LA STORIA DELLA NATO NEL SUSSEGUIRSI DELLE GUERRE

L’Aquila / La storia della Nato di guerra in guerra nel settantesimo anniversario di fondazione e nel ventesimo dello stravolgimento dell’Articolo 5 del Trattato con l’attacco alla Federazione Iugoslava. Chi è l’Impero del Male? La paranoica aggressività occidentale viene proiettata sulla Russia da mille anni. Sui confini russi si sta giocando una pessima partita a poker che l’Italia e gli Italiani ignorano platealmente. Le 70 candeline esplosive del North Atlantic Treaty Organization che il Presidente Mattarella definisce “garanzia di pace in Europa”. Highly likely. Pare ragionevole pensare che la Santa Russia in Europa sia ordine e la Nato sia caos. L’alleanza pan europea deve avere carattere politico, non più militare. Mai lasciarsi abbandonare alla paura e allo sconforto. Scienziati, internet, giornalisti e politici debbono fare la differenza per proporre vie di pace, smilitarizzando i pensieri, il linguaggio, le azioni. Lancia l’allarme il presidente Mikhail Gorbaciov (https://www.youtube.com/watch?v=ZCYUTx_cNaI) sulla crescente tensione tra Usa e Russia, in particolare sulla sospensione da parte statunitense di importanti accordi per la limitazione degli armamenti nucleari come il Trattato INF in Europa. Lo fa per l’ennesima volta nell’intervento indirizzato al Convegno internazionale “I 70 anni della Nato: quale bilancio storico? Uscire dal sistema di guerra, ora”, svoltosi Domenica 7 Aprile 2019 a Firenze. Al Quinto Forum Artico Internazionale 2019, il presidente russo Vladimir Putin invita i Paesi artici a chiedere alla Nato perché rifiuta la proposta russa di volare solo con i transponder accesi. La Nato si scioglierà solo dopo aver perso la guerra di aggressione contro la Santa Russia, come neve al Sole termonucleare primaverile? Davvero sono stati garantiti 70 anni di pace in Europa? Vadano a raccontarlo a tutti coloro che hanno subito i bombardamenti. Chi vivrà, vedrà! Siamo e saremo sempre fautori dell’ingresso della Russia nella nuova  Alleanza Europea, una nuova Nato a doppio comando strategico unificato con i Russi per prevenire e correggere l’attuale politica aggressiva di espansione verso Est sui confini della Federazione Russa (https://m.youtube.com/watch?feature=share&v=zHCniIrdWVU). Stop alle GuerreUmanitarie e ai traffici di esseri umani deportati e spacciati per “migranti” dalle mafie. L’Italia non si arrende ai Warlords Warmongers trafficanti nel Mediterraneo. Cosa avrà mai scritto l’Ambasciatore degli Stati Uniti in Italia, Lewis M. Eisenberg, sul Corsera? Le sue parole le troviamo sul sito dell’Ambasciata Usa in Italia e non lasciano spazio a interpretazioni neppure per il nostro Presidente della Repubblica Mattarella che dovrebbe leggerle molto attentamente. La lettera dell’Ambasciatore della Federazione Russa in Italia, Sergey Razov, alla redazione del quotidiano “Corriere della Sera” dell’8 Aprile 2019 in merito all’articolo dell’Ambasciatore degli Stati Uniti in Italia, L. Eisenberg, “Russia e Cina aggressive. La NATO decisiva” del 31 Marzo 2019. Che la Russia abbia in serbo varie carte da giocare in sua difesa contro gli “sbarramenti antimissile” che lungo tutti i suoi confini stanno rendendo, almeno in parte, più difficile colpire gli Stati Uniti per le “vie del cielo” immaginate dalla Nato “circondando” la Russia in ogni dove, è assodato da parte degli stessi americani. Le difese della Russia: i segreti del Pentadente russo di Poseidone. Nel comparto della Marina Russa sul Mar Nero rientrano un incrociatore missilistico, al momento in fase di ammodernamento, 6 pattugliatori offshore (tre di loro, gli 11356, equipaggiati con missili da crociera Kalibr), 7 imbarcazioni da sbarco di grossa taglia, 7 navi missilistiche (tre equipaggiate con i Kalibr), 6 sottomarini 636.3 “Varshavyanka”, entrati a far parte della flotta tra il 2013 e il 2016, 3 sottomarini di piccola taglia e vari tipi di navi ausiliarie. La flotta viene riequipaggiata velocemente. Entro il 2021 riceverà 6 navi missilistiche di piccola taglia 22800 “Karakurt” (http://eng.mil.ru/en/index.htm). E l’Aviazione. Venerdì 12 Aprile 2019, Giornata internazionale del primo uomo nello spazio, nel 58esimo anniversario del volo di Yuri Gagarin sulla Vostok1, durante un incontro al Cremlino con i ministri e altri alti funzionari statali, il Presidente russo Vladimir Putin annuncia che il test finale del nuovo missile balistico intercontinentale Sarmat “Justice” è andato a buon fine. “Il test finale del missile Sarmat ha avuto successo. Il complesso Kinzhal e il sistema laser Peresvet sono entrati in servizio”, rivela Putin, il quale fa notare che il missile ipersonico Avangard rafforza in modo significativo le capacità delle forze missilistiche strategiche russe. L’imperalismo della Nato è agli sgoccioli. Scudo antimissile ed Euromissili Nato, affondati!

(di Nicola Facciolini)

“Adesso vi rendete conto di cosa avete fatto?” (Vladimir Putin). “Vivere in pace con tutti i popoli e con tutti i governi” (Nato). “È ancora possibile trovare la strada verso la pace”(Mikhail Gorbaciov). “Se non le potete vedere, non vi potete difendere” (John Hyten). Highly likely. Pare ragionevole pensare che in Europa la Santa Russia sia l’ordine e la Nato sia il caos visto che non avrebbe dovuto avanzare di un solo pollice nell’Europa Orientale, soffocando il terrorismo fondamentalista sul nascere. L’imperalismo della Nato è agli sgoccioli. L’alleanza pan europea dovrebbe avere carattere politico, non più militare. Mai lasciarsi abbandonare alla paura e allo sconforto. Scienziati, internet, giornalisti e politici debbono fare la differenza per proporre vie di pace, smilitarizzando i pensieri, il linguaggio, le azioni. Lancia l’allarme con queste parole il presidente Mikhail Gorbaciov (https://www.youtube.com/watch?v=ZCYUTx_cNaI) sulla crescente tensione tra Usa e Russia, in particolare sulla sospensione da parte statunitense di importanti accordi per la limitazione degli armamenti nucleari come il Trattato Inf in Europa. Lo fa per l’ennesima volta nell’intervento indirizzato direttamente da Mosca il 2 Aprile al Convegno internazionale “I 70 anni della Nato: quale bilancio storico? Uscire dal sistema di guerra, ora”, svoltosi Domenica 7 Aprile 2019 a Firenze. Viene offerto un fiore alla Nato per il suo 70esimo compleanno (4 Aprile 1949-2019). La Nato si scioglierà solo dopo aver perso la guerra di aggressione contro la Santa Russia, come neve al Sole termonucleare primaverile? Davvero sono stati garantiti 70 anni di pace in Europa? Vadano a raccontarlo a tutti coloro che hanno subito i bombardamenti. Chi vivrà, vedrà! Siamo e saremo sempre fautori dell’ingresso della Russia nella nuova  Alleanza Europea, una nuova Nato a doppio comando strategico unificato con i Russi per prevenire e correggere l’attuale politica aggressiva di espansione verso Est sui confini della Federazione Russa (https://m.youtube.com/watch?feature=share&v=zHCniIrdWVU). Esistono 15mila bombe termonucleari nel mondo, di cui 14mila si trovano solamente sul territorio di Russia e Stati Uniti d’America. Secondo i calcoli degli scienziati, per la distruzione completa di una città con una popolazione di oltre 1 milione di  persone servono 3 ordigni nucleari tattici. Conseguentemente tutte le armi nucleari presenti nel mondo basterebbero per distruggere 4.500 grandi città ed uccidere subito 3 miliardi di persone. Le altre morirebbero per le radiazioni, le ferite, le piogge acide venefiche e l’Inverno Nucleare. Oggi siamo quasi otto miliardi di persone. I fisici sanno benissimo cosa accadrebbe al “nostro” pianeta Terra con l’esplosione simultanea di tutte le 15mila bombe “H” all’Idrogeno in un unico emisfero. La potenza media di una singola testata nucleare è di 300 chilotoni. La detonazione di tutti gli ordigni genererebbe una palla di fuoco con un diametro di 5000 chilometri ed l’onda d’urto raderebbe al suolo milioni di chilometri quadrati di superficie. L’onda d’urto si propagherebbe lungo il pianeta per diverse settimane, scatenando terremoti, eruzioni vulcaniche e tsunami. In questo caso ogni creatura vivente in un raggio di 15mila chilometri dall’Epicentro brucerebbe. Dal 4 Aprile 2019, la Nato celebra il 70esimo anniversario dalla firma del Trattato di Washington, che ha posto le basi per quella che è stata definita “l’alleanza di maggior successo che il mondo abbia mai visto”. Il 4 Aprile del 1949, dodici Nazioni firmarono il Trattato Nord Atlantico, costituendo, così, la Nato che, secondo la vulgata occidentale, avrebbe garantito oltre mezzo secolo di pace in Europa. Gli Stati Uniti sono stati il pilastro dell’Alleanza sin dalla sua formazione. Al culmine della Guerra Fredda, c’erano più di un milione di soldati, agenti e membri del servizio americano in Europa impegnati a “garantire” la pace. Attraverso l’ascesa e la caduta del Muro di Berlino, soldati americani, marinai, aviatori e marines e le loro controparti civili avrebbero offerto agli europei il “dono della stabilità. Dopo 70 anni proprio gli Usa sembrano essere, secondo alcuni analisti, il maggior pericolo per la sua tenuta e stabilità unipolare, nonostante il fatto che gli Stati Uniti ne siano stati “l’architetto e il capomastro della Comunità”, come sostiene Strobe Talbott, analista senior del  Brookings Institution. Sembra comunque incontrovertibile che il potere americano abbia mostrato in questi 30 anni di Guerre Umanitarie i suoi limiti, come la storia pare abbia ben evidenziato, e specialmente quando si tratta di “affrontare” le politiche di pace dell’unica altra superpotenza nucleare del pianeta, la Russia, che ha marcato tutta la parabola di questi 70 anni. La Nato, a guardare bene, non ha mai avuto vita facile. L’Alleanza Atlantica ha dovuto affrontare numerose sfide esterne ed equilibrare gli interessi interni, ma anche prendere iniziative coraggiose quando era in gioco la “sicurezza” dei suoi Stati membri. Strobe Talbott, analizza la storia dell’Alleanza, in riferimento alla Russia, in tre fasi: la trasformazione della Seconda Guerra Mondiale nella Guerra Fredda che ha ingessato l’Europa; la prospettiva di una “Europa intera e libera”; il ritorno della Russia al suo passato “predatore e autoritario”, secondo la propaganda russofoba occidentale. La prima fase, quella della strutturazione stessa della Nato, inizia con la fine della Seconda Guerra Mondiale e l’inizio della Guerra Fredda. “Joseph Stalin iniziò la Guerra Fredda prima che i cannoni della Seconda Guerra Mondiale tacessero”, scrive Talbott. “Le Nazioni dell’Europa centrale, che l’Armata Rossa liberò dall’occupazione nazista, furono rapidamente risucchiate nella sfera della dominazione e della tirannia sovietica. I saggi dell’Amministrazione Truman erano determinati a contenere l’espansione sovietica, a cominciare dallo stesso Presidente e dal suo Segretario di Stato, Dean Acheson, e dal Segretario alla Difesa, George Marshall. La strategia si basava su un accordo con gli europei occidentali. Quelle Nazioni devastate dalla guerra abbandonarono l’abitudine a rivalità sanguinose per creare una comunità di Nazioni legate da democrazia, commercio e cooperazione. In cambio, gli Stati Uniti avrebbero ancorato un’Alleanza transatlantica che avrebbe protetto la libertà degli europei e il loro progetto di integrazione”. Una fase, un momento storico, questo, un “ambiente pericoloso e spietato”, lo definisce Lukas Trakimavičius, analista esperto della Divisione di politica di sicurezza economica del Ministero degli Affari Esteri lituano, in una complessa analisi per Atlantic Council. “Appena cinque mesi dopo la fondazione della Nato, nel 1949, l’Unione Sovietica riuscì a detonare la sua prima bomba nucleare. Un anno dopo, Mosca si unì alla guerra per procura in Corea. Per la Nato questi erano segni infausti, che suggerivano che i sovietici avrebbero cercato di invadere l’Europa occidentale. Le preoccupazioni erano ulteriormente esacerbate dal fatto che la Nato aveva solo venticinque divisioni in Europa, mentre, secondo alcune stime, il blocco sovietico aveva 150 divisioni facilmente disponibili”. Non solo. “Non appena la minaccia percepita di un’invasione sovietica diminuì, i primi disaccordi tra gli alleati vennero alla ribalta”. Dopo la morte di Stalin, nel 1953, gli alleati iniziarono a scontrarsi sull’opportunità di perseguire un accordo di pace con la nuova leadership del Cremlino. Tre anni dopo, divisioni ancora più evidenti emersero quando il Regno Unito e la Francia si trovarono in disaccordo con gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica durante la crisi di Suez. Poco dopo la fine della guerra di Corea, la questione della condivisione degli oneri non uniforme entrò nell’agenda della Nato, stessa questione che ha cavalcato e prosegue l’attuale Amministrazione di Donald Trump. Che avrebbe dichiarato di aver rafforzato la Nato con i contributi degli alleati saliti come “un razzo”, da quando si è insediato nel 2016. “Abbiamo ottenuto 140 miliardi di dollari di fondi addizionali e sembra che ne otterremo almeno altri 100 miliardi entro il 2020”, afferma Trump, auspicando contributi alla Nato superiori al 2% del Pil. Quando lo scorso anno aveva chiesto un aumento delle spese per la difesa da parte dei partner pari al 4% del Pil, indicando che gli Usa versano il 4,3%. Come parte della sua politica del “New Look”, il Presidente americano Dwight D. Eisenhower cercò di ridurre l’impronta militare statunitense all’estero e di frenare le spese per la difesa. “A tal fine, ha aumentato la dipendenza della Nato dalle armi nucleari offrendo un’alternativa di deterrenza più economica rispetto alle forze convenzionali”, esortando l’Europa ad aumentare il suo contributo nella spesa per la difesa. Nel 1962, durante la crisi missilistica cubana, gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica arrivarono sull’orlo di uno scontro nucleare. Un certo numero di alleati, come i francesi e i tedeschi occidentali, si sentirono frustrati dalla riluttanza di Washington a condividere con gli alleati i dettagli dei suoi rapporti con Mosca, si cominciò ad affermare la sensazione che “la sicurezza dell’Europa occidentale non era nelle mani degli europei, ma alla mercé delle due superpotenze in competizione”. Pessimo sentimento per la prestanza dell’Alleanza Atlantica, ma una “prova” che sarebbe stata superata. Una crisi molto pesante fu quella del 1966 quando, in seguito a una serie prolungata di disaccordi sul futuro corso della Nato, l’allora Presidente Charles de Gaulle prese la decisione di ritirare la Francia dal comando militare della Nato. Secondo l’articolo 13 del Trattato di Washington, ogni alleato può lasciare la Nato allo scadere dei primi 20 anni di Trattato. Alcuni alleati temettero che il 20esimo anniversario potesse essere caratterizzato dall’allontanamento della Francia dall’Alleanza, potenzialmente creando una reazione a catena imprevedibile che avrebbe potuto portare alla fine della Nato. Non fu così. Come in altre occasioni simili, gli alleati si dimostrarono all’altezza della “fiducia” nella “situazione” e, attraverso consultazioni laboriose, risolsero gli scontri uscendone perfino rafforzati. Tanto che oramai la Nato -Stati Uniti, Canada e Europa occidentale, si considerava consolidata in “stallo stabile” e si preparava a restarlo per le generazioni successive. E qui decolla la “seconda fase” di vita dell’Alleanza, quella che Talbott definisce come “il sogno di un Occidente unito senza la Russia”. Nel Marzo del 1985, Mikhail Gorbaciov viene designato quale Segretario Generale del Comitato centrale del Partito comunista dell’Urss. Il “qualcosa di straordinario” accaduto a Mosca e non in Vaticano con un Papa russo, che cambia la storia dell’Europa e del mondo, ma anche della Nato! Dal Muro di Berlino, alla “cortina di ferro”, al Patto di Varsavia, all’Unione Sovietica che non sarà più né sovietica né unione come l’attuale UE, fino alla fine della Guerra Fredda, “la fine della storia”, si disse e filmò nell’Anno Domini 1991, ai tempi del celebre Star Trek VI. “Gorbaciov – ricorda Talbott – aveva cinque obiettivi principali: 1) basare la politica sulla verità (glasnost) invece della Grande Menzogna; 2) contrastare la repressione e la violenza come mezzo di potere; 3) allentare la sfera sovietica di dominio; 4) apertura del sistema economico e politico (perestroika) e 5) “nuovo pensiero” in politica estera (partenariato con l’Occidente)”. Questi obiettivi incidono pesantemente sull’Alleanza Atlatica, la segnano eccome. E si arriva alla “terza fase” della sua storia, quella che coincide con la Russia post-sovietica. Da tenere presente che nel 1956, la Nato aveva pubblicato il cosiddetto “Rapporto dei tre Saggi” che promuoveva la cooperazione non militare,sosteneva lo sviluppo di una politica reciprocamente accettabile nei confronti dei sovietici, in un contesto in cui  i partner europei avevano iniziato a incrementare gradualmente la spesa per la difesa, mentre la leadership statunitense li garantiva che qualsiasi futura iniziativa politica nei confronti dei sovietici avrebbe incluso la così detta “visione della Nato”. Nel 1967 si arriva poi al cosiddetto “Rapporto Harmel”, il quale sosteneva l’adozione di una politica a doppio binario per la Nato: “deterrenza” e “distensione”, ovvero mantenimento di un’adeguata difesa promuovendo al contempo la distensione politica con il Blocco orientale. “L’impatto della relazione Harmel è stato che le sue conclusioni non solo hanno consentito alla Nato di adattarsi istituzionalmente a un contesto politico in evoluzione, ma ha anche fornito il via libera affinché l’Alleanza svolgesse un ruolo molto più attivo nei negoziati Est-Ovest», sostiene Trakimavičius. Nel 1983 la Nato inizia a dispiegare 572 nuovi missili nucleari e da crociera, compresi i 108 missili Pershing II che erano ospitati nella Germania occidentale. “La decisione ha stordito il Cremlino e l’ha costretto a impegnarsi in colloqui sul controllo delle armi. Molto più tardi la leadership militare sovietica ha ammesso che la decisione di schierare nuovi sistemi missilistici li ha colti di sorpresa e che non si aspettavano contromisure così ferme dalla Nato”, prosegue Trakimavičius. La strategia a doppio binario della Nato ha portato ai negoziati tra gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica, che nel 1987 hanno portato alla firma del Trattato sulle Forze Nucleari a Intervallo Intermedio (INF che non solo ha eliminato un’intera classe di missili che minacciava l’Europa e ha ridotto le tensioni Est-Ovest, ma ha anche accelerato la fine della Guerra Fredda. Nella terza fase, sullo scenario russo entra Boris Eltsin, in occasione del colpo di Stato di quattro giorni nell’Agosto del 1991. E, prima della disintegrazione dell’Unione Sovietica, i polacchi, gli ungheresi e i cechi iniziano a proporsi per l’adesione alla Nato. “Quando Bill Clinton divenne Presidente, dovette cimentarsi con la questione del futuro della Nato – scrive Talbott – alcuni esperti e veterani della Guerra Fredda pensavano che la Nato, dopo aver compiuto la sua missione, dovesse andare in pensione onoraria. Clinton era convinto che la Nato dovesse assumere un nuovo ruolo”, forse immaginava una Nato con nuove istituzioni e che includesse tutti gli ex membri del Patto di Varsavia e tutte e 15 le ex Repubbliche sovietiche, tranne la Russia! “L’innovazione principale è stata la Partnership for Peace (PfP) creata nel 1994 per promuovere la fiducia e la cooperazione su quella che era stata la Cortina di ferro”. In corrispondenza del 50esimo anniversario dell’Alleanza Atlantica, nell’Anno Domini 1999, il Partnership for Peace era attivo e funzionante. Polonia, Ungheria e Repubblica Ceca erano sulla porta d’ingresso della Nato. Clinton invitò Yeltsin alle celebrazioni: forse un’occasione per confrontarsi con i progressi sulla definizione di un “partenariato” tra Nato e Russia? La Nato, però,era in “guerra con la Serbia”, mentre una parte importante dell’opinione pubblica russa voleva vedere il suo Governo prendere le difese della Serbia. Eltsin comunicò a Clinton che la Russia avrebbe fatto tutto il possibile sulla strada diplomatica per porre fine alla guerra. Il resto è storia e la partnership rimase un “sogno” che, come si è visto in questi ultimi anni, appartiene al regno delle fiabe come la propaganda occidentale. Un periodo dominato da una “guerra sotterranea” tra Nato e Russia, condotta a colpi di acquisizioni di Paesi satelliti, dichiarazioni roboanti, terrorismo fondamentalista islamista sui confini russi, strani incidenti aerei, Guerre Umanitarie, traffici di esseri umani dalle zone di guerra, spacciati per “migranti” per destabilizzare l’Europa e la Russia, e simili. Ma, “a differenza della maggior parte delle alleanze della storia, la Nato è unica perché non è solo un’Alleanza militare, ma anche un’Alleanza di valori umani e politici. Si potrebbe persino sostenere che la Nato non sarebbe sopravvissuta alle prove e alle tribolazioni della Guerra Fredda e sarebbe finita in compagnia di alleanze relativamente brevi come l’Organizzazione del Trattato del Sud-Est asiatico (SEATO) e l’Organizzazione centrale dei trattati (CENTO), se non per il fatto che i suoi Stati membri hanno condiviso un insieme di valori – sostieneTrakimavičius – la convinzione comune in materia di libertà, diritti umani e democrazia ha agito come un tessuto connettivo che teneva insieme i paesi e contribuiva a superare sia i riallineamenti geostrategici sia le tempeste politiche provenienti da entrambe le sponde dell’Atlantico”. Ma dall’Anno Domini 2000 al Cremlino c’è il Presidente Vladimir Putin. E alla Casa Bianca, un Presidente, Trump, che fondamentalmente nutre disprezzo per la Nato. La gran parte degli alleati, oltre all’establishment politico statunitense anche repubblicano, è di opinione diametralmente opposta. Così, a 70 anni dalla fondazione, la Nato pensa a come rinnovarsi in funzione di un mondo multilaterale inaugurato dalla Russia di Putin e dalla Cina di Xi Jinping, che presenta sfide completamente nuove e diverse per l’Occidente. Che vanno dalla sicurezza informatica a quella nucleare  in un quadro di potenze nucleari completamente mutato, al Mediterraneo, al nuovo rapporto con la Russia sempre più assertiva e globale di Putin, in relazione allo sviluppo della Via della Seta. Oggi, per Mosca, “la Nato non sta intraprendendo nessuna azione concreta verso il dialogo, malgrado le sue dichiarazioni affermino il contrario – dichiara il Ministero degli esteri russo – la Russia rimane aperta al dialogo per allentare la tensione, ripristinare la fiducia, evitare fraintendimenti reciproci e ridurre i rischi di incidenti pericolosi. Ma da parte della Nato non vediamo iniziative costruttive in questa direzione; i canali del dialogo militare rimangono bloccati”. Sebbene “la Nato non disponga delle risorse militari per esercitare una seria pressione sulla Russia nell’Artico, pur comprendendo il significato geopolitico e militare di questa regione – dichiara il maggiore Sergei Lipovoy – non credo che la situazione militare nella regione artica possa aggravarsi. La Nato non ha aerei per operare a temperature estremamente basse, non ha navi adatte alle condizioni artiche. In Occidente però capiscono il significato geopolitico e militare dell’Artico, in quanto è attraversato dalle rotte dei bombardieri americani per condurre un attacco contro la Russia”, avverte Lipovoy. Sempre in teoria, i possibili obiettivi degli attacchi Nato, in caso di aggravamento della situazione, potrebbero essere le strutture e le infrastrutture del petrolio e del gas russi. Al Quinto Forum Artico Internazionale 2019, dedicato al “Territorio del Dialogo”, il presidente russo Vladimir Putin invita i Paesi artici a chiedere alla Nato perché rifiuta la proposta russa di volare solo con i transponder accesi  (http://en.kremlin.ru/events/president/news/60235). “Il presidente della Finlandia, in qualità di rappresentante di uno stato neutrale, qualche tempo fa, ci ha invitati a far volare gli aerei militari con i transponder accesi. E abbiamo accettato immediatamente questa proposta – rivela Putin – nel rispetto delle nostre relazioni con la Nato. Quindi dovreste chiedere alla Nato perché non è d’accordo”. Il presidente russo sottolinea che “l’attività dell’aviazione russa nella zona baltica dell’Artico è inferiore all’attività dei paesi della Nato”. Il Forum Artico Internazionale è una delle piattaforme chiave per discutere i problemi e le prospettive della regione artica a livello globale. Riunisce gli sforzi delle autorità statali, delle organizzazioni internazionali, dei rappresentanti delle comunità scientifiche e imprenditoriali della Russia e di altri Paesi per una discussione appassionata e uno scambio approfondito di opinioni sulle questioni di attualità della crescita sostenibile nella regione artica. Eppure durante le celebrazioni della Nato risuonano altre parole di propaganda che nulla hanno a che vedere con la pace. Parole confezionate dalla “Sacra Alleanza Atlantica” su come “siamo riusciti a preservare le nostre democrazie occidentali e vivere in pace e prosperità in tutti questi 70 anni”. Le minacce? “Sono Russia e Cina gli aggressori che minacciano la nostra sovranità”. Vogliamo provare a dirla tutta? In Italia a inaugurare le celebrazioni mediatiche del North Atlantic Treaty Organization è l’ambasciatore americano a Roma, Lewis Eisenberg, pubblicando un editoriale sul Corsera. Un florilegio autoreferenziale dall’odore di zolfo dolciastro, stile “Inferno” dantesco secondo Ron Howard, con visioni di angeli e demoni, santi e dannati alla maniera americana. Un universo parallelo nel quale vengono divisi i “buoni” dai “cattivi” della Storia e, guarda caso, i buoni sono gli alleati, gli allineati e i correttamente pensanti, tutti gli altri sono “comunisti”, quelli che vogliono mettere a rischio la pace, corrompere, sottomettere, dominare, ingannare. Un mondo a cartone animato dove i buoni sono solo quelli belli a stelle e strisce, gli altri sono tutti foschi, demoniaci, deformi e cattivi. È saggio leggere, da una prospettiva esterna, ciò che gli altri pensano di questo strano Occidente prossimo al baratro infernale. Prima che la nostra cara “libertà” di stampa europea venga soffocata per sempre nel sangue di una guerra improvvisa scoppiata per errore. Visto che in questi anni il giornalismo europeo è stato fin troppo spesso dimentico di puntualizzare le fasi “rem” di questa parafrenia autoreferenziale che coglie alcuni durante certe celebrazioni in pompa magna di un impero morente. Manfred Wörner, Segretario Generale Nato dal 1988 al 1994, in una dichiarazione pubblica a Bruxelles il 17 Maggio 1990 disse:“L’Unione Sovietica ha una solida garanzia di sicurezza dal fatto che non siamo intenzionati a dislocare un esercito della Nato al di fuori del territorio tedesco”. Solo uno dei pochi casi in cui l’esternazione fu pubblica, in realtà sappiamo che in quel periodo, per ingraziarsi i favori dell’Urss alla “riunificazione” tedesca (avrebbero tranquillamente potuto usare il diritto di veto) tutti gli esponenti politici e militari dell’epoca diedero ampie rassicurazioni a Gorbaciov. Il quale, tuttavia, non se le fece mai mettere per iscritto! Probabilmente all’ex Segretario e Presidente Urss, poi premio Nobel per la Pace, fu più che sufficiente la famosa parola data dal Segretario di Stato Usa, James Baker, il 9 Febbraio 1990: “La Nato non si espanderà ad Est nemmeno di un centimetro”. Abbiamo visto com’è andata. Per semplificare la vita ai giovani e farla breve, “prima della parola data, dopo la parola data”. Appena fatto in tempo a gabbare l’ingenuo Gorbaciov, ecco la seconda mossa occidentale dei promotori di pace: la formulazione della teoria del New World Order. Il Presidente Bush senior ripetutamente ebbe a dire che “ora che l’Urss era in disfacimento, una nuova era si sta per aprire”. Un’era in cui si sarebbe potuta “imporre” pace, stabilità e ordine al mondo intero. Già, solo che Bush intendeva quella pace, quella stabilità-stabilizzazione e quell’ordine, in senso “esclusivo” americano! Tutte cose che attraverso la “nuova” Nato, intesa come forza militare non più solo “persuasiva” dal 1999, modificando l’Articolo 5, avrebbero potuto facilmente imporre, privi dei pericoli rappresentati dall’altro Blocco oramai auto-distruttosi. Il primo atto del NWO fu rivolto ad un Paese ricco e gonfio di petrolio. L’Iraq, quello stesso che fino al giorno prima veniva rifornito e finanziato in contrapposizione al nemico di sempre americano in Medio Oriente, il “famigerato” Iran. Ed è lì che si sperimentò la prima grande campagna mediatica accompagnatoria. Ve la ricordate Nayirah, l’infermiera kuwaitiana che raccontava in lacrime dei soldati di Saddam che sarebbero entrati nell’ospedale a rubare le incubatrici e lasciare i neonati a morire sul pavimento? Una di quelle notizie “fake” che fece il giro del mondo, dopo la quale nessuno ebbe più nulla da ridire sui bombardamenti alleati. Era una balla colossale. Una fakenews! Quell’ospedale descritto dall’infermiera non era stato occupato dagli iracheni perchè l’intera città dell’ospedale, come si scoprì poi, non era mai stata occupata e, udite udite, venne fuori che questa Nayirah in realtà non era affatto un’infermiera ma era nientemeno che la figlia dell’ambasciatore del Kuwait a Washington DC negli Usa! Naturalmente l’Italia, membro Nato, venne chiamata a partecipare all’azione. Anche noi sganciammo le nostre bombe “intelligenti”. Talmente “smart” che la nostra coalizione fece subito più di 100mila vittime solo tra i civili iracheni e ridusse l’Iraq ad una civiltà preindustriale. Siccome non bastava, seguì l’embargo totale. Si calcola che morirono addirittura mezzo milione di bambini in dodici anni di sanzioni e stenti indotti dall’Occidente “buono” dei Diritti Umani e della Democrazia. Venne coniata per l’occasione l’espressione “effetti collaterali” e quando al Segretario di Stato dell’epoca, Madeleine Albright, chiesero se il prezzo di 500mila bambini innocenti ne fosse valsa la pena, lei non rispose “quali bambini?”. Lei disse: “Yes, the price is worth it”. Che significa: “Sì, ne è valsa la pena”. Madeleine Albright è colei poi insignita della “Medal of Freedom” dal democratico Presidente Obama, l’amico di Renzusconi, quella che oggi osa proferire: “i profughi dovrebbero essere visti come una risorsa; gli Stati Uniti dovrebbero essere più coinvolti in Siria”. Quella che ha scritto un libro nientemeno che sul “fascismo” (una che giustifica la morte di mezzo milione di bambini) ed è anche quella che oggi presiede il “National Democratic Institute” che premia e sponsorizza siti come l’ucraino “Stopfake” che classifica “fake” e spazzatura tutti coloro che mostrano “amicizia” nei confronti di Putin e della Russia. Guarda caso! Tra il 30 Agosto e 20 Settembre partecipammo attivamente a questa azione militare dato che i bombardieri partivano proprio dalle “nostre” basi di Aviano e Istrana oltre che dalla portaerei Roosevelt. L’intervento, per quanto preparato con un’accurata campagna propagandistica che aveva concentrato sulle sole spalle serbe tutte le nefandezze di una guerra fratricida alla quale non solo i serbi partecipavano nel disprezzo delle convenzioni, fu comunque per lo meno giustificata da una risoluzione Onu, la n. 836 delle Nazioni Unite. Per la verità la risoluzione chiedeva imparzialità nella missione ma il comando era di fatto americano e al tempo non c’era dall’altra parte né l’Urss né ancora una vera e propria Russia a poter obiettare qualcosa. Iniziati il 24 Marzo e conclusi il 10 Giugno 1999, i bombardamenti alleati provocarono circa 2500 morti. Anche questo intervento, con l’aggravante che questa volta non venne autorizzato dall’Onu, venne preceduto da una imponente campagna mediatica che riuscì a convincerci tutti della necessità di “proteggere la popolazione albanese dalla pulizia etnica serba e dalla catastrofe umanitaria”. Solo dopo si scoprì il ruolo dell’esercito di liberazione del Kosovo e che i serbi non erano “esseri” geneticamente modificati, “demoni” o cattivi di natura, ma che anche loro avevano le loro orientali “ragioni di stato”, pur se anche responsabilità, come in tutte le guerre. Troppo tardi. Uno dei primi governi italiani di sinistra (D’Alema) e in teoria antimperialista (una volta la sinistra diceva di esserlo) si era ormai macchiato di “danni collaterali” sinistri. Si chiamano così i “crimini contro l’umanità” quando siamo noi occidentali “buoni” e “angelici” a commetterli in questi 30 anni di Guerre Umanitarie. Qualche anno dopo la “teoria” dell’autodeterminazione dei popoli che ci aveva permesso di bombardare persino Belgrado per il Kosovo nella Nato, non valeva improvvisamente più per la Crimea di Russia che non vedeva riconosciuto il suo pacifico referendum. Due pesi e due misure? Certo che no. In Jugoslavia le nostre bombe “intelligenti” Nato erano per portare “pace” e “democrazia”. In Crimea invece le urne elettorali dell’Anno Domini 2014 erano per aprire le porte alla turpe “dittatura putiniana”! Se lo chiedete agli euro-atlantisti convinti, vi rispondono proprio così e senza puro sarcasmo. Ancora oggi, anche al Quirinale e Palazzo Chigi. La particolarità di questa missione è che è ancora in corso. Tecnicamente in questa come nelle missioni in Iraq, non è direttamente il comando Nato il protagonista, ma i Paesi che partecipano alle operazioni sono gli stessi oltre ad altri che si aggiungono volontari. Il comando però è americano. Questo è un argomento a favore di chi sostiene che non sia la Nato responsabile di certi tipi di “effetti indesiderati” sulle popolazioni civili qua e là sulla Terra. In realtà si tratta di un’aggravante. Di fatto il centro di comando dell’Alleanza Atlantica serve a portare i Paesi come l’Italia in guerra permanente per poi darne il comando agli Usa. Peggio di così! Nel caso afgano, prima di analizzare la questione “talebani” che pure è un problema serio, varrebbe forse la pena domandarsi come mai quando erano i sovietici a combattere contro gli spietati terroristi fondamentalisti, gli Usa chiamavano tutto ciò imperialismo e sostenevano i ribelli chiamandoli “combattenti per la libertà” come nel film propagandistico “Rambo III”. Mentre poi quando ci hanno avuto a che fare loro, con gli stessi talebani con cui oggi scendono a patti per la “exit strategy” collettiva occidentale utile ad uscire sani e salvi dall’Afghanistan, li definiscono terroristi e le vittime, anche tra i civili, diventano improvvisamente giustificate. La stessa democratica Hillary Clinton ammise che furono gli americani a fomentare il problema sostenendo i Mujaiddin al tempo della guerra contro l’Urss per poi ritrorvarseli contro con il nome di talebani. Testuali furono le parole della Clinton: “Let’s remember here…the people we are fighting today we funded them twenty years ago…let’s go recruit these Mujahideen. And great, let them come from Saudi Arabia and other countries, importing their Wahabi brand of Islam so that we can go beat the Soviet Union”. A parte le questioni teoriche e filosofiche, comunque, i dati alla mano sono che già tra il 2001 e il 2013 i morti in Afghanistan provocati dalle bombe atlantiste alleate erano più di 200mila più altri circa 80mila in Pakistan. Approssimazioni, abusi, veri e propri crimini di guerra, che non verranno mai sanzionati in alcuna Corte Penale Internazionale Onu. Coalizione fondamentalmente anglo-statunitense, in Iraq  A.D. 2003 dove la presenza degli altri alleati fu minore, la nostra minima. Iniziata con la più famosa e pacchiana fakenews (bufala) di tutta la Storia dell’umanità dopo la falsa “donazione di Costantino” che in Occidente per mille anni avrebbe alimentato l’odio verso Costantinopoli e la Russiafobia poi, la scenata di Colin Powell con la famigerata “provetta di antrace” mostrata alle Nazioni Unite, questa operazione criminale ha portato al disfacimento definitivo dello Stato Iracheno e alla fondazione dell’Isis. Non a caso venne chiamata “Iraq Libero”. La legge del paradosso e del dantesco contrappasso non perdona mai nessuno. Una stima attendibile parla di un milione di vittime irachene dirette dei bombardamenti e dell’occupazione Usa e Nato. Due milioni e mezzo i profughi. Chissà quanti (tanti) avranno cercato rifugio proprio in Italia e chissà quanti invece (pochi) saranno stati accolti da chi invece li ha bombardati causando il “collasso” umanitario spacciato per “migrazionale”. Un milione di questi profughi iracheni del 2003 si stima si fosse fermato in Siria, dove il “cattivissimo” Presidente Assad della Repubblica Araba Siriana li aveva accolti forse nell’ingenuità di non poter prevedere che a lui stesso la questione sociale e demografica sarebbe presto sfuggita. Dopo la visita del primo Presidente della Repubblica Italiana Giorgio Napolitano nel 2010, tutto avrebbe preso una brutta piega con l’embargo contro la Siria. Altro che “aiuti italiani”! L’odio, il disagio, la fame, le morti, la disperazione sono il cibo prediletto degli integralismi e il sedicente “stato islamico” se n’è nutrito con l’effetto che una crisi ne ha poi sempre generata un’altra e poi un’altra ancora. Ma forse era proprio questo lo scopo, generare ulteriori crisi, mercenari, traffici di droghe, armi e persone, e con essi ulteriori “cause” di intervento armato. Insomma, la regia la conosciamo tutti. Anche la sceneggiatura. Cambia la fotografia. Raqqa è solo l’ultimo esempio di devastazione totale di una città in Siria, naturalmente made in Usa. Dopo questa prima terribile fase, arriva il famoso Discorso di Putin alla conferenza di Monaco sulla sicurezza nel 2007. In realtà in Occidente non ne ha mai sentito parlare nessuno. Tra gli idioti talk show televisivi italiani, nulla! Dopo quel discorso iniziarono i problemi di comunicazione con l’intera Europa. Ma la “colpa” venne fatta ricadere sul cristiano ortodosso Presidente russo Putin che non è comunista. Si iniziò a parlare di “regime, dittatura putiniana, omofobia, mancanza di libertà di stampa, censura, persecuzione degli oppositori”, in un crescendo continuo di menzogne fino ai moderni “troll” ed “hacker” russi che, secondo la narrazione atlantista, controllerebbero, spierebbero e condizionerebbero tutto e tutti. Anche la “catenella” del vostro “water close”. Qualsiasi cosa, pur di non parlare da dove tutto ebbe inizio sul serio e quale il punto decisivo delle Guerre Umanitarie. La verità è che quel giorno, il 10 Febbraio del 2007, l’Occidente si accorse che non avrebbe mai potuto contare sulla Russia per la realizzazione del NWO e delle Guerre Umanitarie. Putin lo disse chiaro. Parlò proprio della fine del modello unipolare e della necessità di passare ad una visione multipolare, oggi abbracciata anche dal Presidente Sergio Mattarella, altrimenti sarebbe stato un continuo di interventi militari per imporre il proprio concetto unilaterale di ordine e di interessi. Putin provò anche in successive occasioni a ribadire il concetto. Altrettanto famoso il suo intervento alla 70esima Assemblea delle Nazioni Unite nel Settembre 2015 quando disse tra le altre cose: “Adesso vi rendete conto di cosa avete fatto?”. Invece di limitarsi a tradurre i suoi discorsi, i nostri mezzi di informazione italiana, l’arma delle fakenews di fatto più potente a disposizione della Nato, interpretarono il tutto con un esemplare: “Putin vuole tornare all’epoca dei blocchi della Guerra Fredda”! Cioè l’esatto contrario. Da quel tempo la Russia ha di fatto smesso di sperare in una vera apertura da parte dell’Europa Occidentale e si è concentrata più sulla cooperazione con Cina e altri Paesi emergenti formando essa stessa un gruppo di cooperazione alternativo, il BRICS. È del tutto evidente per la Russia che finché l’Europa non sarà una vera Europa unita, invece dell’attuale estensione acefala degli interessi americani attraverso proprio la obsoleta Nato, non ci sarà nessuna possibilità di reale dialogo costruttivo. Tutto quello che verrà dalla Russia, qualsiasi analisi, qualsiasi contributo, punto di vista, informazione o riflessione, non sarà mai nient’altro che classificato come “propaganda di regime indirizzata a destabilizzare le nostre democratiche e libere istituzioni”. L’oramai chiara opposizione della Russia, piuttosto che ridurre a più miti consigli, ha negli anni successivi portato a sempre maggiore unilateralità da parte degli alleati euroatlantici. Proprio perchè non era più possibile concordare in sede Onu alcuna risoluzione, invece di ridurre le attività per cercare compromessi, gli alleati hanno intrapreso derive sempre più unilaterali che a lungo andare condurranno alla Terza Guerra Mondiale. Come dire: “se non siete d’accordo con il NWO, il NWO non sarà d’accordo con voi e lo imporremo comunque”. La Libia è stato un caso di esemplare deriva del sistema. Aiutare i “ribelli” tagliagole, bombardando un Paese sovrano senza riguardo al fatto che detti “ribelli” fossero o meno associati a movimenti integralisti stile Isis, pur che fossero antagonisti del regime di un Governo Gheddafi non gradito e non allineato, è stato un salto di qualità infernale nella strategia degli alleati. Chi è l’Impero del Male? Senza contare ovviamente i morti, un intero Paese nel caos assoluto, l’esplosione incontrollabile della questione dei profughi e dell’immigrazione clandestina che proprio dalla Libia parte, per invadere l’Italia con impensabili complicità nella Chiesa. Un Paese che nonostante tutto, la Libia di Gheddafi, era prospero e in cui l’integralismo islamico non era un problema, trasformato in un danzante caos da girone infernale dantesco per la gioia del “divide et impera” della Nato, organizzazione evidentemente responsabile visto il potenziale previsionale. Di fatto, logicamente, quella Siriana dal 2011 sembra proprio una guerra fomentata dai Paesi della Nato e dalle Monarchie del Golfo. Nel 2006 lo stesso Assad, in una intervista mai presa in considerazione da alcun mezzo di informazione e comunicazione occidentale, proprio ad un famoso giornalista americano, spiega le ragioni delle tensioni che andavano crescendo nel suo Paese e le incomprensioni con gli Usa (Charlie Rose, 2006). Piuttosto che ascoltare quegli appelli i nostri mezzi di informazione hanno voluto prendere per oro colato i “videomaker” dell’Isis, i “fantastici” White Helmets, e l’oracolo dell’Osservatorio Siriano dei Diritti Umani, divinizzato pure da Tv2000 dei Vescovi italiani della Cei, che poi si è scoperto essere un’invenzione dei Servizi Segreti britannici e che lavora da Londra. Una guerra devastante e orribile (oltre 500mila morti e 12 milioni di profughi) della quale si è scaricata la colpa di tutte le vittime civili ad Assad e la Russia che è corsa, su suo invito, in soccorso. I guerrieri sanguinari dello “stato islamico” dipinti come romantici resistenti per la libertà e la democrazia, le truppe governative come sanguinari che gasano i bambini con fantomatici attacchi chimici che nessuno ha mai dimostrato. Ma che tutti hanno voluto prendere per buoni con tanto di show televisivi strappalacrime e tentativi di selfie virali sui social. Raqqa e Mosul rase al suolo dalla presunta “coalizione alleata anti stato islamico” ma, chissà perchè, a fare il giro del mondo sono state solo le immagini di Aleppo, “bombardata” piuttosto da russi e governativi siriani per stanare gli stessi identici guerriglieri Isis. La stima per ora è di 500mila morti e 7 milioni di sfollati interni più altri 5 milioni di profughi all’estero, in parte ora rientranti. La Russia ha distrutto oltre 250mila terroristi. Non parliamo della magra figura “ricreativa” fatta da Usa, Francia e Regno Unito con il bombardamento in risposta all’attacco chimico “fake” su Duma. Non è la Nato. Ma sono Paesi Nato che tra l’altro, per compiere queste “bravate” criminali missilistiche da antologia storica, utilizzano le nostre basi italiane. Pardon, è più corretto dire: usano la basi Nato che si trovano sul “nostro” sovrano territorio italiano. Nello Yemen è in atto un’azione criminale che vede l’Arabia Saudita, a capo di una coalizione araba contro ribelli sciiti. Apparentemente, pare che la Nato non sia direttamente coinvolta. Proprio perché non c’entra, la domanda sorge spontanea: com’è che in questo caso, dove c’è una conclamata azione unilaterale in territorio esterno e una crisi umanitaria certa e drammatica pur se ignorata dai media (epidemia di colera inarrestabile), i Paesi della Nato non propongono i propri mezzi persuasivi, anche solo diplomatici, per provare a risolvere il problema? Come mai, invece, sembrano tutti molto più preoccupati di estendere le basi ancora più ad Est, di fare esercitazioni ai confini con la Russia ed insistere a dichiarare che il pericolo provenga da Mosca e Cina, piuttosto che dall’integralismo islamista, dai trafficanti di esseri umani e dai veri fenomeni destabilizzatori? Come mai tanta attenzione ai diritti e alla democrazia che verrebbe violata in Paesi come il Venezuela, non allineati e gonfi di petrolio e terre rare, mentre Paesi con ben inferiori coefficienti di liberalità, diritti e democrazia, ma che il petrolio lo vendono alle condizioni che fanno loro comodo, non vengono affatto sfiorati da certe attenzioni critiche, anzi sono di fatto alleati? In questa trattazione lasciamo fuori tutte le “primavere arabe” e le rivoluzioni colorate nelle quali non c’è stato un coinvolgimento diretto degli alleati, anche se conosciamo il ruolo di sostegno e incitamento svolto dal Quartier Generale Nato soprattutto in Ucraina, la porta di accesso tra Europa e Russia. La porta che deve rimanere chiusa, altrimenti una intesa tra i due lati dell’Eurasia porterebbe ad un unico super continente forte, sicuro, collaborante e decisamente devastante per gli interessi di egemonia dei veri signori della Nato, che non stanno certo in Europa e non dell’Europa perseguono gli interessi. Il 70esimo anniversario della Nato è stato celebrato dai 29 ministri degli Esteri dell’Alleanza, riuniti a Washington il 4 Aprile. Un Consiglio Nord Atlantico in tono minore rispetto a quello al massimo livello dei capi di stato e di governo. Lo ha voluto il presidente Trump, non tanto contento degli alleati soprattutto perché sono per la maggior parte in ritardo nell’adeguare la spesa militare a quanto richiesto da Washington. Presiede il meeting il Segretario generale della Nato Jens Stoltenberg, al quale il Consiglio Nord Atlantico ha appena rinnovato il mandato di altri due anni per “meriti acquisiti” al servizio degli Stati Uniti. Il calendario di Stoltenberg a Washington è stato organizzato in base a un’attenta regia, per confermare chi comanda nell’Alleanza. Il 2 Aprile il Segretario generale della Nato è stato ricevuto dal presidente Donald Trump alla Casa Bianca. Il 3 Aprile, ha letto una Relazione alle due Camere riunite del Congresso, poi ricevuto dal Segretario di stato Michael Pompeo. Quindi, ricevute le ultime istruzioni, ha presieduto il Consiglio Nord Atlantico del 4 Aprile. Lo stesso Consiglio Nord Atlantico ha appena approvato la nomina del generale Tod Wolters, della US Air Force, quale Comandante Supremo alleato in Europa al posto del generale Curtis Scaparrotti dello US Army. Com’è “tradizione”, da 70 anni il Comandante Supremo Alleato in Europa è sempre un generale statunitense, nominato dal presidente degli Stati Uniti. Poiché il generale che ha l’incarico di comandante supremo della Nato è allo stesso tempo comandante del Comando Europeo degli Stati Uniti, la Nato è di fatto inserita nella catena di comando che fa capo al presidente degli Stati Uniti. Non si sa ancora quali saranno le “priorità” del generale Wolters, ma di certo non differiranno da quelle del generale Scaparrotti: anzitutto “assicurare gli interessi degli Stati Uniti e sostenere una Europa che sia intera e in pace”, impegno quest’ultimo che suona tragicamente grottesco a vent’anni dalla guerra con cui la Nato sotto comando Usa demolì la Federazione Jugoslava. “Priorità odierna – dichiara il generale Scaparrotti – è quella che le infrastrutture europee siano potenziate e integrate per permettere alle forze Usa/Nato di essere rapidamente posizionate contro l’aggressione russa”. Quindi, adeguare i ponti e tutte le vie e infrastrutture di comunicazione. La Nato sotto comando Usa prosegue così da settant’anni di guerra in guerra. Dalla Guerra Fredda, quando gli Stati Uniti mantenevano gli alleati sotto il loro dominio, usando l’Europa come prima linea nel confronto nucleare con l’Unione Sovietica, all’attuale confronto con la Russia provocato dagli Stati Uniti fondamentalmente per gli stessi scopi. Il Ministero degli Esteri russo, nel comunicato stampa ufficiale diramato in occasione del 70esimo anniversario della Nato, dichiara: “Come ci dimostrano l’agenda e le decisioni del Consiglio della Nato, l’Alleanza nordatlantica non vuole rinunciare all’intensificazione della contrapposizione politico-militare con Russia. Lo scopo principale della Nato non cambia dal 1949 – unire gli alleati sotto la bandiera della deterrenza, della “minaccia dall’Est” con gli ultimatum. Benché la Nato formalmente dichiari di esser disponibile al dialogo con la Russia, non si vedono dei passi concreti. La Russia rimane aperta alla cooperazione mirata alla de-escalation delle tensioni, al restauro della fiducia e la diminuzione dei rischi di incidenti pericolosi. Settant’anni è l’età quando la saggezza deve prevalere invece di ambizioni e fobie. È ora di smettere di puntare sulla “minaccia dall’Est”. Il mondo ha bisogno di de-escalation delle tensioni nell’interesse della pace e prosperità dei popoli dei nostri paesi”. In inglese il comunicato dichiara: “The North Atlantic Treaty, which led to the establishment of NATO, was signed on April 4 seventy years ago. On this occasion, the North Atlantic Council held a meeting of the member states’ foreign ministers in Washington on April 3?4. The agenda of the meeting and the decisions taken at it by the North Atlantic Council show that the alliance is not going to stop building up its military and political confrontation with Russia. The bloc’s key goal – to rally its allies for containing “the threat from the East” – has not changed since its establishment in 1949. Although NATO has officially declared its readiness for dialogue with Russia, no practical steps towards this goal have been made. The bloc continues to rely on ultimatums and is not ready to seriously talk about the key European security topics within the framework of result-oriented discussions. Russia remains open for interaction aimed at de-escalating tension, restoring mutual trust, preventing any misinterpretation of one another’s intentions, and reducing the risk of dangerous incidents. However, NATO has not advanced any constructive initiatives in this respect. The channels of dialogue between the sides’ military remain blocked. The alliance continues to strengthen its coalition capability and to improve its military infrastructure stationed on the Russian border for expediting the eastward deployment of its troops and equipment. Additional funds are allocated for the development of the BMD systems, UAVs and new-generation aircraft. At the same time, bilateral efforts taken by the NATO member states, in particular the United States, are played down. The potential deployment of a new large military base or group of forces in Eastern Europe, which is being discussed, runs contrary to the bloc’s obligations under the Russia-NATO Founding Act, which is one of the few agreements that are designed to maintain stability in Europe. Having militarised north-eastern Europe, which used to be a tranquil region militarily, NATO has decided to increase its military presence in the Black Sea. It has launched the overall strengthening of the air, land and sea components. The US Permanent Representative to NATO, who has said that this is being done to guarantee the safe passage of Ukrainian ships, is thereby enticing Kiev to undertake new provocations. NATO has reaffirmed its policy of strengthening Georgia’s military capability. The bloc’s condoning with Georgia’s militarist aspirations in 2008 has resulted in a tragedy that must not be repeated. The intensity and scale of NATO-led military exercises are growing. These wargames provide for training not only in defensive but also in offensive operations in all spheres, including in cyberspace. We see all of this as yet another step towards destabilisation and an attempt to apply military pressure. However, we hope that common sense will prevail and that the NATO states will refrain from any actions that can lead to a dangerous escalation of tension and the risk of military incidents. It is alarming that the consistent growth of the NATO states’ defence spending can provoke a new arms race. Their overall defence spending amounted to some $1 trillion in 2018, which is more than half of the world’s defence spending and 20 times more than Russia spends on its defence. The US decision to withdraw from the INF Treaty, which the NATO countries have supported in keeping with the bloc’s discipline, has seriously destabilised the world. Russia’s unprecedentedly transparent proposals in this sphere have been disregarded. These are the realities of today. The 70th anniversary is an opportunity to assess NATO’s role in European security. Some see NATO as “the most successful alliance in history.” There is no doubt about this, considering its contribution to ensuring the US military and political domination in Europe and the Euro-Atlantic region. There is also no doubt that NATO-centrism has prevented the creation of a truly comprehensive and democratic system of indivisible security without dividing lines and zones of influence. The bloc’s custom of using military force outside the framework of collective defence, without due regard for the other members of the international community and often in violation of the norms and principles of international law, has led to deplorable results. The bloc’s operations in Yugoslavia, Afghanistan and Libya have brought chaos and destruction to these countries and have claimed a great many civilian lives. These operations have also dealt a heavy blow to the foundations of international law. The attempts to replace international law with a “rules-based order” have led to the current security crisis in Europe. Seventy years is an age when wisdom must take priority over ambitions and phobias. It is time the NATO states stopped reviving “the threat from the East.” The world needs to de-escalate military and political tension in the interests of peace and prosperity for all nations”. Interessante è la lettera dell’Ambasciatore della Federazione Russa in Italia, Sergey Razov, indirizzata alla redazione del quotidiano “Corriere della Sera” dell’8 Aprile 2019 in merito all’articolo dell’Ambasciatore degli Stati Uniti in Italia, L. Eisenberg, “Russia e Cina aggressive. La NATO decisiva. L’ambasciatore degli Stati Uniti Lewis Eisenberg interviene sul ruolo dell’Europa e del Patto atlantico rispetto alla nuova politica della Cina. «Pechino vuole sovvertire l’unità europea»” del 31 Marzo 2019. “Caro Direttore – scrive Sergey Razov – ha attirato la nostra attenzione un articolo dell’Ambasciatore degli Stati Uniti in Italia apparso sul Suo autorevole quotidiano in data 31 marzo 2019, pretenziosamente intitolato “Russia e Cina aggressive. La Nato decisiva”. A quanto pare l’occasione commemorativa – il settantesimo anniversario della costituzione dell’Alleanza – ha spinto il rappresentante americano a superare nelle sue valutazioni pubbliche i limiti della moderazione e dell’avvedutezza proprie della nostra professione. A questo proposito non possiamo non condividere con i lettori del giornale alcune riflessioni. Salta immediatamente agli occhi un’affermazione alquanto dubbia che si può riassumere con: la NATO a guida USA sono gli unici “garanti della pace e della sicurezza”. Si crea l’impressione che meccanismi internazionali e regionali quali ONU, OSCE, Consiglio d’Europa e altri, neanche menzionati nell’articolo, semplicemente non esistano. Siamo sicuri che anche l’affermazione secondo la quale la Nato sarebbe “l’alleanza di maggiore successo nella storia” susciti dubbi in molti osservatori obiettivi. In realtà il blocco politico militare creato durante la “guerra fredda” con l‘unico scopo di contrapporsi all’URSS non ha saputo, neanche dopo la scomparsa dell’Unione Sovietica, adattarsi alla realtà del mondo moderno, non di rado preferendo agire con interventi armati, aggirando il diritto internazionale e le risoluzioni del Consiglio di Sicurezza dell’ONU. È sufficiente ricordare un altro anniversario – stavolta tragico – i 20 anni dai bombardamenti della Jugoslavia che hanno provocato tante vittime e macerie nel centro dell’Europa. Oppure l’operazione NATO contro la Libia nel 2011 il cui carattere distruttivo è oggi riconosciuto anche da alcuni membri del blocco. L’Ambasciatore degli Stati Uniti oggi parla della Russia come “principale minaccia alla sovranità e all’indipendenza dei paesi europei” e invita a incrementare il potenziale militare della NATO. Fatti universalmente noti tuttavia testimoniano che le spese militari complessive dei paesi NATO (oltre un trilione di dollari nel 2018) superano di 22 volte il bilancio militare russo (46 miliardi di dollari). Con una certa durezza Washington esige che gli alleati aumentino le spese militari fino al 2% del PIL (naturalmente non sta a noi decidere per quali scopi sarebbe più ragionevole investire tali considerevoli risorse). Il numero complessivo degli organici delle forze armate degli stati NATO è oltre tre milioni di unità. Sono cresciute in frequenza e portata le esercitazioni e le attività delle forze dell’Alleanza nelle regioni prossime alla Russia, ai confini della Russia è dislocato un raggruppamento avanzato con rotazione permanente. A proposito, nulla di simile avviene sul fianco sud della NATO da dove provengono le vere (terrorismo, migrazione ecc…) e non artificiali minacce e sfide alla sicurezza. È assurdo sentire accusare il nostro paese di violare la stabilità nucleare globale e i relativi trattati da parte del rappresentante di uno stato che unilateralmente nel 2002 ha intenzionalmente denunciato il fondamentale Trattato a tempo indeterminato sulla limitazione dei sistemi di difesa antimissile del 1972 e oggi, rifiutando ogni forma di dialogo e ignorando le fondate preoccupazioni russe, distrugge un’altra pietra angolare dell’architettura della sicurezza: il Trattato sui missili a medio e corto raggio. Non meno prive di fondamento, alla maniera accusatoria oggi popolare del “Highly likely” (Altamente probabile) sono le parole del rappresentante americano a proposito dei presunti “attacchi cibernetici russi all’Agenzia Mondiale antidoping e all’Organizzazione per la Proibizione delle Armi chimiche” e del famoso incidente in Gran Bretagna. La Russia ha fornito più volte spiegazioni esaustive su tali questioni. Una delle poche tesi contenute nell’articolo che non suscitano obiezione è quella secondo la quale per la NATO sarebbe preferibile “avere Mosca come amico piuttosto che come nemico”. La Russia per parte sua ha più volte dichiarato di restare disponibile alla collaborazione e all’interazione, anche con i paesi NATO. A questo fine esistono tutti i meccanismi necessari, per esempio il Consiglio Russia-NATO. In ogni modo bisogna guardare al futuro, costruendo rapporti nello spirito della parità dei diritti e del dialogo basato sul reciproco rispetto”. Speriamo che le preziose parole di Sergey Razov, pubblicate sulle pagine del Corriere della sera, siano ascoltate per la pace mondiale. Perchè la cronaca europea delle esercitazioni Nato tenute nascoste al grande pubblico dei “social”, parla il linguaggio della guerra. Cosa avrà mai scritto l’Ambasciatore degli Stati Uniti in Italia, Lewis M. Eisenberg, sul Corsera? Le sue parole le troviamo sul sito dell’Ambasciata Usa in Italia e non lasciano spazio a interpretazioni neppure per il nostro Presidente della Repubblica Mattarella che dovrebbe leggerle molto attentamente. L. Eisenberg dichiara: “L’Organizzazione del Trattato dell’Atlantico del Nord è l’alleanza di maggior successo nella storia. Dalla sua nascita il 4 aprile 1949, quando gli Stati Uniti e l’Italia si sono riuniti a Washington insieme ad altre dieci nazioni, la Nato ha contribuito a creare il più lungo periodo di sicurezza, stabilità e prosperità nella storia dei suoi membri. Dal ruolo di deterrenza contro l’Unione Sovietica durante la Guerra Fredda al contrasto alle nuove minacce ibride, gli alleati Nato, fianco a fianco, hanno continuato a proteggere i nostri popoli. La forza della Nato risiede nella sua unità e nel suo essere fedele ai principi e agli obiettivi per i quali è stata creata. Il nostro impegno alla difesa collettiva di tutti gli stati membri rimane incrollabile, così come l’adesione ai valori condivisi di democrazia, libertà individuale, diritti umani e stato di diritto. Quando il trattato Nato fu firmato il 4 aprile 1949 da 12 Paesi, il Presidente Truman disse che l’Alleanza «non solo puntava ad affermare la libertà dall’aggressione e l’uso della forza nella comunità del Nord-Atlantico, ma s’impegnava attivamente a promuovere e mantenere la pace nel mondo». Tale rimane l’aspirazione collettiva dei Paesi Nato. L’Organizzazione ha avuto un ruolo di portata storica nel mantenere la pace, e oggi come allora garantisce la sicurezza, mentre affronta sfide nuove. Per decenni, gli alleati Nato hanno posto un argine all’espansione della dittatura comunista in Europa, garantendo che gli orrori della Seconda Guerra Mondiale non si ripetessero più. Dopo la Guerra Fredda, l’Alleanza si è adattata a circostanze nuove, creando partnership con Paesi un tempo avversari ed intervenendo nel conflitto nei Balcani. Più di recente, la Nato si trova ad affrontare la minaccia del terrorismo. Quando gli Stati Uniti sono stati attaccati l’11 settembre 2001, la Nato ha invocato l’Articolo 5 – la clausola di difesa collettiva – per la prima ed unica volta nella sua storia. Velivoli Nato hanno pattugliato i cieli degli Stati Uniti e insieme abbiamo combattuto fianco a fianco per contrastare il terrorismo in Afghanistan. Siamo particolarmente grati all’Italia per la leadership in Kosovo e per il lavoro comune in Afghanistan affinché non torni ad essere un rifugio del terrorismo internazionale. Oggi insieme contrastiamo il terrorismo e collaboriamo per difenderci dalle minacce ibride e informatiche che colpiscono la nostra società. La Guerra Fredda è finita, ma la Nato resta centrale oggi come lo era nel 1949. Nuove sfide si aggiungono alle vecchie, dando vita ad un contesto geopolitico sempre più competitivo ed incerto. Vale la pena fare qualche esempio. La Russia, invece di cooperare nell’affrontare le nuove sfide, mostra un’aggressività che minaccia la stabilità e la pace costruite in 70 anni. La Nato auspica il miglioramento delle relazioni con Mosca, e preferiremmo avere il Cremlino tra gli amici che tra i nemici, ma le azioni messe in atto dal governo rendono la Russia la principale minaccia alla sovranità e all’indipendenza degli stati europei ed ai valori che accomunano l’Occidente. Pechino amplia la sua influenza per sovvertire l’unità europea e transatlantica. La Russia con Vladimir Putin ha preso di mira le nostre istituzioni democratiche e finanziarie e le infrastrutture civili attraverso nuove forme di «guerra ibrida». Ha usato attacchi cibernetici per attaccare organizzazioni internazionali come l’Associazione Mondiale Anti-Doping e l’Organizzazione per la Proibizione delle Armi Chimiche. Sicari al soldo del Cremlino hanno usato un agente nervino di origine militare in un attacco sul suolo britannico che ha portato alla morte di un cittadino del Regno Unito. La Russia ha invaso e continua ad occupare territori appartenenti a Paesi sovrani come la Georgia e l’Ucraina. Minaccia le nostre città e i nostri cittadini, schierando batterie di missili nucleari in violazione del Trattato Inf. Oltre alla minaccia russa alla Nato, una Cina sempre più determinata sta cercando di ampliare in modo aggressivo la sua influenza economica e politica in Europa, per sovvertire l’unità europea e transatlantica e riscrivere le regole e gli standard internazionali. Inoltre, non possiamo ignorare le sfide poste dall’Iran e dalla Corea del Nord, Paesi entrambi guidati da leader imprevedibili e con ambizioni nucleari. E poi il terrorismo, in particolare quello che proviene dal Mediterraneo e dall’Africa, continua a rappresentare una diretta minaccia per i nostri popoli e più in generale per la stabilità internazionale e per l’economia. Di fronte a tali sfide, gli Stati Uniti rimangono fermi nel loro impegno verso gli Alleati. Come ha dichiarato in maniera inequivocabile il Presidente Trump parlando a Varsavia nel 2017, «gli americani sanno che un’Alleanza forte di nazioni libere, sovrane e indipendenti costituisce la miglior difesa della nostra libertà e dei nostri interessi». L’impegno per la difesa collettiva dei nostri valori comuni e la sovranità dei Paesi membri sono le ragioni per le quali gli alleati hanno stabilito nel 2014 di aumentare gli investimenti per la difesa. Ci siamo impegnati a spendere almeno il 2% del Pil, e ad investire entro il 2024 almeno il 20% di tali stanziamenti nelle principali attrezzature militari. Incrementando gli investimenti nel settore difesa, aiutiamo la Nato a garantire che i nostri eserciti, le nostre forze aeree e navali siano addestrate, equipaggiate e pronte a partire in caso di crisi o conflitto, per rispondere ad ogni tipo di minaccia. Rafforzeremo le capacità della Nato di far fronte alle minacce ibride. Garantiremo inoltre che la Nato possa mobilitare le sue risorse per sostenere i nostri partner nella lotta al terrorismo, portare stabilità nelle aree di crisi e ridurre la possibilità di attacchi terroristici. Desideriamo collaborare con l’Italia nell’ambito del Dialogo Strategico annunciato dal presidente Trump e dal presidente del Consiglio Conte per proseguire il lavoro, ed investire in sforzi congiunti e multilaterali per migliorare la sicurezza e la cooperazione nella difesa nel Mediterraneo, anche attraverso l’Hub Nato di Napoli. La Nato è un’alleanza di Paesi che hanno scelto di allearsi perché, per usare le parole della Carta Nato, «sono decisi a salvaguardare la libertà, il patrimonio comune e la civiltà dei loro popoli, fondati sui principi della democrazia, della libertà individuale e dello stato di diritto». Sin dalla sua fondazione, la Nato è rimasta fedele ai suoi ideali fondanti e la nostra porta è rimasta aperta a nuovi membri che condividono questi valori e si impegnano a contribuire alla difesa comune. Ogni nuovo alleato ci rende più forti e la crescita delle capacità di difesa collettiva della Nato consente ai suoi membri di difendere meglio i propri cittadini e i loro alleati, salvaguardando la pace ed il benessere economico. Nel 2019, la Nato celebra gli anniversari dell’adesione di alleati provenienti dall’Europa centrale e orientale, mentre si prepara ad accogliere la Macedonia del Nord come trentesimo alleato. Senza dimenticare l’impegno verso i Paesi partner.

70 anni dopo la Guerra Fredda è finita ma l’Alleanza resta centrale oggi come lo era nel 1949. La democrazia, la libertà, la pace e lo sviluppo economico sono i valori fondamentali in cui credono l’Italia, gli Stati Uniti ed i nostri alleati Nato. Insieme siamo impegnati a difendere questi valori, senza diluire la nostra indipendenza e le nostre rispettive identità nazionali. A tale scopo, dobbiamo continuare ad investire nella nostra difesa, accrescere e modernizzare le nostre capacità militari e contribuire agli sforzi per la sicurezza dei nostri cittadini. Ci stiamo preparando a sfide più impegnative. Insieme, saremo più forti per garantire che la Nato continui ad essere garanzia di pace e stabilità per i prossimi 70 anni e oltre”. Dall’1 all’8 Marzo 2019 nel Mar Nero si è svolta l’esercitazione Nato “Poisedon”, a guida rumena, finalizzata ad aumentare l’interoperabilità tra le marine alleate e migliorare la loro capacità di neutralizzare la minaccia delle mine. Vi prende parte il Gruppo 2 di Contromisure per la mine della NATO (SNMCMG2). La SNMCMG2 (Secondo Gruppo NATO di Contromisure Mine) è una forza marittima multinazionale integrata composta da navi appartenenti a diverse nazioni alleate, che si addestrano ed operano insieme e permanentemente disponibili ad operare in missioni NATO con competenze specifiche nella lotta alle mine navali. Generalmente la Forza Navale è impiegata nel Mar Mediterraneo, comandata a rotazione da un Ufficiale di Marina dei Paesi partecipanti e dipende dal Comando Marittimo Alleato (MARCOM Northwood). Il Secondo Gruppo NATO di Contromisure Mine è arrivato il 19 Febbraio scorso nel Mar Nero, dopo una visita di quattro giorni in porto a Costantinopoli (Istanbul), in Turchia, per condurre il primo pattugliamento del Gruppo NATO del 2019. Il gruppo include la nave tedesca da rifornimento FGS Werra, il cacciamine turco TCG Akcakoca, il dragamine rumeno ROS Lt Lupu Dinescu e il cacciamine bulgaro BGS Tsibar. L’esercitazione è ospitata da Romania e Bulgaria. Lo stesso giorno il cacciatorpediniere statunitense USS Donald Cook è entrato, per la seconda volta dall’inizio dell’anno, nel Mar Nero “per condurre operazioni di sicurezza marittima e migliorare la stabilità marittima regionale”, secondo gli analisti occidentali. La nave è stata messa sotto monitoraggio dalla corvetta missilistica Orekhovo-Zuyevo e dal pattugliatore Ivan Khurs della Marina Russa. Secondo la Convenzione di Montreaux, le navi che entrano nel Mar Nero e non appartengono ai paesi rivieraschi devono presentare richiesta alle autorità turche che controllano gli stretti dei Dardanelli e del Bosforo. Le navi militari non appartenenti ai paesi del bacino possono restare nel Mar Nero al massimo 21 giorni. Le operazioni di pattugliamento dei Gruppi navali della NATO sono aumentate nel 2018, per un totale di 120 giorni di presenza contro un totale di 80 giorni nel 2017. Nel 2018, la NATO ha condotto 103 esercitazioni, mentre nel 2019, gli alleati dovrebbero condurne 208 tra nazionali e multinazionali. Le esercitazioni di quest’anno, sia quelle guidate dalla NATO sia dagli alleati, includono circa 25 esercitazioni terrestri, 27 aeree e 12 esercitazioni incentrate principalmente sulle operazioni marittime. Molte altre sono specifiche come la difesa cibernetica, il processo decisionale di risposta alle crisi, la difesa chimica, biologica, radiologica nucleare, logistica, etc. Nel sud-est dell’Alleanza l’elemento terrestre della NATO è costruito attorno a una brigata multinazionale, sotto la Divisione multinazionale Sud-Est, in Romania. Per proteggere lo spazio aereo della NATO, diversi alleati hanno sostenuto gli sforzi della Romania e della Bulgaria con l’Air Policing, missione della NATO in tempo di pace, con lo scopo di proteggere lo spazio aereo dell’Alleanza. Il compito collettivo prevede la presenza 24 ore su 24 di aerei da combattimento ed equipaggi, pronti a rispondere alle violazioni dello spazio aereo nella regione. Il 12 Febbraio scorso, il ministro degli Esteri russo, Sergey Lavrov, in una conferenza stampa congiunta, dopo i colloqui con il suo omologo finlandese, aveva dichiarato che “la NATO continua il suo build up militare senza precedenti, vicino ai confini della Russia” e che “il numero delle esercitazioni nel Mar Baltico e nel Mar Nero, nonché le esercitazioni aeree, si è moltiplicato”. Il Mar Nero, bacino marittimo semichiuso e poco profondo, sul piano geo-strategico è stato per molto tempo assente dalla lista delle aree calde del pianeta Terra. Eppure, nella visione strategica della NATO, cioè degli Usa, rappresenta da sempre una regione di grande rilevanza politica e militare, visto l’amore che hanno gli statunitensi per la storia dell’Impero Romano d’Oriente, sconosciuta in Italia. Basti pensare che le coste e i porti bulgari e rumeni che si affacciano sulle sue acque, un tempo parte del Patto di Varsavia, costituiscono oggi il fianco sud-orientale dell’Alleanza Atlantica. E che il Mar Nero separi direttamente l’Europa dall’Asia e sia teatro della sovrapposizione di interessi diversi e in contrasto con quelli euro-atlantici, in primis gli interessi della Russia per la quale il Mar Nero costituisce l’unica via di collegamento al Mar Mediterraneo, è sotto gli occhi di tutte le persone di buon senso. Questa regione ha assunto per la NATO una rinnovata importanza a partire dal 2014 quando, dopo il rovesciamento del governo di Kiev da parte della Nato e della Ue, la Russia legittimamente dopo un Referendum ha riammesso la Repubblica Autonoma di Crimea, riappropriandosi di quel territorio che Nikita Khrushov aveva regalato all’Ucraina nel 1954, E quando il Donbass è diventato teatro di un conflitto tuttora irrisolto, dove le istanze separatiste nella Ucraina Orientale di cultura russa, hanno incontrato il sostegno politico-militare della Russia. Una fase cui ha fatto seguito un relativo incremento della concentrazione militare russa in Crimea, dove attualmente è stanziata una forza di oltre 28.000 uomini con armamenti sofisticati e mezzi militari quali fregate e i sottomarini della gloriosa Flotta Russa del Mar Nero, armati di missili da crociera “Kalibr” e ipersonici “Zircon”, convenzionali e nucleari. Senza contare i battaglioni dei famosi missili S400 Triumph. Il clima di crescente instabilità provocato dalla crisi in Ucraina, secondo un preciso “timing”, ha quindi spinto l’Alleanza a rivedere la sua strategia per il Mar Nero e nel 2016, durante il Summit di Varsavia, gli alleati si impegnarono a incrementare la loro presenza nella regione (TFP – Tailored Forward Presence) istituendo una componente militare aerea e una terrestre entrambe basate in Romania, rispettivamente 4 Typhoon britannici presso la base Mihail Kogalniceanu e una forza multinazionale su base brigata di stanza a Craiova. La componente marittima consta invece di visite periodiche di navi alleate ai porti dei Paesi rivieraschi (principalmente Bulgaria e Romania), esercitazioni congiunte di unità navali di Paesi NATO per migliorarne l’interoperabilità, e un incremento degli addestramenti, “senza prevedere alcuna configurazione navale permanente”, dichiarano gli analisti occidentali. Un ulteriore passo avanti è stato raggiunto l’anno successivo con la decisione di integrare nelle manovre militari nel Mar Nero i gruppi navali multinazionali permanenti della NATO, e in particolare il Secondo Gruppo Navale Permanente della Nato (SNMG2) e il Secondo Gruppo NATO di Contromisure Mine (SNMCMG2). Impiegati principalmente nel Mediterraneo, questi gruppi appartengono alla forza marittima di reazione rapida della NATO e hanno garantito una maggiore presenza e più frequenti pattugliamenti del Mar Nero. Nel 2018 i gruppi navali hanno effettuato visite alla Romania e partecipato, tra le altre, ad esercitazioni “Passex” con unità navali della Marina romena e di quella ucraina, funzionali al miglioramento dell’interoperabilità e all’addestramento nella difesa aerea, nelle comunicazioni, nella neutralizzazione delle mine, attività che è stata oggetto anche della più recente esercitazione Poseidon nel Mar Nero. Le evidenti difficoltà degli Alleati a rispondere in tempi brevi alla “reazione” difensiva di Mosca alla crisi in Ucraina e di esprimere pertanto una posizione “comune e credibile per una regione strategica come quella del Mar Nero”, può essere spiegata alla luce di una regione disomogenea dove gli orientamenti politici dei Paesi rivieraschi differiscono sostanzialmente dalle pretese di Washington. Mentre i Paesi Baltici, per esempio, sostengono in blocco la necessità di una maggiore presenza militare della NATO per tutelare eventuali “minacce alla loro integrità territoriale”, i Paesi del Mar Nero, ad eccezione della Romania, hanno promosso un’impronta più blanda dell’Alleanza nell’area. Ancor prima della legittima “annessione” della Repubblica Autonoma di Crimea alla madrepatria russa, Bucarest ha più volte ammonito gli alleati di non lasciare che Mosca trasformi il Mar Nero nel proprio “lago domestico”. Inoltre, benché fautrice della necessità di un dialogo con la Russia, la Romania ha promosso l’incremento delle forze NATO e statunitensi nella regione. In proposito, è utile ricordare che dal 2016 Bucarest ospita illegittimamente presso Deveselu il sistema di difesa contro missili balistici “Aegis Ashore” fornito dagli Stati Uniti, e che da allora costituisce un obiettivo sensibile per Mosca, nonostante la NATO abbia negato che la sua installazione abbia funzioni ostili nei confronti della Russia. Quando tutti sanno che tali siti di lancio, prossimi ai confini russi, possono essere caricati con missili balistici nucleari offensivi in qualsiasi momento e senza preavviso! Al contrario, la Bulgaria che è ricordata come una delle più fedeli alleate dell’Unione Sovietica, mantiene ancora oggi rimarchevoli legami culturali ed economici con la Russia che non essendo più comunista è depositaria di una cultura millenaria cristiana parte dell’Europa, senza dimenticare che gran parte degli armamenti e dei mezzi militari ancora in dotazione alle Forze armate bulgare sono di stampo sovietico. I militari russi conoscono bene, per esempio, i suoi vecchi sistemi di difesa aerea e con essi anche i loro problemi, vera spina nel fianco per la “povera” incompresa NATO. Per queste ragioni, non stupisce che la proposta rumena di creare una forza navale permanente della NATO nel Mar Nero, prevedendo un comando a rotazione tra i Paesi rivieraschi, sia stata respinta dalla Bulgaria con la giustificazione del premier Boyko Borisov di non voler “sentire tintinnare le armi nel Mar Nero, ma vedere solo yacht, crociere e turisti. Siamo un mare di pace e non cerchiamo la guerra”. La saggezza incarnata in persona! Il fianco sud-orientale della NATO, “a lungo trascurato, rappresenta pertanto il punto debole dell’Alleanza” e questo “assunto” unipolare diventa ancor più evidente se si guarda alla Turchia. Da tempo, infatti, Ankara lamenta la scarsa affidabilità dell’Occidente, convinzione che trova conferma nelle riserve espresse dal Presidente statunitense Donald Trump che non solo ha posto fine alle agevolazioni commerciali concesse alla Turchia ma ha anche minacciato di distruggerne l’economia laddove Ankara avesse attaccato i Curdi in Siria. Alla faccia della Democrazia, dello Stato di diritto e dei Diritti Umani! Del resto anche la Turchia sembra aver realizzato che riguardo all’economia e alla politica della sicurezza il suo orizzonte futuro sia ad Est, con il progetto Turkish Stream e i l’acquisto dei sistemi di difesa aerea missilistica S400 Triumph dalla Russia. La scelta euroasiatica turca di dotarsi di un sistema d’arma russo ha provocato un’ulteriore grave rottura con gli Stati Uniti che non solo hanno bloccato la consegna dei cacciabombardieri nucleari F35 ordinati da Ankara, ma hanno anche contribuito ad etichettare come “poco fedele” il secondo alleato, in termini di numero di militari in servizio, dell’Alleanza atlantica. La Turchia e la Russia non appaiono certo oggi come potenziali avversari ma piuttosto come partner in determinati settori, come la distruzione dell’Isis in Siria. Per questo la ulteriore militarizzazione della Crimea non sembra preoccupare Ankara che può ugualmente contare nel Mar Nero, seppure in funzione difensiva, su una flotta poderosa soprattutto in termini di unità sottomarine. In questo contesto, dunque, più che i Paesi rivieraschi della NATO a finire nel “mirino russo” è l’Ucraina dove la dittatura Ue Usa Nato sforna “fantocci” russofobi a volontà. L’incidente avvenuto nello Stretto di Kerch che nel novembre del 2018 ha provocato la legittima cattura da parte russa di tre unità navali ucraine e del loro personale di bordo, ancora in stato di arresto, “ha dato nuovo impulso al definitivo rafforzamento della presenza militare nel Mar Nero”, come da programma. Il 3 e il 4 Aprile 2019, nel corso di un vertice a latere delle celebrazioni per il settantesimo anniversario del Patto Atlantico a Washington, i ministri degli esteri dei 29 Paesi membri hanno incentrato le discussioni proprio sulle “nuove sfide che la Russia pone alla sicurezza e alla stabilità di questa regione”. E per sopire i timori di Kiev di finire in una “morsa letale con il blocco del porto di Mariupol, nel Mare d’Azov”, gli alleati hanno approvato una “serie di misure per contrastare l’iniziativa” russa. Il “Black Sea Package” prevede un rafforzamento della ricognizione aerea per monitorare le attività russe, esercitazioni congiunte con un maggior coinvolgimento di Ucraina e Georgia, invase dalla Nato in spregio a tutta la dottrina strategica del buon senso e della pace, andata definitivamente a farsi benedire, visite di navi militari nei porti dei due Paesi partner e scambio di informazioni strategiche. Sui confini russi si sta giocando una pessima partita a poker che l’Italia e gli Italiani ignorano platealmente. Nessun ulteriore dispiegamento di forze quindi ma una conferma degli impegni già assunti dalla NATO nel 2016 con una maggiore cooperazione con i partner più “vulnerabili”, come confermato dal ministro degli Esteri bulgaro Ekaterina Zaharieva. Certo, un incremento della presenza militare della NATO sui confini russi (e non della Russia sui confini messicani o canadesi!) è stato registrato tra il 2017 e il 2018 quando le unità navali dei Paesi alleati sono rimaste rispettivamente 80 e 120 giorni nelle acque del Mar Nero. Tuttavia, guardando i numeri delle risorse umane coinvolte e le dimensioni delle forze si giunge a un “rafforzamento limitato che rischia di configurarlo come una semplice dichiarazione di intenti”, secondo gli analisti occidentali. In questo senso, appare utile confrontare la più grande esercitazione militare della NATO nel Mar Nero che si sta svolgendo in questi giorni (5-13 Aprile) di cui i demenziali talk show televisivi italiani non parlano, con le sue edizioni precedenti. “Sea Shield 2019” a guida rumena impiega circa 2.200 uomini e 20 navi da guerra, di cui 14 navi rumene, 3 di Bulgaria, Grecia, Turchia, e altrettante di Spagna, Canada e Paesi Passi che insieme ad alcune navi della guardia costiera ucraina e georgiana si addestrano in missioni di combattimento congiunto. Il 29 Marzo l’ammiraglia olandese Evertsen e le fregate Toronto e Santa Maria, rispettivamente candese e spagnola, appartenenti al SNMG2 sono entrate nel Mar Nero per condurre operazioni di pattugliamento prima delle manovre congiunte “Sea Shield 2019”. Ad un primo confronto, si evidenzia infatti una riduzione seppur lieve nel dispiegamento di uomini (2.200 contro i 2300 del 2018 e addirittura 2.800 nel 2017) e mezzi, poiché nel 2018 vi parteciparono 21 navi contro le 20 di quest’anno. Ma a “colpire” maggiormente è l’assenza degli Stati Uniti tra i partecipanti dell’esercitazione che sembra indicare la volontà di Washington di trasferire la responsabilità del supporto politico-militare alla nuova leadership russofoba di Kiev, agli “alleati minori” in concomitanza con le elezioni in Ucraina. Fatto gravissimo e inaudito. Il cacciatorpediniere statunitense USS Donald Cook ha infatti partecipato ad esercitazioni con la guardia costiera georgiana a Gennaio 2019, mentre a Febbraio 2019, prima di uscire dal Mar Nero, ha visitato il porto ucraino di Odessa dove il presidente uscente Petro Poroshenko è salito a bordo della nave in un incontro che ha definito “simbolico” perché manda “un forte segnale per la Russia che la Crimea è ucraina e che è garantita la libertà di navigazione nella regione”. Sic! Si ha la sensazione che si auspichi la Terza Guerra Mondiale per errore! La NATO sembra in definitiva evidenziare le sue contraddizioni interne circa la strategia da adottare nel Mar Nero con gli Stati Uniti che apparentemente “abbandonano la causa comune” attraverso un progressivo “disimpegno nelle manovre collettive a favore di iniziative bilaterali”. Il fianco sud-orientale dell’Alleanza bagnato dal Mar Nero sui confini della Russia, resta il “tallone d’Achille” della NATO e in mancanza di una “maggiore coesione tra gli alleati”, ciascun Paese rivierasco cerca di tutelare i propri “interessi nazionali”, evidenziano gli analisti. In prospettiva, bisogna anche sottolineare che qualunque ulteriore passo gli Alleati vogliano intraprendere per incrementare la forza NATO nel Mar Nero sui confini della Russia, questo dovrà sempre scontrarsi con i limiti imposti dalla Convenzione di Montreux del 1936. In tempo di Pace, infatti, le navi militari dei Paesi non rivieraschi possono permanere nel bacino per un periodo non superiore ai 21 giorni e con una flotta che non superi le 40.000 tonnellate di dislocamento. Iran e Russia tengono regolarmente manovre navali congiunte nel Mar Caspio, nelle quali le unità si esercitano in tattiche militari, protezione civile e soccorso in mare e operazione anti-pirateria. Come annunciato il 6 Gennaio 2019 dal comandante della Marina di Teheran, contrammiraglio Hossein Khanzadi. “Negli ultimi anni – ha detto Khanzadi, citato dall’ agenzia Mehrnews – le forze navali di Iran, Russia e degli altri Stati che affacciano sul Caspio hanno intessuto buoni rapporti reciproci e di cooperazione e fra loro c’è intesa sulla sicurezza nella regione”. Le manovre congiunte, ha aggiunto l’alto ufficiale iraniano, sono “una delle forme attraverso le quali Mosca e Teheran incrementano la cooperazione bilaterale”. La Flottiglia Russa del Mar Caspio è stata la gloriosa protagonista del conflitto siriano contro l’Isis con il lancio di numerosi missili da crociera Kalibr dalle unità navali schierate in questo bacino. Fino alla vittoria definitiva nel 2018 contro le poderose installazioni militari Isis nella Repubblica Araba Siriana oggi restituita alla sua legittima sovranità dopo sette lunghi anni di guerra d’invasione, in attesa della sua ritrovata originaria integrità territoriale che a Damasco verrà sempre assicurata dalla Russia, dall’Iran e dalla Turchia. Non dalla Nato né dalla “coalizione occidentale”. Russia e Iran sono due Paesi alleati strategici, soprattutto nella crisi siriana. Manovre congiunte sono già state compiute nel 2015 e 2017 nel Mar Caspio, sul quale si affacciano anche Turkmenistan, Kazakistan e Azerbaigian. Lascia ben sperare per la pace mondiale, anche il prototipo del velivolo russo da combattimento senza equipaggio (UCAV). Immagini sono state scattate in occasione dei primi test a terra avvenuti presso la Novosibirsk Aircraft Production Organization (NAPO) nella Russia centrale. Il velivolo teleguidato da comvattimento S-70 Okhotnik (Cacciatore) sviluppato dal bureau Sukhoi è caratterizzato da un design tutt’ala, privo di coda e derive (simile per certi versi agli omologhi europeo nEUROn e statunitense Northrop Grumman X-47B) e da una presa d’aria dorsale. L’Okhotnik sfrutta una notevole capacità “stealth” dettata dall’uso di materiali compositi e da uno speciale rivestimento radar assorbente sviluppati durante la realizzazione del super-caccia di quinta generazione Su-57, mentre il motore AL-31/41 a spinta vettoriale e il carrello triciclo (a ruote singole posteriormente e doppio ruotino anteriore) sono stati presi in prestito dalla famiglia dei Su-30. Secondo gli analisti, un dimostratore del caccia multiruolo di quinta generazione Su-57 (053) verrebbe attualmente utilizzato come laboratorio volante per testare alcune componenti dell’Okhotnik. Tale tesi potrebbe essere avvalorata dalla mimetizzazione inferiore dell’esemplare che riporta la sagoma dell’Okhotnik e dalla miniatura dell’UCAV riportato sulla deriva verticale. Secondo altre ipotesi, invece, l’Okhotnik potrebbe essere usato in futuro dal pilota del Su-57 in qualità di “gregario” e colpire così obiettivi designati dall’ufficiale russo stesso: non a caso la deriva riporta anche il disegno di un fulmine tra le due sagome, come a dimostrare la futura simbiosi operativa tra i due velivoli. È possibile stimare un’apertura alare di almeno 19 metri, il che induce a pensare che si tratti di un UCAV della classe delle 15/20 tonnellate idoneo al trasporto di un’ampia panoplia di armamenti russi, inclusi missili di ultima generazione come il sistema ipersonico nucleare Kinžal. Secondo il viceministro della Difesa Alexey Krivoruchko, il volo inaugurale dell’Okhotnik è previsto in primavera. “Stiamo pianificando il volo inaugurale dell’Okhotnik per la prossima primavera del 2019; lo sviluppo del programma è tra le nostre priorità e ha raggiunto uno stadio avanzato. Si tratta di un progetto molto importante”. L’affermazione del progetto marchiato Sukhoi risale al 2012 quando il Ministero della Difesa russo nominò vincente il progetto ai danni della proposta MiG con il suo UCAV SKAT presentato, a sua volta, molto tempo prima in occasione del salone russo MAKS 2007. A proposito di quest’ultimo progetto, secondo alcuni analisti del settore, il bureau MiG non avrebbe affatto abbandonato le ricerche sul suo prototipo anche se le differenze dimensionali tra i due progetti sono notevoli e questo potrebbe aver influito a suo tempo sulla decisione della Difesa russa di scegliere proprio l’Okhotnik con intelligenza artificiale. Per adesso è ancora poco più che un “fantasma” per la Nato, ma è un fantasma che sta pazientemente prendendo anima e corpo russi. Il misterioso “siluro-drone” a grande raggio, o per meglio dire sottomarino abissale, con cui la Russia potrebbe nei prossimi mesi esser in grado di difendersi, trasportando un grosso ordigno termonucleare marittimo di enorme potenza a poche miglia dalle spiagge del continente nemico, viene ormai considerato una “minaccia plausibile”, pur con i leciti dubbi del caso circa le sue capacità effettive. Che la Russia abbia in serbo varie carte da giocare in sua difesa contro gli “sbarramenti antimissile” che lungo tutti i suoi confini stanno rendendo, almeno in parte, più difficile colpire gli Stati Uniti per le “vie del cielo” immaginate dalla Nato “circondando” la Russia in ogni dove, è assodato da parte degli stessi americani. Come testimonia l’allarme lanciato il 27 Febbraio 2019 dal generale dell’US Air Force, John Hyten, capo del Comando Strategico statunitense (Stratcom), di fronte alla Commissione Forze Armate del Senato di Washington: “Sono preoccupato che nei prossimi dieci anni e oltre, a partire da oggi, a causa di siluri, missili da crociera e armi ipersoniche la situazione cambi radicalmente e avremo difficoltà nel contenere le armi strategiche russe. Non ho problemi ad assicurare che posso difendere la nazione oggi, e penso sarà così anche per il comandante che verrà dopo di me, ma mi preoccupo per il comandante successivo”. Hyten si riferisce, mettendo il generico “siluri” in cima all’elenco dei sistemi d’arma intercontinentali russi, anche all’enorme drone subacqueo nucleare che gli americani hanno battezzato in codice “Kanyon” e che i russi chiamano “Poseidon” (ex Status 6) come l’antico dio greco del mare armato di tridente, alimentando la certezza e fugando ogni confusione circa la possibilità, per alcuni analisti da ritenere remota, che si tratti perfino di tre armi distinte. In effetti, Poseidon è alimentato da un reattore nucleare in grado di garantirgli la sicura navigazione abissale per lungo tempo, può montare missili balistici e bombe nucleari. Può fare quindi molti disastri, persino in tempi non più sospetti, magari dopo la Terza Guerra Mondiale, quando i presunti vincitori festeggiano e brindano alla loro fine! Poseidon è l’Arma Fine del Mondo di Kubrick. In grado di garantire la pace. Pena, la mutua distruzione assicurata. Così come i missili ipersonici Zirkon sono difficilmente intercettabili, un veicolo sottomarino robotizzato a grandissima autonomia, propulso da un reattore nucleare, è ancor più in grado di vanificare gli enormi investimenti nella difesa antimissile Nato, con cui nell’ultima ventina d’anni gli Usa hanno cercato di tradurre in realtà almeno la parvenza del sogno fantascientifico di un invulnerabile “ombrello” sopra il Nord America, com’era stato propagandato dal Presidente Ronald Reagan fin dall’Anno Domini 1983, causando il collasso dell’Urss. Il generale fa capire il nocciolo della questione sulle nuove armi, sia sottomarine sia aerospaziali, con l’efficace espressione: “Se non le potete vedere, non vi potete difendere”. Hyten rimarca soprattutto la necessità che le nuove armi russe vengano comprese dal trattato New START, quando fra pochi anni se ne dovrà ridiscutere il rinnovo: “Se i Russi continuano a sviluppare capacità che non sono previste dal trattato e non si siedono al tavolo, ciò mi preoccuperà molto. Se il New START verrà esteso nel tempo, vi si dovranno comprendere queste nuove armi”. Che il siluro nucleare russo Poseidon, annunciato dal Presidente Putin il 1° Marzo 2018, sospettato di una testata talmente potente da causare perfino un maremoto, diventi uno dei maggiori spauracchi del Pentagono e della Nato, non stupisce. Individuare e neutralizzare un veicolo subacqueo, probabilmente navigante a migliaia di metri di tenebrosa profondità è, tutt’oggi, enormemente più difficile rispetto all’arginare degli assai più evidenti ordigni volanti che solcano il luminoso e tenue “mare oceano d’aria” che avvolge il globo. Il segretissimo “mostro” marino russo, del quale vale la pena esaminare i dettagli fin qui sussurrati, ha già raggiunto un risultato concreto, cioè costringere gli americani e la Nato a interrogarsi seriamente sul trattato New START e sulla necessità di conservarlo, se possibile allargandolo ai nuovi sistemi. È un evidente successo storico politico di Putin. I Russi, in poche parole, non hanno fatto altro che reagire in modo asimmetrico alla potenziale rottura degli equilibri ereditati dalla Guerra Fredda, iniziata già nel Giugno 2002 col ritiro unilaterale Usa dal trattato ABM che limitava le difese antimissile. Mentre l’America, indipendentemente da chi sedeva alla Casa Bianca, ha per tutto l’ultimo abbondante quindicennio inseguito una netta supremazia, tanto da arrivare infine alla ormai inesorabile condanna del Trattato Inf sui vettori a medio raggio con base a terra, la Russia di Putin non è stata certo a guardare. Non poteva stare a guardare. Deve difendersi dall’espansione della Nato sui suoi confini. È spuntata così l’arma dell’apocalisse che nessuno voleva. Negli ultimi mesi, con l’ennesimo “ultimatum” del segretario di Stato americano Mike Pompeo ai Russi il 4 dicembre 2018, seguito dall’annuncio di sospensione americana del trattato Inf circa 60 giorni dopo, ovvero il 2 Febbraio 2019, si sono susseguiti i semplici moniti (non gli ultimatum) dal Cremlino, in particolare dal ministro degli Esteri Sergei Lavrov, circa il rischio che fra due anni possa toccare la stessa sorte al terzo grande trattato dell’architettura di sicurezza nucleare, il New START in vigore dal 5 Febbraio 2011, che limita a 1.550 testate strategiche per parte gli arsenali atomici a lungo raggio di Russia e Stati Uniti. Il New START è l’attuale forma tra le tante assunte via via dai trattati sulla limitazione delle armi nucleari strategiche germogliati fin dagli Anni Settanta per iniziare a frenare una corsa agli armamenti che si faceva sempre più spasmodica e terrificante. Il 26 Maggio 1972, quando il Presidente statunitense Richard Nixon e il Segretario generale sovietico Leonid Brezhnev firmarono a Mosca il SALT 1, abbinato al Trattato ABM per limitare le difese antimissile, per la prima volta le due superpotenze ponevano paletti al possesso delle proprie atomiche strategiche, conservando inviolato il Principio della Deterrenza reciproca, il solo davvero valido se si vuole evitare a ogni costo lo scoppio di una guerra nucleare, il cui livello di distruttività si allontanerebbe troppo da qualsivoglia realistico obiettivo politico e militare razionale. In ciò aveva la sua logica il trattato ABM, firmato nel medesimo giorno da Nixon e Brezhnev, come imprescindibile corollario al SALT 1, poiché consentendo solo 100 razzi antimissile per parte si intendeva evitare che una delle due potenze fosse tentata di investire in difese così massicce da poter avere l’illusione di essere invulnerabile a un’offensiva nucleare nemica di ritorsione. Ciò avrebbe creato in quello degli antagonisti che si fosse ritenuto più avanzato nello sviluppo di difese antimissile, una pericolosa propensione a risolvere il duello di lungo periodo fra i due mastodonti con un primo, massivo, attacco nucleare a sorpresa, a carattere politico “preventivo”. Nella convinzione anzitutto di distruggere al suolo la maggior parte dei bombardieri a lungo raggio e delle basi terrestri di missili intercontinentali, e specialmente di poter arginare con relativo successo l’eventuale secondo colpo di rappresaglia che il nemico avrebbe sferrato utilizzando soprattutto i missili SLBM lanciati dai sottomarini in alto mare (i meno vulnerabili a un “primo colpo”), ma anche quei vettori aerei e terrestri che fossero per ventura scampati al primo colpo. Per esempio i bombardieri già in volo ad alta quota mentre il territorio veniva spazzato dai primi “funghi atomici”, oppure i missili su rampe di lancio mobili auto-carrate o ferroviarie nascoste in foreste remote o gallerie ignote. Ora, il principio della “mutua distruzione assicurata” ha cominciato, dall’Anno Domini 2002 a oggi, a essere eroso sia dall’espansione dei sistemi antimissile americani, sia dalla sempre maggiore enfasi che nelle “nuove” dottrine militari di Washington ha assunto l’ipotesi di un ipotetico impiego circoscritto, “chirurgico”, di testate nucleari di potenza moderata, eventualmente trasportate da vettori ipersonici rispondenti al concetto del “Global Strike”, la capacità di colpire rapidamente in qualsiasi punto del globo. In nome della “illimitata” guerra al terrorismo nelle regioni all’uopo destabilizzate. I Russi hanno parimenti reagito migliorando sempre più le capacità dei loro sistemi antiaerei e antimissile e, necessariamente, i loro sistemi offensivi. La pervicacia con cui gli Stati Uniti, fin dalle precedenti amministrazioni di George Walker Bush e Barack Obama, hanno avviato l’allestimento di una linea avanzata di difesa antimissile in Europa, vicinissimo ai confini della Russia, ossia le basi di Deveselu in Romania e di Redzikowo in Polonia, è stata aggravata agli occhi dei Russi dal sospetto che tali basi camuffino missili offensivi Tomahawk (impiegabili dagli stessi lanciatori verticali dei vettori antimissile) in versione nucleare, in violazione di quel trattato Inf che alla fine gli americani hanno abbandonato prendendo a pretesto violazioni russe non provate. Tutti questi sviluppi hanno spinto il Cremlino a interrogarsi sui modi, anche asimmetrici, per mantenere rispetto agli Usa e la Nato una parità strategica sostanziale, almeno in campo nucleare, tale da intimidire la controparte quel tanto che basta a scoraggiare un conflitto devastante. Per salvare, nelle linee essenziali, quell’Equilibrio del Terrore che ha mantenuto “freddo” il confronto tra Usa e Urss per oltre un quarantennio, è così apparso sulla scena il super siluro Poseidon, apparentemente svelato “per caso” da riprese televisive della rete moscovita Canale 1. Era il 10 Novembre 2015 quando si inizia a parlare di questo sottomarino drone dopo che un suo schema illustrato viene ripreso da giornalisti russi che assistevano a una conferenza militare fra il presidente Vladimir Putin e vari ufficiali a Sochi, sul Mar Nero. L’obiettivo della telecamera adocchia la sagoma dell’enorme siluro senza equipaggio, ben evidente su un documento maneggiato da un generale di spalle, quasi a voler dar l’idea di una fortuita fuga di informazioni segretissime. Subito, sui media russi e occidentali si diffondono i primi, stringati, dati sull’ordigno, la cui designazione ufficiale veniva spacciata per “OMS Status 6”, dove la sigla stava per Okeanskaja Mnogozelevaja Sistema, ossia in russo “Sistema Oceanico Multimpiego”. Tutto, dalla sigla evasiva, non assegnante ufficialmente una specifica funzione all’unità subacquea, alla presunta casualità della scoperta, “congiura” per ammantare l’ordigno con un alone di mistero, amplificato dal fatto che il governo russo sul momento non commentava nulla sull’ordigno, mentre parimenti i primi dati filtrati sull’arma le assegnavano capacità incredibili. Fin dall’inizio si disse che il futuro Poseidon era dotato di propulsione nucleare, con un raggio d’azione superiore ai 10.000 km e con una velocità massima di ben 185 km/h in immersione, ossia un centinaio di nodi. Quanto alla sua capacità massima di immergersi, la si accreditava sui mille metri. Le dimensioni apparivano da subito attorno a una lunghezza di una ventina di metri, forse 24 metri, con un diametro fra 1,6 e 1,8 metri e un dislocamento totale di forse 100 tonnellate. Ciò che appariva più tremendo, era che la potenza della testata termonucleare valutata in 100 megatoni, sebbene la CIA abbia preferito non sbilanciarsi e vagheggiare una potenza fra 2 e 10 megatoni. Fra i primi a suggerire, fin dall’Autunno 2015, che questo sottomarino-siluro, senza equipaggio, spingendosi fino alle coste americane potesse ipoteticamente deflagrare causando uno spaventoso maremoto, con onde di tsunami alte centinaia di metri in grado di spazzar via le grandi città atlantiche, c’era l’esperto militare russo Konstantin Sivkov. Ebbene, pare proprio che Sivkov abbia in qualche modo “preparato” il terreno, forse non casualmente, all’abilmente costruito “scoop” sullo Status 6, oltre sei mesi prima. Fin dal 1° Aprile 2015, infatti, la stampa occidentale segnalava un suo articolo in cui vagheggiava “forze speciali nucleari” di nuova concezione che avrebbero consentito alla Russia di devastare gli Stati Uniti con “onde di tsunami” e perfino “scatenare l’eruzione della caldera vulcanica sotto il parco di Yellowstone” dormiente da ben 640.000 anni, un po’ prima della glaciazione di Gunz, e reputato assai pericoloso dai vulcanologi. Senza contare la immensa caldera del Golfo di Napoli che ospita l’Hub Nato. Sivkov stimava che l’80% della popolazione statunitense vivesse sulle coste o abbastanza vicino ad esse, perché esplosioni nucleari di grande potenza causanti tsunami potessero danneggiare, direttamente o indirettamente, fino a 240 milioni di cittadini, con una proporzione di morti e feriti poco diversa da quella che sarebbe risultata da un “ortodosso” attacco con missili balistici ICBM. Secondo lui, gli ordigni sottomarini avrebbero potuto essere fatti esplodere sia lungo la costa dell’Atlantico, specie di fronte alla colossale conurbazione fra Boston e Filadelfia, con epicentro la baia di New York, sia lungo il litorale della California, nella speranza, in tal caso, di far risvegliare le molte sorgenti sismogenetiche della regione, magari la faglia di Sant’Andrea e causare un enorme sisma, nello stile del profetizzato “Big One” che gli americani temono peggiore  del terremoto di San Francisco del 1906. Del resto, il fine catastrofico del futuro Poseidon appariva anche nello stralcio di documento emerso in Novembre, in cui si affermava che il drone sottomarino avrebbe “devastato vasti tratti della costa degli Usa” per di più rendendole “inabitabili e inutilizzabili per anni mediante un’estesa contaminazione radioattiva”. Al che si è ipotizzato da più parti che la grande testata termonucleare, sulle cui considerazioni di potenza meccanica torneremo fra poco, sia basata, almeno in parte su materiali fissili particolarmente dannosi come il Cobalto59 che all’atto dell’esplosione termonucleare subacquea trasmuterebbe in Cobalto60 ancor più radioattivo. Insomma, alla fine del 2015 l’esistenza di quest’arma che teoricamente sarebbe in grado di generare anche ondate alte 500 metri, tali da abbattere i grattacieli di Manhattan in un modo assai più terribile e spettacolare che negli attentati dell’11 Settembre 2001, non era ancora confermata e veniva data, sì, per probabile, ma anche ritenuta una possibile operazione di inganno, pari allo “scudo spaziale” di Reagan di trent’anni prima. Fra il 2015 e il 2016 non sembrava ancora facile credere in una simile “arma dell’apocalisse”, sebbene l’idea venisse da lontano, a corroborare la validità sostanziale di una strategia estrema per assicurare alla Russia la possibilità di infliggere danni colossali all’avversario attaccante e mantenere così l’equilibrio globale a dispetto delle maggiori spese militari americane e Nato. Dunque, lo “Zar degli abissi” esiste. La primordiale idea di un’arma nucleare trasportata via mare verso un grande porto nemico e fatta detonare distruggendo l’approdo e l’entroterra limitrofo, fu delineata per la prima volta quando ancora la bomba atomica non esisteva, se non negli studi teorici dei fisici più all’avanguardia. È noto che il 2 Agosto 1939, un mese prima dello scoppio della Seconda Guerra Mondiale, tre scienziati di fama come Albert Einstein, Leo Szilard ed Edward Teller, scrissero e indirizzarono al Presidente statunitense Franklin Delano Roosevelt una lunga famosa lettera in cui lo informavano della possibilità di costruire un simile ordigno, invitandolo a finanziare ricerche per far sì che fosse l’America democratica, e non la Germania nazista, a sviluppare per prima l’arma totale. Lo spettro di un Adolf Hitler vicino all’atomica veniva agitato con vigore, corroborato dal fatto che nel 1938 i tedeschi Otto Hahn, Fritz Strassmann e Lise Meitner si erano resi conto di aver spaccato in due l’atomo di Uranio238 bombardandolo con neutroni. La Germania veniva quindi reputata già molto avanti nella ricerca, ed era sintomatico che avesse messo le mani sulle miniere d’Uranio della Cecoslovacchia appena occupata. Einstein e colleghi dipinsero a Roosevelt tale quadro realistico circa un possibile impiego marittimo di primordiali e pesantissimi ordigni basati sulla fissione dell’Uranio: “Si potrebbero ipotizzare delle bombe di nuovo tipo, eccezionalmente potenti, ed è quasi certo, anche se non al cento per cento, che queste bombe siano praticamente fabbricabili. Una sola di esse, trasportata da una nave e fatta esplodere in un porto, distruggerebbe senz’altro il porto stesso e una parte considerevole del territorio circostante. Forse una limitazione al loro impiego potrebbe dipendere dall’eccessivo peso, che ne renderebbe difficile il trasporto aereo”. Nel 1939 Einstein ipotizzava quindi il trasporto marittimo di una bomba atomica, poiché valutava che il suo peso sarebbe stato eccessivo per gli aeroplani di allora. In effetti, quando nell’Estate del 1945 il Progetto Manhattan sfociò infine nella bomba all’Uranio235 “Little Boy”, sganciata su Hiroshima, e in quella al Plutonio239 “Fat Man”, esplosa su Nagasaki, entrambe pesavano tonnellate, ma nel frattempo i rapidi progressi dell’aeronautica avevano portato allo sviluppo del grosso bombardiere quadrimotore Boeing B-29 Superfortress che poteva sollevare simili carichi. Negli anni seguenti, miniaturizzazione e alleggerimento delle testate nucleari fecero sì che la loro modalità privilegiata di “consegna” fosse, senza problemi, quella per via aerea, che si trattasse di ordigni sganciati da velivoli, imbarcati su razzi o missili, o sparati direttamente da artiglieria in forma di granate speciali. Nell’ambito della guerra marittima e sottomarina, tuttavia, si svilupparono, da un lato, bombe nucleari di profondità, dall’altro testate per siluri speciali. In Unione Sovietica, fu lo stesso Josef Stalin ad approvare il 9 Settembre 1952, il programma di sviluppo di un ambizioso siluro gigante a grande autonomia, designato T-15, che doveva essere lungo 20 metri e dislocare 40 tonnellate, portando una testata all’Idrogeno della potenza superiore al megatone. Il progetto giunse a maturazione nel 1954, dopo che Stalin era già morto, ma fu presto abbandonato perché poco pratico. Il T-15 doveva avere un motore elettrico con autonomia di 30 chilometri e sarebbe stato lanciato da un sottomarino sovietico che si fosse arrischiato vicino alla costa americana, mirando a grandi installazioni portuali. Il livello della difesa antisommergibile americana, più vari problemi tecnici, fecero mettere in soffitta il T-15. Più promettente si rivelò la costruzione di siluri nucleari di normali dimensioni, in tal caso di ambito tattico nella lotta a flotte di superficie o sottomarini nemici. Basti ricordare a tal proposito il T-5 sovietico, collaudato per la prima volta nelle gelide acque artiche della Novaja Zemlja il 21 Settembre 1955, con un’esplosione subacquea da 3,5 chilotoni, e in seguito adottato a bordo di varie unità della flotta di Mosca. Sulla stessa falsariga, gli americani produssero a partire dal 1959 il loro siluro Mark 45 da 11 chilotoni. Un siluro a testata nucleare tendeva a una valenza più tattica che strategica, non solo per la piccola potenza della testata, ma soprattutto a causa della scarsa autonomia consentita da propulsori convenzionali, fossero elettrici, a gas o ad aria compressa. Il vero prodromo dello Status 6 Poseidon, inteso come idea di siluro gigante a testata nucleare, ma munito anche di una propulsione a energia nucleare, fu quindi il concetto delineato verso la fine del 1961 da uno dei più famosi fisici russi, quell’Andrej Sacharov che, dopo essere stato tra i maggiori artefici della forza termonucleare dell’Urss, era destinato in seguito a levare la sua voce in favore del disarmo, distinguendosi come uno dei fisici  dissidenti più in vista e finendo col vincere nel 1975 il Premio Nobel per la pace. Sacharov era tra i principali progettisti della più potente bomba termonucleare mai costruita e provata, la RDS-220 battezzata “Zar Bomba” (Tsar Bomb) della potenza nominale di 100 megatoni, come lo stesso Nikita Kruschev aveva preannunciato nell’Estate del 1961. E proprio la fattibilità di un apparato di quella potenza, già negli Anni Sessanta e quindi a maggior ragione con le tecnologie di oggi, costituisce un’ennesima conferma della possibile distruttività termonucleare del Poseidon. Anzi, proprio un sotterraneo filo rosso lega il sottomarino drone del 2019 con la RDS-220 risalente a ben 58 anni prima. Sacharov e i suoi colleghi progettarono la Bomba Tsar come una “H” a tre stadi, secondo lo schema concatenato fissione-fusione-fissione. La potenza massima di 100 megatoni doveva essere raggiunta quando, dopo le prime due fasi, si fosse innescata la fissione del terzo stadio di Uranio238 che doveva avvolgere come uno scudo il primo stadio al Plutonio239 e il secondo stadio a Deuterio e Litio, questo destinato a trasmutarsi in Trizio per fondersi al Deuterio creando Elio ed energia neutronica. Cioè tanti Neutroni. I sovietici decisero però di moderare di molto la potenza dell’ordigno, per evitare che la fissione del terzo stadio creasse una troppo pericolosa ricaduta radioattiva. Così, all’atto dell’esperimento pratico, l’Uranio238 del terzo stadio venne sostituito con una sorta di “cuscino ecologico” di Piombo. Fu per questo motivo che la Zar Bomba, anche se realmente in grado, da progetto, di scatenare 100 megatoni, ovvero 8.300 volte la forza dell’atomica di Hiroshima, sviluppò invece “appena” 57 megatoni puliti, quando venne collaudata il 30 Ottobre 1961, sganciata sulla Novaja Zemlja da un bombardiere pesante Tupolev Tu-95. Anche se con forza effettiva dimezzata, e anche se deflagrata a quota piuttosto alta, sui 4.000 metri, per di più senza che la palla di fuoco o “pikadon”, come la “sfera” nucleare è spesso chiamata rifacendosi ai sopravvissuti giapponesi delle stragi atomiche del 1945, toccasse il terreno, la bomba creò un sisma di magnitudo superiore a 5 gradi Richter, le cui vibrazioni si propagarono per tutto il pianeta Terra, seppure rilevate solo dagli strumenti, e un grande shock elettromagnetico. Il pikadon aveva un diametro colossale, superiore ai 4 chilometri. E se la RDS-220 fosse stata sganciata su una zona abitata, avrebbe raso al suolo, con l’onda di calore, radiazioni e di pressione, ogni costruzione per un raggio di 200 chilometri, con  ustioni di terzo grado entro mille chilometri. A piena potenza, sarebbe stata ancora più devastante, ma a Mosca ben sapevano che si trattava di un risultato più propagandistico che militarmente utile, date le enormi difficoltà di trasporto fino a un bersaglio utile in caso di guerra. La Tsar Bomb pesava ben 27 tonnellate ed era contenuta in un ingombrante guscio lungo 8 metri e del diametro di oltre 2 metri. Anche se aeroplani strategici come il Tu-95 potevano trasportarla su lunghe distanze, si trattava di vettori troppo vulnerabili alle difese aeree americane e della NATO, e d’altra parte la bomba era troppo corpulenta per essere installata nelle ogive dei missili. Proprio Andrej Sacharov, in un momento imprecisato di poco successivo al test della Zar Bomb, quindi alla fine del 1961 o al più tardi nel corso del 1962, pensò a una valida alternativa e la individuò nel trasporto marittimo, dato che, da sempre, sono le distese d’acqua a facilitare il trasporto dei carichi più pesanti. Riprendendo l’idea di un siluro a testata nucleare, pensò a un siluro enorme, sufficiente a una testata di tipo Tsar e che fosse propulso da un reattore nucleare, in modo da avere una grande autonomia e poter colpire molto lontano dal vettore sottomarino che lo avrebbe lanciato. A complemento, calcolò che l’esplosione da 100 megatoni in mare, vicino alla costa nemica, avrebbe cagionato un’ondata alta forse 500 metri. Come ricorda egli stesso nelle sue memorie, Sacharov ne parlò con il contrammiraglio Pyotr Fomin, responsabile del programma di armamenti nucleari della Morskovo Flota, la Marina sovietica: “Decisi che un vettore efficace poteva essere un grande siluro lanciato da un sottomarino. Immaginai che si potesse creare per la torpedine un motore nucleare a getto che convertisse l’acqua in vapore. Un porto nemico, lontano centinaia di chilometri, sarebbe stato il bersaglio. Una guerra sul mare è persa, quando i porti sono distrutti, ci dice la Marina. Lo scafo di questo siluro sarebbe stato molto robusto, cosicché mine e reti protettive non lo minacciassero. Certamente la distruzione dei porti, persino con un’onda d’urto sopracquea scatenata da un siluro con carica di 100 megatoni o da una bomba simile, inevitabilmente avrebbe causato un gran numero di vittime. Discussi il progetto con il contrammiraglio Fomin. Egli fu scioccato dal carattere atroce del progetto e fece notare, in una conversazione con me, che i marinai militari erano abituati a combattere avversari armati in battaglia ma che l’idea di un simile massacro lo ripugnava. Mi vergognai e non discussi più con nessun altro della mia idea”. Questo è lo spirito russo che rende l’idea di cosa si sia costretti e disposti a fare per la propria difesa. Nella mente di Sacharov il micidiale Poseidon era dunque già delineato, sebbene l’idea fosse destinata ad essere ripescata solo mezzo secolo dopo, a causa dell’espansionismo della Nato ad Est. Certo, l’esistenza stessa della Tsar Bomb, compreso il fatto che la sua potenza massima avrebbe toccato davvero i 100 megatoni, se i sovietici non avessero deciso di smorzarla del 43% con lo scudo al Piombo rendendola l’esplosione termonucleare più pulita della storia, dimostra che il Poseidon potrebbe davvero avere una testata di simile o maggiore entità. Anche gli ingombri fisici dell’ordigno potrebbero essere compatibili. Lo spazio riservato alla carica nucleare sul sottomarino-drone sarebbe di circa 4 metri di lunghezza per 1,5 metri di diametro. Che è quasi la metà del volume occupato dai congegni della Tsar Bomb, la quale però rappresentava uno dei più sofisticati risultati raggiunti dalla tecnologia russa degli Anni Sessanta. Se teniamo in conto tutti i progressi registrati in oltre mezzo secolo, sia dalla tecnologia nucleare sia dall’elettronica quantistica, come l’efficienza e la miniaturizzazione, è più che plausibile pensare che con le tecnologie dell’Anno Domini 2019 una bomba termonucleare da 100 megatoni possa essere facilmente alloggiata in quel vano lungo 4 metri a bordo del sottomarino-drone Poseidon. Su quando sia iniziato effettivamente lo sviluppo dello Status 6 in Occidente si susseguono voci non confermate, data l’estrema riservatezza attorno a una simile arma. Si dice che un’attività di progettazione preliminare fosse stata avviata fin dal 1992 nei cantieri Rubin di San Pietroburgo, ma focalizzata più sul gruppo propulsore che sul sistema d’arma completo. Il Ministero della Difesa russo però pubblica tutto quel che c’è da sapere, anche in lingua inglese, e gli aggiornamenti si susseguono. L’effettiva costruzione di un prototipo risalirebbe agli anni attorno al 2010, ben dopo, quindi, il ritiro degli Usa dal trattato ABM. Per gli analisti occidentali sarebbe un punto molto importante, poter definitivamente capire se la decisione effettiva della Russia democratica di tradurre in realtà la originaria idea di Sacharov sia stata presa davvero in reazione allo sviluppo della difesa antimissile americana in Europa svincolata da ogni trattato, oppure se invece sia stata una scelta indipendente. Il Presidente Putin pare che lo abbia spiegato più volte: “La Russia si difende, non attacca nessuno”. Poiché un simile progetto deve essere costato parecchio denaro, e poiché per molti anni la Russia dovette tagliare drasticamente le spese militari, sotto la presidenza di Boris Eltsin e fino ai primi anni Duemila di Vladimir Putin, pare più probabile che lo Status 6 sia esistito allora come progetto di massima, “esercizio” o studio di fattibilità sui tavoli da disegno, e che Mosca abbia deciso di tradurlo in realtà solo alcuni anni dopo il 2000, come reazione alla fuga in avanti degli Stati Uniti e della Nato. Diciamo dal 2007, dal famoso Discorso di Monaco. Dopo la “fuga” di notizie del 2015, la CIA riconobbe che il prototipo dello Status 6 veniva già impiegato in prove di mare e che, in particolare, il 27 Novembre 2016 era stato sganciato in una simulazione operativa nell’Oceano Artico dal sottomarino B-90 Sarov, come il Pentagono ha riconosciuto una decina di giorni dopo, l’8 Dicembre. Gli americani hanno quindi dovuto riconoscere che la grande torpedine russa esisteva, mentre i Russi lo hanno ufficialmente dichiarato oltre un anno dopo, il 1° Marzo 2018, quando lo stesso Putin lo elenca insieme a una serie di altre nuove invincibili armi strategiche come la testata ipersonica Avangard “Justice”. L’uomo del Cremlino dichiara apertamente: “In Russia sono stati sviluppati veicoli senza equipaggio che possono muoversi a grandi profondità e distanze intercontinentali, a velocità che sono un multiplo della velocità dei sottomarini, dei siluri più moderni e di tutti i tipi di navi di superficie”. E così le nazioni occidentali hanno visto confermato il mito di questa sorta di Zar degli abissi pronto a scatenarsi nel peggiore dei casi, per difendere la madrepatria russa dall’invasore. Fino ad allora chiamato solo Status 6, il nuovo mezzo subacqueo viene battezzato Poseidon dal 23 Marzo 2018, a seguito di un vero e proprio concorso online fra i Russi per assegnargli un nome evocativo. Mosca confida quindi nel tridente di quel Poseidone sovrano, a cui faceva sacrifici Ulisse nell’Odissea, per tenere in rispetto i rivali. E fa molto affidamento sull’aspetto scenografico, diffondendo, senza contagocce viste le conferenze stampa che si susseguono più volte disertate dall’Occidente, filmati che lo mostrano ogni volta per pochi secondi, il minimo per lanciare non avvertimenti ma materiale di riflessione agli analisti occidentali. Un video del 19 Luglio 2018 mostra una rapida panoramica del Poseidon in cantiere, ripreso col grandangolo in tutta la sua lunghezza che pare appunto confermata sui 24 metri. La parte poppiera è oscurata in corrispondenza dell’apparato propulsivo, ma non dei timoni di direzione, di sagoma triangolare, che vengono visti in movimento. Quando la telecamera passa a prua, da dietro lo scafo spunta la figura di un tecnico, apparentemente offuscata per evitare che da un confronto fra la figura umana e il diametro dello scafo si possano trarre stime precise sulle misure del mezzo. Anche così, tuttavia, si nota abbastanza bene che l’altezza del corpo del sottomarino è paragonabile a una statura umana, o di poco superiore, per cui fra un minimo di 1,6 e un massimo di 2 metri o poco più. Come “postilla”, simulazioni grafiche mostrano un ipotetico profilo di missione per questo drone, sia contro installazioni costiere sia per spazzare via una tipica squadra navale nemica incentrata su una portaerei e sulla sua scorta. Altre riprese sono state diffuse il 20 Febbraio 2019 con ampio risalto sul canale televisivo nazionale russo Rossiya 24, per accreditare l’avvicinarsi della fase operativa primaverile dell’arma. In pochi secondi viene mostrato lo Status 6, all’interno di un modulo di lancio dipinto a scacchi bianchi e rossi e issato da una grande benna, per dare l’idea del suo effettivo imbarco su un sottomarino strategico. Poi le immagini mostrano marinai e ufficiali dell’equipaggio del sottomarino vettore che corrono nello scafo, pronti al lancio di prova. Interessante è il fatto che il personale, sebbene ripreso fugacemente, non lo si veda di spalle, quindi è riconoscibile, per offrire a qualsiasi intelligence straniera appigli anche esili per risalire all’unità di assegnamento del drone partendo semplicemente dall’identificazione di anche uno solo dei membri dell’equipaggio. Infine una ripresa subacquea, fra mille bolle d’aria, e l’aprirsi dell’ordigno, il cui muso si intravede far capolino dal contenitore di lancio. Sempre il 20 Febbraio 2019, il Presidente della Federazione Russa, Vladimir Putin, parlando davanti all’Assemblea Federale a Mosca, preannuncia:“A questo proposito, voglio fare un’osservazione importante. Questo non è stato menzionato prima, ma oggi possiamo dirlo. Nella Primavera di quest’anno scenderà in mare il primo sottomarino nucleare che sarà vettore di questo complesso senza equipaggio. Il lavoro va secondo i piani”. Si riferiva certamente al completamento, ormai imminente dei lavori sul grande sottomarino strategico K139 “Belgorod”, sofisticata unità classe Nato “Oscar II” molto modificata, in particolare con allungamento dello scafo fino a farlo misurare 184 metri, diventando così il più lungo sottomarino strategico del mondo, anche più dei battelli classe “Tifone” russi e degli americani “Ohio”. Il Belgorod potrà essere armato con quattro Status 6 Poseidon trasportati in appositi contenitori di lancio lungo le fiancate, diventando così il principale operatore di questi ordigni strategici. Ma non solo. Il Poseidon potrebbe essere impiegato anche dal nuovo sottomarino “Khabarovsk”, pure in completamento, e che, lungo 120 metri, ne imbarcherebbe fino a sei. Altri vettori, per missioni più camuffate, sarebbero secondo gli americani grosse navi container di superficie, oceanografiche e da appoggio, come la classe Progetto 20180 “Zvezdochka” che prende il nome dalla prima unità, la Zvezdochka, operativa dal 2010, nonché dalla nave per missioni speciali “Yantar”. Dubbia appare invece l’ipotesi che alcuni di questi droni nucleari vengano permanentemente ancorati in località prestabilite sul fondo di mari vicini alla Russia, pronti a salpare su telecomando come fossero ICBM subacquei. Per quanto robusta e coriacea sia infatti la struttura dello Status 6, apparirebbe troppo alto, a prima vista, il rischio di tenere una simile arma per lunghi periodi sott’acqua, senza una continua vigilanza da parte di personale umano e perennemente sottoposta a correnti marine, salinità dell’acqua, eventuali mutamenti dell’ambiente circostante. Certa stampa russa aveva insinuato, forse per ragioni di propaganda anti Putin, che alcuni Status 6 fossero tuttora già pronti “in attesa di ordine di partenza”, in alcuni punti dell’Oceano Atlantico, per tenere gli Stati Uniti sotto lo scacco di un possibile “Doom’s Day”, il “Giorno del Giudizio”. Il profilo di missione prevedibile resta quindi il lancio dell’ordigno, pur da grande distanza, da parte di un vettore subacqueo con equipaggio, non appena ricevuto l’ordine presidenziale concordato sui computer dai comandi della Flotta Russa. Il drone viene considerato molto insidioso soprattutto per la grande profondità a cui è in grado di immergersi, dato che la maggior parte delle fonti concorda sui 1.000 metri, al di sotto della zona ben coperta da sensori e armi antisommergibili. Inoltre il suo motore nucleare sarebbe particolarmente silenzioso poiché adotta un circuito di raffreddamento a metallo liquido, forse una miscela di Piombo e Bismuto, messa in movimento non da una normale pompa, come nel caso dei reattori con raffreddamento ad acqua, bensì da una vera e propria pompa magneto-idrodinamica. Cioè, è una bobina che circonda un segmento della tubazione del metallo liquido a creare un campo magnetico che, letteralmente, calamita il flusso del liquido nella direzione stabilita, intuibilmente modificandone la velocità grazie alla modulazione dell’intensità. Mancando di parti rotanti come in una occidentale pompa a palette, la bobina magnetoidrodinamica riduce notevolmente la rumorosità, al punto che l’unico suono apprezzabile prodotto dal sottomarino robot Poseidon dovrebbe ridursi al vorticare dell’elica propulsiva, probabilmente a 12 pale forgiate a scimitarra. Sul motore del sottomarino robot per ora ci sono solo illazioni ma, da confronti con gli ingombri di analoghi apparecchi studiati negli Usa, si è ipotizzata una potenza di 70 MegaWatt. La furtività del veicolo è incentivata dal fatto che, una volta iniziata la missione, esso proseguirebbe in modalità automatica fino all’obiettivo programmato senza contatti elettromagnetici con la Flotta Russa, nemmeno tramite le onde lunghe, e quindi con frequenza ultrabassa, come le ELF (Extra Low Frequency) notoriamente in grado di raggiungere grandi profondità subacquee e perciò predilette nelle comunicazioni coi sommergibili. Il Poseidon navigherebbe invece come farebbe un missile da crociera in aria, ovvero confrontando continuamente il profilo del fondo marino sorvolato con le mappe memorizzate nel computer, dopo averlo scandagliato con continue emissioni sonar 3D. La navigazione totalmente automatica, tuttavia, si avrebbe nel caso di attacco a obiettivi fissi, come un porto o una città costiera, ma se uno o più Poseidon venissero mandati a distruggere una formazione navale in navigazione, dunque un bersaglio mobile, in quel caso necessiterebbero di collegamenti satellitari, tramite le citate onde ELF, per ricevere in tempo reale gli aggiornamenti sulla posizione del nemico. Certo è che, data una potenza di 100 megatoni, le devastazioni possibili mediante lo Status 6 Poseidon lo pongono sulla massima scala delle armi mai fabbricate dall’uomo. Per dare un’idea dell’equivalenza fra potenza di un’esplosione nucleare in megatoni ed energie liberate durante le catastrofi naturali, si pensi che la citata magnitudo di 5 gradi Richter, causata dalla Tsar Bomb da 57 megatoni esplosa in cielo e solo col trasferimento di calore e pressione dal pikadon al suolo, sarebbe salita facilmente a 8 Richter se la sfera di fuoco avesse toccato direttamente il terreno o se la bomba fosse esplosa sulla superficie. Il terremoto sottomarino che colpì Lisbona il 1° Novembre 1755, tramutandosi in maremoto e tsunami, sviluppò almeno 8,5 gradi Richter e uccise fra 60.000 e 90.000 persone nella sola capitale portoghese, ovvero un quarto degli abitanti. Quando il 27 Agosto 1883 esplose il vulcano Krakatoa, in Indonesia, si stima che l’energia fosse di 200 megatoni e che lo tsunami, con onde alte 40 metri, spazzasse via centinaia di villaggi sulle coste di Giava e Sumatra, sterminando come minimo 36.000 persone. In tempi più vicini a noi, lo tsunami del 26 Dicembre 2004, sempre in Indonesia e nell’Oceano Indiano, uccise 230.000 persone con onde di almeno 15 metri. Può darsi che la stima di 500 metri come altezza dell’ondata prodotta dal siluro Poseidon sia esagerata, sebbene sia da considerare che in un piano ordito dall’uomo nulla venga lasciato al caso che governa invece gli eventi naturali. Il Pentagono, in un suo studio scientifico risalente al 1996 intitolato “Onde d’acqua generate da esplosioni subacquee”, calcolava nel caso di una bomba H da 100 megatoni, esplosa sott’acqua, che l’altezza di un’onda di tsunami sarebbe compresa fra 200 e 450 metri se l’esplosione avvenisse a una distanza di 9 chilometri dalla costa, mentre se la distanza raddoppiasse l’altezza dell’onda sarebbe molto minore, ma pur sempre formidabile, fra 100 e 230 metri. E persino a oltre 90 chilometri dalla costa l’onda sarebbe alta ancora da 20 a 40 metri, ovvero come molti tsunami di origine naturale. Un recentissimo studio realizzato dalla University of Washington e dal Norwegian Defence Research Establishment ha prodotto il 23 Gennaio 2019 una mappa ipotetica, grazie a un software per lo studio delle onde, da cui risulterebbe che un’esplosione da 100 megatoni nel tratto di mare prospiciente New York, a una distanza di 80-100 chilometri dalle coste della penisola di Long Island, creerebbe un’ondata che si spingerebbe ad allagare l’entroterra per una fascia larga una ventina di chilometri. Un modello “NukeMap” mostra invece una stima di vittime dovuta a una potente arma termonucleare al Cobalto vicino alla baia di New York, e fra effetti diretti e irradiamento, valuta in un giorno 8 milioni di morti, 4 milioni di feriti e 16 milioni di irraggiati. Tutto, insomma sembra contribuire ad assegnate credibilità a un sistema d’arma dalle potenzialità catastrofiche, che trova la sua valenza strategica in un corrispettivo moderno delle centinaia di missili balistici dell’epoca della Guerra Fredda. Venerdì 12 Aprile 2019, Giornata internazionale del primo uomo nello spazio, nel 58esimo anniversario del volo di Yuri Gagarin sulla Vostok1, durante un incontro al Cremlino con i ministri e altri alti funzionari statali, il Presidente russo Vladimir Putin annuncia che il test finale del nuovo missile balistico intercontinentale Sarmat “Justice” è andato a buon fine. “Il test finale del missile Sarmat ha avuto successo. Il complesso Kinzhal e il sistema laser Peresvet sono entrati in servizio”, rivela  Putin, il quale fa notare che il missile ipersonico Avangard rafforza in modo significativo le capacità delle forze missilistiche strategiche russe. La paranoica aggressività occidentale viene proiettata sulla Russia da mille anni. “La NATO si è occupata seriamente della sicurezza di Georgia e Ucraina e ora sta inviando sempre più spesso aerei di ricognizione e navi da combattimento nel Mar Nero”. Secondo la rappresentante permanente degli USA presso la NATO Kay Bailey Hutchison, questo contribuirà a “trattenere la tanto aggressiva Russia che ha spedito in carcere i marinai ucraini”. Alle invettive della Hutchison ha già risposto il Ministero russo degli Esteri: il viceministro Aleksandr Grushko ha ricordato ai colleghi occidentali che la Russia segue con attenzione la regione del Mar Nero e che in caso di necessità adotterà “ulteriori misure militari” di difesa. Riguardo al “trattenimento” della Russia nel Mar Nero, i ministri degli Esteri dei Paesi della NATO si sono accordati a Washington alla fine della scorsa settimana. Secondo la Hutchison, “la NATO è intenzionata a garantire alle navi ucraine un attraversamento sicuro dello Stretto di Kerch”. Tuttavia, gli esperti sono convinti che la difesa di Ucraina e Georgia sia solo una montatura. Gli USA stanno tentando di coinvolgere la NATO in provocazioni volte a raggiungere i propri obiettivi nella regione. Obiettivi del tutto comprensibili e pragmatici. “Tutto ciò è innanzitutto volto a contrastare l’avvicinamento di Russia e Turchia – spiega Leonid Ivashov, presidente dell’Accademia per le questioni geopolitiche – gli USA ritengono che, collaborando con la Russia, la Turchia si allontani dalla NATO. Incrementare l’attività nel Mar Nero è un tentativo di coinvolgere la Turchia, implicarla in una situazione conflittuale e chiaramente influenzare le sorti del Turkish Stream. Non escludo provocazioni come quelle legate all’incidente sullo Stretto di Kerch. Dopo l’incidente la Turchia è stata oggetto di importanti pressioni perché il Turkish Stream venisse rimandato o del tutto chiuso. Ad essere toccati da questa situazione saremmo solo noi e l’Europa che aspetta il gas. Gli americani invece ne trarranno vantaggio”.

A sostenere questa tesi è anche un altro esperto, Sergey Sudakov, corrispondente dell’Accademia di scienze militari: “L’Europa ne ha già avuto abbastanza di questi pretesti di dubbia natura, come il caso Skripal. Infatti, sta facendo valere la sua indipendenza, non vuole più sostenere l’introduzione di nuove sanzioni contro la Russia. Per questo, gli USA sono costretti ad avanzare altri pretesti. Il fermo degli equipaggi delle imbarcazioni ucraine da parte della polizia transfrontaliera russa sullo Stretto di Kerch è uno di quelli. Washington desidera provocare ma sfruttando gli altri in modo tale che la Russia reagisca in maniera sufficientemente violenta – sostiene Sudakov – allora gli americani diranno che i Russi hanno attaccato le navi NATO e inviteranno i Paesi dell’Alleanza ad unirsi contro Mosca. Noi, però, non abbiamo un’alternativa se non quella di rispondere alle provocazioni. Se permetteremo loro di entrare nelle nostre acque territoriali, gli mostreremo il fianco. E questo non è ammissibile. Da un punto di vista di sicurezza militare nelle acque territoriali russe del Mar Nero la situazione è sotto controllo, io non mi preoccuperei. Abbiamo tutto ciò che serve per difenderci al meglio: sistemi missilistici di difesa costiera all’avanguardia, natanti e velivoli di alta velocità. E non è poco”. Non c’è nulla di cui preoccuparsi. Il principale avamposto russo sul Mar Nero è la Repubblica di Crimea, forse la regione più sicura del Paese. La penisola è ben difesa da via terra, aria e mare. I gruppi dell’esercito dislocati in Crimea sono perfettamente in grado di respingere un attacco o comunque di resistere fino all’arrivo dei rinforzi dalla Russia continentale. Nel comparto della Marina Russa sul Mar Nero rientrano un incrociatore missilistico, al momento in fase di ammodernamento, 6 pattugliatori offshore (tre di loro, gli 11356, equipaggiati con missili da crociera Kalibr), 7 imbarcazioni da sbarco di grossa taglia, 7 navi missilistiche (tre equipaggiate con i Kalibr), 6 sottomarini 636.3 “Varshavyanka”, entrati a far parte della flotta tra il 2013 e il 2016, 3 sottomarini di piccola taglia e vari tipi di navi ausiliarie. La flotta viene riequipaggiata velocemente. Entro il 2021 riceverà 6 navi missilistiche di piccola taglia 22800 “Karakurt”. Via aria le acque territoriali russe sono coperte dall’Aviazione Navale Russa. Presso l’aeroporto di Novodyodorovka è dislocato un reggimento navale d’assalto, equipaggiato con caccia Su-24, aerei di ricognizione Su-24MR e caccia Su-30SM di generazione “4 plus”. Presso l’aeroporto Kacha si trovano un reggimento dell’aviazione equipaggiato con aerei anfibi antinave Be-12, aerei da trasporto militare An-26 ed elicotteri di ricognizione e salvataggio Ka-27. Nella zona si trovano anche efficienti mezzi per contrastare gli aerei militari di un potenziale nemico. Sulla penisola è dislocata una divisione di sistemi di difesa contraerea con quartier generale a Sebastopoli, equipaggiati con sistemi missilistici S400 Triumph. Alcuni siti sulla costa vengono difesi dai sistemi di difesa contraerea Pantsir-S1 (http://eng.mil.ru/en/index.htm). “Qualora la NATO pensasse di incrementare attivamente la sua presenza nel Mar Nero, questo nostro gruppo può essere facilmente rimpolpato – spiega Konstantin Sivkov, dottore di ricerca in scienze militari – in caso di una reale minaccia è possibile trasferire da altri teatri di guerra sottomarini diesel e navi missilistiche di piccola taglia. Le navi di grande taglia qui non sono necessarie per via delle caratteristiche geografiche della zona. Inoltre, in caso di necessità presso l’aeroporto di Crimea e del Territorio di Krasnodar si può raggruppare in breve tempo l’aviazione navale. Alle truppe costiere possono essere mandati come rinforzi i sistemi “Bal” e “Bastion”. Per riequilibrare la situazione, queste misure sarebbero più che sufficienti”. Dopo l’inizio della crisi nell’Ucraina orientale e in seguito all’unificazione della Crimea alla Russia, le navi da combattimento della Marina statunitense e di altri Paesi NATO hanno cominciato a fare spesso la loro comparsa nel Mar Nero. Ad esempio, due settimane fa nel bacino idrico sono entrati il cacciatorpediniere olandese “Evertsen” e alcune fregate, fra cui la spagnola “Santa Maria”, la canadese “Toronto” e la turca “Gallipoli”. Le navi fanno parte del secondo gruppo navale permanente della NATO. Poco prima nel Mar Nero è entrato il cacciatorpediniere americano USS “Donald Cook”. Secondo la Convenzione di Montreux del 1936 le imbarcazioni militari delle nazioni che non affacciano sul Mar Nero, hanno il diritto di stazionare nel bacino idrico per non più di 3 settimane. In maniera regolare entra nella regione anche l’aviazione di ricognizione Nato. La settimana scorsa lungo le frontiere russe nel Mar Nero è passato un aereo di ricognizione elettronica della Marina statunitense “ER-3E Aries II” decollato dalla base aerea nella Baia di Suda sull’isola greca di Creta. Per alcune ore il velivolo ha volato attorno alla Crimea, si è avvicinato all’ingresso dello Stretto di Kerch e ha sorvolato la costa del Territorio di Krasnodar. Tutte le manovre dell’aviazione militare e delle navi da combattimento straniere nel Mar Nero vengono monitorate dalla Flotta Russa del Mar Nero. I soldati perfezionano con regolarità ricerche, inseguimenti e distruzione di bersagli di un eventuale nemico. Proprio pochi giorni fa le motocannoniere missilistiche “Ivanovets” e “R-60” a distanza di 30 miglia nautiche hanno attaccato con missili antinave “Moskit” dei bersagli che imitavano una flotta di imbarcazioni nemiche. L’avversario è stato affondato! Scudo antimissile ed Euromissili Nato, affondati! Il Presidente della Repubblica Italiana, Sergio Mattarella, in occasione del LXX anniversario dell’Alleanza Atlantica, dichiara: “Vivere in pace con tutti i popoli e con tutti i governi. Così recita il preambolo del Trattato dell’Atlantico del Nord firmato a Washington il 4 aprile del 1949. Le ragioni di un patto di sicurezza sono enumerate subito dopo: salvaguardare la libertà dei popoli, il loro comune retaggio e la loro civiltà, fondati sui principi della democrazia, sulle libertà individuali e sulla preminenza del diritto. La Repubblica Italiana ha fatto di questa scelta di adesione a un patto fra Nazioni libere ed eguali un fondamento della propria politica estera. Paesi provati dal dramma del secondo conflitto mondiale ebbero, all’indomani dell’esperienza del blocco di Berlino, la lungimiranza di superare contrasti e di comprendere che i valori vitali di società indipendenti, democratiche e aperte potessero essere efficacemente difesi in un’ampia e omogenea intesa comune, l’Alleanza Atlantica. Un’alleanza che ha costituito e costituisce un insuperato baluardo di pace in tutta l’area europea e dell’Atlantico del Nord, affiancando alla cooperazione nei settori della sicurezza e della difesa un irrinunciabile foro di dialogo politico. La fine del confronto bipolare ha ampliato il novero delle responsabilità a cui la Nato è stata chiamata dalla Comunità Internazionale, in aderenza alla sua missione di soggetto volto a contribuire alla sicurezza e alla stabilità. Fronteggiare le nuove minacce alla pace delle rispettive comunità è compito a cui l’Alleanza è stata sollecitata più volte, in un’iniziativa multidimensionale che deve saper guardare anche al suo fianco sud, in un crescente adattamento alle sfide verso le quali si rivolgono oggi prioritariamente le preoccupazioni dei cittadini. Ai Paesi alleati, alle donne e agli uomini dei contingenti impegnati con la loro azione, sotto le insegne della Nato, nei diversi teatri di crisi, giunga oggi il saluto e l’apprezzamento della Repubblica Italiana”. A tal riguardo il Presidente Mattarella, incontrando al Quirinale gli studenti di alcune scuole secondarie di secondo grado, alla domanda: «Signor Presidente, tra i suoi importanti compiti la Costituzione le riconosce anche quello di ratificare gli accordi internazionali. Ritiene che lo strumento del trattato internazionale sia veramente importante per costruire e mantenere l’equilibrio tra gli interessi degli Stati?», ha così risposto: «I trattati sono uno strumento prezioso. Lo sono sempre stati, ma lo sono particolarmente adesso. Uno di questi oggi compie settant’anni ed è il Trattato dell’Alleanza Atlantica, che è stato firmato il 4 aprile del 1949. Nei suoi obiettivi, il Trattato indica la pace, la libertà, la democrazia, la prevalenza del diritto sulla forza, e ha contribuito fortemente a mantenere la pace nel mondo in questi decenni». Tuttavia stiamo assistendo all’ennesimo capitolo della tragedia libica, iniziata nell’Anno Domini 2011, con la criminale aggressione della Nato alla “Jlhamaria” libica guidata dal Colonnello Gheddafi, leader che aveva guidato per 42 anni la Nazione, portandola ad un livello di sviluppo sconosciuto agli altri Stati africani. L’ennesimo conflitto tra Haftar, l’uomo forte scelto dall’Egitto di Al Sisi, con Russia e Francia che guardano interessate, e il fragile governo di al-Sarraj, scelto dalle Nazioni Unite e dalla Ue, potrebbe aprire la strada a nuove fughe di massa dalle coste africane verso il “nostro” territorio italiano. L’intervento in Libia è davvero l’esempio più flagrante della incredibile sudditanza dell’Italia alla folle logica atlantica che nel 1999 decise l’annichilimento della Serbia e che 12 anni dopo scelse la Libia come “preda” da attaccare su comando Usa. L’Onu votò la Risoluzione 1973 che si limitava a stabilire una “no fly zone” sui cieli libici, per evitare la piaga dei bombardamenti sulla popolazione civile. Il paradosso fu che i primi a non rispettare la risoluzione furono proprio Francia, Regno Unito e Usa che l’avevano chiesta a gran voce e che scatenarono i bombardamenti sulle truppe lealiste, facendo pendere la bilancia del conflitto verso le forze islamiste ostili al legittimo governo di Tripoli. L’Italia si dovette allineare a questa proditoria aggressione criminale, ci piace ricordarlo ai giovani, pur avendo sottoscritto solo pochi mesi prima un Trattato di amicizia con il governo del Colonnello Gheddafi, già ospite del G8 di L’Aquila nel 2009; questi fatti non sono mai stati analizzati attentamente e c’è stata una sorta di “rimozione” collettiva istituzionale nazionale. Qualche politico ha parlato di errore (bontà sua) ma nessuno tra i leader italiani ha avuto il coraggio di tirare le giuste conclusioni: com’è possibile non rimettere in discussione i rapporti che legano l’Italia al Patto Atlantico neppure di fronte ai fatti del 2011 che hanno provocato conseguenze catastrofiche per l’interesse nazionale italiano? Come si può permettere che Usa e Francia, tra gli altri, continuino a distribuire patenti di “democrazia” e “diritti umani” a destra e a manca quando si sono macchiate per l’ennesima volta di un’aggressione militare ad una Nazione sovrana oggi nel caos? A cosa serve essere preoccupati per le ondate spacciate per “migratorie” dal Global Compact pubblicizzato in Marocco da Papa Francesco, che risultano sempre più difficili da gestire, quando si continua a far parte di quel gruppo di “incendiari” che quelle ondate continuano a causarle, senza alcun rispetto di qualsiasi parvenza di legalità internazionale? Si tratta di domande fondamentali, anche per il Capo dello Stato, per uscire dalla semplice contrapposizione ai mali causati da una politica estera italiana inesistente, verso una vera riappropriazione della necessaria Sovranità garantita dalla nostra Costituzione della Repubblica Italiana. Si spiega così la volontà del Presidente della Federazione di Russia, Vladimir  Putin, di costruire una rete  Internet nazionale russa. È l’inevitabile e logica conseguenza di PRISM e, dunque, dello scandalo di NSA. Ossia è qualcosa che prima o poi sarebbe accaduto, in seguito al celebre Discorso di Monaco dell’Anno Domini 2007. L’Internet che conosciamo anche noi in Italia, che ci è stato gentilmente offerto da  Prometeo, è uno strumento di pressione della propaganda americana, al servizio degli esclusivi interessi americani e persegue obiettivi politici, economici, finanziari, ideologici, strategici e tattici americani in Europa e nel mondo. Vedi la diffusione della teoria Gender che ha infettato non solo la celebre saga di Star Trek ma anche il Diritto italiano con i sedicenti “nuovi diritti civili”. Quando oltre a difendere le caciotte e il vino del made in Italy tricolore, noi Italiani  capiremo che anche la rete Internet deve essere autenticamente sovrana, forse avremo in Italia una vera e sana sovranità costituzionalmente garantita. Noi vogliamo essere amici di tutti coloro che perseguono la Pace vera sulla faccia della Terra. Senza timore di essere presi in giro o, peggio, ingannati. Il materialismo etico è la minaccia più grave che si conosca dopo il virus Ebola. Il comunismo è stato sconfitto.  Le  Guerre Umanitarie e il terrorismo fondamentalista perdurano, nonostante la Nato, perchè sono frutto dell’Occidente responsabile di tutto, anche di usare la religione e la ragione per compiere, in nome del presunto “bene”, ogni sorta di nefanda azione come ci ricorda il film “Inferno” di Ron Howard. Chi è l’Impero del Male? Internet è Democrazia. La Libertà di coscienza e scienza non può essere condizionata, imbrigliata e convertita al “credo” unipolare imperiale. Una democrazia non può permettersi lo stato di guerra e paura permanenti. Nè arresti di liberi pensatori e servitori del Giornalismo e della Giustizia. La storia saprà giudicare i fatti. Internet è una questione di sicurezza nazionale italiana. Siamo e saremo sempre fautori dell’ingresso della Russia nella nuova  Alleanza Europea, una nuova Nato a doppio comando strategico unificato con i Russi per prevenire e correggere l’attuale politica aggressiva di espansione verso Est sui confini della Federazione Russa. Starà poi alla saggezza della diplomazia far sì che il Pentadente russo di Poseidone riposi sotto le acque della Pace senza mai emergere.

                                                                                                  © Nicola Facciolini

Redazione - Il Faro 24

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