La storia che sto per raccontarvi accade in terra di Barbagia, ove marcato è il segno della tradizione arcaica e allo stesso tempo contemporanea, prepotentemente misteriosa e incantata come i suoi lunghi silenzi verdi.
Quando le radici di una vicenda si innestano nel solco dell’inaccettabile e insinuano l’ombra del dubbio è doveroso ripercorrerne i tratti. Perché la libertà, signori miei, non è affatto un bene negoziabile.
Al centro della sinistra scena c’è Maria Pina Sedda, sordomuta, di famiglia benestante ed ultima di tre sorelle. Un virus le ha portato via l’udito e la parola quando aveva solo pochi mesi di vita e l’ha reclusa nel silenzio dei suoi pensieri.
Un silenzio durato fino al compimento del quarantatreesimo anno di età quando, in una mattina di fine luglio, veniva ritrovata cadavere nelle scale interne della palazzina dove abitava. Aggredita alle spalle verosimilmente a colpi di martello. Non ha avuto scampo.
Era il 23 luglio 2002, in provincia di Nuoro. Nessun lato oscuro per Maria Pina. Nessuna apparente vita parallela. La Sedda era madre da pochi mesi di una bambina e diligente impiegata all’ufficio di Registro.
I genitori, apprensivi per le condizioni in cui versava, hanno parlato di alcuni presunti dissapori con il marito Gianfranco Cherubini. Mai confermati.
Nel buio completo delle indagini, dopo mesi e mesi di vuoto totale, venne arrestato il Cherubini, inchiodato da una testimonianza resa con modalità opinabili da madre e figlia che in quella palazzina facevano le pulizie.
Un ergastolo impiantato su dichiarazioni traballanti, quasi estorte ed esortate dalla zia della vittima. Parole che non tornano ed orari che non collocano Cherubini sulla scena del crimine al momento dell’aggressione. Dichiarazioni che, però, in barba alla regola dell’oltre ragionevole dubbio, stanno a fondamento di un ergastolo.
Ma c’è di più. C’è di più e di molto più grave. In fase di indagine, vennero attenzionate e repertate tre tracce ematiche nella scale interne alla palazzina in cui si è consumato l’omicidio.
Quelle tracce sono state oggetto di incidente probatorio ma in fase dibattimentale ci si è limitati a verificare che non appartenessero alla vittima. Ma indovinate un po’? Nessuna analisi è stata fatta per vagliarne la riconducibilità al signor Gianfranco Cherubini.
Esclusa la scientifica attribuibilità di quel profilo genetico alla povera Maria Pina, è così difficile comprendere che quelle tracce ematiche sono state rilasciate dall’offender al momento dell’omicidio?
Non è ostico capirlo se, oggi, ad assumere la veste di Procuratore Speciale è il dott. Eugenio D’orio, che sul caso lavora a stretto contatto con l’investigatore Cannella. Ebbene, dicevamo. Quelle macchie di sangue sono state esaminate dopo quasi un ventennio. Il risultato? Non appartengono sicuramente al sig. Cherubini.
Se il DNA rinvenuto sulla scena del crimine non è del marito della Sig.ra Sedda né della vittima stessa, a chi appartiene? Semplice. All’assassino.
In altri termini, le nuove indagini tecnico-investigative hanno verificato che quel materiale genetico non appartiene a chi sta scontando un ergastolo. Non appartiene a Cherubini ma ad una nota persona. Per l’esattezza, ad una nota persona colpevole.
E adesso? Si lavora per l’ormai prossimo deposito dell’istanza di revisione da parte dell’Avv. Alfano e la palla tornerà nuovamente nelle mani della Procura. Dopo 18 anni giustizia sarà fatta?
Anna Vagli