della segretezza, e non ultimo la burocrazia che tutto inghiotte. Che fare allora? C’è chi propone di promuovere anche economicamente la cosiddetta “ricerca della ricerca” per affinare attendibilità e metodi. Oppure chi lancia progetti di riproducibilità, per esempio in campo oncologico, di cui si possono apprezzare i primi risultati. Un rapporto dal titolo “Replication studies. Improving reproducibility in the empirical sciences”, edito dalla “Royal Netherlands Academy of Arts and Sciences” e coordinato dall’epidemiologo Johan Mackenbach, riflette proprio sul problema della riproducibilità in ambito biomedico e non, prendendo il problema alla lontana: prima di tutto, per gli Olandesi, bisogna mettersi d’accordo su cosa significa “riprodurre uno studio”. A dire il vero la questione linguistica pare ancora più dettagliata: si utilizzano come sinonimi i termini “riproducibilità”, “replicabilità”, addirittura in alcuni casi “robustezza” o “affidabilità” (reliability). In realtà, secondo gli autori dobbiamo anzitutto chiarire la differenza che passa fra parlare di riproducibilità/replicabilità di uno studio e di replicabilità di un’inferenza. Aleggia poi su tutto la domanda delle domande: i risultati riproducibili sono necessariamente più verosimili di quelli non riproducibili? A ogni modo, concludono gli Autori, di fronte a questo dilemma meglio scegliere la via della riproducibilità, dal momento che questa, anche se non è indizio automatico del grado di verità, rimane una misura affidabile di quanto la comunità scientifica concordi con la bontà dei risultati che altri hanno prodotto. Quando e come replicare uno studio? Il documento elabora tre motivi che inducono a riprodurre uno studio: quando la posta in gioco è davvero rilevante per l’avanzamento di una disciplina; quando i risultati paiono poco plausibili; quando pensiamo esista un metodo migliore di quello utilizzato per ottenere risultati più completi. Rimane il punto di come riprodurre uno studio o parte di esso. Gli esperti sollevano a questo proposito due domande: è meglio riprodurre un esperimento in maniera completamente indipendente, o è più proficuo collaborare con chi ha eseguito la ricerca in esame, in modo da avere modo di valutare tutti gli aspetti non inclusi nella spiegazione metodologica dell’articolo? È meglio replicare un risultato utilizzando lo stesso metodo sullo stesso campione, utilizzare un nuovo campione con le stesse caratteristiche, o cambiare sia il metodo sia il campione? Cruciale nel secondo caso se lo studio in esame è stato ben disegnato, oppure se già la fase iniziale è inficiata da errori e lacune. I caveat sembrano quindi più dei punti fermi, ma nonostante questo i ricercatori propongono alcune strategie che l’Accademia da un lato e i giornali scientifici dall’altro possono mettere in campo per favorire la replicabilità degli studi, con strategie differenziate a seconda che ci si trovi a che fare con ricerche biochimiche, genetiche, precliniche, cliniche, o ancora in settori disciplinari diversi come la psicologia sperimentale o l’economia. Comuni a tutti sono tuttavia alcune raccomandazioni: aumentare l’accuratezza metodologica e la dimensione dei campioni presi in esame, opportunamente armonizzati se provenienti da setting diversi; migliorare il “reporting” e la libera condivisione dei dati; soprattutto incentivare economicamente e con riconoscimenti di carriera la “cultura della riproducibilità” rispetto alla idolatria della “innovatività degli studi” oggi di moda! Anzitutto, secondo gli Autori, sarebbe importante favorire la preregistrazione delle ipotesi da testare in un database che contenga tutti i dettagli utili alla replicazione, a partire dai metodi di raccolta dei dati. Per gli studi clinici questo processo è già in corso, non altrettanto per gli studi preclinici. Gli enti di ricerca e le riviste dovrebbero rendere obbligatoria questa registrazione, mentre istituzioni e comitati etici dovrebbero inserirla nelle loro linee guida. La seconda strategia prevede il miglioramento della qualità della descrizione della metodologia utilizzata nei documenti che poi vengono divulgati. La comunità scientifica, si legge nel rapporto olandese, deve riunirsi ed elaborare linee guida e “check list” che indichino chiaramente quali dettagli degli studi devono obbligatoriamente essere riportati. La terza strategia propone che tutte le riviste accompagnino alla sezione realtiva ai metodi la presenza di archivi con accurate descrizioni dei dati e dei metodi utilizzati da ciascuno studio liberamente consultabili dai ricercatori. Una maggiore consapevolezza metodologica ed epistemologica da parte dei ricercatori, unita a una propensione degli enti a finanziare “replication studies”, contribuirebbe ad affrontare al meglio la crisi della riproducibilità della scienza contemporanea. Serve “la carica dei 51”. Fosse un film, la proposta che Roberto Defez lancia con il suo nuovo libro, avrebbe questo titolo. Ma si tratta di un’idea forte. Una provocazione stimolante. Robert Defez è un ricercatore del Consiglio Nazionale delle Ricerche di lungo corso, lavora a Napoli, famoso per la sua attitudine alla comunicazione e per il suo impegno a coltivare i rapporti Scienza e Società, senza veli. Il libro si intitola “Scoperta” ed ha per sottotitolo “Come la ricerca scientifica può aiutare a cambiare l’Italia”. È stato appena pubblicato da Codice, è composto da 168 pagine che si leggono tutte di un fiato. Defez parte da un’analisi piuttosto condivisa, almeno negli ambienti scientifici. L’Italia è un paese in difficoltà. Per la sua incapacità di innovare che deriva, a sua volta, da una cultura scientifica insufficiente anche tra le classi dirigenti. Ma anche e soprattutto, per la specializzazione del suo sistema produttivo che punta sulle medie e basse tecnologie e si fonda su “un modello di sviluppo senza ricerca”. Ma, sta di fatto, sostiene Defez, con innumerevoli e puntuali esempi che si srotolano lungo i quattro quinti del libro, che “gli scienziati italiani, pochi ma in grande maggioranza buoni, sono maltrattati oltre ogni limite di decenza”. Lo sfondamento dei limiti avviene in più settori, da quello dei finanziamenti a quello degli adempimenti burocratici, che non sono solo una sorta di tortura istituzionale ma un’enorme perdita di tempo, tutto sottratto alla ricerca. In definitiva, Defez denuncia rapporti non sostenibili della comunità scientifica con i media, le classi dirigenti (ad esempio la Magistratura), l’economia e la politica. È tutto questo che contribuisce al declino ormai strutturale del Belpaese. È tutto questo che bisogna rimuovere per aiutare a cambiare l’Italia. Fin qui nulla di nuovo, in termini sostanziali. L’analisi è condivisa da molti e bene fa Defez, con la sua prosa scorrevole, a reiterarla. Ma a questo punto il ricercatore napoletano si pone la domanda, a sua volta classica: di chi è la colpa? Ed è in questo momento che la risposta diventa davvero originale, spiazzante, provocatoria: la colpa è degli scienziati italiani. No, non che questo assolva le altre classi dirigenti del Belpaese. Tutt’altro. Ma il fatto è che la comunità scientifica del Belpaese non è affatto unita, coordinata, organizzata. Ciascun ricercatore cerca la sua salvezza individuale, con il più classico individualismo bene espresso da quell’alunno che ha dato il titolo al fortunato libro di un altro napoletano, Marcello D’Orta: “Io, speriamo che me la cavo”. Insomma, sostiene Defez, se gli scienziati italiani sono maltrattati “oltre ogni limite di decenza” è perché sono disuniti e, come gli ingenui Curazi, vanno ciascuno per conto suo a farsi infilzare dagli Orazi di turno: i media, le classi dirigenti, gli industriali e, soprattutto, i “politici”. È quell’individualismo di antica data, tipicamente italiano, che si estende anche alla comunità scientifica che Robert Defez mette sotto accusa. Non perché i media, le classi dirigenti, gli industriali e, soprattutto, i politici non abbiano le loro colpe specifiche peraltro ampiamente documentate nel libro. Ma perché i ricercatori italiani avrebbero la possibilità di vincerla, la loro battaglia, con gli Orazi di turno. Come? Ed è qui che l’analisi originale, spiazzante, provocatoria di Defez diventa proposta a sua volta originale, spiazzante, provocatoria: con la “carica dei 51”. In primo luogo i ricercatori italiani devono acquisire la consapevolezza di essere “scienziati a vita”, il che significa estendere il loro metodo di lavoro, quello che usano in laboratorio o sul tavolo dell’elaborazione teorica, a tutti i loro rapporti con i media, le classi dirigenti (compresa la magistratura), gli industriali e, soprattutto, i politici. In definitiva, devono informare dell’approccio scientifico il loro rapporto con la società. Devono, tuttavia, effettuare anche un altro passo decisivo. Abbandonare ogni individualismo e parlare come “un sol uomo”, almeno sulle questioni scientifiche dirimenti. Passare dall’io speriamo che me la cavo a un’azione comunitaria, sistematica, efficace. Diventare un gruppo di pressione coeso e organizzato. Già, ma come? Creando un gruppo rappresentativo di tutte le discipline, di 50. Anzi, di 51 membri, scegliendo tra i ricercatori più bravi secondo i criteri internazionali, ed eleggendo tra loro o anche tirando il nome del Presidente pro tempore. Questo gruppo dovrebbe avere il compito di parlare sì “a nome degli Scienziati italiani”, in maniera sistematica ed efficiente, in maniera professionale, ma utilizzando i metodi propri dei ricercatori: producendo documentazione rigorosa, scientifica, a sostegno delle loro tesi. Una documentazione chiara e imponente, tale da sommergere i media, ma anche da raggiungere le classi dirigenti (magistratura compresa, cui indicare magari nomi di consulenti scientificamente accreditati per la cause in tribunale), gli uomini dell’economia, i politici. L’idea potrebbe sembrare ingenua. Ma non lo è affatto. Non perché con “la carica dei 51” la comunità scientifica ribalterebbe la condizione dell’Italia. Ma perché organizzazioni simili esistono all’estero e funzionano. Si pensi alla Royal Society, l’antica e sempre moderna Accademia britannica. La sua voce è chiara ed è ascoltata in Gran Bretagna e nel mondo. A ben vedere un nucleo della comunità di cui parla Roberto Defez esiste anche in Italia: è lo storico CNR, il Centro Nazionale delle Ricerche, una comunità di “scienziati a vita”. La sua organizzazione, le sue competenze e la sua disponibilità andrebbero estese e affinate, se si volesse raccogliere la proposta di Defez. Una cosa è certa: se i “dalmata” della ricerca italiana non si uniranno e combatteranno insieme, malgrado la loro bellezza e la loro simpatia, le Crudelia De Mon di turno continueranno a metterli nel sacco!
© Nicola Facciolini