IL PROPRIO EGO, LA MADRE DELLA NOSTRA SUPERBIA
La Superbia, concetto che ogni esser umano depone a proprio piacimento in merito a discussioni, differenze, autorevoli imposizioni. Recita il vocabolario come pretesa di meritare per se stessi, con ogni mezzo, una posizione di privilegio sempre maggiore rispetto agli altri. Essi devono riconoscere e dimostrare di accettare la loro inferiorità correlata alla superiorità indiscutibile e schiacciante del superbo. Essere al centro di tutto e di tutti, senza capire realmente dove sono i propri limiti.
Nella dottrina cattolica la superbia è considerata il peccato narcisistico per eccellenza. Tommaso d’Aquino affermò che “Il superbo è innamorato della propria eccellenza”, mentre sant’Agostino nel De cititate dei dichiara che «Il diavolo non è un lussurioso, né un ubriacone, né altre simili cose:è invece superbo e invidioso».
Il superbo vuole essere padrone e sovrano di sè, autonomo e indipendente da Dio e dal prossimo.
Esso è uno sette vizi capitali , desideri ordinati verso lo spirito del male, cioè Satana, dai quali tutti i peccati traggono origine e che causano la morte dell’anima. Ai Vizi capitali sono contrapposte le tre Virtù teologali (Fede, Speranza e Carità) e le quattro Virtù cardinali (Giustizia, Fortezza, Temperanza, Prudenza). Il superbo tende a comportarsi in maniera malvagia perché ritiene di essere migliore degli altri. La superbia viene raffigurata pure da Dante nell’opera Divina Commedia come il leone, una delle tre fiere .
Per quanto riguarda il ramo psicologico il superbo è incapace di fare autocritica, vive in isolamento, con un disprezzo cinico dell’altro, spesso si autodefinisce un giusto incompreso e perseguitato, cadendo nel vittimismo. Secondo Lacan, al culto di sè è associata una medesima pulsione psichica di tipo aggressivo, che può giungere a manifestarsi in tendenze omicide o suicide. In accordo con gli insegnamenti buddhisti, Lacan ha ritenuto l’amore morboso di sè come la radice di tutte le malattie mentali.
Soggetto di Frustrazione e autoesclusione sociale, il superbo è di frequente anche invidioso. L’invidia non è propria di qualcosa” (di una proprietà o di una qualità particolare dell’invidiato), ma della vita o della vitalità dell’altro-da-sè, e tende alla diffamazione dell’immagine, quanto alla distruzione del suo ideale incarnato.
La superbia, appare come un’espressione che indica una costellazione di peccati: orgoglio, arroganza, arbitrio, tracotanza, apparenza esteriore, desiderio di abbassare gli altri per emergere.
Tuttavia se andiamo a ricercare nella Scrittura la parola che traduciamo con superbia, ci accorgiamo che questa ha anche un significato positivo: l’ebraico ga’on indica ciò che è alto ed elevato e, in senso figurato, ciò che eccelle e che per valore si distacca dalla media.
L’italiano conserva questo valore positivo attraverso l’aggettivo «superbo» come apprezzamento per tutto ciò che si distingue, che rappresenta una realizzazione eccellente e diventa punto di riferimento. Nella versione greca dei Settanta ga’on viene spesso tradotto con hybris esprimendone però solo il lato negativo di prepotenza, violenza, arroganza; nei libri sapienziali viene utilizzato anche hyperephania, quasi termine tecnico, per indicare l’atteggiamento che gli uomini pii debbono assolutamente evitare. Nel Nuovo Testamento al poco usato hybris si preferisce alazoneia e anche hyperephania per esprimere uno stile di vita basato sull’attribuire a se stessi più di quanto si ha o si è.
San Gregorio Magno sintetizza il peccato di superbia indicandone quattro manifestazioni: credere che il bene posseduto derivi esclusivamente da se stessi oppure di averlo ricevuto solo per i propri meriti; vantarsi di ciò che non si ha; cercare di far apparire uniche e singolari le proprie doti disprezzando gli altri.
Dobbiamo esser concettualmente realisti, la superbia a volte ci sovrasta, ma bisogna subito lasciarla ansimare nel proprio spettro, e tornare alla vita reale. Quello che angoscia il mio animo è l’insolenza di chi di superbia vive, e si ciba ogni giorno, come atto implorativo del proprio essere.
Il superbo non è altro che un debole vestito da Re, dove il proprio regno è confinato alla propria ignoranza.