Vigneti preziosi, campi di zafferano, e una tartufaia, distrutti da un nutrito branco di cinghiali che bivacca da oltre una settimana oltre le recinzioni di un’azienda agricola. Protetti anche da una burocrazia kafkiana, specialità tipica del Parco, della Regione e della Prefettura, che si rimpallano le competenze, impedendo di intervenire con tempestività per evitare che i sacrifici di una vita vengano definitivamente distrutti.
L’incredibile episodio accade a Goriano Valli, borgo medioevale nel versante aquilano del Parco Regionale Sirente Velino.
L’azienda è quella della signora Adriana Tronca, tornata nella sua terra dopo una vita in Frangiacorta, per produrre vini pregiati e spumanti, impiantando su campi da decenni incolti, le uniche vigne abruzzesi di Pinot nero e Traminer, meritandosi encomi e riconoscimenti, in qualità di azienda che ha avuto il coraggio di investire in un’area interna terremotata e in via di inesorabile spopolamento.
La signora Adriana si è accorta che i cinghiali avevano trovato un via d’accesso sui suoi terreni protetti con oltre cinque chilometri di recinzione, realizzata a sue spese, e ha subito allertato i Carabinieri forestali.
“Mi è stato spiegato – racconta l’imprenditrice – che non era di loro competenza intervenire, e mi hanno consigliato di rivolgermi all’ente Parco. Sono subito andata dunque nella sede del Parco a Rocca di Mezzo dove sono stata ricevuta dal direttore Oremo Di Nino, il quale mi ha spiegato che un abbattimento in emergenza degli animali, al di là delle campagne di abbattimento selettivo programmate, in un Parco non è possibile. Mi è stata dunque prospettata la soluzione di collocare gabbie di cattura”.
I tempi però non si prevedono brevi: occorre ordinare le gabbie, con tutti i timbri e parataffi del caso, eseguire il sopralluogo, e poi il trasporto e la messa a dimora. Non è poi nemmeno detto che tutti i cinghiali abbocchino alla trappola. I cinghiali intanto continuano indisturbati a devastare l’azienda agricola, nascondendosi in un boschetto e in aree incolte dentro il recinto.
La signora Adriana ha così contattato la Prefettura, per vedere se era possibile abbattere direttamente gli animali. Come accade del resto in altre regioni, ad esempio in Toscana, e in Paesi come la Francia, dove è possibile sparare alla fauna selvatica, con tutte le precauzioni e autorizzazioni del caso, se essa mette a rischio colture di pregio e l’incolumità delle persone.
“Ho ragionato: gli animali catturati con le gabbie saranno comunque portati al matttoio e abbattuti, ma quanto tempo dovrà passare? Tanto vale procedere subito all’abbattimento! Certe premure mi sembrano folli. Però ho scoperto, dopo tante telefonate, che non è chiara la trafila burocratica da percorrere: c’è chi mi ha spiegato che il sindaco deve scrivere al prefetto, che a sua volta contatta il Parco, che dà l’ok per un abbattimento straordinario eseguito dalla Polizia provinciale. Altri mi hanno spiegato invece che l’ok lo deve dare direttamente il Parco. Ma il Parco dice che non è così. Di fatto nessuno sta facendo nulla”.
La signora Adriana ha anche chiamato la Regione, con scarsa fortuna.
“Ho telefonato a sette interni del dipartimento Agricoltura di quello dei Parchi, ma nessuno, dico nessuno, mi ha risposto, eppure era orario di ufficio!”.
L’imprenditrice, assieme al marito, ha cercato a proprio rischio e pericolo, di trovare i buchi di accesso lungo il recinto, ma sono stati inseguiti dal branco e sono subito dovuti uscire. Ad avere la peggio il cane della signora Adriana, ferito ad una gamba. E chiudere del resto le falle della recinzione con i cinghiali dentro non servirebbe a nulla.
“Una situazione pazesca, – si sfoga la donna trattenendo le lacrime – sto assistendo impotente alla distruzione della mia azienda, e chi dovrebbe tutelarmi si rimpalla le responsabilità, non so se fanno più danni i cinghiali o la burocrazia. Una cosa è certa, io non voglio i risarcimenti, che tra l’altro coprono solo una piccola parte del danno e arrivano con anni di ritardo. Voglio essere messa nelle condizioni minime di fare il mio lavoro, ovvero produrre vino e raccogliere tartufi e zafferano, senza chiedere nulla a nessuno”.
Ultima surreale chicca: la signora Adriana aveva pensato anche di spaventare il branco inducendolo ad uscire dalla sua terra, facendo rumore percuotendo pentole e coperchi.
“Ho scoperto che non si può fare: i Carabinieri forestali mi hanno spiegato che si configurerebbe il reato di disturbo della fauna selvatica protetta…”, rivela l’imprenditrice.
( Cicchetti Ivan )