Papa Bergoglio scuote e purifica i Paesi detti Baltici dalla russofobia

L’Aquila / Papa Bergoglio scuote e purifica i Paesi detti Baltici dalla russofobia che da sempre scorre a fiumi nelle terre mariane di Lituania, Lettonia ed Estonia (22-25 Settembre 2018), nei media e nelle cancellerie mondiali. Le radici profonde non gelano, parafrasando Tolkien. “Essere il popolo eletto non significa essere esclusivi né settari, così come la forza di un popolo non si misura con l’imposizione ma con l’ascoltare e il cercare. La vita cristiana è vita, è futuro, è speranza! Una terra per essere feconda – ricorda Francesco – deve creare appartenenza e avere radici: non c’è peggior alienazione che sperimentare di non avere radici, di non appartenere a nessuno. Una terra sarà feconda, un popolo darà frutti e sarà in grado di generare futuro solo nella misura in cui dà vita a relazioni di appartenenza tra i suoi membri, nella misura in cui crea legami di integrazione tra le generazioni e le diverse comunità che lo compongono”. Chiarissima allusione, ancorchè sussurrata, al comportamento dello Stato di Israele nel mondo. Occorre una liturgia missionaria creativa dei cristiani uniti in Gesù! “La pace si sceglie, non si può imporre e non si trova per caso. Preghiamo perché nel mondo prevalgano i programmi per lo sviluppo e non quelli per gli armamenti. Continui a suonare la musica del Vangelo in mezzo a noi!”, insegna Francesco (#PapaBaltici). La pace si edifica nella Verità, dritti, stabili e fermi come Maria Santissima sotto la Croce. La Madre di Dio desidera riunire la Famiglia umana. La storia della Lituania, segnata da decenni di ateismo ma anche da una grande effervescenza religiosa, vive un’altra pagina indelebile. È la seconda volta, dopo quella di San Giovanni Paolo II nel 1993, di un Pontefice di Roma nel Paese Baltico. La realtà della Chiesa in Lituania vive non solo di cattolici che sono circa l’80%. Ai giovani di Vilnius, il Papa esorta: “Gesù ed io, maggioranza assoluta! Così la vita è bella! Siamo cristiani e vogliamo puntare sulla santità. Non siate giovani del labirinto, dal quale è difficile uscire, ma giovani in cammino. Niente labirinto: in cammino!”. Un lavoro artigianale è in fondo la Creazione, come sembra emergere dalla meravigliosa foto del Telescopio Spaziale Planck. I giovani “si scandalizzano della ipocrisia dei grandi – rileva Papa Bergoglio, confessando l’11 Settembre della Chiesa – si scandalizzano delle guerre, si scandalizzano della incoerenza. Si scandalizzano della corruzione. I giovani cercano di farsi strada con l’esperienza. Loro chiedono ascolto, non vogliono formule fisse. Molti giovani non ci chiedono nulla perché non ci ritengono interlocutori significativi per la loro esistenza. Alcuni, anzi, chiedono espressamente di essere lasciati in pace, perché sentono la presenza della Chiesa come fastidiosa e perfino irritante. Li indignano gli scandali sessuali ed economici di fronte ai quali non vedono una condanna netta; il non saper interpretare adeguatamente la vita e la sensibilità dei giovani per mancanza di preparazione; o semplicemente il ruolo passivo che assegniamo loro. Molti giovani vedono che finisce l’amore dei loro genitori, che si dissolve l’amore di coppie appena sposate; sperimentano un intimo dolore quando a nessuno importa che debbano emigrare per cercare lavoro o quando li si guarda con sospetto perché sono stranieri”. Francesco sottolinea l’importanza del dialogo e del rispetto, segno distintivo dei Popoli Baltici: “Facciamo memoria di quei tempi e chiediamo al Signore che ci faccia dono del discernimento per scoprire in tempo qualsiasi nuovo germe di quell’atteggiamento pernicioso, di qualsiasi aria che atrofizza il cuore delle generazioni che non l’hanno sperimentato e che potrebbero correre dietro quei canti di sirena”. Come l’attualità denuncia tragicamente nei responsabili delle Guerre Umanitarie con il loro “carico” di milioni di morti: stati e multinazionali del terrore con nome e cognome che i media mondiali non osano neppure sussurrare! Dopo il nazifascismo e il comunismo, oggi nuovi spettri “occupano” queste terre, compresa l’ignoranza. No alla secolarizzazione. No alla museificazione del Cristianesimo. No alle paure. No alla strategia di demonizzazione della Russia (https://www.youtube.com/watch?v=I6J1bE_BdRE&feature=share). No alla nuova Cortina di Ferro “made in Nato” tra le Repubbliche Baltiche e la Russia. Una “gentile” allusione non molto esplicita in verità, magari per delicatezza protocollare, appena sussurrata dal Santo Padre. “Estonia, Lettonia e Lituania – scrive Manlio Dinucci – hanno iniziato la costruzione di una nuova cortina di ferro per dividere in due il Nord Europa. È un modo per condizionare gli individui, come fece l’Unione Sovietica quando costruì un’opera identica per impedire la fuga degli abitanti dell’Europa Centrale verso l’Occidente. Tuttavia, a tutt’oggi non si sono registrati movimenti migratori significativi verso la Russia” (http://www.voltairenet.org/article203024.html). In attesa del volo apostolico nella Santa Russia, la Terza Roma, “baciata” dal Santo Padre, adotta le proprie legittime contromisure defensive in Europa. Come un’aquila che nella sua nidiata invita gli aquilotti alla nuova meta, Francesco invita i Paesi Baltici a non interrompere la trasmissione della fede cristiana e a non cadere nella trappola della libertà riconquistata per sempre, per poi finire di nuovo inghiottiti nel totalitarismo del consumo, dell’individualismo e della fobia di guerra permanente. Perché non è assolutamente normale sui media cattolici italiani, ancora infarciti di russofobia, leggere amenità e qualunquismo sulla geopolitica europea. È patologico incolpare la Russia post comunista, che alcuni ancora oggi sperano di aver annichilito per sempre, di ogni problema d’Europa, persino delle divisioni interne. Anche dell’innaturale espansionismo militare della Nato ad Est, un plateale tradimento nei confronti dei Russi, acquistando e inglobando a suon di dollari la Polonia, la Lituania, la Lettonia e l’Estonia, oggi passate dal tallone sovietico al tallone globalista, capitalista, finanziario e militare americano! Da lontano i Paesi Baltici possono sembrare più o meno uguali. Sono nazioni sorelle, ma come sorelle possono essere molto diverse. In Lituania, la maggioranza della popolazione, quasi l’80%, è di fede cattolica. In Lettonia, alla maggioranza luterana si aggiunge un interessante mix tra Lettoni e Russi (40%). In Estonia il 75% delle persone si dichiara non religioso. Una sfida che piace al Papa. In Estonia la comunità cattolica conta 5.000 persone, come una parrocchia nell’Europa occidentale: il segno della presenza del Papa nelle periferie, risveglia tutti al dramma della interruzione nella trasmissione della fede. Un fenomeno che anche l’Italia sta sperimentando con le nuove generazioni. Tra i momenti più importanti del viaggio di Francesco, la visita, Domenica 23 Settembre 2018, al Museo delle Occupazioni e delle Lotte per la Libertà a Vilnius, in Lituania, con una breve sosta di preghiera proprio al Monumento delle Vittime del Ghetto, nel giorno del 75mo anniversario della sua distruzione. È la città natale del famoso comandante Marco Ramius, il protagonista del celebre romanzo e film russofobo “Caccia a Ottobre Rosso”, interpretato dal magistrale Sean Connery. Il Museo è il simbolo delle sofferenze di questo popolo. Il Papa visita le celle, la sala delle esecuzioni e i luoghi dove tante persone, inclusi sacerdoti e vescovi, hanno sofferto e sono stati torturati. Qui la preghiera di Francesco è scandita lentamente: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato? (Mt 27,47). Il Tuo grido, Signore, non cessa di risuonare, e riecheggia tra queste mura che ricordano le sofferenze vissute da tanti figli di questo popolo. Lituani e provenienti da diverse nazioni hanno sofferto nella loro carne il delirio di onnipotenza di quelli che pretendevano di controllare tutto. Nel Tuo grido, Signore, trova eco il grido dell’innocente che si unisce alla Tua voce e si leva verso il Cielo. È il Venerdì Santo del dolore e dell’amarezza, della desolazione e dell’impotenza, della crudeltà e del non senso che ha vissuto questo popolo lituano di fronte all’ambizione sfrenata che indurisce e acceca il cuore. In questo luogo della memoria, ti imploriamo, Signore, che il Tuo grido ci mantenga svegli. Che il Tuo grido, Signore, ci liberi dalla malattia spirituale da cui, come popolo, siamo sempre tentati: dimenticarci dei nostri padri, di quanto è stato vissuto e patito. Che nel Tuo grido e nella vita dei nostri padri che tanto hanno sofferto possiamo trovare il coraggio di impegnarci con determinazione nel presente e nel futuro; che quel grido sia stimolo per non adeguarci alle mode del momento, agli slogan semplificatori, e ad ogni tentativo di ridurre e togliere a qualsiasi persona la dignità di cui Tu l’hai rivestita. Signore, che la Lituania sia faro di speranza. Sia terra della memoria operosa che rinnova gli impegni contro ogni ingiustizia. Che promuova creativi sforzi nella difesa dei diritti di tutte le persone, specialmente dei più indifesi e vulnerabili. E che sia maestra nel riconciliare e armonizzare le diversità. Signore, non permettere che siamo sordi al grido di tutti quelli che oggi continuano ad alzare la voce al cielo”. Purtroppo la strategia di demonizzazione della Russia continua con la russofobia cattolica e le nuove interpretazioni nazionalistiche delle vicende storiche di questi tre Paesi, anche dal punto di vista geopolitico, a partire dalla loro indipendenza nazionale dall’Unione Sovietica nell’Anno Domini 1991, come si legge sulla rivista dei Gesuiti, “La Civiltà Cattolica”, Quaderno 4037, Volume II, Anno 2018, alle pagine 380-392, nell’articolo del 1° Settembre 2018 dal titolo “Le Repubbliche Baltiche”. L’articolista nell’abstract scrive: “Sebbene queste Repubbliche presentino diversi elementi comuni, ognuna di esse, soprattutto dal punto di vista economico, culturale e religioso, ha le sue peculiarità. Senza dubbio l’Estonia e la Lettonia hanno più punti in comune rispetto alla vicina (e prevalentemente cattolica) Lituania, a partire dalla presenza, nel loro territorio nazionale, di una significativa minoranza russa, che ancora oggi pone problemi di integrazione ed è motivo di attrito con Mosca. Infatti – scrive Giovanni Sale – l’invasione russa della Crimea nel 2014 e l’inizio della «guerra a bassa intensità» in Ucraina (che ha provocato finora più di 10.000 morti), sono state avvertite come uno shock per i Paesi che si affacciano sul Mar Baltico. Essi ora esigono dall’Alleanza Atlantica, di cui fanno parte, lo schieramento nei loro territori di mezzi militari pesanti e la presenza di «battaglioni» di soldati, allo scopo di scoraggiare una possibile invasione russa. Questo fatto è considerato da Mosca come «un atto ostile». Tale stato di cose, secondo Putin, è iniziato nel 2004, quando le Repubbliche baltiche, dopo le consuete procedure, furono ammesse nella Ue e nella Nato, e quindi allineate strategicamente (in funzione antirussa) agli interessi occidentali. Come risposta a questo evento, Mosca spostò un gran numero di armi pesanti, anche atomiche, a Kaliningrad, sul Baltico (nei pressi della Lituania), dove è ammassata la più grande concentrazione di armi in Europa. Quindi, a partire dal 2014 vi è stato un vistoso spostamento del baricentro strategico-militare della Nato verso Est, e della Russia verso Ovest. Già dal 2007 molti esperti della materia guardavano alla Russia di Putin con preoccupazione, ma fino ai fatti di Crimea queste posizioni furono considerate dai leader politici occidentali come esagerate e, in ogni caso, non realistiche. Si riteneva che fosse impossibile pensare che un Paese occupasse militarmente una regione appartenente alla sovranità di un altro Stato, come era accaduto in passato. Le motivazioni di ordine economico e geopolitico ci inducono però a un maggiore ottimismo rispetto alle previsioni dei capi militari. Infatti, sia per Berlino sia per Mosca il Baltico è un mare «strategico», importantissimo per i traffici con il «resto del mondo»”. La Lituania viene definita da Francesco “terra-ponte di comunione e di speranza”. Molti giovani, oggi nei Paesi Baltici, non conoscono ancora Gesù e pensano di trovarlo su Internet, magari sui “social”, in attesa di una risposta immediata alla velocità del pensiero! Non è certo la Pace che l’Europa cerca con la Santa Russia. Ma la guerra, lo scontro diretto, direttamente sui confini! E questo Papa Bergoglio lo sa perfettamente: “A volte alcuni pensano che la forza di un popolo si misuri oggi da altri parametri. C’è chi parla con un tono più alto, così che parlando sembra più sicuro, senza cedimenti o esitazioni; c’è chi, alle urla, aggiunge minacce di armi, spiegamento di truppe, strategie. Questo – avverte Francesco – è colui che sembra il più forte. Questo però non è cercare la volontà di Dio, ma un accumulare per imporsi sulla base dell’avere. Questo atteggiamento nasconde in sé un rifiuto dell’etica e, con essa, di Dio. Voi non avete conquistato la vostra libertà per finire schiavi del consumo, dell’individualismo o della sete di potere o di dominio. È lecito e onorevole difendere la Patria ma uno Stato dovrebbe dotarsi di un ragionevole e non aggressivo esercito di difesa”. La divisione dell’Europa, che non può essere imputata alla Russia, porta solo sofferenze. “La Lettonia – scrive Manlio Dinucci – sta costruendo una recinzione metallica di 90 km, alta 2,5 metri, lungo il confine con la Russia, che sarà ultimata entro l’anno. Sarà estesa nel 2019 su oltre 190 km di confine, con un costo previsto di 17 milioni di euro. Una analoga recinzione di 135 km viene costruita dalla Lituania al confine col territorio russo di Kaliningrad. L’Estonia ha annunciato la prossima costruzione di una recinzione, sempre al confine con la Russia, lunga 110 km e alta anch’essa 2,5 metri. Costo previsto oltre 70 milioni di euro, per i quali il governo estone chiederà un finanziamento Ue”. Occorre puntare al bando delle armi nucleari ed affrontare con un patto planetario la sfida della impresa spaziale interstellare della Umanità. Per questo serve un maggiore impegno nella liberalizzazione della industria spaziale privata dalla riconversione del complesso militare industriale terrestre oggi votato alle Guerre Umanitarie permanenti. Non dobbiamo rassegnarci all’idea “massonica” che le armi nucleari siano qui per restare sulla Terra pronte all’uso!

(di Nicola Facciolini)

“Padre, che tutti siano una sola cosa, perché il mondo creda” (Gv 17,21). “La pace si sceglie, non si può imporre e non si trova per caso. Preghiamo perché nel mondo prevalgano i programmi per lo sviluppo e non quelli per gli armamenti. Continui a suonare la musica del Vangelo in mezzo a noi! Essere il popolo eletto non significa essere esclusivi né settari, così come la forza di un popolo non si misura con l’imposizione ma con l’ascoltare e il cercare. La vita cristiana è vita, è futuro, è speranza!” (Papa Francesco). “Vi chiedo dal profondo del mio cuore: non lasciate che la vendetta o l’esasperazione si facciano strada nel vostro cuore. Se lo permettessimo, non saremmo veri cristiani ma fanatici” (Monsignor Boleslavs Sloskans). “La libertà deve essere continuamente conquistata, non si può meramente possedere. Viene come un dono, ma può essere mantenuta solo mediante la battaglia” (San Giovanni Paolo II). “Non dimenticatevi dei primi giorni. Non dimenticatevi dei vostri antenati” (Lettera agli Ebrei 10,32-39). “Se ascoltaste oggi la Sua voce! Non indurite il cuore” (Sal 95,7-8). La pace si edifica nella Verità, dritti, stabili e fermi come Maria Santissima sotto la Croce. Inizia Sabato 22 settembre 2018, alle ore 7:37 italiane, il 25mo Viaggio Apostolico di Papa Francesco nelle tre Repubbliche Baltiche. In attesa del volo apostolico nella Santa Russia, la Terza Roma “baciata” dal Santo Padre. Il Vescovo di Roma (#PapaBaltici) scuote e purifica i Paesi Baltici dalla russofobia che da sempre scorre a fiumi nelle terre mariane di Lituania, Lettonia ed Estonia (22-25 Settembre 2018), nei media e nelle cancellerie mondiali. Le radici profonde non gelano, parafrasando Tolkien. La storia della Lituania, segnata da decenni di ateismo ma anche da una grande effervescenza religiosa, vive un’altra pagina indelebile. È la seconda volta, dopo quella di San Giovanni Paolo II nel 1993, di un Pontefice di Roma in questo Paese baltico. Dopo il nazifascismo e il comunismo, oggi nuovi spettri “occupano” queste terre, compresa l’ignoranza. No alla secolarizzazione. No alla museificazione del Cristianesimo. No alle paure. No alla strategia di demonizzazione della Russia (https://www.youtube.com/watch?v=I6J1bE_BdRE&feature=share). No alla nuova Cortina di Ferro “made in Nato” tra le Repubbliche Baltiche e la Russia. Una “gentile” allusione non molto esplicita in verità, magari per delicatezza protocollare, appena sussurrata dal Santo Padre. Ma c’è stata. Come un’aquila che nella sua nidiata invita gli aquilotti alla nuova meta, Francesco invita i Paesi Baltici a non interrompere la trasmissione della fede cristiana e a non cadere nella trappola della libertà riconquistata per sempre, per poi finire di nuovo inghiottiti nel totalitarismo del consumo, dell’individualismo e della fobia di guerra permanente. “I giovani si scandalizzano della ipocrisia dei grandi – rileva Papa Bergoglio – si scandalizzano delle guerre, si scandalizzano della incoerenza. Si scandalizzano della corruzione. I giovani cercano di farsi strada con l’esperienza. Loro chiedono ascolto, non vogliono formule fisse”. Perché non è assolutamente normale sui media cattolici italiani, ancora infarciti di russofobia, leggere amenità e qualunquismo sulla geopolitica europea. È patologico incolpare la Russia post comunista, che alcuni ancora oggi sperano di aver annichilito per sempre, di ogni problema d’Europa, persino delle divisioni interne. Anche dell’innaturale espansionismo militare della Nato ad Est, un plateale tradimento nei confronti dei Russi, acquistando e inglobando a suon di dollari la Polonia, la Lituania, la Lettonia e l’Estonia, oggi passate dal tallone sovietico al tallone globalista, capitalista, finanziario e militare americano. Occorre una liturgia missionaria creativa dei cristiani uniti in Gesù! Nel “de-briefing” post 25mo viaggio apostolico, all’Udienza Generale di Mercoledì 26 Settembre 2018 in piazza San Pietro, il Santo Padre ricorda: “Nei giorni scorsi ho compiuto un viaggio apostolico in Lituania, Lettonia ed Estonia, in occasione del centenario dell’indipendenza di questi Paesi detti Baltici. Cento anni che essi hanno vissuto per metà sotto il giogo delle occupazioni, quella nazista, prima, e quella sovietica, poi. Sono popoli che hanno molto sofferto, e per questo il Signore li ha guardati con predilezione. Sono sicuro di questo. Ringrazio i Presidenti delle tre Repubbliche e le Autorità civili per la squisita accoglienza che ho ricevuto. Ringrazio i Vescovi e tutti coloro che hanno collaborato a preparare e realizzare questo evento ecclesiale. La mia visita è avvenuta in un contesto assai mutato rispetto a quello che incontrò S. Giovanni Paolo II; perciò la mia missione era annunciare nuovamente a quei popoli la gioia del Vangelo e la rivoluzione della tenerezza, della misericordia, perché la libertà non basta a dare senso e pienezza alla vita senza l’amore, amore che sempre viene da Dio. Il Vangelo, che nel tempo della prova dà forza e anima la lotta per la liberazione, nel tempo della libertà è luce per il quotidiano cammino delle persone, delle famiglie, delle società ed è sale che dà sapore alla vita ordinaria e la preserva dalla corruzione della mediocrità e degli egoismi. In Lituania i cattolici sono la maggioranza, mentre in Lettonia e in Estonia prevalgono i luterani e gli ortodossi, ma molti si sono allontanati dalla vita religiosa. Dunque la sfida è quella di rafforzare la comunione tra tutti i cristiani, già sviluppatasi durante il duro periodo della persecuzione. In effetti, la dimensione ecumenica era intrinseca a questo viaggio, e ha trovato espressione nel momento di preghiera nella Cattedrale di Riga e nell’incontro con i giovani a Tallinn. Nel rivolgermi alle rispettive Autorità dei tre Paesi – ricorda il Santo Padre – ho messo l’accento sul contributo che essi danno alla comunità delle Nazioni e specialmente all’Europa: contributo di valori umani e sociali passati attraverso il crogiolo della prova. Ho incoraggiato il dialogo tra la generazione degli anziani e quella dei giovani, perché il contatto con le “radici” possa continuare a fecondare il presente e il futuro. Ho esortato a coniugare sempre la libertà con la solidarietà e l’accoglienza, secondo la tradizione di quelle terre. Ai giovani e agli anziani erano dedicati due incontri specifici: con i giovani a Vilnius, con gli anziani a Riga. Nella piazza di Vilnius, piena di ragazzi e ragazze, era palpabile il motto della visita in Lituania: «Gesù Cristo nostra speranza». Le testimonianze hanno manifestato la bellezza della preghiera e del canto, dove l’anima si apre a Dio; la gioia di servire gli altri, uscendo dai recinti dell’“io” per essere in cammino, capaci di rialzarsi dopo le cadute. Con gli anziani, in Lettonia, ho sottolineato lo stretto legame tra pazienza e speranza. Coloro che sono passati attraverso dure prove sono radici di un popolo, da custodire con la grazia di Dio, perché i nuovi germogli possano attingervi e fiorire e portare frutto. La sfida per chi invecchia è non indurirsi dentro, ma rimanere aperto e tenero di mente e di cuore; e questo è possibile con la “linfa” dello Spirito Santo, nella preghiera e nell’ascolto della Parola. Anche con i sacerdoti, i consacrati e i seminaristi, incontrati in Lituania, è apparsa essenziale, per la speranza, la dimensione della costanza: essere centrati in Dio, fermamente radicati nel suo amore. Che grande testimonianza in questo hanno dato e danno ancora tanti preti, religiosi e religiose anziani! Hanno sofferto calunnie, prigioni, deportazioni, ma sono rimasti saldi nella fede. Ho esortato a non dimenticare, a custodire la memoria dei martiri, per seguire i loro esempi. E, a proposito di memoria, a Vilnius ho reso omaggio alle vittime del genocidio ebraico in Lituania, esattamente a 75 anni dalla chiusura del grande Ghetto, che fu anticamera della morte per decine di migliaia di ebrei. Nello stesso tempo ho visitato il Museo delle Occupazioni e delle Lotte per la Libertà: ho sostato in preghiera proprio nelle stanze dove venivano detenuti, torturati e uccisi gli oppositori del regime. Ne uccidevano più o meno quaranta per notte. È commovente vedere fino a che punto può arrivare la crudeltà umana (peggiore di quella di “Predator”, NdA). Pensiamo a questo. Passano gli anni, passano i regimi, ma sopra la Porta dell’Aurora di Vilnius, Maria, Madre della Misericordia, continua a vegliare sul suo popolo, come segno di sicura speranza e di consolazione (Conc. Ecum. Vat. II, Cost. dogm. Lumen gentium, 68). Segno vivo del Vangelo è sempre la carità concreta. Anche dove più forte è la secolarizzazione, Dio parla col linguaggio dell’amore, della cura, del servizio gratuito a chi è nel bisogno. E allora i cuori si aprono, e succedono miracoli: nei deserti germoglia vita nuova. Nelle tre celebrazioni Eucaristiche – a Kaunas in Lituania, ad Aglona in Lettonia e a Tallinn in Estonia – il santo Popolo fedele di Dio in cammino in quelle terre ha rinnovato il suo “sì” a Cristo nostra speranza; lo ha rinnovato con Maria, che sempre si mostra Madre dei suoi figli, specialmente dei più sofferenti; lo ha rinnovato come popolo scelto, sacerdotale e santo, nel cui cuore Dio risveglia la grazia del Battesimo. Preghiamo per i nostri fratelli e sorelle della Lituania, della Lettonia, e dell’Estonia. Grazie!”. Proveniente dall’aeroporto romano di Ciampino, al termine del suo intenso viaggio apostolico nei Paesi Baltici alle ore 20:20 di Martedì 25 Settembre 2018, il Papa rinnova il suo ringraziamento alla Vergine Maria per la riuscita della sua visita in Lituania, Lettonia ed Estonia, recandosi nella basilica di Santa Maria Maggiore, prima di far rientro in Vaticano. La basilica di Santa Maria maggiore è molto amata da Papa Francesco. Da quando è Vescovo di Roma, l’ha visitata molte volte. La prima, il giorno dopo la sua elezione a Pontefice, il 14 Marzo 2013. Fu la sua prima uscita dal Vaticano. Com’è ormai consuetudine nel suo pontificato, Francesco si reca a Santa Maria maggiore prima e dopo i suoi viaggi apostolici all’estero. Ogni volta che la visita, Francesco depone un mazzo di fiori e si raccoglie in preghiera davanti all’icona della Salus populi romani (Salvezza del popolo romano) all’interno della cappella Borghese, detta anche Paolina, nella basilica. Nell’icona della Vergine con il Bambino in braccio, il Papa venera la fede del popolo di Dio che per secoli si è stretto attorno alla Madonna nei momenti del bisogno (durante le guerre e le pestilenze) per impetrare un segno di grazia del Cielo, perché “ciò che è impossibile agli uomini non è impossibile a Dio”. L’immagine sacra è sempre stata cara ai Gesuiti (sant’Ignazio celebrò la sua prima Messa proprio a Santa Maria Maggiore) e ai Pontefici. Pio XII le rese omaggio quando proclamò il dogma dell’Assunta nell’Anno Domini 1950. L’icona era presente a Tor Vergata nell’Agosto del 2000, in occasione della Giornata mondiale della gioventù e in quella occasione San Giovanni Paolo II volle affidarla ai giovani insieme alla Croce “perché rimanga anche visibilmente sempre evidente che Maria è una potentissima Madre che conduce a Cristo”. Fu proprio San Giovanni Paolo II, fin dall’inizio del suo pontificato, a volere che una lampada ardesse giorno e notte sotto l’icona della Salus, come testimonianza della sua grande devozione nei confronti della Madonna. Francesco arriva all’aeroporto internazionale Leonardo da Vinci di Fiumicino alle 7:15 e l’auto papale raggiunge la piazzola di parcheggio riservata all’Airbus A320 dell’Alitalia intitolato ad Aldo Palazzeschi che lo conduce in Lituania, prima tappa del suo viaggio apostolico nei Paesi detti Baltici. A salutare, prima dell’imbarco, il Papa ai piedi dell’aereo, autorità civili e religiose. Sorridente, con la sua consueta borsa nera tenuta stretta nella mano sinistra, appoggiandosi con la destra sul corrimano della scaletta dell’aereo, Francesco raggiunge il portellone d’ingresso. Arrivato in cima, com’è sua abitudine, prima di salire a bordo, saluta le due hostess ed il comandante del volo. Quindi tutti gli altri presenti con un cenno della mano. L’aereo papale decolla alle 7:37. L’arrivo nella capitale lituana Vilnius è previsto alle 11:30, ma i tempi corrono spediti sia all’andata sia al ritorno rispetto alla fitta tabella di marcia del Pontefice. A bordo il saluto ai giornalisti al seguito, nove dai Paesi Baltici: “Buongiorno! Grazie tante per la vostra compagnia, per l’aiuto di questo viaggio, il servizio, per informare la gente che segue il viaggio e che ha qualche interesse. I Baltici – ricorda Francesco – sono tre Paesi che si assomigliano, ma sono diversi. Sarà un bel lavoro, per la vostra attenzione, vedere le somiglianze e le differenze. Hanno una storia comune e anche diversa. E sarà bello! Grazie tante!”. Il Vescovo di Roma invia telegrammi di saluto ai presidenti degli stati sorvolati: Italia, Croazia, Ungheria, Slovacchia e Polonia. All’Italia augura pace e serenità. Il viaggio apostolico di Papa Francesco (http://www.photogallery.va/content/photogallery/it/eventi/paesi-baltici2018.html) è anche una occasione per rendere omaggio a quanti hanno sofferto per la fede. Da lontano i Paesi Baltici possono sembrare più o meno uguali. Sono nazioni sorelle, ma come sorelle possono essere molto diverse. In Lituania, la maggioranza della popolazione, quasi l’80%, è di fede cattolica. In Lettonia, alla maggioranza luterana si aggiunge un interessante mix tra Lettoni e Russi (40%). In Estonia il 75% delle persone si dichiara non religioso. Una sfida che piace al Papa. In Estonia la comunità cattolica conta 5.000 persone, come una parrocchia nell’Europa occidentale: il segno della presenza del Papa nelle periferie, risveglia tutti al dramma della interruzione nella trasmissione della fede. Un fenomeno che anche l’Italia sta sperimentando con le nuove generazioni. Tra i momenti più importanti del viaggio di Francesco, la visita, Domenica 23 Settembre 2018, al Museo delle occupazioni e delle lotte per la libertà a Vilnius, in Lituania, con una breve sosta di preghiera proprio al monumento delle vittime del ghetto, nel giorno del 75mo anniversario della sua distruzione. Il Museo è il simbolo delle sofferenze di questo popolo. Il Papa visita le celle, la sala delle esecuzioni e i luoghi dove tante persone, inclusi sacerdoti e vescovi, hanno sofferto e sono stati torturati. Purtroppo la strategia di demonizzazione della Russia continua con la russofobia cattolica e le nuove interpretazioni nazionalistiche delle vicende storiche di questi tre Paesi, anche dal punto di vista geopolitico, a partire dalla loro indipendenza nazionale dall’Unione Sovietica nell’Anno Domini 1991, come si legge sulla rivista dei Gesuiti, “La Civiltà Cattolica”, Quaderno 4037, Volume II, Anno 2018, sulle pagine 380-392, nell’articolo del 1° Settembre 2018 dal titolo “Le Repubbliche Baltiche”. L’articolista nell’abstract scrive: “Sebbene queste Repubbliche presentino diversi elementi comuni, ognuna di esse, soprattutto dal punto di vista economico, culturale e religioso, ha le sue peculiarità. Senza dubbio l’Estonia e la Lettonia hanno più punti in comune rispetto alla vicina (e prevalentemente cattolica) Lituania, a partire dalla presenza, nel loro territorio nazionale, di una significativa minoranza russa, che ancora oggi pone problemi di integrazione ed è motivo di attrito con Mosca. Infatti – scrive Giovanni Sale – l’invasione russa della Crimea nel 2014 e l’inizio della «guerra a bassa intensità» in Ucraina (che ha provocato finora più di 10.000 morti), sono state avvertite come uno shock per i Paesi che si affacciano sul Mar Baltico. Essi ora esigono dall’Alleanza Atlantica, di cui fanno parte, lo schieramento nei loro territori di mezzi militari pesanti e la presenza di «battaglioni» di soldati, allo scopo di scoraggiare una possibile invasione russa. Questo fatto è considerato da Mosca come «un atto ostile». Tale stato di cose, secondo Putin, è iniziato nel 2004, quando le Repubbliche baltiche, dopo le consuete procedure, furono ammesse nella Ue e nella Nato, e quindi allineate strategicamente (in funzione antirussa) agli interessi occidentali. Come risposta a questo evento, Mosca spostò un gran numero di armi pesanti, anche atomiche, a Kaliningrad, sul Baltico (nei pressi della Lituania), dove è ammassata la più grande concentrazione di armi in Europa. Quindi, a partire dal 2014 vi è stato un vistoso spostamento del baricentro strategico-militare della Nato verso Est, e della Russia verso Ovest. Già dal 2007 molti esperti della materia guardavano alla Russia di Putin con preoccupazione, ma fino ai fatti di Crimea queste posizioni furono considerate dai leader politici occidentali come esagerate e, in ogni caso, non realistiche. Si riteneva che fosse impossibile pensare che un Paese occupasse militarmente una regione appartenente alla sovranità di un altro Stato, come era accaduto in passato. Le motivazioni di ordine economico e geopolitico ci inducono però a un maggiore ottimismo rispetto alle previsioni dei capi militari. Infatti, sia per Berlino sia per Mosca il Baltico è un mare «strategico», importantissimo per i traffici con il «resto del mondo»”. Papa Francesco arriva in Lituania, prima tappa del suo viaggio nelle tre Repubbliche Baltiche, con queste inquietanti premesse, in leggero anticipo. Atterra alle ore 10:21 all’aeroporto internazionale della capitale Vilnius. Appena sceso dall’aereo, in una breve cerimonia di benvenuto, viene accolto dalla Presidente della Repubblica di Lituania, Dalia Gribauskaite, con la quale avrà un colloquio al Palazzo presidenziale insieme alle autorità, alla società civile e al Corpo diplomatico del Paese. “Possano i tuoi figli trarre forza dal passato”. Papa Bergoglio cita l’inno della Lituania nel suo primo discorso nel Paese Baltico. Francesco rammenta innanzitutto che la sua visita avviene nel centenario della dichiarazione d’indipendenza ed evidenzia che per i Lituani questi ultimi cento anni sono stati segnati “da molteplici prove e sofferenze, persino il martirio. Prove che non hanno però piegato un popolo che “ha un’anima forte”. La storia della Lituania è fatta di accoglienza. È importante “recuperare la memoria – prosegue Francesco – per guardare le sfide del presente e proiettarsi verso il futuro in un clima di dialogo e di unità tra tutti gli abitanti, in modo che nessuno rimanga escluso. Il Vescovo di Roma focalizza il suo discorso proprio sul tema del dialogo e dell’accoglienza, in netta antitesi alle tesi russofobiche portate avanti da politici e militari, ma che i media poi preferiranno come al solito glissare. “La Lituania – afferma Papa Bergoglio – ha saputo ospitare popoli di diverse etnie e religioni. Tutti sono vissuti insieme e in pace fino all’arrivo delle ideologie totalitarie che spezzarono la capacità di ospitare e armonizzare le differenze seminando violenza e diffidenza”. Un esempio per l’Europa. Trarre forza dal passato, ne è convinto Francesco, “significa recuperare la radice e mantener viva la tolleranza, l’ospitalità, il rispetto e la solidarietà”. La Lituania viene definita “terra-ponte di comunione e di speranza”. Guardando allo “scenario mondiale in cui viviamo, dove crescono le voci che seminano divisione e contrapposizione, strumentalizzando molte volte l’insicurezza e i conflitti, o che proclamano che l’unico modo possibile di garantire la sicurezza e la sussistenza di una cultura sta nel cercare di eliminare, cancellare o espellere le altre, voi Lituani avete una parola originale vostra da apportare: ospitare le differenze. Per mezzo del dialogo, dell’apertura e della comprensione esse possono trasformarsi in ponte di unione tra l’Oriente e l’Occidente europeo. Questo può essere il frutto di una storia matura, che come popolo voi offrite alla comunità internazionale e in particolare all’Unione Europea”. Un messaggio che mette in crisi i guerrafondai, al di là di ogni analisi qualunquista. Puntare sui giovani per guardare con speranza al futuro. “Voi – dichiara il Papa – avete patito sulla vostra pelle i tentativi di imporre un modello unico, che annullasse il diverso, mentre i conflitti si risolvono se si radicano nell’attenzione concreta alle persone, specialmente alle più deboli”. In questo senso, “trarre forza dal passato significa prestare speciale attenzione ai più giovani”. Molti di essi, oggi nei Paesi Baltici, non conoscono ancora Gesù e pensano di trovarlo su Internet, magari sui “social”, in attesa di una risposta immediata alla velocità del pensiero! “Un popolo in cui i giovani trovano spazio per crescere e lavorare, li aiuterà a sentirsi protagonisti della costruzione del tessuto sociale e comunitario. Questo – ricorda il Vescovo di Roma – renderà possibile a tutti di alzare lo sguardo con speranza verso il domani. La Lituania che essi sognano si gioca nella costante ricerca di promuovere quelle politiche che incentivino la partecipazione attiva dei più giovani nella società. Senza dubbio, questo sarà seme di speranza, poiché porterà ad un dinamismo nel quale l’anima di questo popolo continuerà a generare ospitalità: ospitalità verso lo straniero, ospitalità verso i giovani, verso gli anziani, verso i poveri, in definitiva, ospitalità al futuro”. Dichiara infatti Papa Bergoglio: “È motivo di gioia e di speranza iniziare questo pellegrinaggio nei Paesi Baltici in terra lituana che, come amava dire san Giovanni Paolo II, è «testimone silenzioso di un amore appassionato per la libertà religiosa» (Discorso nella cerimonia di benvenuto, Vilnius, 4 settembre 1993). La ringrazio, Signora Presidente, per le cordiali espressioni di benvenuto che mi ha rivolto a nome proprio e del Suo popolo. Nella Sua persona desidero salutare tutto il popolo lituano che oggi mi apre le porte della sua casa e della sua patria. A tutti voi va il mio affetto e il mio sincero ringraziamento. Questa visita avviene in un momento particolarmente importante della vita della vostra Nazione che celebra i cento anni della dichiarazione d’indipendenza. Un secolo segnato da molteplici prove e sofferenze che avete dovuto sopportare (detenzioni, deportazioni, persino il martirio). Celebrare i cento anni dell’indipendenza significa soffermarsi un poco nel tempo, recuperare la memoria del vissuto per prendere contatto con tutto quello che vi ha forgiati come Nazione e trovarvi le chiavi che vi permettano di guardare le sfide del presente e proiettarsi verso il futuro in un clima di dialogo e di unità tra tutti gli abitanti, in modo che nessuno rimanga escluso. Ogni generazione è chiamata a fare proprie le lotte e le realizzazioni del passato e onorare nel presente la memoria dei padri. Non sappiamo come sarà il domani; quello che sappiamo è che ad ogni epoca compete conservare “l’anima” che l’ha edificata e che l’ha aiutata a trasformare ogni situazione di dolore e di ingiustizia in opportunità, e conservare viva ed efficace la radice che ha prodotto i frutti di oggi. E questo popolo ha un’anima forte che gli ha permesso di resistere e di costruire! Così recita il vostro inno nazionale: «Possano i tuoi figli trarre forza dal passato», per guardare al presente con coraggio. Nel corso della sua storia, la Lituania ha saputo ospitare, accogliere, ricevere popoli di diverse etnie e religioni. Tutti hanno trovato in queste terre un posto per vivere: lituani, tartari, polacchi, russi, bielorussi, ucraini, armeni, tedeschi…; cattolici, ortodossi, protestanti, vetero-cattolici, musulmani, ebrei…; sono vissuti insieme e in pace fino all’arrivo delle ideologie totalitarie che spezzarono la capacità di ospitare e armonizzare le differenze seminando violenza e diffidenza. Trarre forza dal passato significa recuperare la radice e mantenere sempre vivo quanto di più autentico e originale vive in voi e che vi ha permesso di crescere e di non soccombere come Nazione: la tolleranza, l’ospitalità, il rispetto e la solidarietà. Guardando allo scenario mondiale in cui viviamo, dove crescono le voci che seminano divisione e contrapposizione – strumentalizzando molte volte l’insicurezza e i conflitti – o che proclamano che l’unico modo possibile di garantire la sicurezza e la sussistenza di una cultura sta nel cercare di eliminare, cancellare o espellere le altre, voi lituani avete una parola originale vostra da apportare: “ospitare le differenze”. Per mezzo del dialogo, dell’apertura e della comprensione esse possono trasformarsi in ponte di unione tra l’Oriente e l’Occidente europeo. Questo può essere il frutto di una storia matura, che come popolo voi offrite alla comunità internazionale e in particolare all’Unione Europea. Voi avete patito “sulla vostra pelle” i tentativi di imporre un modello unico, che annullasse il diverso con la pretesa di credere che i privilegi di pochi stiano al di sopra della dignità degli altri o del bene comune. Lo ha indicato bene Benedetto XVI: «Volere il bene comune e adoperarsi per esso è esigenza di giustizia e di carità. Si ama tanto più efficacemente il prossimo, quanto più ci si adopera per un bene comune rispondente anche ai suoi reali bisogni» (Lett. enc. Caritas in veritate, 7). Tutti i conflitti che si presentano trovano soluzioni durature a condizione che esse si radichino nell’attenzione concreta alle persone, specialmente alle più deboli, e nel sentirsi chiamati ad «allargare lo sguardo per riconoscere un bene più grande che porterà benefici a tutti» (Esort. ap. Evangelii gaudium, 235). In questo senso, trarre forza dal passato significa prestare attenzione ai più giovani, che sono non solo il futuro, ma il presente di questa Nazione, se rimangono uniti alle radici del popolo. Un popolo in cui i giovani trovano spazio per crescere e lavorare, li aiuterà a sentirsi protagonisti della costruzione del tessuto sociale e comunitario. Questo renderà possibile a tutti di alzare lo sguardo con speranza verso il domani. La Lituania che essi sognano si gioca nella costante ricerca di promuovere quelle politiche che incentivino la partecipazione attiva dei più giovani nella società. Senza dubbio, questo sarà seme di speranza, poiché porterà ad un dinamismo nel quale l’“anima” di questo popolo continuerà a generare ospitalità: ospitalità verso lo straniero, ospitalità verso i giovani, verso gli anziani, che sono la memoria viva, verso i poveri, in definitiva, ospitalità al futuro. Le assicuro, Signora Presidente, che potete contare – come fino ad ora – sull’impegno e il lavoro corale della Chiesa Cattolica, affinché questa terra possa adempiere la sua vocazione di essere terra-ponte di comunione e di speranza”. Dal canto suo, la presidente della Lituania, Dalia Grybauskaite, ringraziato Francesco per la visita, “un dono bellissimo nel centenario della ricostituzione” del Paese. “La Santa Sede ha sempre appoggiato l’idea della Lituania libera e negli anni delle prove più difficili, i lituani si sono salvati grazie alla profondità della propria fede. Una fede che oggi permette alla Lituania, e soprattutto ai giovani, di guardare all’avvenire con grande speranza”. Sono le parole della presidente Dalia Grybauskaite che ha già affermato che “la costruzione del gasdotto Nord Stream 2 condannerà l’Unione Europea a dipendere dal gas russo e la renderà politicamente vulnerabile. Abbiamo tutti bisogno della cooperazione economica del dialogo con altri Paesi, ma chi diventa dipendente dalle forniture energetiche di un Paese si rende politicamente vulnerabile”, in un’intervista con la rivista tedesca Spiegel. La Grybauskaite sottolinea che la Ue dovrebbe garantire la diversificazione dell’approvvigionamento energetico. Secondo lei, la importazione di gas liquefatto dagli Stati Uniti d’America dovrebbe contribuire a raggiungere questo obiettivo. “Il futuro mostrerà se la retorica della guerra si trasformerà in una vera e propria guerra commerciale”, ha aggiunto commentando quanto gli Stati Uniti siano affidabili alla luce degli ultimi eventi dei conflitti commerciali. Il progetto Nord Stream 2 prevede la costruzione di due tubi di una potenza totale di 55 miliardi di metri cubi di gas all’anno. Il tubo dalla costa della Russia attraverso il Mar Baltico, arriva in Germania, vicino all’attuale “Nord Stream”. Contro il progetto si esprimono  alcuni Paesi, tra cui l’Ucraina, che ha paura di perdere proventi dal transito del gas russo, e gli Usa che hanno piani ambiziosi per l’esportazione del loro gas in Europa. Nel frattempo la Lituania ha avviato, nel quadro di una cooperazione strutturata permanente (PESCO), la creazione di forze di reazione rapida alle minacce informatiche, conferma il ministro della Difesa della Lituania, Raymundas Caroblis: “Stiamo firmando una dichiarazione di intenti per quanto riguarda la costituzione delle forze europee di reazione veloce alle minacce informatiche e per il meccanismo di sostegno congiunto firmato da sei Paesi: Estonia, Croazia, Romania, Lituania, Spagna e Paesi Bassi”. Secondo Carbolis, il progetto coinvolge alcuni altri Stati membri della Ue che non firmano la dichiarazione “per motivi procedurali, tenendo conto della complessità del problema”. Allo stesso tempo, il Ministro della Difesa definisce l’iniziativa di Vilnius uno dei progetti chiave all’interno della PESCO. La struttura militare consentirà il rapido trasferimento di armamenti ai confini della Federazione Russa! L’idea di creare un’alleanza europea per la difesa, la PESCO, è semplice: costruire una struttura militare per il rapido trasferimento di attrezzature militari in proiezione offensiva sui confini della Russia, ovviamente adattando l’infrastruttura viaria europea, ponti e (aero)porti inclusi, il tutto sponsorizzato dagli Stati Uniti d’America. Secondo il politologo e membro dell’Accademia delle Scienze militari della Federazione Russa, Sergey Sudakov, “Trump crea una certa virgola politica, chiamata PESCO. Questa virgola politica ora ostacolerà enormemente le strutture politiche esistenti all’interno della vecchia Europa, e il ritiro dalla struttura della Nato. Questa non è un’alternativa alla Nato, è una sovrastruttura della Nato. Sono stati gli Stati Uniti a fare pressioni per questa struttura, a partire dal 2015. È chiaro che la PESCO è dettata interamente dagli interessi degli Stati Uniti per domare la Russia nella regione”. Questi sono i fatti. Più di 20 Stati membri della Ue su 13, hanno firmato una lettera formale al capo della diplomazia europea, nella quale esprimono la loro intenzione a partecipare al programma di “Cooperazione strutturata permanente” in materia di sicurezza e di difesa (PESCO). Non è certo la Pace che l’Europa cerca con la Santa Russia. Ma la guerra, lo scontro diretto, direttamente sui confini! E questo Papa Bergoglio lo sa perfettamente. Come rimarca nella visita al Santuario Mater Misericordiae di Vilnius, Sabato 22 Settembre 2018. L’effige della Mater Misericordiae, un dipinto del 1620, appartiene all’iconografia delle “Madonne nere”. Testimonianze di segni miracolosi si sono accumulate, nei secoli, fino ad oggi. In particolare, la devozione verso la Madre della Misericordia è stata di grande sostegno per i cattolici durante il regime sovietico. E lo è particolarmente oggi durante il regime capitalista globalista, altrettanto ateo e guerrafondaio. Il Papa al Santuario della Mater Misericordiae invita a costruire ponti e non muri. “Alla scuola di Maria è possibile costruire una società capace di accoglienza, in cui i doni ricevuti da ciascuno circolino fra tutti”. È il pensiero che Francesco trasmette ai fedeli festanti al Santuario dedicato alla Madre della Misericordia. Sorge nei pressi della “Porta dell’Aurora” che rappresenta tutto ciò che resta delle antiche mura costruite per proteggere la città di Vilnius.  Distrutta la città nell’Anno Domini 1799, rimase in piedi la Porta dove, fin da allora, veniva collocata l’immagine della “Vergine della Misericordia”. La visita alla chiesa a Lei dedicata, è il primo appuntamento di Papa Bergoglio con i fedeli lituani che lo accolgono. L’immagine della Madre vede in ciascuno Gesù. È quella di Vilnius, “una Madre, senza il Bambino, tutta dorata, è la Madre di tutti – osserva Francesco – e lei in ognuno vede il volto di suo Figlio Gesù. Se l’immagine di Gesù è posta come un sigillo in ogni cuore umano, ogni uomo e ogni donna ci offrono la possibilità di incontrarci con Dio. Quando ci chiudiamo in noi stessi per paura degli altri, quando costruiamo muri e barricate, finiamo per privarci della Buona Notizia di Gesù che conduce la storia e la vita degli altri. Abbiamo costruito troppe fortezze nel nostro passato, ma oggi sentiamo il bisogno di guardarci in faccia e riconoscerci come fratelli, di camminare insieme scoprendo e sperimentando con gioia e pace il valore della fraternità”. Bisogna stabilire punti di incontro fra tutti. “Grazie alla facilità delle comunicazioni e alla libertà di circolazione – rileva il Papa – una moltitudine di persone visita ogni giorno il Santuario: Lituani, Polacchi, Bielorussi e Russi, Cattolici e Ortodossi. Come sarebbe bello se a questa facilità di muoversi da un posto all’altro si aggiungesse anche la facilità di stabilire punti d’incontro e solidarietà fra tutti, di far circolare i doni che gratuitamente abbiamo ricevuto, di uscire da noi stessi e donarci agli altri, accogliendo a nostra volta la presenza e la diversità degli altri come un dono e una ricchezza nella nostra vita”. Perché la Madre di Dio desidera riunire la Famiglia umana. “La realtà rimanda invece a conflitti, tensioni, odi e inimicizie. La Madre della Misericordia desidera una famiglia umana unita e a ciascuno suggerisce – ricorda il Papa – cerca tuo fratello. Oggi ci aspettano bambini e famiglie con le piaghe sanguinanti; non sono quelle di Lazzaro nella parabola, sono quelle di Gesù; sono reali, concrete e, dal loro dolore e dalla loro oscurità, gridano perché noi portiamo ad esse la luce risanatrice della carità”. Il pensiero di Francesco va ancora a Maria, suggerendo di chiedere a Lei, alla Regina del Cielo, l’aiuto “per edificare una comunità in grado di annunciare Gesù Cristo, per costruire una Patria capace di accogliere tutti, una Patria che sceglie di costruire ponti e non muri, che preferisce la misericordia e non il giudizio”. Papa Francesco insegna: “Cari fratelli e sorelle! Siamo di fronte alla “Porta dell’Aurora”, quello che rimane delle mura di questa città che servivano per difendersi da qualsiasi pericolo e provocazione, e che nel 1799 l’esercito invasore distrusse totalmente, lasciando solo questa porta: già allora era lì collocata l’immagine della “Vergine della Misericordia”, la Santa Madre di Dio che è sempre disposta a soccorrerci, a venire in nostro aiuto. Già da quei giorni, ella voleva insegnarci che si può proteggere senza attaccare, che è possibile essere prudenti senza il malsano bisogno di diffidare di tutti. Questa Madre, senza il Bambino, tutta dorata, è la Madre di tutti; in ognuno di quanti vengono fin qui, lei vede ciò che tante volte nemmeno noi stessi riusciamo a percepire: il volto di suo Figlio Gesù impresso nel nostro cuore. E dal momento che l’immagine di Gesù è posta come un sigillo in ogni cuore umano, ogni uomo e ogni donna ci offrono la possibilità di incontrarci con Dio. Quando ci chiudiamo in noi stessi per paura degli altri, quando costruiamo muri e barricate, finiamo per privarci della Buona Notizia di Gesù che conduce la storia e la vita degli altri. Abbiamo costruito troppe fortezze nel nostro passato, ma oggi sentiamo il bisogno di guardarci in faccia e riconoscerci come fratelli, di camminare insieme scoprendo e sperimentando con gioia e pace il valore della fraternità (Esort. ap. Evangelii gaudium, 87). Ogni giorno in questo luogo visita la Madre della Misericordia una moltitudine di persone provenienti da tanti Paesi: lituani, polacchi, bielorussi e russi; cattolici e ortodossi. Oggi lo rende possibile la facilità delle comunicazioni, la libertà di circolazione tra i nostri Paesi. Come sarebbe bello se a questa facilità di muoversi da un posto all’altro si aggiungesse anche la facilità di stabilire punti d’incontro e solidarietà fra tutti, di far circolare i doni che gratuitamente abbiamo ricevuto, di uscire da noi stessi e donarci agli altri, accogliendo a nostra volta la presenza e la diversità degli altri come un dono e una ricchezza nella nostra vita. A volte sembra che aprirci al mondo ci proietti in spazi di competizione, dove “l’uomo è lupo per l’uomo” e dove c’è posto solo per il conflitto che ci divide, per le tensioni che ci consumano, per l’odio e l’inimicizia che non ci portano da nessuna parte (cfr Esort. ap. Gaudete et exsultate, 71-72). La Madre della Misericordia, come ogni buona madre, tenta di riunire la famiglia e ci dice all’orecchio: “cerca tuo fratello”. Così ci apre la porta a un’alba nuova, a una nuova aurora. Ci porta fino alla soglia, come alla porta del ricco Epulone del Vangelo (Lc 16,19-31). Oggi ci aspettano bambini e famiglie con le piaghe sanguinanti; non sono quelle di Lazzaro nella parabola, sono quelle di Gesù; sono reali, concrete e, dal loro dolore e dalla loro oscurità, gridano perché noi portiamo ad esse la luce risanatrice della carità. Perché è la carità la chiave che ci apre la porta del cielo. Cari fratelli! Che, attraversando questa soglia, possiamo sperimentare la forza che purifica il nostro modo di rapportarci agli altri e la Madre ci conceda di guardare i loro limiti e difetti con misericordia e umiltà, senza crederci superiori a nessuno (Fil 2,3). Che, nel contemplare i misteri del Rosario, le chiediamo di essere una comunità che sa annunciare Gesù Cristo, nostra speranza, al fine di costruire una Patria capace di accogliere tutti, di ricevere dalla Vergine Madre i doni del dialogo e della pazienza, della vicinanza e dell’accoglienza che ama, perdona e non condanna (Esort. ap. Evangelii gaudium, 165); una Patria che sceglie di costruire ponti e non muri, che preferisce la misericordia e non il giudizio. Che Maria sia sempre la Porta dell’Aurora per tutta questa terra benedetta! Lasciandoci guidare da lei, preghiamo ora una decina del Rosario, contemplando il terzo mistero della gioia”. Al termine del discorso, Papa Bergoglio invita i fedeli a pregare una decina del Santo Rosario, contemplando il Terzo Mistero della Gioia, cioè la nascita di Gesù a Betlemme. Sono bambini e famiglie a intonare le Ave Maria in lingua lituana. Segue il canto del Salve Regina e la preghiera in latino letta da Francesco che poi depone sull’altare della Madre di Misericordia il suo dono: un Rosario in oro. La benedizione del Papa conclude l’incontro: un appuntamento scandito, da canti tradizionali, danze e testimonianze. Fuori il popolo lo aspetta per accompagnarlo con il suo saluto verso l’appuntamento con i giovani, alle ore 17:30, nella piazza della Cattedrale di Vilnius dedicata ai Santi Stanislao e Ladislao. Papa Francesco è accolto dal parroco e si sofferma in preghiera nella cappella di San Casimiro, dove ad attenderlo ci sono circa 60 suore e sacerdoti anziani. Il Vescovo di Roma sottolinea che Dio “non scenderà mai dalla barca della vostra vita: Gesù ci regala tempi larghi e generosi, dove c’è spazio per i fallimenti. Non smetterà mai di ricostruirci, anche se a volte noi ci impegniamo nel demolirci”. Le toccanti testimonianze di due giovani, Monika e Jonas, si saldano al discorso di Papa Bergoglio: “la vita non è un’opera teatrale. È invece una storia reale e concreta in cui poter scoprire il passaggio del Signore perché Dio passa sempre nella nostra vita”. La testimonianza di Monica, che ha ricevuto il dono della fede dalla nonna, è legata in modo indissolubile a questo passaggio. La sua vita, da bambina, è segnata da un rapporto difficile con il padre che la picchiava. La situazione, negli anni, si aggrava. Il padre, dopo il fallimento della sua impresa di costruzioni, tenta il suicidio e sviluppa una sempre più forte dipendenza dall’alcool. In Monica cresce l’odio. Ma in una parrocchia francescana trova “una comunità viva e accogliente”. Il Signore comincia a guarire le sue ferite. Monica chiede perdono al padre e sostituisce l’odio con la misericordia e la preghiera. Ma deve affrontare un grande dolore: il suicidio padre. “Non riesco ad immaginare – sottolinea la giovane – come vivrei oggi se avessi tenuto la rabbia nel mio cuore fino alla sua morte”. Anche nella vita di Jonas si scorge il passaggio di Dio. Quando gli viene diagnosticata una malattia autoimmune che porta ad una progressiva auto-distruzione del suo corpo, capisce quanto sia importante essere sempre accompagnati dal proprio coniuge. E sottolinea che a sostenerlo è soprattutto la fiducia in Dio. Jonas, che tre volte alla settimana deve sottoporsi a dialisi, vive nella speranza di guarire. “Questo – afferma il giovane – è il tempo migliore di tutta la mia vita”. Si fida di Dio. “Il Signore – spiega – ha un piano per la mia vita”. Dio e la famiglia sono la roccia su cui si appoggia, speranza e sostegno nelle gioie e nei dolori. Dopo aver ascoltato le testimonianze di Monica e Jonas, Papa Francesco afferma che questi due giovani hanno sperimentato, come la cattedrale di Vilnius, situazioni devastanti. “Più volte – ricorda il Papa – questo tempio è stato divorato dalla fiamme. Ma ci sono sempre stati quelli che hanno deciso di edificarlo di nuovo. Anche la libertà della vostra Patria è costruita sopra quelli che non si sono lasciati abbattere dal terrore e dalla sventura. La grazia di Dio si riversa in noi attraverso persone che incrociano la storia e le nostre vite”. La comunità francescana per Monica e la moglie per Jonas, sono state presenze decisive per andare avanti, per camminare nella speranza. “Nessuno – afferma il Papa – può dire: io mi salvo da solo. Il Signore ci salva rendendoci parte di un popolo”. Francesco esorta a puntare alla santità “partendo dall’incontro e dalla comunione con gli altri. Non permettete che il mondo vi faccia credere che è meglio camminare da soli. Affermiamo ancora una volta che quello che succede all’altro, succede a me, andiamo controcorrente rispetto a questo individualismo che isola, che ci fa diventare vanitosi, preoccupati solamente dell’immagine e del proprio benessere. La nostra vera identità presuppone l’appartenenza a un popolo. Non esistono identità di laboratorio nè identità distillate. Esiste l’identità del camminare insieme, del lottare insieme, di amare insieme; esiste l’identità di un’appartenenza a una famiglia, a un popolo. Vedere la fragilità degli altri – sottolinea il Papa – ci colloca nella realtà, ci impedisce di vivere leccandoci le nostre ferite. Cari giovani  vale la pena seguire Cristo”. Quanti giovani se ne vanno dal loro Paese per mancanza di opportunità! Anche dall’Italia. Quanti sono vittime della depressione, dell’alcool e delle droghe! “Voi lo sapete bene. Quante persone anziane sole, senza qualcuno con cui condividere il presente e con la paura che ritorni il passato. Voi giovani potete rispondere a queste sfide con la vostra presenza e con l’incontro tra voi e gli altri. Gesù ci invita ad uscire da noi stessi, a rischiare nel faccia a faccia con gli altri”. Ma c’è posto per tutti. “La vita – rimarca il Papa – non è un’opera di teatro o un videogioco: si gioca in tempi rapportati al cuore di Dio; a volte si avanza, altre volte si retrocede, si provano e si tentano strade, si cambiano. La cosa più pericolosa è confondere il cammino con un labirinto: quel girare a vuoto attraverso la vita, su sé stessi, senza imboccare la strada che conduce avanti”. Da qui la vibrante esortazione: “Non siate giovani del labirinto, dal quale è difficile uscire, ma giovani in cammino. Non abbiate paura di decidervi per Gesù, di abbracciare la sua causa, quella del Vangelo, dell’umanità, degli esseri umani. Perché Egli non scenderà mai dalla barca della vostra vita, sarà sempre all’incrocio delle nostre strade, non smetterà mai di ricostruirci, anche se a volte noi ci impegniamo nel demolirci. Gesù ci regala tempi larghi e generosi, dove c’è spazio per i fallimenti, dove nessuno ha bisogno di emigrare, perché c’è posto per tutti. Molti vorranno occupare i vostri cuori, infestare i campi delle vostre aspirazioni con la zizzania, ma alla fine, se doniamo la vita al Signore, vince sempre il buon grano”. Insegna Papa Bergoglio: “Grazie, Monica e Jonas, per la vostra testimonianza! L’ho accolta come un amico, come se fossimo seduti insieme, in qualche bar, a raccontarci le cose della vita, prendendo una birra o una gira, dopo essere stati al “Jaunimo teatras”. La vostra vita, però, non è un’opera teatrale, è reale, concreta, come quella di ognuno di noi che siamo qui, in questa bella piazza situata tra questi due fiumi. E chissà che tutto questo ci serva per rileggere le vostre storie e scoprirvi il passaggio di Dio. Perché Dio passa sempre nella nostra vita. Passa sempre. E un grande filosofo diceva: “Io ho paura, quando Dio passa! Paura di non accorgermene!”. Come questa chiesa cattedrale, voi avete sperimentato situazioni che vi facevano crollare, incendi dai quali sembrava che non avreste potuto riprendervi. Più volte questo tempio è stato divorato dalle fiamme, è crollato, e tuttavia ci sono sempre stati quelli che hanno deciso di edificarlo di nuovo, che non si sono fatti vincere dalle difficoltà, non si sono lasciati cadere le braccia. C’è un bel canto alpino che dice così: “Nell’arte di salire, il segreto non sta nel non cadere, ma nel non rimanere caduto”. Ricominciare di nuovo sempre, e così salire. Come questa cattedrale. Anche la libertà della vostra Patria è costruita sopra quelli che non si sono lasciati abbattere dal terrore e dalla sventura. La vita, la condizione e la morte di tuo papà, Monica; la tua malattia, Jonas, avrebbero potuto devastarvi. E tuttavia siete qui, a condividere la vostra esperienza con uno sguardo di fede, facendoci scoprire che Dio vi ha dato la grazia per sopportare, per rialzarvi, per continuare a camminare nella vita. E io mi domando: come si è riversata in voi questa grazia di Dio? Non dall’aria, non magicamente, non c’è la bacchetta magica per la vita. Questo è accaduto mediante persone che hanno incrociato la vostra vita, gente buona che vi ha nutrito con la sua esperienza di fede. Sempre c’è gente, nella vita, che ci dà una mano per aiutarci ad alzarci. Monica, tua nonna e tua mamma, la parrocchia francescana, sono state per te come la confluenza di questi due fiumi: così come il Vilnia si unisce al Neris, tu ti sei aggregata, ti sei lasciata condurre da questa corrente di grazia. Perché il Signore ci salva rendendoci parte di un popolo. Il Signore ci salva rendendoci parte di un popolo. Ci inserisce in un popolo, e la nostra identità, alla fine, sarà l’appartenenza ad un popolo. Nessuno può dire: “io mi salvo da solo”, siamo tutti interconnessi, siamo tutti “in rete”. Dio ha voluto entrare in questa dinamica di relazioni e ci attrae a Sé in comunità, dando alla nostra vita un pieno senso d’identità e di appartenenza (Esort. ap. Gaudete et exsultate, 6). Anche tu, Jonas, hai trovato negli altri, in tua moglie e nella promessa fatta il giorno del matrimonio il motivo per andare avanti, per lottare, per vivere. Non permettete che il mondo vi faccia credere che è meglio camminare da soli. Da soli non si arriva mai. Sì, potrai arrivare ad avere un successo nella vita, ma senza amore, senza compagni, senza appartenenza a un popolo, senza quell’esperienza tanto bella che è rischiare insieme. Non si può camminare da soli. Non cedete alla tentazione di concentrarvi su voi stessi, guardandovi la pancia, alla tentazione di diventare egoisti o superficiali davanti al dolore, alle difficoltà o al successo passeggero. Affermiamo ancora una volta che “quello che succede all’altro, succede a me”, andiamo controcorrente rispetto a questo individualismo che isola, che ci fa diventare egocentrici, che ci fa diventare vanitosi, preoccupati solamente dell’immagine e del proprio benessere. Preoccupati dell’immagine, di come apparire. È brutta la vita davanti allo specchio, è brutta. Invece è bella la vita con gli altri, in famiglia, con gli amici, con la lotta del mio popolo. Così la vita è bella! Siamo cristiani e vogliamo puntare sulla santità. Puntate sulla santità a partire dall’incontro e dalla comunione con gli altri, attenti alle loro necessità (ibid., 146). La nostra vera identità presuppone l’appartenenza a un popolo. Non esistono identità “di laboratorio”, non esistono, né identità “distillate”, identità “purosangue”: queste non esistono. Esiste l’identità del camminare insieme, del lottare insieme, amare insieme. Esiste l’identità appartenere a una famiglia, a un popolo. Esiste l’identità che ti dà l’amore, la tenerezza, preoccuparti per gli altri. Esiste l’identità che ti dà la forza per lottare e nello stesso tempo la tenerezza per accarezzare. Ognuno di noi conosce la bellezza e anche la stanchezza – è bello che i giovani si stanchino, è segno che lavorano – e molte volte il dolore di appartenere a un popolo, voi conoscete questo. Qui è radicata la nostra identità, non siamo persone senza radici. Non siamo persone senza radici! Tutt’e due avete anche ricordato la presenza nel coro, la preghiera in famiglia, la Messa, la catechesi e l’aiuto ai più bisognosi; sono armi potenti che il Signore ci dà. La preghiera e il canto, per non chiudersi nell’immanenza di questo mondo: anelando a Dio siete usciti da voi stessi e avete potuto contemplare con gli occhi di Dio quello che accadeva nel vostro cuore (ibid., 147); praticando la musica vi aprite all’ascolto e all’interiorità, vi lasciate in tal modo colpire nella sensibilità e questo è sempre una buona opportunità per il discernimento (Sinodo dedicato ai giovani, Instrumentum laboris, 162). Certo, la preghiera può essere un’esperienza di “combattimento spirituale”, ma è lì che impariamo ad ascoltare lo Spirito, a discernere i segni dei tempi e a recuperare le forze per continuare ad annunciare il Vangelo oggi. In che altro modo potremmo combattere contro lo scoraggiamento di fronte alle difficoltà proprie e altrui, di fronte agli orrori del mondo? Come faremmo senza la preghiera per non credere che tutto dipende da noi, che siamo soli davanti al corpo a corpo con le avversità? “Gesù ed io, maggioranza assoluta!”. Non dimenticatelo, questo lo diceva un santo, sant’Alberto Hurtado. L’incontro con Lui, con la sua Parola, con l’Eucaristia ci ricorda che non importa la forza dell’avversario; non importa se è primo il “Žalgiris Kaunas” o il “Vilnius Rytas”. A proposito, vi domando: qual è il primo? Non importa qual è il primo, non importa il risultato, ma che il Signore sia con noi. Anche a voi è stata di sostegno nella vita l’esperienza di aiutare gli altri, scoprire che vicino a noi ci sono persone che stanno male, anche molto peggio di noi. Monica, ci hai raccontato del tuo impegno con i bambini disabili. Vedere la fragilità degli altri ci colloca nella realtà, ci impedisce di vivere leccandoci le nostre ferite. È brutto vivere nelle lamentele, è brutto. È brutto vivere leccandosi le ferite! Quanti giovani se ne vanno dal loro Paese per mancanza di opportunità! Quanti sono vittime della depressione, dell’alcool e delle droghe! Voi lo sapete bene. Quante persone anziane sole, senza qualcuno con cui condividere il presente e con la paura che ritorni il passato. Voi, giovani, potete rispondere a queste sfide con la vostra presenza e con l’incontro tra voi e gli altri. Gesù ci invita ad uscire da noi stessi, a rischiare nel “faccia a faccia” con gli altri. È vero che credere in Gesù implica molte volte fare un salto di fede nel vuoto, e questo fa paura. Altre volte ci porta a metterci in discussione, a uscire dai nostri schemi, e questo può farci soffrire e tentare dallo scoraggiamento. Però, siate coraggiosi! Seguire Gesù è un’avventura appassionante che riempie la nostra vita di significato, che ci fa sentire parte di una comunità che ci incoraggia, di una comunità che ci accompagna, che ci impegna nel servizio. Cari giovani, vale la pena seguire Cristo, vale la pena! Non abbiamo paura di partecipare alla rivoluzione a cui Lui ci invita: la rivoluzione della tenerezza (Esort. ap. Evangelii gaudium, 88). Se la vita fosse un’opera di teatro o un videogioco sarebbe ristretta in un tempo preciso, un inizio e una fine, quando si abbassa il sipario o qualcuno vince la partita. Ma la vita si misura con altri tempi, non con i tempi del teatro o del videogioco; la vita si gioca in tempi rapportati al cuore di Dio; a volte si avanza, altre volte si retrocede, si provano e si tentano strade, si cambiano. L’indecisione sembra nascere dalla paura che cali il sipario, o che il cronometro ci lasci fuori dalla partita, dal salire di un livello nel gioco. Invece la vita è sempre un camminare, la vita è in cammino, non è ferma; la vita è sempre un camminare cercando la direzione giusta, senza paura di tornare indietro se ho sbagliato. La cosa più pericolosa è confondere il cammino con un labirinto: quel girare a vuoto attraverso la vita, su sé stessi, senza imboccare la strada che conduce avanti. Per favore, non siate giovani del labirinto, dal quale è difficile uscire, ma giovani in cammino. Niente labirinto: in cammino! Non abbiate paura di decidervi per Gesù, di abbracciare la sua causa, quella del Vangelo, dell’umanità, degli esseri umani. Perché Egli non scenderà mai dalla barca della vostra vita, sarà sempre all’incrocio delle nostre strade, non smetterà mai di ricostruirci, anche se a volte noi ci impegniamo nel demolirci. Gesù ci regala tempi larghi e generosi, dove c’è spazio per i fallimenti, dove nessuno ha bisogno di emigrare, perché c’è posto per tutti. Molti vorranno occupare i vostri cuori, infestare i campi delle vostre aspirazioni con la zizzania, ma alla fine, se doniamo la vita al Signore, vince sempre il buon grano. La vostra testimonianza, Monica e Jonas, parlava della nonna, della mamma. Io vorrei dirvi – e con questo finisco, state tranquilli! – vorrei dirvi di non dimenticare le radici del vostro popolo. Pensate al passato, parlate con i vecchi: non è noioso parlare con gli anziani. Andate a cercare i vecchi e fatevi raccontare le radici del vostro popolo, le gioie, le sofferenze, i valori. Così, attingendo dalle radici, voi porterete avanti il vostro popolo, la storia del vostro popolo per un frutto più grande. Cari giovani, se voi volete un popolo grande, libero, prendete dalle radici la memoria e portatelo avanti. Grazie tante!”. Il Papa, poi, visita la Cattedrale di Vilnius per un momento di preghiera. Quindi il rientro alla Nunziatura di Vilnius, dove Francesco alloggia per tutta la durata del viaggio nei tre Paesi Baltici confinanti con la Santa Russia. La realtà della Chiesa in Lituania vive non solo di cattolici che sono circa l’80%. Nella prima Santa Messa del suo viaggio nei Paesi Baltici definiti dalla ben nota strategia militare Usa-Nato-Ue la “prima linea del fronte europeo” contro la Russia post comunista, nel Parco Santakos Domenica 23 Settembre 2018, Papa Francesco chiede di “guarire la memoria della nostra storia, per coinvolgersi nella costruzione del presente”. E davanti a più di 100mila fedeli ricorda la Siberia comunista, le occupazioni e i ghetti di Vilnius e Kaunas. “Dobbiamo essere una Chiesa in uscita (non di senno, NdA) non  aver paura di uscire e spenderci anche quando sembra che ci dissolviamo, di perderci dietro i più piccoli, i dimenticati, quelli che vivono nelle periferie esistenziali, guarendo la memoria della nostra storia, con la Siberia, i ghetti di Vilnius e di Kaunas, l’occupazione e la deportazione, per coinvolgersi nella costruzione del presente”. Papa Francesco a Kaunas dedica l’omelia all’insegnamento di Gesù ai discepoli a metà del suo cammino verso Gerusalemme e la sua Passione, raccontato dall’evangelista San Marco. “E come se Gesù – spiega il Papa di Roma – volesse che i suoi rinnovassero la loro scelta, sapendo che questa sequela avrebbe comportato momenti di prova e di dolore”. La vita cristiana attraversa sempre momenti di croce che talvolta sembrano interminabili. “Le generazioni passate avranno avuto impresso a fuoco il tempo dell’occupazione, l’angoscia di quelli che venivano deportati, l’incertezza per quelli che non tornavano, la vergogna della delazione, del tradimento”. La fede vacillava in Siberia e nei ghetti di Vilnius e Kaunas. Papa Francesco guarda le decine di migliaia di fedeli lituani e osserva: “Quanti di voi potrebbero raccontare in prima persona, o nella storia di qualche parente, questo stesso passo che abbiamo letto. Quanti di voi hanno visto anche vacillare la loro fede perché non è apparso Dio per difendervi; perché il fatto di rimanere fedeli non è bastato perché Egli intervenisse nella vostra storia. Kaunas conosce questa realtà; la Lituania intera lo può testimoniare con un brivido al solo nominare la Siberia, o i ghetti di Vilnius e di Kaunas, tra gli altri”. E i discepoli discutono su chi sia il più grande tra loro. E qui Papa Bergoglio cita l’Apostolo Giacomo, che nella sua Lettera racconta di coloro che bramano, uccidono, invidiano, combattono e fanno guerra. “Ma i discepoli – ricorda il Santo Padre – non volevano che Gesù parlasse loro di dolore e di croce; non vogliono sapere nulla di prove e di angosce. E tornavano a casa discutendo su chi fosse il più grande. Fratelli, il desiderio di potere e di gloria è il modo più comune di comportarsi di coloro che non riescono a guarire la memoria della loro storia e, forse proprio per questo, non accettano nemmeno di impegnarsi nel lavoro del presente. E allora si discute su chi ha brillato di più, chi è stato più puro nel passato, chi ha più diritto ad avere privilegi rispetto agli altri”. Non bisogna negare la storia e neppure alterarla, ma occorre coinvolgersi nel presente. “E così – avverte Francesco – neghiamo la nostra storia che è gloriosa in quanto storia di sacrifici, di speranza, di lotta quotidiana, di vita consumata nel servizio, di costanza nel lavoro faticoso. Questo è un atteggiamento sterile e vano che rinuncia a coinvolgersi nella costruzione del presente perdendo il contatto con la realtà sofferta del nostro popolo fedele”. Non possiamo essere come quegli “esperti spirituali, che giudicano solo dall’esterno e passano tutto il tempo a parlare di quello che si dovrebbe fare”. Bisogna mettere al centro minoranze, discoccupati, anziani e giovani. “Gesù, prima di parlare ai discepoli, mette un bambino al centro. Chi metterà in mezzo oggi, qui, in questa mattina di Domenica? – domanda Francesco – Chi saranno i più piccoli, i più poveri tra noi, che dobbiamo accogliere a cent’anni della nostra indipendenza? Chi è che non ha nulla per ricambiarci, per rendere gratificanti i nostri sforzi e le nostre rinunce? Forse sono le minoranze etniche della nostra città, o quei disoccupati che sono costretti a emigrare. Forse sono gli anziani soli, o i giovani che non trovano un senso nella vita perché hanno perso le loro radici”. Insegna così Papa Bergoglio: “San Marco dedica tutta una parte del suo Vangelo all’insegnamento rivolto ai discepoli. È come se Gesù, a metà del cammino verso Gerusalemme, volesse che i suoi rinnovassero la loro scelta, sapendo che questa sequela avrebbe comportato momenti di prova e di dolore. L’evangelista racconta quel periodo della vita di Gesù ricordando che in tre occasioni Egli ha annunciato la sua passione; essi per tre volte hanno espresso il loro sconcerto e la loro resistenza, e il Signore in tutte e tre ha voluto lasciare loro un insegnamento. Abbiamo appena ascoltato la seconda di queste tre sequenze (Mc 9,30-37). La vita cristiana attraversa sempre momenti di croce, e talvolta sembrano interminabili. Le generazioni passate avranno avuto impresso a fuoco il tempo dell’occupazione, l’angoscia di quelli che venivano deportati, l’incertezza per quelli che non tornavano, la vergogna della delazione, del tradimento. Il Libro della Sapienza ci parla del giusto perseguitato, che subisce oltraggi e tormenti per il solo fatto di essere buono (2,10-20). Quanti di voi potrebbero raccontare in prima persona, o nella storia di qualche parente, questo stesso passo che abbiamo letto. Quanti di voi hanno visto anche vacillare la loro fede perché non è apparso Dio per difendervi; perché il fatto di rimanere fedeli non è bastato perché Egli intervenisse nella vostra storia. Kaunas conosce questa realtà; la Lituania intera lo può testimoniare con un brivido al solo nominare la Siberia, o i ghetti di Vilnius e di Kaunas, tra gli altri; e può dire all’unisono con l’apostolo Giacomo, nel brano della sua Lettera che abbiamo ascoltato: bramano, uccidono, invidiano, combattono e fanno guerra (cfr 4,2). Ma i discepoli non volevano che Gesù parlasse loro di dolore e di croce; non vogliono sapere nulla di prove e di angosce. E San Marco ricorda che erano interessati ad altre cose, che tornavano a casa discutendo su chi fosse il più grande. Fratelli, il desiderio di potere e di gloria è il modo più comune di comportarsi di coloro che non riescono a guarire la memoria della loro storia e, forse proprio per questo, non accettano nemmeno di impegnarsi nel lavoro del presente. E allora si discute su chi ha brillato di più, chi è stato più puro nel passato, chi ha più diritto ad avere privilegi rispetto agli altri. E così neghiamo la nostra storia, «che è gloriosa in quanto storia di sacrifici, di speranza, di lotta quotidiana, di vita consumata nel servizio, di costanza nel lavoro faticoso» (Esort. ap. Evangelii gaudium, 96). È un atteggiamento sterile e vano, che rinuncia a coinvolgersi nella costruzione del presente perdendo il contatto con la realtà sofferta del nostro popolo fedele. Non possiamo essere come quegli “esperti” spirituali, che giudicano solo dall’esterno e passano tutto il tempo a parlare di “quello che si dovrebbe fare” (ibid). Gesù, sapendo quello che pensavano, propone loro un antidoto a queste lotte di potere e al rifiuto del sacrificio; e, per dare solennità a quello che sta per dire, si siede come un Maestro, li chiama, e compie un gesto: mette un bambino al centro; un ragazzino che di solito si guadagnava gli spiccioli facendo le commissioni che nessuno voleva fare. Chi metterà in mezzo oggi, qui, in questa mattina di domenica? Chi saranno i più piccoli, i più poveri tra noi, che dobbiamo accogliere a cent’anni della nostra indipendenza? Chi è che non ha nulla per ricambiarci, per rendere gratificanti i nostri sforzi e le nostre rinunce? Forse sono le minoranze etniche della nostra città, o quei disoccupati che sono costretti a emigrare. Forse sono gli anziani soli, o i giovani che non trovano un senso nella vita perché hanno perso le loro radici. “In mezzo” significa equidistante, in modo che nessuno possa fingere di non vedere, nessuno possa sostenere che “è responsabilità di altri”, perché “io non ho visto” o “sono troppo lontano”. Senza protagonismi, senza voler essere applauditi o i primi. Là, nella città di Vilnius, è toccato al fiume Vilnia offrire le sue acque e perdere il nome rispetto al Neris; qui, è lo stesso Neris che perde il nome offrendo le sue acque al Nemunas. Di questo si tratta: di essere una Chiesa “in uscita”, di non aver paura di uscire e spenderci anche quando sembra che ci dissolviamo, di perderci dietro i più piccoli, i dimenticati, quelli che vivono nelle periferie esistenziali. Ma sapendo che quell’uscire comporterà anche in certi casi un fermare il passo, mettere da parte le ansie e le urgenze, per saper guardare negli occhi, ascoltare e accompagnare chi è rimasto sul bordo della strada. A volte bisognerà comportarsi come il padre del figlio prodigo, che rimane sulla porta aspettando il suo ritorno, per aprirgli appena arriva (ibid, 46); oppure come i discepoli, che devono imparare che, quando si accoglie un piccolo, è lo stesso Gesù che si accoglie. Perché per questo oggi siamo qui, ansiosi di accogliere Gesù nella sua parola, nell’Eucaristia, nei piccoli. Accoglierlo affinché Egli riconcili la nostra memoria e ci accompagni in un presente che continui ad appassionarci per le sue sfide, per i segni che ci lascia; affinché lo seguiamo come discepoli, perché non c’è nulla di veramente umano che non abbia risonanza nel cuore dei discepoli di Cristo, e così sentiamo come nostre le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini del nostro tempo, soprattutto dei poveri e dei sofferenti (cfr Conc. Ecum. Vat. II, Cost. past. Gaudium et spes, 1). Per questo, e perché come comunità ci sentiamo veramente e intimamente solidali con l’umanità – di questa città e di tutta la Lituania – e con la sua storia (ibid), vogliamo donare la vita nel servizio e nella gioia, e così far sapere a tutti che Gesù Cristo è la nostra unica speranza”. Alla preghiera dell’Angelus a Kaunas, nel Parco Santakos in Lituania, il Papa ricorda il 75mo anniversario della distruzione del Ghetto di Vilnius con l’annientamento di migliaia di Ebrei. Quindi esorta i cristiani a scoprire in tempo qualsiasi nuovo germe di quell’atteggiamento pernicioso, allontanando dai nostri ambienti e dalle nostre culture la possibilità di annientare o emarginare scartati e minoranze. “Facciamo memoria di quei tempi, e chiediamo al Signore che ci faccia dono del discernimento – avverte Papa Francesco – per scoprire in tempo qualsiasi nuovo germe di quell’atteggiamento pernicioso, di qualsiasi aria che atrofizza il cuore delle generazioni che non l’hanno sperimentato e che potrebbero correre dietro quei canti di sirena”. Un pensiero alla comunità ebraica lituana, il Vescovo di Roma lo rivolge anche dopo la preghiera mariana, ricordando che nel pomeriggio pregherà proprio davanti al Monumento delle Vittime del Ghetto, a Vilnius. L’empio si fa guidare dai suoi capricci e perseguita il giusto. Al centro della riflessione di Francesco, la figura dell’empio che vuole imporre un’ideologia e perseguita il giusto, anzi la sua sola presenza gli dà fastidio. Non gli basta “lasciarsi guidare dai suoi capricci” ma cerca di annientare il bene e “non vuole che gli altri, facendo il bene, mettano in risalto questo suo modo di fare”. Un atteggiamento che consiste nell’ansia di primeggiare, come quando un popolo si crede superiore, “con più diritti acquisiti” e maggiori privilegi. Come l’attualità denuncia tragicamente nei responsabili delle Guerre Umanitarie con il loro “carico” di milioni di morti: stati e multinazionali del terrore con nome e cognome che i media mondiali non osano neppure sussurrare! Eppure Francesco invita a stare con gli scartati di persona. “Il rimedio che Gesù propone quando appare tale pulsione nel cuore e nella mentalità di una società – ricorda il Papa – è quello di farsi ultimo: stare là dove nessuno vuole andare, dove non arriva nulla, nella periferia più distante; e servire, creando spazi di incontro con gli ultimi, con gli scartati. Se il potere si decidesse per questo, se permettessimo al Vangelo di Cristo di giungere nel profondo della nostra vita, allora la globalizzazione della solidarietà sarebbe davvero una realtà”. Occorre dare attenzione agli esclusi e alle minoranze. Francesco fa riferimento alla Collina delle Croci in Lituania dove migliaia di persone, lungo i secoli, hanno piantato il segno della croce: “Vi invito, mentre preghiamo l’Angelus, a chiedere a Maria che ci aiuti a piantare la croce del nostro servizio, della nostra dedizione lì dove hanno bisogno di noi, sulla collina dove abitano gli ultimi, dove si richiede la delicata attenzione agli esclusi, alle minoranze, per allontanare dai nostri ambienti e dalle nostre culture la possibilità di annientare l’altro, di emarginare, di continuare a scartare chi ci dà fastidio e disturba le nostre comodità”. Insegna Papa Bergoglio: “Il Libro della Sapienza, che abbiamo ascoltato nella prima Lettura, ci parla del giusto perseguitato, di colui la cui sola presenza dà fastidio agli empi. L’empio viene descritto come quello che opprime il povero, non ha compassione della vedova né rispetta l’anziano (2,17-20). L’empio ha la pretesa di pensare che la sua forza è la norma della giustizia. Sottomettere i più fragili, usare la forza in una qualsiasi forma, imporre un modo di pensare, un’ideologia, un discorso dominante, usare la violenza o la repressione per piegare quanti semplicemente, con il loro quotidiano agire onesto, semplice, operoso e solidale, manifestano che un altro mondo, un’altra società è possibile. All’empio non basta fare quello che gli pare, lasciarsi guidare dai suoi capricci; non vuole che gli altri, facendo il bene, mettano in risalto questo suo modo di fare. Nell’empio, il male cerca sempre di annientare il bene. Settantacinque anni fa, questa Nazione assisteva alla definitiva distruzione del Ghetto di Vilnius; così culminava l’annientamento di migliaia di ebrei che era già iniziato due anni prima. Come si legge nel Libro della Sapienza, il popolo ebreo passò attraverso oltraggi e tormenti. Facciamo memoria di quei tempi, e chiediamo al Signore che ci faccia dono del discernimento per scoprire in tempo qualsiasi nuovo germe di quell’atteggiamento pernicioso, di qualsiasi aria che atrofizza il cuore delle generazioni che non l’hanno sperimentato e che potrebbero correre dietro quei canti di sirena. Gesù nel Vangelo ci ricorda una tentazione sulla quale dovremo vigilare con attenzione: l’ansia di essere i primi, di primeggiare sugli altri, che può annidarsi in ogni cuore umano. Quante volte è accaduto che un popolo si creda superiore, con più diritti acquisiti, con maggiori privilegi da preservare o conquistare. Qual è il rimedio che propone Gesù quando appare tale pulsione nel nostro cuore e nella mentalità di una società o di un Paese? Farsi l’ultimo di tutti e il servo di tutti; stare là dove nessuno vuole andare, dove non arriva nulla, nella periferia più distante; e servire, creando spazi di incontro con gli ultimi, con gli scartati. Se il potere si decidesse per questo, se permettessimo al Vangelo di Cristo di giungere nel profondo della nostra vita, allora la globalizzazione della solidarietà sarebbe davvero una realtà. «Mentre nel mondo, specialmente in alcuni Paesi, riappaiono diverse forme di guerre e scontri, noi cristiani insistiamo nella proposta di riconoscere l’altro, di sanare le ferite, di costruire ponti, stringere relazioni e aiutarci “a portare i pesi gli uni degli altri” (Gal 6,2)» (Esort. ap. Evangelii gaudium, 67). Qui in Lituania c’è una Collina delle Croci, dove migliaia di persone, lungo i secoli, hanno piantato il segno della croce. Vi invito, mentre preghiamo l’Angelus, a chiedere a Maria che ci aiuti a piantare la croce del nostro servizio, della nostra dedizione lì dove hanno bisogno di noi, sulla collina dove abitano gli ultimi, dove si richiede la delicata attenzione agli esclusi, alle minoranze, per allontanare dai nostri ambienti e dalle nostre culture la possibilità di annientare l’altro, di emarginare, di continuare a scartare chi ci dà fastidio e disturba le nostre comodità. Gesù mette al centro un piccolo, lo mette alla medesima distanza da tutti, perché tutti ci sentiamo provocati a dare una risposta. Facendo memoria del “sì” di Maria, chiediamole che renda il nostro “sì” generoso e fecondo come il suo”. Settantacinque anni fa quell’empio persecutore nazifascista fu distrutto dall’Armata Rossa, non dagli Usa. E oggi nei Paesi Baltici vengono rimossi mausolei e memoriali russi della “liberazione” lituana perchè giudicati “pagani”! Francesco nella Cattedrale dei Santissimi Pietro e Paolo, a Kaunas, Domenica 23 Settembre 2018 nell’incontro con i consacrati e religiosi lituani, invita ad essere sempre innamorati di Dio, testimoni del Suo amore, radicati nella storia luminosa della Chiesa lituana. È la preghiera comune ad introdurre “la parola di incoraggiamento” che i sacerdoti, i consacrati ed i seminaristi chiedono al Papa attraverso il presidente della Commissione degli Ordini religiosi, mons. Vodopjanovas. Dopo l’omaggio alla Vergine, Francesco nel suo discorso con molte aggiunte a braccio chiede ai presenti di non dimenticare il passato, di custodire il bene fatto da molti, di cui spesso non si sa più nulla. Poi esorta a non essere persone tristi ma innamorate di Dio, ad essere evangelizzatori di una Chiesa in uscita. “Guardando voi, vedo dietro di voi tanti martiri. Martiri anonimi – ricorda il Vescovo di Roma – nel senso che neppure sappiamo dove sono stati sepolti. Siete figli di martiri. Questa è la vostra forza. E lo spirito del mondo non venga a dirvi qualche altra cosa diversa da quella che hanno vissuto i vostri antenati. Ricordate i vostri martiri e prendete sempre da loro: non avevano paura”. Il Papa ricorda pure la tentazione per la seconda generazione di religiosi: “non provare più gioia dopo la chiamata, vivere di noia secondo lo spirito della secolarizzazione”. Nel suo discorso, sottolinea che non si è “funzionari di Dio” e che “la società del benessere ci ha resi troppo sazi, pieni di servizi e di beni, e ci ritroviamo appesantiti di tutto. È necessario pregare e adorare, coltivare il desiderio di Dio”, in ascolto della gente. Francesco invoca il servizio al popolo di Dio: “l’ascolto, il condividere la mancanza di senso dei giovani e la solitudine degli anziani, perché la nostra presenza non sia lasciata all’improvvisazione, ma risponda ai bisogni della gente. Ascoltare la voce di Dio nella preghiera – rileva Francesco – ci fa vedere, udire, conoscere il dolore degli altri per poterli liberare. Ma altrettanto dobbiamo essere colpiti quando il nostro popolo ha smesso di gemere, ha smesso di cercare l’acqua che estingue la sete. È un momento anche per discernere che cosa stia anestetizzando la voce della nostra gente”. Il cuore del discorso del Papa è l’invito ai giovani religiosi a rinunciare al loro ministero piuttosto che vivere nella mediocrità: “È meglio che prendiate un’altra strada piuttosto che vivere nella mediocrità. Questo per i giovani. Siete ancora in tempo, e la porta è aperta”. La raccomandazione è soprattutto di guardare alle radici, alla strada percorsa dagli anziani ai quali il Papa chiede di insegnare, di raccontare e proporre. “La violenza usata su di voi per aver difeso la libertà civile e religiosa, la violenza della diffamazione, il carcere e la deportazione non hanno potuto vincere la vostra fede in Gesù Cristo, Signore della storia. La speranza cristiana – ricorda il Papa – si nutre anche delle tribolazioni; le persone che vivono questo si aprono agli altri, diventano un “noi”. Un noi che integra, ma anche supera ed eccede l’io; il Signore ci chiama, ci giustifica e ci glorifica insieme, così insieme da includere tutta la Creazione. Molte volte abbiamo posto così tanto l’accento sulla responsabilità personale che la dimensione comunitaria è diventata uno sfondo, solo un ornamento. Ma lo Spirito Santo ci riunisce, riconcilia le nostre differenze e genera nuovi dinamismi per dare impulso alla missione della Chiesa”. Dando nuovo slancio all’evangelizzazione, Papa Bergoglio si sofferma sulla necessità di non lasciarsi sopraffare dalla tristezza che “è una malattia”, e chiede di fermarsi quando si perde la direzione, quando si intravede il rischio di non essere fecondi. “Tristi perché – avverte il Papa – non trovano l’amore, perché non sono innamorati, innamorati del Signore. Loro hanno lasciato da parte una vita di matrimonio, di famiglia, e hanno voluto seguire il Signore. Ma adesso si sono stancati, sembra. E scende la tristezza. Per favore, quando voi vi troverete tristi, fermatevi. E cercate un prete saggio, una suora saggia. Saggio o saggia perché è stato capace o è stata capace di andare avanti nell’amore. Andate a chiedere consiglio”. Tristezza collegata anche al sentire la vocazione come un’impresa dove non c’è spazio per amare e per lo zelo apostolico. “Cari fratelli e sorelle, se voi non volete essere dei funzionari”, vi dirò una parola: vicinanza. Vicinanza, prossimità. Vicinanza al Tabernacolo, a tu per tu con il Signore. E vicinanza alla gente. “Ma, padre, la gente non viene”. Vai a trovarla! Pastori e non chierici di Stato – rimarca il Santo Padre – ma uomini vicini e misericordiosi in grado di far sentire l’abbraccio del Padre, che perdona. Il confessionale non è lo studio di uno psichiatra. Il confessionale non è per scavare nel cuore della gente”. Francesco poi rivolgendosi alle suore ricorda il loro essere madri, icone della Madonna, e della Chiesa. “La mamma Chiesa non chiacchiera: ama, serve, fa crescere. Vicinanza al Tabernacolo e alla preghiera. Quella sete dell’anima di cui ho parlato, e con gli altri. Servizio sacerdote e vita consacrata non da funzionari, ma di padri e madri di misericordia. E se voi fate così, da vecchi avrete un sorriso bellissimo e degli occhi brillanti! Perché avrete l’anima piena di tenerezza, di mitezza, di misericordia, di amore, di paternità e maternità”. Insegna Papa Francesco: “Prima di tutto, vorrei dire un sentimento che provo. Guardando voi, vedo dietro di voi tanti martiri. Martiri anonimi, nel senso che neppure sappiamo dove sono stati sepolti. Anche qualcuno di voi: ho salutato uno che ha saputo che cos’era la prigione. Mi viene in mente una parola per incominciare: non dimenticatevi, abbiate memoria. Siete figli di martiri, questa è la vostra forza. E lo spirito del mondo non venga a dirvi qualche altra cosa diversa da quella che hanno vissuto i vostri antenati. Ricordate i vostri martiri e prendete esempio da loro: non avevano paura. Parlando con i Vescovi, i vostri Vescovi, oggi, dicevano: “Come si può fare per introdurre la causa di beatificazione per tanti dei quali non abbiamo documenti, ma sappiamo che sono martiri?”. È una consolazione, è bello sentire questo: la preoccupazione per coloro che ci hanno dato testimonianza. Sono dei santi. Il Vescovo (Linas Vodopjanovas, O.F.M., incaricato per la vita consacrata, NdA) ha parlato senza sfumature, i francescani parlano così: “Oggi spesso, in vari modi, viene messa alla prova la nostra fede”, ha detto. Lui non pensava alle persecuzioni dei dittatori, no. “Dopo aver risposto alla chiamata della vocazione spesso non proviamo più gioia né nella preghiera né nella vita comunitaria”. Lo spirito della secolarizzazione, della noia per tutto quello che tocca la comunità è la tentazione della seconda generazione. I nostri padri hanno lottato, hanno sofferto, sono stati carcerati e forse noi non abbiamo la forza di andare avanti. Tenete conto di questo! La Lettera agli Ebrei fa un’esortazione: “Non dimenticatevi dei primi giorni. Non dimenticatevi dei vostri antenati” (10,32-39). Questa è l’esortazione che all’inizio rivolgo a voi. Tutta la visita al vostro Paese è stata incorniciata in questa espressione: “Cristo Gesù, nostra speranza”. Ormai quasi al termine di questo giorno, troviamo un testo dell’apostolo Paolo che ci invita a sperare con costanza. E questo invito lo fa dopo averci annunciato il sogno di Dio per ogni essere umano, di più, per tutto il Creato: cioè che «tutto concorre al bene di coloro che amano Dio» (Rm 8,28); «raddrizza» tutte le cose, sarebbe la traduzione letterale. Oggi vorrei condividere con voi alcuni tratti caratteristici di questa speranza; tratti che noi – sacerdoti, seminaristi, consacrati e consacrate – siamo chiamati a vivere. Anzitutto, prima di invitarci alla speranza, Paolo ha ripetuto tre volte la parola “gemere”: geme la creazione, gemono gli uomini, geme lo Spirito in noi (Rm 8,22-23.26). Si geme per la schiavitù della corruzione, per l’anelito alla pienezza. E oggi ci farà bene domandarci se quel gemito è presente in noi, o se invece nulla più grida nella nostra carne, nulla anela al Dio vivente. Come diceva il vostro Vescovo: “Non proviamo più la gioia nella preghiera, nella vita comunitaria”. Il bramito della cerva assetata davanti alla carenza di acqua dovrebbe essere il nostro nella ricerca della profondità, della verità, della bellezza di Dio. Cari, noi non siamo “funzionari di Dio”! Forse la società del benessere ci ha resi troppo sazi, pieni di servizi e di beni, e ci ritroviamo appesantiti di tutto e pieni di nulla; forse ci ha resi storditi o dissipati, ma non pieni. Peggio ancora: a volte non sentiamo più la fame. Siamo noi, uomini e donne di speciale consacrazione, coloro che non possono mai permettersi di perdere quel gemito, quell’inquietudine del cuore che solo nel Signore trova riposo (cfr S. Agostino, Confessioni, I,1,1). L’inquietudine del cuore. Nessuna informazione immediata, nessuna comunicazione virtuale istantanea può privarci dei tempi concreti, prolungati, per conquistare – di questo si tratta, di uno sforzo costante – per conquistare un dialogo quotidiano con il Signore attraverso la preghiera e l’adorazione. Si tratta di coltivare il nostro desiderio di Dio, come scriveva san Giovanni della Croce. Diceva così: «Sia assiduo all’orazione senza tralasciarla neppure in mezzo alle occupazioni esteriori. Sia che mangi o beva, sia che parli o tratti con i secolari o faccia qualche altra cosa, desideri sempre Dio tenendo in Lui l’affetto del cuore» (Consigli per raggiungere la perfezione, 9). Questo gemito deriva anche dalla contemplazione del mondo degli uomini, è un appello alla pienezza di fronte ai bisogni insoddisfatti dei nostri fratelli più poveri, davanti alla mancanza di senso della vita dei più giovani, alla solitudine degli anziani, ai soprusi contro l’ambiente. È un gemito che cerca di organizzarsi per incidere sugli eventi di una nazione, di una città; non come pressione o esercizio di potere, ma come servizio. Il grido del nostro popolo ci deve colpire, come Mosè, al quale Dio rivelò la sofferenza del suo popolo nell’incontro presso il roveto ardente (Es 3,9). Ascoltare la voce di Dio nella preghiera ci fa vedere, ci fa udire, conoscere il dolore degli altri per poterli liberare. Ma altrettanto dobbiamo essere colpiti quando il nostro popolo ha smesso di gemere, ha smesso di cercare l’acqua che estingue la sete. È un momento anche per discernere che cosa stia anestetizzando la voce della nostra gente. Il grido che ci fa cercare Dio nella preghiera e nell’adorazione è lo stesso che ci fa ascoltare il lamento dei nostri fratelli. Loro “sperano” in noi e abbiamo bisogno, a partire da un attento discernimento, di organizzarci, programmare ed essere audaci e creativi nel nostro apostolato. Che la nostra presenza non sia lasciata all’improvvisazione, ma risponda ai bisogni del popolo di Dio e sia quindi fermento nella massa (Esort. ap. Evangelii gaudium, 33). Ma l’Apostolo parla anche di costanza, costanza nella sofferenza, costanza nel perseverare nel bene. Questo significa essere centrati in Dio, rimanere fermamente radicati in Lui, essere fedeli al suo amore. Voi, i più anziani di età – come non menzionare Mons. Sigitas Tamkevicius? – sapete testimoniare questa costanza nel patire, questo “sperare contro ogni speranza” (Rm 4,18). La violenza usata su di voi per aver difeso la libertà civile e religiosa, la violenza della diffamazione, il carcere e la deportazione non hanno potuto vincere la vostra fede in Gesù Cristo, Signore della storia. Per questo, avete molto da dirci e insegnarci, e anche molto da proporre, senza dover giudicare l’apparente debolezza dei più giovani. E voi, più giovani, quando davanti alle piccole frustrazioni che vi scoraggiano tendete a chiudervi in voi stessi, a ricorrere a comportamenti ed evasioni che non sono coerenti con la vostra consacrazione, cercate le vostre radici e guardate la strada percorsa dagli anziani. Vedo che ci sono giovani qui. Ripeto, perché ci sono dei giovani. E voi, più giovani, quando davanti alle piccole frustrazioni che vi scoraggiano tendete a chiudervi in voi stessi, a ricorrere a comportamenti ed evasioni che non sono coerenti con la vostra consacrazione, cercate le vostre radici e guardate la strada percorsa dagli anziani. È meglio che prendiate un’altra strada piuttosto che vivere nella mediocrità. Questo per i giovani. Siete ancora in tempo, e la porta è aperta. Sono proprio le tribolazioni a delineare i tratti distintivi della speranza cristiana, perché quando è solo una speranza umana possiamo frustrarci e schiacciarci nel fallimento; ma non accade lo stesso con la speranza cristiana: essa esce più limpida, più provata dal crogiolo delle tribolazioni. È vero che questi sono altri tempi e viviamo in altre strutture, ma è anche vero che questi consigli vengono meglio assimilati quando coloro che hanno vissuto quelle dure esperienze non si chiudono, ma le condividono approfittando dei momenti comuni. Le loro storie non sono piene di nostalgie di tempi passati presentati come migliori, né di accuse dissimulate verso quanti hanno strutture affettive più fragili. La provvista di costanza di una comunità di discepoli è efficace quando sa integrare – come quello scriba del Vangelo – il nuovo e il vecchio (Mt 13,52), quando è consapevole che la storia vissuta è radice affinché l’albero possa fiorire. Infine, guardare a Cristo Gesù come nostra speranza significa identificarci con Lui, partecipare comunitariamente al suo destino. Per l’apostolo Paolo, la salvezza sperata non si limita a un aspetto negativo – liberazione da una tribolazione interna o esterna, temporale o escatologica – ma l’accento è posto su qualcosa di altamente positivo: la partecipazione alla vita gloriosa di Cristo (1Ts 5,9-10), la partecipazione al suo Regno glorioso (2Tm 4,18), la redenzione del corpo (Rm 8,23-24). Dunque, si tratta di intravedere il mistero del progetto unico e irripetibile che Dio ha per ognuno, per ognuno di noi. Perché non c’è nessuno che ci conosca e ci abbia conosciuto tanto profondamente come Dio, perciò Egli ci ha destinati a qualcosa che sembra impossibile: scommette senza possibilità di errore che noi riproduciamo l’immagine di suo Figlio. Egli ha riposto le sue aspettative in noi, e noi speriamo in Lui. Noi: un “noi” che integra, ma anche supera ed eccede l’“io”; il Signore ci chiama, ci giustifica e ci glorifica insieme, così insieme da includere tutta la creazione. Molte volte abbiamo posto così tanto l’accento sulla responsabilità personale che la dimensione comunitaria è diventata uno sfondo, solo un ornamento. Ma lo Spirito Santo ci riunisce, riconcilia le nostre differenze e genera nuovi dinamismi per dare impulso alla missione della Chiesa (Esort. ap. Evangelii gaudium, 131; 235). Questo tempio in cui ci siamo radunati, è intitolato ai Santi Pietro e Paolo. Entrambi gli Apostoli furono consapevoli del tesoro che era stato loro dato, entrambi, in momenti e modi diversi, furono invitati a “prendere il largo” (Lc 5,4). Sulla barca della Chiesa ci siamo tutti, cercando sempre di gridare a Dio, di essere costanti in mezzo alle tribolazioni e di avere Cristo Gesù comeoggetto della nostra speranza. E questa barca, riconosce al centro della propria missione l’annuncio di quella gloria sperata, che è la presenza di Dio in mezzo al suo popolo, in Cristo Risorto, e che un giorno, atteso con ansia da tutta la creazione, si manifesterà nei figli di Dio. Questa è la sfida che ci spinge: il mandato di evangelizzare. È la ragione della nostra speranza e della nostra gioia. Quante volte troviamo sacerdoti, consacrati e consacrate, tristi. La tristezza spirituale è una malattia. Tristi perché non sanno. Tristi perché non trovano l’amore, perché non sono innamorati: innamorati del Signore. Hanno lasciato da parte una vita di matrimonio, di famiglia, e hanno voluto seguire il Signore. Ma adesso sembra che si siano stancati. E scende la tristezza. Per favore, quando voi vi troverete tristi, fermatevi. E cercate un prete saggio, una suora saggia. Non saggi perché siano laureati all’università, no, non per quello. Saggio o saggia perché è stato capace o è stata capace di andare avanti nell’amore. Andate a chiedere consiglio. Quando incomincia quella tristezza, possiamo profetizzare che se non è guarita in tempo farà di voi “zitelloni” e “zitellone”, uomini e donne che non sono fecondi. E di questa tristezza abbiate paura! La semina il diavolo. E oggi quel mare in cui “prendere il largo” saranno gli scenari e le sfide sempre nuove di questa Chiesa in uscita. Dobbiamo domandarci nuovamente: che cosa ci chiede il Signore? Quali sono le periferie che più hanno bisogno della nostra presenza per portare ad esse la luce del Vangelo? (Esort. ap. Evangelii gaudium, 20). Altrimenti, se voi non avete la gioia della vocazione, chi potrà credere che Gesù Cristo è la nostra speranza? Solo il nostro esempio di vita darà ragione della nostra speranza in Lui. C’è un’altra cosa che si collega con la tristezza: confondere la vocazione con un’impresa, con una ditta di lavoro. “Io mi impiego in questo, lavoro in questo, mi entusiasmo con questo, e sono felice perché ho questo”. Ma domani, viene un vescovo, un altro o lo stesso, o viene un altro superiore, superiora, e ti dice: “No, taglia questo e va da quella parte”. È il momento della sconfitta. Perché? Perché, in quel momento, ti accorgerai di essere andato per una strada equivoca. Ti accorgerai che il Signore, che ti ha chiamato per amare, è deluso da te, perché tu hai preferito fare l’affarista. All’inizio vi ho detto che la vita di chi segue Gesù non è la vita di funzionario o funzionaria: è la vita dell’amore del Signore e dello zelo apostolico per la gente. Farò una caricatura: cosa fa un prete funzionario? Ha il suo orario, il suo ufficio, apre l’ufficio a quell’ora, fa il suo lavoro, chiude l’ufficio… E la gente è fuori. Non si avvicina alla gente. Cari fratelli e sorelle, se voi non volete essere dei funzionari, vi dirò una parola: vicinanza! Vicinanza, prossimità. Vicinanza al Tabernacolo, a tu per tu con il Signore. E vicinanza alla gente. “Ma, padre, la gente non viene”. Vai a trovarla! “Ma, i ragazzi oggi non vengono”. Inventa qualcosa: l’oratorio, per seguirli, per aiutarli. Vicinanza con la gente. E vicinanza con il Signore nel Tabernacolo. Il Signore vi vuole pastori di popolo, e non chierici di Stato! Dopo dirò qualcosa alle suore, ma dopo. Vicinanza vuol dire misericordia. In questa terra dove Gesù si è rivelato come Gesù misericordioso, un sacerdote non può non essere misericordioso. Soprattutto nel confessionale. Pensate a come Gesù accoglierebbe questa persona (che viene a confessarsi). Già abbastanza lo ha bastonato la vita, quel poveraccio! Fagli sentire l’abbraccio del Padre che perdona. Se non puoi dargli l’assoluzione, per esempio, dagli la consolazione del fratello, del padre. Incoraggialo ad andare avanti. Convincilo che Dio perdona tutto. Ma questo col calore di padre. Mai cacciare qualcuno dal confessionale! Mai cacciare via. “Guarda, tu non puoi. Adesso non posso, ma Dio ti ama, tu prega, ritorna e parleremo”. Così. Vicinanza. Questo è essere padre. A te non importa di quel peccatore, che lo cacci via così? Non sto parlando di voi, perché non vi conosco. Parlo di altre realtà. E misericordia. Il confessionale non è lo studio di uno psichiatra. Il confessionale non è per scavare nel cuore della gente. E per questo, cari sacerdoti, vicinanza per voi significa anche avere viscere di misericordia. E le viscere di misericordia, sapete dove si prendono? Lì, al Tabernacolo. E voi, care suore. Tante volte si vedono suore che sono brave – tutte le suore sono brave – ma che chiacchierano, chiacchierano, chiacchierano. Domandate a quella che è al primo posto dall’altra parte – la penultima – se nel carcere aveva tempo di chiacchierare, mentre cuciva i guanti. Domandatele. Per favore, siate madri! Siate madri, perché voi siete icona della Chiesa e della Madonna. E ogni persona che vi vede, possa vedere la mamma Chiesa e la mamma Maria. Non dimenticate questo. E la mamma Chiesa non è “zitellona”. La mamma Chiesa non chiacchiera: ama, serve, fa crescere. La vostra vicinanza è essere madre: icona della Chiesa e icona della Madonna. Vicinanza al Tabernacolo e alla preghiera. Quella sete dell’anima di cui ho parlato, e con gli altri. Servizio sacerdotale e vita consacrata non da funzionari, ma di padri e madri di misericordia. E se voi fate così, da vecchi avrete un sorriso bellissimo e degli occhi brillanti! Perché avrete l’anima piena di tenerezza, di mitezza, di misericordia, di amore, di paternità e maternità. E pregate per questo povero vescovo. Grazie!”. Segue il trasferimento al Museo delle occupazioni e delle lotte per la libertà, con breve sosta di preghiera al Monumento delle Vittime del Ghetto in Piazza Rūdnikų. Papa Bergoglio visita i luoghi legati a pagine drammatiche della storia della Lituania. E recita una preghiera che si apre con queste parole: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato? Il tuo grido, Signore, non cessa di risuonare, e riecheggia tra queste mura”. È uno dei momenti centrali del 25mo Viaggio Apostolico di Papa Francesco nei Paesi Baltici che si snoda, a Vilnius, attraverso tre baluardi della memoria: il Monumento per le vittime del ghetto, il Museo delle occupazioni e delle lotte per la libertà e il Monumento alle vittime della “occupazione” sovietica. Il primo momento di raccoglimento riapre le laceranti e orribili ferite provocate dalla tragedia dello sterminio e della deportazione dopo l’invasione nazista. Nel giorno del 75mo anniversario della distruzione del ghetto di Vilnius, il Papa depone un omaggio floreale davanti al monumento nella centrale piazza Rudininku. Prima dell’occupazione da parte delle forze germaniche naziste, in Lituania vivevano circa 250mila Ebrei. La popolazione del ghetto, deportata il 23 Settembre del 1943 con la complicità di forze locali, fu quasi interamente sterminata. Oggi, in Lituania, vivono circa 4mila Ebrei. Un secondo momento, denso di silenzi e preghiere, è vissuto da Papa Francesco nell’edificio del Museo delle occupazioni e delle lotte per la libertà. È il luogo  dove si ricordano le drammatiche pagine dell’occupazione nazista e sovietica, messe sullo stesso piano storico in Lituania. In questo edificio, prima la polizia nazista della Gestapo e successivamente gli agenti sovietici del Kgb avrebbero torturato e ucciso almeno un migliaio di prigionieri. Francesco visita in particolare le due impressionanti celle di isolamento, la n. 9 e la n. 11, della larghezza di sessanta centimetri, dove accende una candela. Nella cella numero 11 sono esposte, in particolare, le fotografie e le storie di alcuni vescovi cattolici perseguitati per la loro fede, tra cui l’arcivescovo Teofilo Matulionis, proclamato beato il 25 Giugno 2017. In questo edificio è stato ucciso, il 18 Novembre 1946, mons. Vincentas Borisevičius, vescovo della diocesi di Telšiai. Il silenzio scandisce la visita nella sala delle esecuzioni. Il Pontefice quindi firma il libro degli ospiti a ricordo della sua visita. Il Papa infine sosta davanti al Monumento delle vittime dell’occupazione sovietica. Da questo luogo, dove la memoria continua a custodire la storia, il Vescovo di Roma eleva la sua preghiera: “Il tuo grido, Signore non cessa di risuonare, e riecheggia tra queste mura che ricordano le sofferenze vissute da tanti figli di questo popolo. Che il tuo grido, Signore, ci liberi dalla malattia spirituale da cui, come popolo, siamo sempre tentati: dimenticarci dei nostri padri, di quanto è stato vissuto e patito. Signore, non permettere che siamo sordi al grido di tutti quelli che oggi continuano ad alzare la voce al Cielo”. Nel 1944 l’Armata Rossa, nel liberare l’Europa dalle forze del male nazifasciste, rioccupa le tre Repubbliche baltiche incorporandole nello Stato sovietico (Urss). Oltre 200mila tra Estoni, Lettoni e Lituani prigionieri di guerra e complici del regime nazista, vengono deportati in Siberia o sono stati costretti a fuggire all’estero. Accompagnano Papa Bergoglio, prima del momento di raccoglimento davanti al Monumento delle vittime dell’occupazione sovietica, un vescovo cattolico superstite della persecuzione e un discendente di deportati. Al termine della visita, scandita dal silenzio e da ricordi fortificati dalla preghiera, il Pontefice si reca in nunziatura. La preghiera di Francesco è scandita lentamente: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?(Mt 27,47). Il Tuo grido, Signore, non cessa di risuonare, e riecheggia tra queste mura che ricordano le sofferenze vissute da tanti figli di questo popolo. Lituani e provenienti da diverse nazioni hanno sofferto nella loro carne il delirio di onnipotenza di quelli che pretendevano di controllare tutto. Nel Tuo grido, Signore, trova eco il grido dell’innocente che si unisce alla Tua voce e si leva verso il Cielo. È il Venerdì Santo del dolore e dell’amarezza, della desolazione e dell’impotenza, della crudeltà e del non senso che ha vissuto questo popolo lituano di fronte all’ambizione sfrenata che indurisce e acceca il cuore. In questo luogo della memoria, ti imploriamo, Signore, che il Tuo grido ci mantenga svegli. Che il Tuo grido, Signore, ci liberi dalla malattia spirituale da cui, come popolo, siamo sempre tentati: dimenticarci dei nostri padri, di quanto è stato vissuto e patito. Che nel Tuo grido e nella vita dei nostri padri che tanto hanno sofferto possiamo trovare il coraggio di impegnarci con determinazione nel presente e nel futuro; che quel grido sia stimolo per non adeguarci alle mode del momento, agli slogan semplificatori, e ad ogni tentativo di ridurre e togliere a qualsiasi persona la dignità di cui Tu l’hai rivestita. Signore, che la Lituania sia faro di speranza. Sia terra della memoria operosa che rinnova gli impegni contro ogni ingiustizia. Che promuova creativi sforzi nella difesa dei diritti di tutte le persone, specialmente dei più indifesi e vulnerabili. E che sia maestra nel riconciliare e armonizzare le diversità. Signore, non permettere che siamo sordi al grido di tutti quelli che oggi continuano ad alzare la voce al cielo”. Segue la benedizione in latino. Papa Francesco arriva in Lettonia puntuale, alle ore 8,20 locali, all’aeroporto internazionale di Riga, dopo un volo di un’ora da Vilnius. Con il Pontefice viaggia il nunzio apostolico dei Paesi Baltici mons. Pedro Lopez Quintana. Il Presidente della Repubblica Vējonis lo accoglie ai piedi della scaletta dell’aereo AirBaltic, insieme a due bambini in abito tradizionale, che gli offrono dei fiori. Salutano Francesco anche l’ambasciatore lettone alla Santa Sede, Veronika Erte, il presidente della Conferenza episcopale, mons. Janis Bulis, l’arcivescovo di Riga, Zbignevs Stankevics, e il coordinatore locale della visita. Il Papa e il presidente passano poi davanti al picchetto d’onore, mentre un gruppo di ragazze in costume tipico esegue musiche con il kanclés, il tipico strumento a corde dei Baltici. Il corteo di auto con Papa Francesco raggiunge il castello di Riga, fondato sul fiume Daugaya nell’Anno Domini 1330, residenza ufficiale del Presidente della Lettonia. Raimonds Vējonis, 52 anni, che è alla guida della Lettonia dal 2015, accoglie Francesco nel cortile del castello, e dopo la cerimonia di benvenuto, lo accompagna nel Salone Bianco, per la foto ufficiale e la firma del libro d’onore. Il Vescovo di Roma, in inglese, scrive: “Sono grato a Lei e ai suoi compatrioti per il generoso benvenuto nel vostro Paese, e prego Dio Onnipotente perché benedica in abbondanza il popolo lettone”. Quindi dona al suo ospite un quadro a mosaico raffigurante la “Mater Ecclesiae”, copia dell’immagine musiva che San Giovanni Paolo II nel 1981, dopo l’attentato del 13 Maggio, volle far collocare su di una parete dei Palazzi Apostolici, visibile da Piazza San Pietro, a testimonianza e pegno della materna protezione celeste sul Papa e sulla Chiesa. Segue l’incontro privato, al termine del quale il Presidente Vējonis presenta a Papa Francesco la moglie e i due figli. Quindi il Capo di Stato accompagna il Pontefice nel Salone degli Ambasciatori, dove li attendono 500 persone tra autorità politiche, rappresentanti della società civile e membri del corpo diplomatico. Nel suo saluto, il Presidente lettone Raimonds Vējonis sottolinea che “non è immaginabile uno Stato forte senza famiglie forti. Fede, speranza e amore sono le basi solide sulle quali edificare la famiglia. Nella famiglia inizia l’amore ed il rispetto per la propria terra. Proprio per questo è importante che ogni bambino cresca in un ambiente amorevole e familiare. Spero che fra poco potremo vedere la Lettonia senza orfanotrofi”. Anche se la Lettonia si è sviluppata rapidamente, ricorda, ci sono ancora molti poveri e molti decidono di emigrare. Per questo “dobbiamo non solo creare una società più giusta, ma anche rivedere i nostri valori nell’insieme”. La divisione dell’Europa, che non può essere imputata alla Russia, porta solo sofferenze. Vējonis ringrazia Papa Francesco per il suo impegno a favore di una “Europa unita nella sua diversità, perché il destino dei Paesi baltici nel XXI Secolo è una testimonianza vivente del fatto che la divisione dell’Europa porta solo sofferenze. Il futuro è in una Unione basata sui diritti umani, la democrazia e la solidarietà, piuttosto che su interessi e benefici egoistici. È un’esperienza dolorosa vedere i cambiamenti nel Mar Baltico. I problemi della giustizia sociale sono direttamente legati alla sostenibilità dell’ambiente ed al cambiamento climatico”. E si dice convinto che la visita di Papa Francesco “toccherà molti cuori, stimolando un cambiamento positivo in ciascuno di noi ed in tutto il mondo”. Papa Francesco, nella prima tappa del suo viaggio in Lettonia, nel Palazzo presidenziale di Riga, Lunedì 24 Settembre 2018, chiede alle autorità e la società civile di “puntare più in alto dei nostri interessi particolari per trasformare in solidarietà la comprensione e l’impegno reciproci. Così si fa la storia, e i conflitti e le tensioni possono raggiungere un’unità multiforme che genera nuova vita”. Il Papa fa appello alla “capacità spirituale di guardare oltre” che ha sostenuto il popolo della Lettonia nella ricostruzione della Nazione, segnata in passato da “dure prove sociali, politiche, economiche e anche spirituali, dovute a divisioni e conflitti. Questa – spiega Francesco – vi ha dato la creatività necessaria per dar vita a nuove dinamiche sociali di fronte a tutti i tentativi riduzionisti e di esclusione che minacciano sempre il tessuto sociale. La Lettonia, terra dei “dainas”, ha saputo cambiare il suo lamento e il suo dolore in canto e danza e si è sforzata di trasformarsi in un luogo di dialogo e di incontro, di convivenza pacifica che cerca di guardare avanti”. Una libertà resa possibile da “radici che sono in cielo”. Nel centenario dell’indipendenza della Lettonia, Francesco ricorda che la libertà conquistata e riconquistata è “resa possibile grazie alle radici che vi costituiscono. Sono lieto di sapere che nel cuore delle radici che costituiscono questa terra si trova la Chiesa Cattolica, in un’opera di piena collaborazione con le altre Chiese cristiane, il che è segno di come sia possibile sviluppare una comunione nelle differenze. Realtà che si verifica quando le persone hanno il coraggio di andare al di là della superficie conflittuale e si guardano nella loro dignità più profonda”. Libertà è impegnarsi nello sviluppo integrale delle persone. “La libertà e l’indipendenza della Lettonia – rileva Francesco – sono un dono, ma sono anche un compito che coinvolge tutti. Lavorare per la libertà significa impegnarsi in uno sviluppo integrale e integrante delle persone e della comunità. Se oggi si può fare festa è grazie a tanti che hanno aperto strade, porte, futuro, e vi hanno lasciato in eredità la stessa responsabilità: aprire futuro avendo di mira che tutto sia al servizio della vita, generi vita”. Nel Salone dei ricevimenti del Palazzo Presidenziale di Riga in Lettonia, dichiara Francesco: “La ringrazio, Signor Presidente, per le sue gentili parole di benvenuto, come pure per l’invito a farvi visita rivoltomi durante l’incontro che abbiamo avuto in Vaticano. È motivo di gioia potermi trovare per la prima volta in Lettonia e in questa città, che, come tutto il vostro Paese, è stata segnata da dure prove sociali, politiche, economiche e anche spirituali – dovute alle divisioni e ai conflitti del passato – ma che oggi è diventata uno dei principali centri culturali, politici e portuali della regione. I vostri rappresentanti nel campo della cultura e dell’arte, in particolare del mondo musicale, sono ben conosciuti all’estero. Anch’io oggi ho potuto apprezzarli al mio arrivo in aeroporto. Perciò penso che a voi si possano ben applicare le parole del salmista: «Hai mutato il mio lamento in danza» (Sal 30,12). La Lettonia, terra dei “dainas”, ha saputo cambiare il suo lamento e il suo dolore in canto e danza e si è sforzata di trasformarsi in un luogo di dialogo e di incontro, di convivenza pacifica che cerca di guardare avanti. Celebrate i cento anni della vostra indipendenza, momento significativo per la vita dell’intera società. Voi conoscete molto bene il prezzo di questa libertà che avete dovuto conquistare e riconquistare. Una libertà resa possibile grazie alle radici che vi costituiscono, come amava ricordare Zenta Maurina che ha ispirato tanti di voi: «Le mie radici sono in cielo». Senza questa capacità di guardare in alto, di fare appello a orizzonti più alti che ci ricordano quella “dignità trascendente” che è parte integrante di ogni essere umano (Discorso al Parlamento Europeo, 25 novembre 2014), non sarebbe stata possibile la ricostruzione della vostra Nazione. Tale capacità spirituale di guardare oltre, che si fa concreta in piccoli gesti quotidiani di solidarietà, di compassione e di aiuto reciproco, vi ha sostenuto e, a sua volta, vi ha dato la creatività necessaria per dar vita a nuove dinamiche sociali di fronte a tutti i tentativi riduzionisti e di esclusione che minacciano sempre il tessuto sociale. Sono lieto di sapere che nel cuore delle radici che costituiscono questa terra si trova la Chiesa Cattolica, in un’opera di piena collaborazione con le altre Chiese cristiane, il che è segno di come sia possibile sviluppare una comunione nelle differenze. Realtà che si verifica quando le persone hanno il coraggio di andare al di là della superficie conflittuale e si guardano nella loro dignità più profonda. Così possiamo affermare che ogni volta che, come persone e comunità, impariamo a puntare più in alto di noi stessi e dei nostri interessi particolari, la comprensione e l’impegno reciproci si trasformano in solidarietà; e questa, intesa nel suo significato più profondo e di sfida, diventa un modo di fare la storia, in un ambito dove i conflitti, le tensioni e anche quelli che si sarebbero potuti considerare opposti in passato, possono raggiungere un’unità multiforme che genera nuova vita (Esort. ap.Evangelii gaudium, 228). Così come ha nutrito la vita del vostro popolo, oggi il Vangelo può continuare ad aprire strade per affrontare le sfide attuali, valorizzando le differenze e soprattutto promuovendo la comune-unione tra tutti. La celebrazione del centenario ricorda l’importanza di continuare a scommettere sulla libertà e l’indipendenza della Lettonia, che certamente sono un dono, ma sono anche un compito che coinvolge tutti. Lavorare per la libertà significa impegnarsi in uno sviluppo integrale e integrante delle persone e della comunità. Se oggi si può fare festa è grazie a tanti che hanno aperto strade, porte, futuro, e vi hanno lasciato in eredità la stessa responsabilità: aprire futuro avendo di mira che tutto sia al servizio della vita, generi vita. E, in tale prospettiva, al termine di questo incontro ci recheremo al Monumento alla Libertà, dove saranno presenti bambini, giovani e famiglie. Essi ci ricordano che la “maternità” della Lettonia – analogia suggerita dal motto di questo viaggio – trova eco nella capacità di promuovere strategie che siano veramente efficaci e focalizzate sui volti concreti di queste famiglie, di questi anziani, bambini e giovani, più che sul primato dell’economia sopra la vita. La “maternità” della Lettonia si manifesta anche nella capacità di creare opportunità di lavoro, in modo che nessuno debba sradicarsi per costruire il proprio futuro. L’indice di sviluppo umano si misura anche dalla capacità di crescere e moltiplicarsi. Lo sviluppo delle comunità non si attua e nemmeno si misura unicamente per la capacità di beni e risorse che si possiedono, ma per il desiderio che si ha di generare vita e creare futuro. Questo è possibile solo nella misura in cui ci sono radicamento nel passato, creatività nel presente e fiducia e speranza nel domani. E si misura dalla capacità di spendersi e di scommettere così come le generazioni passate ci hanno saputo testimoniare. Signor Presidente, amici tutti, inizio qui il mio pellegrinaggio in questa terra, chiedendo a Dio di continuare ad accompagnare, benedire e rendere prospera l’opera delle vostre mani per questa Nazione”. Poi il Papa e il Presidente si trasferiscono al Monumento della Libertà, alto 42 metri, eretto nel 1935 dove sorgeva fino al 1910 una statua equestre dello zar Pietro il Grande, il padre della Russia moderna. Esempio di grande rispetto della Storia europea che ama distruggere la propria memoria piuttosto che trasmetterla! Sulla sommità di un obelisco si leva una figura femminile in rame, rappresentazione della libertà che i lettoni chiamano affettuosamente Milda, che solleva con le braccia tre stelle d’oro, simbolegginati le regioni di Curlandia, Livonia e Letgallia. Ai piedi dell’obelisco ci sono sculture dedicate ai fucilieri lettoni, al lavoro, ai cantanti, ai guardiani della madrepatria e agli studenti. La dedica sulla base è del poeta Karlis Skalbe: “Per la patria e la libertà”. Dopo gli onori alle bandiere, Papa Francesco riceve da una guardia d’onore una corona di fiori che depone al monumento. Il Papa e il Presidente si soffermano alcuni istanti in silenzio, prima che Francesco saluti una decina di persone, bambini, giovani e famiglie. Segue la preghiera ecumenica nella Cattedrale evangelica luterana di Santa Maria a Riga, in Lettonia, dove il Vescovo di Roma prega affinché “dalla testimonianza dei nostri fratelli che oggi vivono l’esilio e persino il martirio a causa della fede, possiamo scoprire che il Signore ci chiama a vivere il Vangelo con gioia, gratitudine e radicalità. Essere discepoli missionari del Signore in mezzo al mondo in cui viviamo, è l’esortazione del Papa ai fedeli delle diverse Chiese cristiane della Lettonia che rappresentano circa il 60% della popolazione. Dopo aver salutato i 10 capi delle denominazioni cristiane e aver venerato la tomba di San Meinardo, Francesco prega affinché “continui a suonare la musica del Vangelo in una terra, la Lettonia, che si caratterizza per realizzare un cammino di rispetto, collaborazione e amicizia ecumenici, dove si è generata una unità mantenendo la ricchezza e la singolarità di ciascuna comunità cristiana, con un ecumenismo vivo che è motivo di speranza e rendimento di grazie”. L’unica strada possibile per l’ecumenismo è la preghiera di Gesù al Padre, prima del suo sacrificio, “guardando in faccia la Sua croce e la croce di tanti nostri fratelli, che traccia il sentiero e ci indica la via da seguire – spiega il Papa – immersi nella Sua preghiera, come credenti in Lui e nella sua Chiesa, desiderando la comunione di grazia che il Padre possiede da tutta l’Eternità, troviamo lì l’unica strada possibile per ogni ecumenismo: nella croce della sofferenza di tanti giovani, anziani e bambini esposti spesso allo sfruttamento, al non senso, alla mancanza di opportunità e alla solitudine. Mentre guarda al Padre e a noi Suoi fratelli, Gesù non smette di implorare: che tutti siano uno”. Un lavoro artigianale è in fondo la Creazione, come sembra emergere dalla meravigliosa foto del Telescopio Spaziale Planck. E proprio salutando l’arcivescovo Jānis Vanags, che prima aveva tenuto un breve discorso in cui aveva ricordato il “pesante mezzo secolo sotto il giogo ateo sovietico”, Francesco nota che ne è testimonianza proprio la Cattedrale della capitale lettone che “da più di 800 anni ospita la vita cristiana” della città, “testimone fedele di tanti nostri fratelli che vi si sono accostati per adorare, pregare, sostenere la speranza in tempi di sofferenza e trovare coraggio per affrontare periodi colmi di ingiustizia e di dolore. Oggi ci ospita perché lo Spirito Santo continui a tessere artigianalmente legami di comunione tra noi e, così, renda anche noi artigiani di unità tra la nostra gente, così che le nostre differenze non diventino divisioni. Lasciamo che lo Spirito Santo ci rivesta con le armi del dialogo, della comprensione, della ricerca del rispetto reciproco e della fraternità”. La tradizione cristiana non diventi, però, oggetto del passato come l’organo della Cattedrale, tra i più antichi d’Europa, che per i residenti è parte integrante di vita, tradizione e identità locali mentre per i turisti è un oggetto artistico “da conoscere e fotografare”. Papa Bergoglio ricorda il “pericolo che sempre si corre: quello di passare da residenti a turisti, facendo di ciò che ci identifica un oggetto del passato, un’attrazione turistica e da museo che ricorda le gesta di un tempo, di alto valore storico, ma che ha cessato di far vibrare il cuore di quanti lo ascoltano”. Come tante chiese danneggiate e/o sconsacrate in Italia dove l’ateismo del materialismo etico privato, avanza inesorabile nelle periferie, alimentato dalle calamità naturali come i terremoti, museificando il Cristianesimo italiano! “Con la fede ci può succedere esattamente la stessa cosa – avverte Papa Francesco – possiamo smettere di sentirci cristiani residenti per diventare dei turisti. Di più, potremmo affermare che tutta la nostra tradizione cristiana può subire la stessa sorte: finire ridotta a un oggetto del passato che, chiuso tra le pareti delle nostre chiese, cessa di intonare una melodia capace di smuovere e ispirare la vita e il cuore di quelli che la ascoltano. Tuttavia, come afferma il Vangelo che abbiamo ascoltato, la nostra fede non è destinata a stare nascosta, ma ad esser fatta conoscere e risuonare in diversi ambiti della società, perché tutti possano contemplare la sua bellezza ed essere illuminati dalla sua luce”. Se infatti la “musica del Vangelo smetterà di essere eseguita nella nostra vita, diventando una bella partitura del passato – è il monito del Santo Padre dai Paesi Baltici – non saprà più rompere le monotonie asfissianti che impediscono di animare la speranza, rendendo così sterili tutti i nostri sforzi; e perderemo la gioia che scaturisce dalla compassione, la tenerezza che nasce dalla fiducia, la capacità della riconciliazione che trova la sua fonte nel saperci sempre perdonati-inviati. Se la musica del Vangelo smette di suonare nelle nostre case, nelle nostre piazze, nei luoghi di lavoro, nella politica e nell’economia, avremo spento la melodia che ci provocava a lottare per la dignità di ogni uomo e donna di qualunque provenienza, rinchiudendoci nel “mio”, dimenticandoci del “nostro”: la casa comune che ci riguarda tutti. E, inoltre, avremo perso i suoni che condurranno la nostra vita al Cielo, trincerandoci in uno dei mali peggiori del nostro tempo”. La solitudine e l’isolamento. “La malattia che nasce in chi non ha alcun legame, e che si può riscontrare negli anziani abbandonati al loro destino, come pure nei giovani senza punti di riferimento e opportunità per il futuro”. La sollecitazione di Papa Bergoglio è a non avere “un atteggiamento di chiusura, di difesa e nemmeno di rassegnazione di fronte ai tempi difficili e complessi di oggi, lamentati da alcuni, in cui i cristiani hanno sempre meno margini di azione e di influenza a causa di innumerevoli fattori come ad esempio il secolarismo o le logiche individualiste” del totalitarismo capitalista che ci spegne lentamente. “Non possiamo fare a meno di riconoscere che certamente non sono tempi facili, specialmente per molti nostri fratelli che oggi vivono nella loro carne l’esilio e persino il martirio a causa della fede. Ma – osserva il Vescovo di Roma – la loro testimonianza ci conduce a scoprire che il Signore continua a chiamarci e invitarci a vivere il Vangelo con gioia, gratitudine e radicalità. Se Cristo ci ha ritenuti degni di vivere in questi tempi, in questa ora, l’unica che abbiamo, non possiamo lasciarci vincere dalla paura né lasciare che passi senza assumerla con la gioia della fedeltà. Il Signore ci darà la forza per fare di ogni tempo, di ogni momento, di ogni situazione un’opportunità di comunione e riconciliazione con il Padre e con i fratelli, specialmente con quelli che oggi sono considerati inferiori o materiale di scarto. L’unità a cui il Signore ci chiama è – evidenzia il Papa – sempre in chiave missionaria, per uscire e raggiungere il cuore della nostra gente e delle culture, della società postmoderna in cui viviamo. Questa missione ecumenica riusciremo a realizzarla, se ci lasceremo impregnare dallo Spirito di Cristo”. Una liturgia missionaria creativa dei cristiani uniti in Gesù! “La missione oggi continua a chiederci e a reclamare da noi l’unità; è la missione – rivela Francesco – esige da noi che smettiamo di guardare le ferite del passato ed ogni atteggiamento autoreferenziale per incentrarci sulla preghiera del Maestro. È la missione a reclamare che la musica del Vangelo non cessi di suonare nelle nostre piazze”. Segue la preghiera universale recitata in lettone dall’arcivescovo luterano, dal metropolita ortodosso, dall’arcivescovo cattolico, dal vescovo battista, per dire con una voce corale che siamo “una cosa sola, impegnati per la pace”. A simboleggiarlo, la processione dei bambini con le candele al fonte battesimale. Insegna Papa Bergoglio alle Chiese cristiane lettoni: “Sono lieto di potermi incontrare con voi, in questa terra che si caratterizza per realizzare un cammino di rispetto, collaborazione e amicizia tra le diverse Chiese cristiane, che sono riuscite a generare unità mantenendo la ricchezza e la singolarità proprie di ciascuna. Oserei dire che è un “ecumenismo vivo” e costituisce una delle caratteristiche peculiari della Lettonia. Senza alcun dubbio, un motivo di speranza e rendimento di grazie. Grazie all’Arcivescovo Jānis Vanags per averci aperto la porta di questa casa per realizzare il nostro incontro di preghiera. Casa Cattedrale che da più di 800 anni ospita la vita cristiana di questa città; testimone fedele di tanti nostri fratelli che vi si sono accostati per adorare, pregare, sostenere la speranza in tempi di sofferenza e trovare coraggio per affrontare periodi colmi di ingiustizia e di dolore. Oggi ci ospita perché lo Spirito Santo continui a tessere artigianalmente legami di comunione tra noi e, così, renda anche noi artigiani di unità tra la nostra gente, così che le nostre differenze non diventino divisioni. Lasciamo che lo Spirito Santo ci rivesta con le armi del dialogo, della comprensione, della ricerca del rispetto reciproco e della fraternità (Ef 6,13-18). In questa Cattedrale si trova uno degli organi più antichi d’Europa e che è stato il più grande del mondo al tempo della sua inaugurazione. Possiamo immaginare come abbia accompagnato la vita, la creatività, l’immaginazione e la pietà di tutti coloro che si lasciavano avvolgere dalla sua melodia. È stato strumento di Dio e degli uomini per elevare lo sguardo e il cuore. Oggi è un emblema di questa città e di questa Cattedrale. Per il residente di questo luogo rappresenta più di un organo monumentale, è parte della sua vita, della sua tradizione, della sua identità. Invece, per il turista, è naturalmente un oggetto artistico da conoscere e fotografare. E questo è un pericolo che sempre si corre: passare da residenti a turisti. Fare di ciò che ci identifica un oggetto del passato, un’attrazione turistica e da museo che ricorda le gesta di un tempo, di alto valore storico, ma che ha cessato di far vibrare il cuore di quanti lo ascoltano. Con la fede ci può succedere esattamente la stessa cosa. Possiamo smettere di sentirci cristiani residenti per diventare dei turisti. Di più, potremmo affermare che tutta la nostra tradizione cristiana può subire la stessa sorte: finire ridotta a un oggetto del passato che, chiuso tra le pareti delle nostre chiese, cessa di intonare una melodia capace di smuovere e ispirare la vita e il cuore di quelli che la ascoltano. Tuttavia, come afferma il Vangelo che abbiamo ascoltato, la nostra fede non è destinata a stare nascosta, ma ad esser fatta conoscere e risuonare in diversi ambiti della società, perché tutti possano contemplare la sua bellezza ed essere illuminati dalla sua luce (Lc 11,33). Se la musica del Vangelo smette di essere eseguita nella nostra vita e si trasforma in una bella partitura del passato, non saprà più rompere le monotonie asfissianti che impediscono di animare la speranza, rendendo così sterili tutti i nostri sforzi. Se la musica del Vangelo smette di vibrare nelle nostre viscere, avremo perso la gioia che scaturisce dalla compassione, la tenerezza che nasce dalla fiducia, la capacità della riconciliazione che trova la sua fonte nel saperci sempre perdonati-inviati. Se la musica del Vangelo smette di suonare nelle nostre case, nelle nostre piazze, nei luoghi di lavoro, nella politica e nell’economia, avremo spento la melodia che ci provocava a lottare per la dignità di ogni uomo e donna di qualunque provenienza, rinchiudendoci nel “mio”, dimenticandoci del “nostro”: la casa comune che ci riguarda tutti. Se la musica del Vangelo smette di suonare, avremo perso i suoni che condurranno la nostra vita al cielo, trincerandoci in uno dei mali peggiori del nostro tempo: la solitudine e l’isolamento. La malattia che nasce in chi non ha alcun legame, e che si può riscontrare negli anziani abbandonati al loro destino, come pure nei giovani senza punti di riferimento e opportunità per il futuro (Discorso al Parlamento Europeo, 25 novembre 2014). Padre, «che tutti siano una sola cosa, perché il mondo creda» (Gv 17,21). Queste parole continuano a risuonare con forza in mezzo a noi, grazie a Dio. È Gesù che prima del Suo sacrificio prega il Padre. È Gesù, Gesù Cristo che, guardando in faccia la Sua croce e la croce di tanti nostri fratelli, non cessa di implorare il Padre. È il mormorio costante di questa preghiera che traccia il sentiero e ci indica la via da seguire. Immersi nella Sua preghiera, come credenti in Lui e nella sua Chiesa, desiderando la comunione di grazia che il Padre possiede da tutta l’Eternità (S. Giovanni Paolo II, Enc. Ut unum sint, 9) troviamo lì l’unica strada possibile per ogni ecumenismo: nella croce della sofferenza di tanti giovani, anziani e bambini esposti spesso allo sfruttamento, al non senso, alla mancanza di opportunità e alla solitudine. Mentre guarda al Padre e a noi Suoi fratelli, Gesù non smette di implorare: che tutti siano uno. La missione oggi continua a chiederci e a reclamare da noi l’unità; è la missione che esige da noi che smettiamo di guardare le ferite del passato ed ogni atteggiamento autoreferenziale per incentrarci sulla preghiera del Maestro. È la missione a reclamare che la musica del Vangelo non cessi di suonare nelle nostre piazze. Alcuni possono arrivare a dire: sono tempi difficili, sono tempi complessi quelli che ci capita di vivere. Altri possono arrivare a pensare che, nelle nostre società, i cristiani hanno sempre meno margini di azione e di influenza a causa di innumerevoli fattori come ad esempio il secolarismo o le logiche individualiste. Questo non può portare a un atteggiamento di chiusura, di difesa e nemmeno di rassegnazione. Non possiamo fare a meno di riconoscere che certamente non sono tempi facili, specialmente per molti nostri fratelli che oggi vivono nella loro carne l’esilio e persino il martirio a causa della fede. Ma la loro testimonianza ci conduce a scoprire che il Signore continua a chiamarci e invitarci a vivere il Vangelo con gioia, gratitudine e radicalità. Se Cristo ci ha ritenuti degni di vivere in questi tempi, in questa ora, l’unica che abbiamo, non possiamo lasciarci vincere dalla paura né lasciare che passi senza assumerla con la gioia della fedeltà. Il Signore ci darà la forza per fare di ogni tempo, di ogni momento, di ogni situazione un’opportunità di comunione e riconciliazione con il Padre e con i fratelli, specialmente con quelli che oggi sono considerati inferiori o materiale di scarto. Se Cristo ci ha ritenuti degni di far risuonare la melodia del Vangelo, smetteremo di farlo? L’unità a cui il Signore ci chiama è un’unità sempre in chiave missionaria, che ci chiede di uscire e raggiungere il cuore della nostra gente e delle culture, della società postmoderna in cui viviamo, «là dove si formano i nuovi racconti e paradigmi, raggiungere con la Parola di Gesù i nuclei più profondi dell’anima delle città» (Esort. ap. Evangelii gaudium, 74). Questa missione ecumenica riusciremo a realizzarla se ci lasceremo impregnare dallo Spirito di Cristo che è capace di «rompere gli schemi noiosi nei quali pretendiamo di imprigionarlo e ci sorprende con la sua costante creatività divina. Ogni volta che cerchiamo di tornare alla fonte e recuperare la freschezza originale del Vangelo spuntano nuove strade, metodi creativi, altre forme di espressione, segni più eloquenti, parole cariche di rinnovato significato per il mondo attuale» (ibid., 11). Cari fratelli e sorelle, continui a suonare la musica del Vangelo in mezzo a noi! Non cessi di risuonare ciò che permette al nostro cuore di continuare a sognare e a tendere alla vita piena a cui il Signore, tutti, ci chiama: essere suoi discepoli missionari in mezzo al mondo in cui viviamo”. A Riga, Papa Francesco visita la Cattedrale di San Giacomo, realizzata nel XIII Secolo e oggi inserita nell’elenco del Patrimonio mondiale dell’Unesco. Il Pontefice è accolto all’ingresso principale dal parroco, mentre nei pressi dell’altare una coppia gli anziani gli porge dei fiori, che Francesco depone dinanzi all’immagine della Vergine. “Troppo spesso quanti si sono spesi corpo e anima per inseguire la libertà della propria patria sono poi abbandonati alla solitudine, all’ostracismo, alla mancanza di risorse e all’esclusione, e perfino alla miseria”. È il cuore della riflessione di Papa Francesco. Dopo il saluto di benvenuto dell’arcivescovo di Riga, mons. Zbignevs Stankeviès, il Vescovo di Roma prosegue nel solco delle parole del presule, dedicate ai tanti anziani presenti: uomini e donne che hanno vissuto la Seconda Guerra Mondiale e poi il tempo in cui imperava “l’ideologia ateistica con tutte le minacce e le restrizioni; uomini e donne che hanno subito le repressioni politiche, che sono state perseguitate ed esiliate per la fede in Cristo. Voi qui presenti siete stati sottoposti ad ogni sorta di prove – ricorda Papa Bergoglio – l’orrore della guerra, e poi la repressione politica, la persecuzione e l’esilio. E siete stati costanti, avete perseverato nella fede. Le tante teste vestite di argento e presenti nella cattedrale di San Giacomo hanno, infatti, resistito con coraggio al regime nazista, a quello sovietico, senza mai far spegnere la propria fede nel cuore, arrivando anche a dedicarsi alla vita sacerdotale, religiosa, a essere catechisti, e a diversi servizi ecclesiali che mettevano a rischio la vita. Benché suoni paradossale, oggi, in nome della libertà, gli uomini liberi – avverte Papa Bergoglio – assoggettano gli anziani alla solitudine, all’ostracismo, alla mancanza di risorse e all’esclusione, e perfino alla miseria. Se è così, il cosiddetto treno della libertà e del progresso finisce per avere, in coloro che hanno lottato per conquistare diritti, la sua carrozza di coda, gli spettatori di una festa altrui, onorati e omaggiati, ma dimenticati nella vita quotidiana”. Nel discorso, il Papa riserva un grande incoraggiamento a tutti, invitandoli a non cedere “allo sconforto, alla tristezza”, a non perdere “la dolcezza e, meno ancora, la speranza”. E riprendendo le parole della Lettera dell’Apostolo Giacomo, il Santo Padre chiede di “sopportare pazientemente e sperare pazientemente”, mantenendo un cuore “giovane, non duro e sclerotizzato, senza la gioia della novità di Dio. Voi, che avete attraversato molte stagioni, siete testimonianza viva di costanza nelle avversità, ma anche del dono della profezia, che ricorda alle giovani generazioni che la cura e la protezione di quelli che ci hanno preceduto sono gradite e apprezzate da Dio, e che gridano a Dio quando sono disattese. Voi che avete attraversato molte stagioni, non dimenticatevi che siete radici di un popolo, radici di giovani germogli che devono fiorire e portare frutto; difendete queste radici, mantenetele vive”. Nella Cattedrale di San Giacomo, a Riga, insegna Francesco: “Ringrazio l’Arcivescovo per le sue parole e la sua attenta analisi della realtà. La vostra presenza, fratelli anziani, mi ricorda due espressioni della Lettera dell’apostolo Giacomo, al quale è intitolata questa Cattedrale. All’inizio e alla fine della lettera egli ci invita alla costanza, usando però due termini diversi. Sono certo che possiamo sentire la voce del “fratello del Signore” che oggi vuole rivolgersi a noi. Voi qui presenti siete stati sottoposti ad ogni sorta di prove: l’orrore della guerra, e poi la repressione politica, la persecuzione e l’esilio, come ha ben descritto il vostro Arcivescovo. E siete stati costanti, avete perseverato nella fede. Né il regime nazista né quello sovietico hanno spento la fede nei vostri cuori e, per alcuni di voi, non vi hanno fatto desistere neppure dal dedicarvi alla vita sacerdotale, religiosa, a essere catechisti, e a diversi servizi ecclesiali che mettevano a rischio la vita; avete combattuto la buona battaglia, state per concludere la corsa, e avete conservato la fede (2Tm 4,7). Ma l’Apostolo Giacomo insiste sul fatto che questa pazienza supera la prova della fede facendo emergere opere perfette (1,2-4). Il vostro operare sarà stato perfetto allora, e dovrà tendere ancora alla perfezione nelle nuove circostanze. Voi, che vi siete spesi corpo e anima, che avete dato la vita inseguendo la libertà della vostra patria, tante volte vi sentite dimenticati. Benché suoni paradossale, oggi, in nome della libertà, gli uomini liberi assoggettano gli anziani alla solitudine, all’ostracismo, alla mancanza di risorse e all’esclusione, e perfino alla miseria. Se è così, il cosiddetto treno della libertà e del progresso finisce per avere, in coloro che hanno lottato per conquistare diritti, la sua carrozza di coda, gli spettatori di una festa altrui, onorati e omaggiati, ma dimenticati nella vita quotidiana (Esort. ap. Evangelii gaudium, 234). L’Apostolo Giacomo ci invita a essere costanti, a non abbassare la guardia. «In questo cammino, lo sviluppo del bene, la maturazione spirituale e la crescita dell’amore sono il miglior contrappeso nei confronti del male» (Esort. ap. Gaudete et exsultate, 163). Non cedete allo sconforto, alla tristezza, non perdete la dolcezza e, meno ancora, la speranza! Concludendo la sua epistola, San Giacomo torna ad invitare alla costanza (5,7) ma utilizza una parola che unisce due significati: sopportare pazientemente e sperare pazientemente. Vi incoraggio ad essere anche voi, in seno alle vostre famiglie e alla vostra patria, esempio di entrambi questi atteggiamenti: sopportazione e speranza, tutt’e due impregnate di pazienza. Così continuerete a costruire il vostro popolo. Voi, che avete attraversato molte stagioni, siete testimonianza viva di costanza nelle avversità, ma anche del dono della profezia, che ricorda alle giovani generazioni che la cura e la protezione di quelli che ci hanno preceduto sono gradite e apprezzate da Dio, e che gridano a Dio quando sono disattese. Voi che avete attraversato molte stagioni, non dimenticatevi che siete radici di un popolo, radici di giovani germogli che devono fiorire e portare frutto; difendete queste radici, mantenetele vive perché i bambini e i giovani si innestino lì, e capiscano che «tutto ciò che sull’albero è fiorito, vive di ciò che giace sotterrato» (F.L. Bernárdez, sonetto Si para recobrar lo recobrado). Come dice l’iscrizione sul pulpito di questo tempio: «Se ascoltaste oggi la sua voce! Non indurite il cuore» (Sal 95,7-8). Il cuore duro è quello sclerotizzato, quello che perde la gioia della novità di Dio, che rinuncia alla giovinezza di spirito, a gustare e vedere che sempre, in ogni tempo e fino alla fine, è buono il Signore (Sal 34,9)”. La Santa Messa nell’area del Santuario della Madre di Dio di Aglona, piccola cittadina della Lettonia, Lunedì 24 Settembre 2018, focalizzata sull’accogliersi “senza discriminazioni, senza pensare che da soli avremmo più prosperità e sicurezza”, è uno dei momenti centrali della tappa in Lettonia di Papa Francesco. Al Santuario della Madre di Dio di Aglona, una piccola cittadina nota proprio grazie alla presenza di questa basilica, fondato nell’Anno Domini 1700 dai frati predicatori domenicani, San Giovanni Paolo II conferì il titolo di “Basilica minor”. Un Santuario nel quale si venera l’icona della Madre di Dio di Aglona. È un centro nevralgico della devozione dei Lettoni alla Vergine Maria, in un Paese che ha conosciuto sia l’oppressione nazista sia quella comunista sia quella capitalista, nonostante sia tornato ad essere “indipendente” nell’Anno Domini 1991. Sotto il regime comunista quasi il 40 percento dei sacerdoti fu ucciso o imprigionato. Ma la devozione verso questo Santuario non è mai venuta meno, tanto che oggi vi arrivano fedeli da ogni parte del mondo. E questo nonostante il convento domenicano accanto alla chiesa abbia avuto varie destinazioni: da carcere per i sacerdoti cattolici nell’Anno Domini 1840, a quartier generale durante la Prima Guerra Mondiale, da ospedale a stalla nel regime sovietico. A Maria Santissima, la Madre di Dio, è dedicata l’omelia di Papa Bergoglio. “Maria che sta saldamente in piedi, inchiodata ai piedi della croce, accanto a suo Figlio, come è vicina a coloro dai quali il mondo fugge, anche a quelli che sono processati, condannati da tutti, deportati. Una vicinanza – spiega il Santo Padre – che non è per una breve visita o per un turismo solidale. Per questo occorre che coloro che patiscono una realtà di dolore ci sentano al loro fianco, in modo che tutti gli scartati della società possano fare esperienza di questa Madre delicatamente vicina, perché in chi soffre permangono le piaghe aperte del suo Figlio Gesù.  Maria si mostra anche come donna aperta al perdono, che rinuncia a recriminare”. Francesco nota infatti che “nelle nostre realtà politiche, la storia dello scontro tra i popoli è ancora dolorosamente fresca ma le relazioni che ci guariscono sono quelle che ci aprono alla fraternità con gli altri”. Il Vescovo di Roma richiama la figura centrale della Chiesa lettone, quella di monsignor Boleslavs Sloskans, che visse dal 1927 al 1933 nei gulag comunisti sovietici, condannato con una falsa accusa di spionaggio. Il Papa ricorda le toccanti parole del vescovo lettone scritte ai suoi genitori: “Vi chiedo dal profondo del mio cuore: non lasciate che la vendetta o l’esasperazione si facciano strada nel vostro cuore. Se lo permettessimo, non saremmo veri cristiani ma fanatici”. In tempi “nei quali sembrano ritornare mentalità che ci invitano a diffidare degli altri – avverte Francesco – che con statistiche ci vogliono dimostrare che staremmo meglio, avremmo più prosperità, ci sarebbe più sicurezza se fossimo soli, Maria e i discepoli di queste terre ci invitano ad accogliere, a scommettere di nuovo sul fratello, sulla fraternità universale. Esiste però il rischio di stare accanto a qualcuno, senza coinvolgersi: può accadere fra coniugi, fra giovani e adulti, o anche agli anziani quando si sentono freddamente accuditi. Quando con fede ascoltiamo il comando di accogliere e di essere accolti, è possibile costruire l’unità nella diversità, perché non ci frenano né ci dividono le differenze, ma siamo capaci di guardare oltre, di vedere gli altri nella loro dignità più profonda, come figli di uno stesso Padre. E proprio Maria alza la sua voce affinché in questo suo Santuario, tutti ci impegniamo ad accoglierci senza discriminazioni, e che tutti in Lettonia sappiano che siamo disposti a privilegiare i più poveri, a rialzare quanti sono caduti e ad accogliere gli altri così come arrivano e si presentano davanti a noi”. Nel Santuario della Madre di Dio di Aglona, Papa Bergoglio insegna: “Potremmo ben dire che ciò che San Luca narra all’inizio del libro degli Atti degli Apostoli si ripete oggi qui: siamo intimamente uniti, dedicati alla preghiera e in compagnia di Maria, nostra Madre (1,14). Oggi facciamo nostro il motto di questa visita: “Mostrati Madre!”, manifesta in quale luogo continui a cantare il Magnificat, in quali luoghi si trova il tuo Figlio crocifisso, per trovare ai suoi piedi la tua salda presenza. Il Vangelo di Giovanni riporta solo due momenti in cui la vita di Gesù incrocia quella di sua Madre: le nozze di Cana (2,1-12) e quello che abbiamo appena letto, Maria ai piedi della croce (19,25-27). Parrebbe che l’evangelista sia interessato a mostrarci la Madre di Gesù in queste situazioni di vita apparentemente opposte: la gioia di un matrimonio e il dolore per la morte di un figlio. Mentre ci addentriamo nel mistero della Parola, Ella ci mostri qual è la Buona Notizia che il Signore oggi vuole condividere con noi. La prima cosa che l’evangelista fa notare è che Maria sta “saldamente in piedi” accanto a suo Figlio. Non è un modo leggero di stare, neppure evasivo e tanto meno pusillanime. È con fermezza, “inchiodata” ai piedi della croce, esprimendo con la postura del suo corpo che niente e nessuno potrebbe spostarla da quel luogo. Maria si mostra in primo luogo così: accanto a coloro che soffrono, a coloro dai quali il mondo intero fugge, accanto anche a quelli che sono processati, condannati da tutti, deportati. Non soltanto vengono oppressi o sfruttati, ma si trovano direttamente “fuori dal sistema”, ai margini della società (Esort. ap. Evangelii gaudium, 53). Con loro c’è anche la Madre, inchiodata sulla croce dell’incomprensione e della sofferenza. Maria ci mostra anche un modo di stare accanto a queste realtà; non è fare una passeggiata o una breve visita, e nemmeno è un “turismo solidale”. Occorre che coloro che patiscono una realtà di dolore ci sentano al loro fianco e dalla loro parte, in modo fermo, stabile; tutti gli scartati della società possono fare esperienza di questa Madre delicatamente vicina, perché in chi soffre permangono le piaghe aperte del suo Figlio Gesù. Lei lo ha imparato ai piedi della croce. Anche noi siamo chiamati a “toccare” la sofferenza degli altri. Andiamo incontro alla nostra gente per consolarla e accompagnarla; non abbiamo paura di sperimentare la forza della tenerezza e di coinvolgerci e complicarci la vita per gli altri (ibid., 270). E, come Maria, rimaniamo saldi e in piedi: con il cuore rivolto a Dio e coraggiosi, rialzando chi è caduto, sollevando l’umile, aiutando a porre fine a qualunque situazione di oppressione che li fa vivere come crocifissi. Maria è chiamata da Gesù ad accogliere il discepolo amato come suo figlio. Il testo ci dice che erano insieme, ma Gesù si accorge che non basta, che non si sono accolti a vicenda. Perché si può stare accanto a tantissime persone, si può anche condividere la stessa abitazione, il quartiere o il lavoro; si può condividere la fede, contemplare e godere gli stessi misteri, ma non accogliere, non esercitare un’accettazione amorevole dell’altro. Quanti coniugi potrebbero raccontare la storia del loro essere vicini ma non insieme; quanti giovani sentono con dolore questa distanza rispetto agli adulti; quanti anziani si sentono freddamente accuditi, ma non amorevolmente curati e accolti. È vero che, a volte, quando ci siamo aperti agli altri, questo ci ha fatto molto male. È anche vero che, nelle nostre realtà politiche, la storia dello scontro tra i popoli è ancora dolorosamente fresca. Maria si mostra come donna aperta al perdono, a mettere da parte rancori e diffidenze; rinuncia a recriminare su ciò che “avrebbe potuto essere” se gli amici di suo Figlio, se i sacerdoti del suo popolo o se i governanti si fossero comportati in modo diverso, non si lascia vincere dalla frustrazione o dall’impotenza. Maria crede a Gesù e accoglie il discepolo, perché le relazioni che ci guariscono e ci liberano sono quelle che ci aprono all’incontro e alla fraternità con gli altri, perché scoprono nell’altro Dio stesso (ibid., 92). Monsignor Sloskans, che riposa qui, dopo essere stato arrestato e mandato lontano scriveva ai suoi genitori: «Vi chiedo dal profondo del mio cuore: non lasciate che la vendetta o l’esasperazione si facciano strada nel vostro cuore. Se lo permettessimo, non saremmo veri cristiani, ma fanatici». In tempi nei quali sembrano ritornare mentalità che ci invitano a diffidare degli altri, che con statistiche ci vogliono dimostrare che staremmo meglio, avremmo più prosperità, ci sarebbe più sicurezza se fossimo soli, Maria e i discepoli di queste terre ci invitano ad accogliere, a scommettere di nuovo sul fratello, sulla fraternità universale. Ma Maria si mostra anche come la donna che si lascia accogliere, che accetta umilmente di diventare parte delle cose del discepolo. In quel matrimonio che era rimasto senza vino, col pericolo di finire pieno di riti ma arido di amore e gioia, fu lei a ordinare che facessero quello che Lui avrebbe detto loro (Gv 2,5). Ora, come discepola obbediente, si lascia accogliere, si trasferisce, si adatta al ritmo del più giovane. Sempre costa l’armonia quando siamo diversi, quando gli anni, le storie e le circostanze ci pongono in modi di sentire, di pensare e di fare che a prima vista sembrano opposti. Quando con fede ascoltiamo il comando di accogliere e di essere accolti, è possibile costruire l’unità nella diversità, perché non ci frenano né ci dividono le differenze, ma siamo capaci di guardare oltre, di vedere gli altri nella loro dignità più profonda, come figli di uno stesso Padre (Esort. ap. Evangelii gaudium, 228). In questa, come in ogni Eucaristia, facciamo memoria di quel giorno. Ai piedi della croce, Maria ci ricorda la gioia di essere stati riconosciuti come suoi figli, e suo Figlio Gesù ci invita a portarla a casa, a metterla al centro della nostra vita. Lei vuole donarci il suo coraggio, per stare saldamente in piedi; la sua umiltà, che le permette di adattarsi alle coordinate di ogni momento della storia; e alza la sua voce affinché, in questo suo santuario, tutti ci impegniamo ad accoglierci senza discriminazioni, e che tutti in Lettonia sappiano che siamo disposti a privilegiare i più poveri, a rialzare quanti sono caduti e ad accogliere gli altri così come arrivano e si presentano davanti a noi”. Il primo discorso della visita di Papa Francesco in Estonia, Martedì 25 Settembre 2018, è quello rivolto alla presidente della Repubblica Estone, Kersti Kaljulaid, alle autorità, al corpo diplomatico e alla società civile nel Giardino delle Rose del Palazzo presidenziale della capitale Tallinn. “Un popolo sarà in grado di generare futuro solo nella misura in cui dà vita a relazioni di appartenenza tra i suoi membri”, assicura il Papa che promette in questo sforzo l’aiuto della Chiesa cattolica, “una piccola comunità” che in Estonia rappresenta appena lo 0,5 percento della popolazione estone, ma con “tanta voglia di contribuire alla fecondità di questa terra” che ha conosciuto sia il regime nazista sia quello comunista sia quello capitalista. Oggi, infatti, l’Estonia è segnata da una forte secolarizzazione, russofobia e ignoranza teologica tra i giovani che non conoscono Gesù Cristo come tutti i Paesi Baltici, con oltre il 70%della popolazione che si dichiara “non religiosa” e un alto tasso di divorzi. La guerra tra i cristiani, prima ancora delle ideologie atee, ha prodotto questo disastro in Estonia. A tutti il Papa ricorda che “una terra per essere feconda, deve creare appartenenza e avere radici: non c’è peggior alienazione che sperimentare di non avere radici, di non appartenere a nessuno. Una terra sarà feconda, un popolo darà frutti e sarà in grado di generare futuro solo nella misura in cui dà vita a relazioni di appartenenza tra i suoi membri, nella misura in cui crea legami di integrazione tra le generazioni e le diverse comunità che lo compongono. L’Estonia è terra di memoria e di Maria. “Così da secoli sono chiamate queste terre. E Maria evoca due parole:  memoria e fecondità – rimarca il Papa – fare memoria per il popolo estone significa ricordare i periodi storici duri, segnati da momenti di sofferenza e tribolazione e le lotte per la libertà e l’indipendenza che sono sempre state messe in discussione o minacciate”. Da 27 anni, dall’indipendenza nel 1991, “l’Estonia ha compiuto passi da gigante e si trova tra i primi per l’indice di sviluppo umano – rileva il Papa – per capacità di innovazione e libertà di stampa e politica. Ci sono quindi motivi di speranza nel guardare al futuro ma bisogna fare, appunto, memoria della storia degli uomini e delle donne che hanno combattuto per rendere possibile questa libertà”. C’è infatti anche la chiamata ad essere una terra feconda. “Il benessere non è sempre sinonimo di vivere bene”, osserva il Papa constatando che “uno dei fenomeni che possiamo osservare nelle nostre società tecnocratiche è la perdita del senso della vita, della gioia di vivere”. In questo modo “la consapevolezza di essere radicati in un popolo e in una cultura, può andare perduta privando a poco a poco i giovani di radici su cui costruire il presente e il futuro, perché li si priva della capacità di sognare e di rischiare”. È la conseguenza della globalizzazione. “Mettere tutta la fiducia nel progresso tecnologico come unica via possibile di sviluppo – avverte Papa Bergoglio – può causare la perdita della capacità di creare legami interpersonali, intergenerazionali e interculturali, vale a dire di quel tessuto vitale così importante per sentirci parte l’uno dell’altro e partecipi di un progetto comune nel senso più ampio del termine. Di conseguenza, una delle responsabilità più rilevanti che abbiamo quando assumiamo un incarico sociale, politico, educativo, religioso sta proprio nel modo in cui diventiamo artigiani di legami”. Poco prima, prendendo la parola, la Presidente della Repubblica di Estonia, Kersti Kaljulaid, aveva dichiarato: “Con la sua autorità morale e politica, la Santa Sede è stata una fonte di potere spirituale per le nazioni europee tenute ostaggio del comunismo. Ha dato loro ispirazione, affinché potessero rimpadronirsi della loro libertà”, richiamado le parole dell’Apostolo Paolo ai Romani: “Non lasciarti vincere dal male, ma vinci il male con il bene”. La capo dello Stato estone ricorda lo scambio che avvenne in Vaticano circa cento anni fa, durante la Guerra di Indipendenza dell’Estonia: “Mentre il Paese faceva pressione sulla comunità internazionale per ottenere il riconoscimento, il diplomatico estone Kaarel Robert Pusta ebbe un incontro con il cardinale segretario di Stato della Santa Sede, Pietro Gasparri, il quale, tra le altre cose, volle sapere dei rapporti Chiesa–Stato. Di fronte alla risposta di Pusta, che vi era una totale libertà religiosa nella nuova Repubblica, il cardinale replicò cordialmente: “Allora dobbiamo essere amici”. Un’amicizia che è durata resistendo alle prove anche dei periodi più difficili. La Santa Sede non ha mai riconosciuto l’occupazione dell’Estonia”. E oggi che l’Estonia sembra libera e rimasta fedele alla Democrazia, la Presidente sottolinea l’importanza di un verso di un poema di Giovanni Paolo II che si recò in visita in Estonia 25 anni fa: “La libertà deve essere continuamente conquistata, non si può meramente possedere. Viene come un dono, ma può essere mantenuta solo mediante la battaglia”. Centrale quindi per la Presidente è l’essere “attenti a salvaguardare la nostra libertà e i diritti umani. Se non lo siamo, potremmo ottenere qualche giorno di lieve spensieratezza, ma erediteremo un futuro carico di preoccupazioni”. Nel Giardino delle Rose del Palazzo Presidenziale a Tallinn, in Estonia, Martedì 25 Settembre 2018, Papa Francesco dichiara: “Sono molto felice di essere tra voi, qui a Tallinn, la capitale più settentrionale che il Signore mi ha dato di visitare. La ringrazio, Signora Presidente, per le Sue parole di benvenuto e per l’opportunità di incontrare i rappresentanti di questo popolo dell’Estonia. So che tra voi c’è anche una delegazione dei settori della società civile e del mondo della cultura che mi permette di esprimere la mia intenzione di conoscere un po’ di più la vostra cultura, specialmente quella capacità di resilienza che vi ha permesso di ricominciare di fronte a tante situazioni di avversità. Da secoli queste terre sono chiamate “Terra di Maria”, Maarjamaa. Un nome che non solo appartiene alla vostra storia, ma fa parte della vostra cultura. Pensare a Maria evoca in me due parole: memoria e fecondità. Lei è la donna della memoria, che custodisce tutto ciò che vive, come un tesoro, nel suo cuore (Lc 2,19); ed è la madre feconda che genera la vita di suo Figlio. Ecco perché mi piacerebbe pensare all’Estonia come terra di memoria e di fecondità. Il vostro popolo ha dovuto sopportare in diversi periodi storici duri momenti di sofferenza e tribolazione. Lotte per la libertà e l’indipendenza, che sono sempre state messe in discussione o minacciate. Tuttavia, negli ultimi poco più di 25 anni, in cui siete rientrati a pieno titolo nella famiglia delle nazioni, la società estone ha compiuto “passi da gigante” e il vostro Paese, pur essendo piccolo, si trova tra i primi per l’indice di sviluppo umano, per la sua capacità di innovazione, oltre a dimostrare un alto livello riguardo a libertà di stampa, democrazia e libertà politica. Inoltre avete rafforzato i legami di cooperazione e amicizia con diversi Paesi. Considerando il vostro passato e il vostro presente, troviamo motivi per guardare al futuro con speranza di fronte alle nuove sfide che vi si presentano. Essere terra della memoria significa saper ricordare che il posto che avete raggiunto oggi è dovuto allo sforzo, al lavoro, allo spirito e alla fede dei vostri padri. Coltivare la memoria riconoscente permette di identificare tutti i risultati di cui oggi godete con una storia di uomini e donne che hanno combattuto per rendere possibile questa libertà, e che a sua volta vi chiama a rendere loro omaggio aprendo strade per coloro che verranno dopo. Come ho sottolineato all’inizio del mio ministero di Vescovo di Roma, «l’umanità vive in questo momento una svolta storica che possiamo vedere nei progressi che si producono in diversi campi. Si devono lodare i successi che contribuiscono al benessere delle persone» (Esort. ap, Evangelii gaudium, 52); tuttavia, occorre sempre ricordare che il benessere non è sempre sinonimo di vivere bene. Uno dei fenomeni che possiamo osservare nelle nostre società tecnocratiche è la perdita del senso della vita, della gioia di vivere e, quindi, uno spegnersi lento e silenzioso della capacità di meraviglia, che spesso immerge la gente in una fatica esistenziale. La consapevolezza di appartenere e di lottare per gli altri, di essere radicati in un popolo, in una cultura, in una famiglia può andare perduta a poco a poco privando, soprattutto i più giovani, di radici a partire dalle quali costruire il proprio presente e il proprio futuro, perché li si priva della capacità di sognare, di rischiare, di creare. Mettere tutta la fiducia nel progresso tecnologico come unica via possibile di sviluppo può causare la perdita della capacità di creare legami interpersonali, intergenerazionali e interculturali, vale a dire di quel tessuto vitale così importante per sentirci parte l’uno dell’altro e partecipi di un progetto comune nel senso più ampio del termine. Di conseguenza, una delle responsabilità più rilevanti che abbiamo quanti assumiamo un incarico sociale, politico, educativo, religioso sta proprio nel modo in cui diventiamo artigiani di legami. Una terra feconda richiede scenari a partire dai quali radicare e creare una rete vitale in grado di far sì che i membri delle comunità si sentano “a casa”. Non c’è peggior alienazione che sperimentare di non avere radici, di non appartenere a nessuno. Una terra sarà feconda, un popolo darà frutti e sarà in grado di generare futuro solo nella misura in cui dà vita a relazioni di appartenenza tra i suoi membri, nella misura in cui crea legami di integrazione tra le generazioni e le diverse comunità che lo compongono; e anche nella misura in cui rompe le spirali che annebbiano i sensi, allontanandoci sempre gli uni dagli altri. In questo sforzo, cari amici, voglio assicurarvi che potete sempre contare sul sostegno e sull’aiuto della Chiesa Cattolica, una piccola comunità tra di voi, ma con tanta voglia di contribuire alla fecondità di questa terra. Signora Presidente, Signore e Signori, vi ringrazio ancora per l’accoglienza e l’ospitalità. Il Signore benedica voi e l’amato popolo estone. In modo speciale, benedica gli anziani e i giovani affinché, conservando la memoria e facendosi carico di essa, facciano di questa terra un modello di fecondità. Grazie”. Segue l’incontro ecumenico di Papa Francesco con i giovani alla Kaarli Lutheran Church di Tallinn, dove s’intrecciano sfide che interpellano l’ecumenismo e le nuove generazioni. Dopo aver ascoltato i rappresentanti delle diverse confessioni cristiane presenti in Estonia e le testimonianze di alcuni giovani, il Papa sottolinea che “è molto bello stare insieme: se ci sforziamo di vederci come pellegrini che fanno il cammino insieme, impareremo ad aprire il cuore con fiducia al compagno di strada senza sospetti, senza diffidenze, guardando solo a ciò che realmente cerchiamo: la pace davanti al volto dell’unico Dio. La pace – spiega Francesco – è artigianale e aver fiducia negli altri è pure qualcosa di artigianale. Questa strada di cammino non si deve percorrere solo con i credenti ma con tutti”. Vivere la sequela del Signore, è l’invito del Santo Padre ai giovani, senza fanatismi. “Le Chiese cristiane a volte si portano dietro atteggiamenti nei quali è stato più facile parlare, consigliare, piuttosto che ascoltare, lasciarsi interrogare e illuminare da ciò che vivono le nuove generazioni. Sappiamo che voi volete e vi aspettate di essere accompagnati non da un giudice inflessibile né da un genitore timoroso e iperprotettivo che genera dipendenza, ma da qualcuno che non ha timore della propria debolezza e sa far risplendere il tesoro che, come vaso di creta, custodisce al proprio interno. Oggi qui voglio dirvi che vogliamo piangere con voi se state piangendo, accompagnare con i nostri applausi e le nostre risate le vostre gioie, aiutarvi a vivere la sequela del Signore”. Il Papa aggiunge che “quando una comunità cristiana è veramente cristiana non fa proselitismo. Soltanto ascolta, riceve, accompagna. Per essere vicini ai giovani è necessario dare risposte rovesciando tante situazioni che li allontanano. È necessario essere una comunità trasparente, accogliente, onesta, attraente, comunicativa, accessibile, gioiosa e interattiva, cioè una comunità senza paura. Sappiamo, come ci avete detto, che molti giovani non ci chiedono nulla perché – rileva il Santo Padre, confessando l’11 Settembre della Chiesa – non ci ritengono interlocutori significativi per la loro esistenza. Alcuni, anzi, chiedono espressamente di essere lasciati in pace, perché sentono la presenza della Chiesa come fastidiosa e perfino irritante. Li indignano gli scandali sessuali ed economici di fronte ai quali non vedono una condanna netta; il non saper interpretare adeguatamente la vita e la sensibilità dei giovani per mancanza di preparazione; o semplicemente il ruolo passivo che assegniamo loro. Nonostante la nostra mancanza di testimonianza, continuate a scoprire Gesù in seno alle nostre comunità. Perché sappiamo che dove c’è Gesù c’è sempre rinnovamento, c’è sempre l’opportunità della conversione, di lasciarsi alle spalle tutto ciò che ci separa da Lui e dai nostri fratelli. Dove c’è Gesù, la vita ha sempre sapore di Spirito Santo. Voi, qui oggi, siete l’attualizzazione di quella meraviglia di Gesù. L’amore – osserva il Papa – non è morto, ci chiama e ci invia. Solo chiede di aprire il cuore. Molti giovani vedono che finisce l’amore dei loro genitori, che si dissolve l’amore di coppie appena sposate; sperimentano un intimo dolore quando a nessuno importa che debbano emigrare per cercare lavoro o quando li si guarda con sospetto perché sono stranieri. Sembrerebbe che l’amore sia morto, come diceva Kerli Kõiv, ma sappiamo che non è così, e abbiamo una parola da dire, qualcosa da annunciare, con pochi discorsi e molti gesti. Questo piace a Gesù perché Lui passò facendo il bene e ha preferito alle parole il gesto forte della croce. Chiediamo la forza apostolica di portare il Vangelo agli altri – ma offrirlo, non imporlo – e di rinunciare a fare della nostra vita cristiana un museo di ricordi. La vita cristiana è vita, è futuro, è speranza! Non è un museo. Lasciamo che lo Spirito Santo ci faccia contemplare la storia nella prospettiva di Gesù risorto, così la Chiesa, così le nostre Chiese, saranno in grado di andare avanti accogliendo in sé le sorprese del Signore”. Papa Francesco insegna: “Cari giovani, grazie per la vostra calorosa accoglienza, per i vostri canti e per le testimonianze di Lisbel, Tauri e Mirko. Sono grato per le gentili e fraterne parole dell’Arcivescovo della Chiesa Evangelica Luterana di Estonia, Urmas Viilma, come pure per la presenza del Presidente del Consiglio delle Chiese dell’Estonia, l’Arcivescovo Andres Põder, del Vescovo Philippe Jourdan, Amministratore Apostolico in Estonia, e degli altri rappresentanti delle diverse confessioni cristiane presenti nel Paese. Sono grato anche della presenza della Signora Presidente della Repubblica. È sempre bello riunirci, condividere testimonianze di vita, esprimere quello che pensiamo e vogliamo; ed è molto bello stare insieme, noi che crediamo in Gesù Cristo. Questi incontri realizzano il sogno di Gesù nell’Ultima Cena: «Che tutti siano una sola cosa, perché il mondo creda» (Gv 17,21). Se ci sforziamo di vederci come pellegrini che fanno il cammino insieme, impareremo ad aprire il cuore con fiducia al compagno di strada senza sospetti, senza diffidenze, guardando solo a ciò che realmente cerchiamo: la pace davanti al volto dell’unico Dio. E siccome la pace è artigianale, aver fiducia negli altri è pure qualcosa di artigianale, è fonte di felicità: «Beati gli operatori di pace» (Mt 5,9). E questa strada, questo cammino non lo facciamo solo con i credenti, ma con tutti. Tutti hanno qualcosa da dirci. A tutti abbiamo qualcosa da dire. Il grande dipinto che si trova nell’abside di questa chiesa contiene una frase del Vangelo di San Matteo: «Venite a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi, e io vi darò ristoro» (Mt 11,28). Voi, giovani cristiani, potete identificarvi con alcuni elementi di questo brano del Vangelo. Nelle narrazioni che precedono, Matteo ci dice che Gesù sta accumulando delusioni. Prima si lamenta perché sembra che a quelli a cui si rivolge non vada bene niente (Mt 11,16-19). A voi giovani capita spesso che gli adulti intorno a voi non sanno quello che vogliono o si aspettano da voi; o a volte, quando vi vedono molto felici, diffidano; e se vi vedono angosciati, relativizzano quello che vi succede. Nella consultazione prima del Sinodo, che celebreremo a breve e in cui rifletteremo sui giovani, molti di voi chiedono che qualcuno vi accompagni e vi capisca senza giudicare e sappia ascoltarvi, come pure rispondere ai vostri interrogativi (Sinodo dedicato ai giovani, Instrumentum laboris, 132). Le nostre Chiese cristiane – e oserei dire ogni processo religioso strutturato istituzionalmente – a volte si portano dietro atteggiamenti nei quali è stato più facile per noi parlare, consigliare, proporre dalla nostra esperienza, piuttosto che ascoltare, piuttosto che lasciarsi interrogare e illuminare da ciò che voi vivete. Tante volte le comunità cristiane si chiudono, senza accorgersene, e non ascoltano le vostre inquietudini. Sappiamo che voi volete e vi aspettate «di essere accompagnati non da un giudice inflessibile, né da un genitore timoroso e iperprotettivo che genera dipendenza, ma da qualcuno che non ha timore della propria debolezza e sa far risplendere il tesoro che, come vaso di creta, custodisce al proprio interno (2Cor 4,7)» (ibid., 142). Oggi qui voglio dirvi che vogliamo piangere con voi se state piangendo, accompagnare con i nostri applausi e le nostre risate le vostre gioie, aiutarvi a vivere la sequela del Signore. Voi, ragazzi e ragazze, giovani, sappiate questo: quando una comunità cristiana è veramente cristiana non fa proselitismo. Soltanto ascolta, accoglie, accompagna e cammina; ma non impone niente. Gesù si lamenta anche delle città che ha visitato, compiendo in esse più miracoli e riservando ad esse maggiori gesti di tenerezza e vicinanza, e deplora la loro mancanza di fiuto nel rendersi conto che il cambiamento che era venuto a proporre loro era urgente, non poteva aspettare. Arriva perfino a dire che sono più testarde e accecate di Sodoma (Mt 11,20-24). E quando noi adulti ci chiudiamo a una realtà che è già un fatto, ci dite con franchezza: “Non lo vedete?”. E alcuni più coraggiosi hanno il coraggio di dire: “Non vi accorgete che nessuno vi ascolta più, né vi crede?”. Abbiamo davvero bisogno di convertirci, di scoprire che per essere al vostro fianco dobbiamo rovesciare tante situazioni che sono, in definitiva, quelle che vi allontanano. Sappiamo, come ci avete ditto, che molti giovani non ci chiedono nulla perché non ci ritengono interlocutori significativi per la loro esistenza. È brutto questo, quando una Chiesa, una comunità, si comporta in modo tale che i giovani pensano: “Questi non mi diranno nulla che serva alla mia vita”. Alcuni, anzi, chiedono espressamente di essere lasciati in pace, perché sentono la presenza della Chiesa come fastidiosa e perfino irritante. E questo è vero. Li indignano gli scandali sessuali ed economici di fronte ai quali non vedono una condanna netta; il non saper interpretare adeguatamente la vita e la sensibilità dei giovani per mancanza di preparazione; o semplicemente il ruolo passivo che assegniamo loro (Sinodo dedicato ai giovani, Instrumentum laboris, 66). Queste sono alcune delle vostre richieste. Vogliamo rispondere a loro, vogliamo, come voi stessi dite, essere una «comunità trasparente, accogliente, onesta, attraente, comunicativa, accessibile, gioiosa e interattiva» (ibid., 67), cioè una comunità senza paura. Le paure ci chiudono. Le paure ci spingono a essere proselitisti. E la fratellanza è un’altra cosa: il cuore aperto e l’abbraccio fraterno. Prima di arrivare al testo evangelico che sovrasta questo tempio, Gesù inizia elevando una lode al Padre. Lo fa perché si rende conto che coloro che hanno compreso, quelli che capiscono il centro del suo messaggio e della sua persona, sono i piccoli, coloro che hanno l’anima semplice, aperta. E vedendovi così, riuniti, a cantare, mi unisco alla voce di Gesù e resto ammirato, perché voi, nonostante la nostra mancanza di testimonianza, continuate a scoprire Gesù in seno alle nostre comunità. Perché sappiamo che dove c’è Gesù c’è sempre rinnovamento, c’è sempre l’opportunità della conversione, di lasciarsi alle spalle tutto ciò che ci separa da Lui e dai nostri fratelli. Dove c’è Gesù, la vita ha sempre sapore di Spirito Santo. Voi, qui oggi, siete l’attualizzazione di quella meraviglia di Gesù. Allora sì, diciamo di nuovo: «Venite a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi, e io vi ristorerò» (Mt 11,28). Ma lo diciamo convinti che, al di là dei nostri limiti, delle nostre divisioni, Gesù continua ad essere il motivo per essere qui. Sappiamo che non c’è sollievo più grande che lasciare che Gesù porti le nostre oppressioni. Sappiamo anche che ci sono molti che ancora non lo conoscono e vivono nella tristezza e nello smarrimento. Una vostra famosa cantante, circa dieci anni fa, diceva in una delle sue canzoni: «L’amore è morto, l’amore se n’è andato, l’amore non vive più qui» (Kerli Kõiv, L’amore è morto). No, per favore! Facciamo sì che l’amore sia vivo, e tutti noi dobbiamo fare questo! E sono tanti quelli che fanno questa esperienza: vedono che finisce l’amore dei loro genitori, che si dissolve l’amore di coppie appena sposate; sperimentano un intimo dolore quando a nessuno importa che debbano emigrare per cercare lavoro o quando li si guarda con sospetto perché sono stranieri. Sembrerebbe che l’amore sia morto, come diceva Kerli Kõiv, ma sappiamo che non è così, e abbiamo una parola da dire, qualcosa da annunciare, con pochi discorsi e molti gesti. Perché voi siete la generazione dell’immagine, la generazione dell’azione al di sopra della speculazione, della teoria. E così piace a Gesù; perché Lui passò facendo il bene, e quando è morto ha preferito alle parole il gesto forte della croce. Noi siamo uniti dalla fede in Gesù, ed è Lui che attende che lo portiamo a tutti i giovani che hanno perso il senso della loro vita. E il rischio è, anche per noi credenti, di perdere il senso della vita. E questo succede quando noi credenti siamo incoerenti. Accogliamo insieme quella novità che Dio porta nella nostra vita; quella novità che ci spinge a partire sempre di nuovo, per andare là dove si trova l’umanità più ferita. Dove gli uomini, al di là dell’apparenza di superficialità e conformismo, continuano a cercare una risposta alla domanda sul senso della loro vita. Ma non andremo mai da soli: Dio viene con noi; Lui non ha paura, non ha paura delle periferie, anzi, Lui stesso si è fatto periferia (Fil 2,6-8; Gv 1,14). Se abbiamo il coraggio di uscire da noi stessi, dai nostri egoismi, dalle nostre idee chiuse, e andare nelle periferie, là lo troveremo, perché Gesù ci precede nella vita del fratello che soffre ed è scartato. Egli è già là (Esort. ap. Gaudete et exsultate, 135). Ragazzi e ragazze, l’amore non è morto, ci chiama e ci invia. Chiede solo di aprire il cuore. Chiediamo la forza apostolica di portare il Vangelo agli altri – ma offrirlo, non imporlo – e di rinunciare a fare della nostra vita cristiana un museo di ricordi. La vita cristiana è vita, è futuro, è speranza! Non è un museo. Lasciamo che lo Spirito Santo ci faccia contemplare la storia nella prospettiva di Gesù risorto, così la Chiesa, così le nostre Chiese saranno in grado di andare avanti accogliendo in sé le sorprese del Signore (ibid.., 139), recuperando la propria giovinezza, la gioia e la bellezza della quale parlava Mirko, della sposa che va incontro al Signore. Le sorprese del Signore. Il Signore ci sorprende perché la vita ci sorprende sempre. Andiamo avanti, incontro a queste sorprese. Grazie!”. Nella Cattedrale dei Santi Pietro e Paolo, a Tallinn, Papa Bergoglio incontra i cattolici impegnati nelle opere di carità in Estonia, il personale della Caritas locale, le suore missionarie della carità di Madre Teresa e a un centinaio di assistiti, ragazze madri, persone con problemi di alcool e disagiate. “La fede missionaria va per le strade – ricorda il Vescovo di Roma – perché la gioia più grande di Dio è vederci rinascere, donarci una nuova opportunità. Continuate a creare legami, a uscire nei quartieri delle vostre città per dire a tanti: anche tu fai parte della nostra famiglia. Perché la più grande gioia del Signore è vederci rinascere, per questo non si stanca mai di donarci una nuova opportunità”. Il Papa viene accolto in cattedrale da nove fratelli e sorelle. È l’incontro che precede la Santa Messa della sua visita in Estonia, nella Piazza della Libertà della capitale. Francesco viene accolto, all’ingresso principale, dall’amministratore apostolico, monsignor Philippe Jourdan, dal parroco della cattedrale, dalla madre superiora delle suore missionarie della carità e da una famiglia di 9 bambini assistita dalle suore. I più piccoli offrono fiori a Francesco, poi la mamma Marina, emozionatissima, offre la sua testimonianza di rinascita, iniziata 13 anni fa, nel periodo più buio, quando aveva già 5 figli e il marito era in carcere per tre anni. Un giorno i figli tornarono a casa dalla “sala dei ragazzi” dove giocavano con gli altri ospiti delle case popolari di Tallinn, accompagnati da due suore vestite di bianco che portano cibo, indumenti e libri a Marina bisognosa di tutto. “Iniziarono a visitarmi – racconta Marina al Papa – ad aiutare i miei ragazzi e ad insegnarci a pregare. Sono stati degli angeli che Dio ha voluto mandare alla nostra vita!”. Oggi Marina e il marito vivono insieme “con grande impegno ma molto sereni. Siamo grati al Signore per la comunione che regna nella nostra casa”. Dopo, si fa avanti Vladimir, assistito dalle suore per il suo problema con l’alcool. “Non vedevo via d’uscita nella mia vita, non volevo sentir parlare di Dio”. Poi, quando è arrivato alla casa delle suore di Madre Teresa,  racconta Vladimir, “ho cominciato a vedere un po’ di luce nella mia vita, si è accesa in me la speranza ed è arrivata per me la salvezza. Veramente Dio fa miracoli nella vita delle persone, e con me continua a farli!”. Papa Francesco prende la parola e si congratula subito con Marina e con suo marito. “Dove ci sono bambini e giovani – ricorda il Santo Padre – c’è molto sacrificio, ma soprattutto c’è futuro, gioia e speranza. In questa terra, dove gli inverni sono duri, a voi non manca il calore più importante, quello della casa, quello che nasce dallo stare in famiglia. Con discussioni e problemi? Sì, ma con la voglia di andare avanti insieme”. Il Papa loda la testimonianza delle suore “che non avevano paura di uscire e andare dove voi stavate per essere segno della vicinanza e della mano tesa del nostro Dio”. Sono l’esempio di una fede che “non ha paura di lasciare le comodità, di mettersi in gioco e ha il coraggio di uscire e manifesta le parole più belle di Gesù: “che vi amiate gli uni gli altri; come io vi ho amato”. Un amore – sottolinea Francesco – che rompe le catene che ci isolano e ci separano, gettando ponti; che ci permette di costruire una grande famiglia in cui tutti possiamo sentirci a casa e che sa di compassione e di dignità. La fede missionaria va come queste sorelle per le strade delle nostre città, dei nostri quartieri, delle nostre comunità, dicendo con gesti molto concreti: fai parte della nostra famiglia, della grande famiglia di Dio nella quale tutti abbiamo un posto. Non rimanere fuori”. Rivolto poi a Vladimir, il Papa gli ricorda: “hai trovato sorelle e fratelli che ti hanno offerto la possibilità di risvegliare il cuore e vedere che, in ogni momento, il Signore ti cercava instancabilmente per vestirti a festa come figlio prediletto. La più grande gioia del Signore è vederci rinascere, per questo non si stanca mai di donarci una nuova opportunità. Per questo motivo, sono importanti i legami, sentire che apparteniamo gli uni agli altri, che ogni vita vale, e che siamo disposti a spenderla per questo. Vorrei invitarvi a continuare a creare legami – è l’appello di Papa Francesco – ad uscire nei quartieri per dire a tanti: anche tu fai parte della nostra famiglia. Come i discepoli, siete chiamati da Gesù per continuare a seminare e trasmettere il suo Regno. Lui conta sulla vostra storia, sulla vostra vita, sulle vostre mani per percorrere la città e condividere la stessa realtà che voi avete vissuto. Può contare su ognuno di voi? Il Signore possa continuare a fare miracoli attraverso le vostre mani”. Nella Cattedrale dei Santi Pietro e Paolo, a Tallinn, Francesco insegna: “Grazie per avermi accolto questo pomeriggio nella vostra casa. Per me è importante fare questa visita e poter stare qui in mezzo a voi. Grazie a voi per la vostra testimonianza e per aver condiviso con noi tutto ciò che portate nel cuore. Prima di tutto, vorrei congratularmi con te, Marina, e con tuo marito, per la bellissima testimonianza che ci avete donato. Siete stati benedetti con nove figli, con tutto il sacrificio che questo significa, come ci hai fatto notare. Dove ci sono bambini e giovani, c’è molto sacrificio, ma soprattutto c’è futuro, gioia, speranza. Ecco perché è confortante sentirti dire: “Rendiamo grazie al Signore per la comunione e l’amore che regna in casa nostra”. In questa terra, dove gli inverni sono duri, a voi non manca il calore più importante, quello della casa, quello che nasce dallo stare in famiglia. Con discussioni e problemi? Sì, è normale, ma con la voglia di andare avanti insieme. Non sono belle parole, ma un esempio chiaro. E grazie per aver condiviso anche la testimonianza di queste suore che non avevano paura di uscire e andare dove voi stavate per essere segno della vicinanza e della mano tesa del nostro Dio. Tu hai detto che erano come degli angeli che venivano a visitarvi. È così: sono degli angeli. Quando la fede non ha paura di lasciare le comodità, di mettersi in gioco e ha il coraggio di uscire, riesce a manifestare le parole più belle del Maestro: «Che vi amiate gli uni gli altri; come io vi ho amato» (Gv 13,34). Amore che rompe le catene che ci isolano e ci separano, gettando ponti; amore che ci permette di costruire una grande famiglia in cui tutti possiamo sentirci a casa, come in questa casa. Amore che sa di compassione e di dignità. E questo è bello. (Il Papa guarda i nove figli di Marina seduti su un’unica panca e li conta, NdA). Uno, due, tre, quattro, cinque, sei, sette, otto, nove. Bella famiglia! Bella famiglia! La fede missionaria va come queste sorelle per le strade delle nostre città, dei nostri quartieri, delle nostre comunità, dicendo con gesti molto concreti: fai parte della nostra famiglia, della grande famiglia di Dio nella quale tutti abbiamo un posto. Non rimanere fuori. E voi, sorelle, fate questo! Grazie. Penso che questo sia il miracolo che ci hai raccontato tu, Vladimir. Hai trovato sorelle e fratelli che ti hanno offerto la possibilità di risvegliare il cuore e vedere che, in ogni momento, il Signore ti cercava instancabilmente per vestirti a festa (Lc 15,22) e per celebrare il fatto che ognuno di noi è il suo figlio prediletto. La più grande gioia del Signore è vederci rinascere, per questo non si stanca mai di donarci una nuova opportunità. Per questo motivo, sono importanti i legami, sentire che apparteniamo gli uni agli altri, che ogni vita vale, e che siamo disposti a spenderla per questo. Vorrei invitarvi a continuare a creare legami. Ad uscire nei quartieri per dire a tanti: anche tu fai parte della nostra famiglia. Gesù ha chiamato i discepoli, e ancora oggi chiama ciascuno di voi, cari fratelli, per continuare a seminare e trasmettere il suo Regno. Lui conta sulla vostra storia, sulla vostra vita, sulle vostre mani per percorrere la città e condividere la stessa realtà che voi avete vissuto. Oggi, Gesù può contare su di voi? Ognuno di voi risponda. Grazie per il tempo che mi avete regalato. E ora vorrei darvi la benedizione, perché il Signore possa continuare a fare miracoli attraverso le vostre mani. E, per favore, anch’io ho bisogno di aiuto; per favore, non dimenticatevi di pregare per me. Grazie!”. Nell’ultima tappa del viaggio nei Paesi Baltici, Papa Bergoglio ricorda l’importanza della libertà e la bellezza di sentirsi parte di un popolo. “Essere il popolo eletto non significa essere esclusivi né settari, così come la forza di un popolo non si misura con l’imposizione ma con l’ascoltare e il cercare”. Chiarissima allusione, ancorchè sussurrata, anche al comportamento dello Stato di Israele nel mondo. Papa Francesco nell’omelia della Santa Messa celebrata in Piazza della libertà a Tallinn, paragona gli Ebrei fuggiti dall’Egitto che raggiungono il monte Sinai “all’intera nazione dell’Estonia e a tutti i Paesi Baltici. Voi conoscete le lotte per la libertà – spiega il Papa – potete identificarvi con quel popolo. Il popolo che arriva al Sinai è infatti un popolo che ha scelto liberamente di stringere un Patto d’amore con Dio, un popolo che non è obbligato e che Dio vuole libero. Non è uno scambio in cui noi facciamo qualcosa se Dio fa qualcosa. La proposta di Dio non ci toglie nulla, al contrario, porta alla pienezza, potenzia tutte le aspirazioni dell’Uomo. Alcuni si considerano liberi quando vivono senza Dio o separati da Lui. Non si accorgono che in questo modo viaggiano attraverso questa vita come orfani, senza una casa dove tornare. Come il popolo uscito dall’Egitto, si deve quindi ascoltare e cercare. A volte alcuni pensano che la forza di un popolo si misuri oggi da altri parametri. C’è chi parla con un tono più alto, così che parlando sembra più sicuro, senza cedimenti o esitazioni; c’è chi, alle urla, aggiunge minacce di armi, spiegamento di truppe, strategie. Questo – avverte Francesco – è colui che sembra il più forte. Questo però non è cercare la volontà di Dio, ma un accumulare per imporsi sulla base dell’avere. Questo atteggiamento nasconde in sé un rifiuto dell’etica e, con essa, di Dio. Voi non avete conquistato la vostra libertà per finire schiavi del consumo, dell’individualismo o della sete di potere o di dominio. In un Paese come l’Estonia in cui la maggior parte delle persone non si riconosce come credenti, Dio vuole il Suo popolo eletto, sacerdotale e santo, in uscita, audace nel suo volo e protetto solo da Lui. Eletti non significa esclusivi né settari. Siamo la piccola porzione che deve far fermentare tutta la massa, che non si nasconde né si separa, che non si considera migliore o più pura. L’aquila mette al riparo i suoi aquilotti, li porta in luoghi scoscesi finché non riescono a cavarsela da soli, ma deve spingerli a uscire da quel posto tranquillo. Scuote la sua nidiata, porta i suoi piccoli nel vuoto perché mettano alla prova le loro ali; e rimane sotto di loro per proteggerli, per impedire che si facciano male. Così è Dio, così è Dio col suo popolo eletto. Dobbiamo vincere la paura e lasciare gli spazi blindati – rimarca Francesco – uscire come sacerdoti, per promuovere la relazione con Dio, per facilitarla, per favorire un incontro d’amore con Colui che sta gridando: “Venite a me”, e dare testimonianza di essere un popolo santo, risanando i margini e le periferie delle nostre società, là dove il nostro fratello giace e patisce la sua esclusione”. Papa Francesco ringrazia il popolo estone e invoca il dono dello Spirito Santo: “Voi avete manifestato nella vostra storia l’orgoglio di essere estoni, lo cantate dicendo: «Sono estone, resterò estone, estone è una cosa bella, siamo estoni». Com’è bello sentirsi parte di un popolo! Com’è bello essere indipendenti e liberi! Andiamo al monte santo, a quello di Mosè, a quello di Gesù, e chiediamo a Lui, come dice il motto di questa visita, di risvegliare i nostri cuori, di darci il dono dello Spirito per discernere in ogni momento della storia come essere liberi, come abbracciare il bene e sentirsi eletti, come lasciare che Dio faccia crescere, qui Estonia e nel mondo intero, la sua nazione santa, il suo popolo sacerdotale”. Insegna Papa Bergoglio: “Ascoltando, nella prima Lettura, l’arrivo del popolo ebraico, già  libero dalla schiavitù d’Egitto, al Monte Sinai (Es 19,1) è impossibile non pensare a voi come popolo; è impossibile non pensare all’intera nazione dell’Estonia e a tutti i Paesi Baltici. Come non ricordarvi in quella “rivoluzione cantata”, o in quella catena di due milioni di persone da qui a Vilnius? Voi conoscete le lotte per la libertà, potete identificarvi con quel popolo. Ci farà bene, quindi, ascoltare quello che Dio dice a Mosè, per capire quello che dice a noi come popolo. Il popolo che arriva al Sinai è un popolo che ha già visto l’amore del suo Dio manifestato in miracoli e prodigi; è un popolo che decide di stringere un patto d’amore perché Dio lo ha già amato per primo e gli ha manifestato questo amore. Non è obbligato, Dio lo vuole libero. Quando diciamo che siamo cristiani, quando abbracciamo uno stile di vita, lo facciamo senza pressioni, senza che questo sia uno scambio in cui noi facciamo qualcosa se Dio fa qualcosa. Ma, soprattutto, sappiamo che la proposta di Dio non ci toglie nulla, al contrario, porta alla pienezza, potenzia tutte le aspirazioni dell’uomo. Alcuni si considerano liberi quando vivono senza Dio o separati da Lui. Non si accorgono che in questo modo viaggiano attraverso questa vita come orfani, senza una casa dove tornare. «Cessano di essere pellegrini e si trasformano in erranti, che ruotano sempre intorno a sé stessi senza arrivare da nessuna parte» (Esort. ap. Evangelii gaudium, 170). Spetta a noi, come al popolo uscito dall’Egitto, ascoltare e cercare. A volte alcuni pensano che la forza di un popolo si misuri oggi da altri parametri. C’è chi parla con un tono più alto, così che parlando sembra più sicuro, senza cedimenti o esitazioni; c’è chi, alle urla, aggiunge minacce di armi, spiegamento di truppe, strategie.. Questo è colui che sembra più “forte”. Questo però non è cercare la volontà di Dio, ma un accumulare per imporsi sulla base dell’avere. Questo atteggiamento nasconde in sé un rifiuto dell’etica e, con essa, di Dio. Perché l’etica ci mette in relazione con un Dio che si aspetta da noi una risposta libera e impegnata verso gli altri e verso il nostro ambiente, una risposta che è al di fuori delle categorie del mercato (ibid., 57). Voi non avete conquistato la vostra libertà per finire schiavi del consumo, dell’individualismo o della sete di potere o di dominio. Dio conosce i nostri bisogni, quelli che spesso nascondiamo dietro il desiderio di possedere; anche le nostre insicurezze superate grazie al potere. Quella sete, che abita in ogni cuore umano, Gesù, nel Vangelo che abbiamo ascoltato, ci incoraggia a superarla nell’incontro con Lui. È Lui che può saziarci, colmarci con la pienezza della fecondità della sua acqua, della sua purezza, della sua forza travolgente. La fede è anche rendersi conto che Egli è vivo e ci ama; che non ci abbandona e, perciò, è capace di intervenire misteriosamente nella nostra storia; Egli trae il bene dal male con la sua potenza e la sua infinita creatività (ibid., 278). Nel deserto, il popolo d’Israele cadrà nella tentazione di cercare altri dei, di adorare il vitello d’oro, di confidare nelle proprie forze. Ma Dio lo attrae sempre di nuovo, ed essi ricorderanno ciò che hanno ascoltato e veduto sulla montagna. Come quel popolo, anche noi sappiamo di essere un popolo “eletto, sacerdotale e santo” (Es 19,6; 1 Pt 2,9), è lo Spirito che ci ricorda tutte queste cose (Gv 14,26). Eletti non significa esclusivi né settari; siamo la piccola porzione che deve far fermentare tutta la massa, che non si nasconde né si separa, che non si considera migliore o più pura. L’aquila mette al riparo i suoi aquilotti, li porta in luoghi scoscesi finché non riescono a cavarsela da soli, ma deve spingerli a uscire da quel posto tranquillo. Scuote la sua nidiata, porta i suoi piccoli nel vuoto perché mettano alla prova le loro ali; e rimane sotto di loro per proteggerli, per impedire che si facciano male. Così è Dio col suo popolo eletto, lo vuole in “uscita”, audace nel suo volo e sempre protetto solo da Lui. Dobbiamo vincere la paura e lasciare gli spazi blindati, perché oggi la maggior parte degli estoni non si riconoscono come credenti. Uscire come sacerdoti: lo siamo per il Battesimo. Uscire per promuovere la relazione con Dio, per facilitarla, per favorire un incontro d’amore con Colui che sta gridando: «Venite a me» (Mt 11,28). Abbiamo bisogno di crescere in uno sguardo di vicinanza per contemplare, commuoverci e fermarci davanti all’altro, ogni volta che sia necessario. Questa è l’arte dell’accompagnamento, che si attua con il ritmo salutare della prossimità, con uno sguardo rispettoso e pieno di compassione che è capace di guarire, di sciogliere nodi e far crescere nella vita cristiana (Esort. ap. Evangelii gaudium, 169). E infine dare testimonianza di essere un popolo santo. Possiamo cadere nella tentazione di pensare che la santità sia solo per alcuni. In realtà, «tutti siamo chiamati ad essere santi vivendo con amore e offrendo ciascuno la propria testimonianza nelle occupazioni di ogni giorno, lì dove si trova» (Esort. ap. Gaudete et exsultate, 14). Ma, come l’acqua nel deserto non era un bene personale ma comunitario, come la manna non poteva essere accumulata perché si sarebbe rovinata, così la santità vissuta si espande, scorre, feconda tutto ciò che le sta accanto. Oggi scegliamo di essere santi risanando i margini e le periferie della nostra società, là dove il nostro fratello giace e patisce la sua esclusione. Non lasciamo che sia quello che viene dopo di noi a fare il passo per soccorrerlo, e nemmeno che sia una questione da risolvere da parte delle istituzioni; siamo noi stessi quelli che fissiamo il nostro sguardo su quel fratello e gli tendiamo la mano per rialzarlo, perché in lui c’è l’immagine di Dio, è un fratello redento da Gesù Cristo. Questo significa essere cristiani e la santità vissuta giorno per giorno (ibid., 98). Voi avete manifestato nella vostra storia l’orgoglio di essere estoni, lo cantate dicendo: «Sono estone, resterò estone, estone è una cosa bella, siamo estoni». Com’è bello sentirsi parte di un popolo! Com’è bello essere indipendenti e liberi! Andiamo al monte santo, a quello di Mosè, a quello di Gesù, e chiediamo a Lui, come dice il motto di questa visita, di risvegliare i nostri cuori, di darci il dono dello Spirito per discernere in ogni momento della storia come essere liberi, come abbracciare il bene e sentirsi eletti, come lasciare che Dio faccia crescere, qui Estonia e nel mondo intero, la sua nazione santa, il suo popolo sacerdotale”. Al termine della Santa Messa Papa Francesco ringrazia i fedeli presenti: “Cari fratelli e sorelle, prima della benedizione finale, e di concludere questo Viaggio Apostolico in Lituania, Lettonia ed Estonia, desidero esprimere la mia gratitudine a tutti voi, a partire dall’Amministratore Apostolico dell’Estonia. Grazie per la vostra accoglienza, espressione di un piccolo gregge con il cuore grande! Rinnovo la mia riconoscenza alla Signora Presidente della Repubblica e alle altre Autorità del Paese. Uno speciale pensiero va a tutti i fratelli cristiani, in modo particolare ai Luterani, che, sia qui in Estonia sia in Lettonia, hanno ospitato gli incontri ecumenici. Il Signore continui a guidarci nella via della comunione. Grazie a tutti!”. In attesa del viaggio apostolico del Santo Padre nella Santa Russia, risuona l’Accordo provvisorio della Santa Sede con la Cina. Che è stata anche una delle risposte del Papa più attese dai giornalisti sul volo di rientro dai Paesi detti Baltici. Tra i temi toccati da Francesco in alta quota, la difesa dell’identità delle tre Repubbliche, la condanna degli armamenti e degli abusi del clero, definiti una “mostruosità” dal Vescovo di Roma. C’è quindi più di un viaggio nella missione di Papa Bergoglio nel Baltico, a due passi dalla Russia. L’esperienza appena vissuta da Francesco si ramifica presto in un intreccio di semi, pronti a germogliare come i fiori di caffè, sui quali il Papa ha voglia di esprimersi. Temi che sono l’architrave del suo magistero. Così accade un rovesciamento di ruoli. A un certo punto, come testimoniano i vaticanisti, è l’intervistato a pungolare i giornalisti sul volo di rientro da Tallinn, a chiedere domande sul viaggio, frenando le altre che fremono sui taccuini. Perché le prime tre rivoltegli dai colleghi baltici dei Paesi visitati, non bastano a far esprimere appieno cosa sia stato per il Papa immergersi nella realtà delle “tre sorelle”.  Quattro giorni a contatto con le piaghe della memoria che accomunano Lituania, Lettonia ed Estonia, con i loro conti tra un presente politico-finanziario-militare che le ha proiettate stranamente ad Ovest e radici culturali che le trattengono sul versante Est, con un futuro che il Papa ha più volte auspicato nel segno della speranza, di un’autentica riconciliazione. È come se Francesco avesse un mosaico da comporre artigianalmente. Primo, insistere, come fatto praticamente ogni giorno del viaggio, sulla conservazione dell’identità dei Paesi Baltici (vale anche per l’Italia) troppe volte calpestata da invasori crudeli e custodita da coloro che ieri se ne sono serviti come scudo contro le dittature e oggi, anziani, hanno il dovere di trasmetterla ai giovani con l’intero retaggi di cultura, fede, arte. Poi, ripensando alle stanze tortura nel Museo delle vittime di Vilnius, per condannare la violenza e lo scandalo del commercio legale e illegale delle armi che la fomenta. “È lecito e onorevole – sostiene Papa Bergoglio – difendere la Patria ma uno Stato dovrebbe dotarsi di un ragionevole e non aggressivo esercito di difesa”. E ancora richiamare al più volte citato principio della prudenza sull’immigrazione che nelle tre Repubbliche baltiche è sia in entrata sia in uscita, notando come gli stessi capi di Stato appena incontrati abbiano riconosciuto il valore dell’accoglienza. Francesco si “sottomette” pure al dovere di cronaca. L’Accordo provvisorio con la Cina è l’argomento che all’arrivo in Lituania ha immediatamente spostato molto più a Est, oltre la vicina Russia, l’attenzione degli “esperti” di fatti vaticani. Le critiche sulla svolta maturata Sabato 22 Settembre 2018, su cui la Santa Sede lavora da dieci anni, sono note: il Vaticano avrebbe “svenduto la Chiesa a Pechino”. Ma il Papa replica con calma: “l’Accordo l’ho firmato io – rivela Francesco – sono io il responsabile”. E chiede di “pregare per chi, avendo tanti anni alle spalle di clandestinità, oggi non ne comprende la portata. In ogni accordo di pace – ricorda Papa Bergoglio – tutte e due le parti perdono qualcosa e tuttavia adesso è il Papa a nominare i vescovi cinesi”. Francesco loda la “pazienza e la saggezza dei negoziatori vaticani”, dal cardinale Parolin a mons. Celli al padre Rota Graziosi, asserendo di aver valutato “tutti i dossier dei vescovi” la cui nomina non aveva ancora l’avallo pontificio e rammentando che essa sia diventata di “esclusiva pertinenza papale” in tempi non così lontani. E sempre sulla Cina, il Celeste Impero alleato della Russia, Francesco offre un tributo alla “grande fede dei cattolici così a lungo provata. Sempre in un Accordo – riconosce il Papa – c’è sofferenza”. E rivela un aneddoto: in occasione del “famoso comunicato di un ex nunzio apostolico”, che aveva spinto molti episcopati a esprimergli vicinanza, anche i fedeli cinesi lo hanno fatto firmando in modo significativo, quelli della Chiesa tradizionale e non, una comune lettera per esprimere al Vescovo di Roma la propria solidarietà. Per Francesco, quello “è stato il segno”! Il Papa poi risponde alla domanda di una giornalista germanica, prendendo spunto dalle parole dette ai giovani estoni. Sarebbe “mostruoso anche se ci fosse un solo prete ad aver commesso questo crimine – confessa Francesco – non ho mai firmato una richiesta di grazia davanti a una notizia di condanna in relazione ai casi segnalati dalla Congregazione per la Dottrina della fede. Gli abusi sessuali ci sono dappertutto ma nella Chiesa – incalza il Santo Padre – sono ben peggiori perché i sacerdoti devono portare i bambini a Dio e su questo non c’è negoziato. Tuttavia, non si deve commettere l’errore di interpretare il passato con il metro di giudizio, con l’ermeneutica di oggi in cui si ha una diversa sensibilità”. Francesco prende ad esempio la Chiesa della Pennsylvania negli Usa. “Una volta questi crimini si coprivano, mentre da quando la Chiesa ha cominciato a prendere coscienza di questo ce l’ha messa tutta”, e oggi anche le altre Chiese cristiane denunciano tali abusi. Altri temi avrebbero certamente attirato le attenzioni del Papa nei Paesi Baltici. “La Lettonia – scrive Manlio Dinucci – sta costruendo una recinzione metallica di 90 km, alta 2,5 metri, lungo il confine con la Russia, che sarà ultimata entro l’anno. Sarà estesa nel 2019 su oltre 190 km di confine, con un costo previsto di 17 milioni di euro. Una analoga recinzione di 135 km viene costruita dalla Lituania al confine col territorio russo di Kaliningrad. L’Estonia ha annunciato la prossima costruzione di una recinzione, sempre al confine con la Russia, lunga 110 km e alta anch’essa 2,5 metri. Costo previsto oltre 70 milioni di euro, per i quali il governo estone chiederà un finanziamento Ue. Scopo di tali recinzioni, secondo le dichiarazioni governative, è «proteggere i confini esterni dell’Europa e della Nato». Esclusa la motivazione che essi debbano essere «protetti» da massicci flussi migratori provenienti dalla Russia, non resta che l’altra: i confini esterni della Ue e della Nato devono essere «protetti» dalla «minaccia russa». Poiché la recinzione costruita dai Paesi Baltici lungo il confine con la Russia ha una efficacia militare praticamente nulla, il suo scopo è fondamentalmente ideologico: quello di simbolo fisico che, al di là della recinzione, c’è un pericoloso nemico che ci minaccia. Ciò rientra nella martellante “psy-op” politico-mediatica per giustificare la escalation Usa/Nato in Europa contro la Russia. In tale quadro, il Presidente della Repubblica Italiana, Sergio Mattarella, si è recato in Lettonia due volte, la prima nel Luglio 2018 in un giro di visite nei Paesi Baltici e in Georgia. Al pranzo ufficiale a Riga, il Presidente della Repubblica italiana ha lodato la Lettonia per aver scelto la «integrazione all’interno della Nato e dell’Unione Europea» e aver deciso di «abbracciare un modello di società aperta, basata sul rispetto dello stato di diritto, sulla democrazia, sulla centralità dei diritti dell’uomo». Lo ha dichiarato al Presidente lettone Raymond Vejonis, il quale aveva già approvato in Aprile il disegno di legge che proibisce l’insegnamento del russo in Lettonia, un Paese la cui popolazione è per quasi il 30% di etnia russa e il russo è usato quale lingua principale dal 40% degli abitanti. Una misura liberticida che, proibendo il bilinguismo riconosciuto dalla stessa Unione Europea, discrimina ulteriormente la minoranza russa, accusata di essere «la quinta colonna di Mosca». Due mesi dopo, nel Settembre 2018, il Presidente Mattarella è tornato in Lettonia per partecipare a un vertice informale di Capi di Stato dell’Unione Europea, in cui è stato trattato tra gli altri il tema degli attacchi informatici da parte di «Stati con atteggiamento ostile» (chiaro il riferimento alla Russia). Dopo il vertice, il Presidente della Repubblica si è recato alla base militare di Ᾱdaži, dove ha incontrato il contingente italiano inquadrato nel Gruppo di battaglia schierato dalla Nato in Lettonia nel quadro della «presenza avanzata potenziata» ai confini con la Russia. «La vostra presenza è un elemento che rassicura i nostri amici lettoni e gli altri Paesi Baltici», ha dichiarato il Presidente della Repubblica Italiana. Parole che sostanzialmente alimentano la guerra psicologica, suggerendo l’esistenza di una minaccia per i Paesi Baltici e il resto dell’Europa proveniente dalla Russia. Il 24 Settembre arriverà in Lettonia anche Papa Francesco, in visita nei tre Paesi Baltici. Chissà se, ripetendo che si devono «costruire ponti non muri», dirà qualcosa anche sulla nuova cortina di ferro che, dividendo la regione europea, prepara le menti alla guerra. Oppure se a Riga, deponendo fiori al «Monumento per la libertà», rivendicherà la libertà dei giovani lettoni russi di imparere e usare la propria lingua” (http://www.voltairenet.org/article203024.html). In Italia i primi alberi sono già stati abbattuti: inizia così il potenziamento del più grande arsenale degli Usa all’estero. Si tratta della base Camp Darby in Toscana, vicina al porto di Livorno, zona cruciale per gli spostamenti di armi verso le guerre americane. A riconferma del ruolo chiave dell’Italia per le strategie militari a stelle e strisce, anche durante il Governo “sovranista” Conte. Sono circa mille gli alberi del Parco Regionale di San Rossore fra Pisa e Livorno che verranno tagliati per implementare e rendere ancora più efficiente la base statunitense Camp Darby. Non solo su strada, il progetto prevede la realizzazione di una via ferroviaria e un rinnovamento del canale dei Navicelli per rendere ancora più agevole il trasporto di munizioni, armi e carri armati dall’interno e dall’esterno della base americana. Camp Darby è solo un esempio delle numerose basi Nato e statunitensi sul territorio italiano, in media una per Provincia, che fanno sorgere molte domande e preoccupazioni per quanto riguarda l’ambiente circostante e i pericoli per la salute dei cittadini. Il Muos con le sue enormi antenne elettromagnetiche e il disboscamento della sughereta di Niscemi, sono altri due preoccupanti casi. Con il nuovo governo ci sarà un cambio di rotta e si aprirà un dibattito sulle basi militari a stelle e strisce sul territorio italiano? Secondo Mirko Molteni, giornalista esperto di storia e argomenti militari, “il primo passo è il taglio di quasi 1000 alberi, il vero progetto è la realizzazione di una ferrovia per trasportare armi e munizioni verso e dalla base. Sono lavori per l’efficientamento logistico della base Camp Darby, che dagli Anni ‘50 del XX Secolo gli Americani hanno stabilito molto vicino al porto di Livorno. È iniziato in questi giorni il taglio di 937 alberi per fare spazio alla progressiva costruzione di una linea ferroviaria di un paio di chilometri che arriverebbe nel cuore della base. L’obiettivo è offrire un mezzo in più per spostare armi e munizioni della base. La ferrovia verrà poi affiancata da un rinnovato ruolo del canale dei Navicelli che attraversa il territorio della base, collegandola per via d’acqua al porto di Livorno. Il ruolo della base Camp Darby, importante deposito di armi e munizioni, viene rilanciato non tanto come aumento delle quantità di materiale immagazzinato, quanto per il fatto che viene reso più agevole e veloce il movimento delle armi. Camp Darby è fra i più importanti arsenali degli Stati Uniti in Europa, usato per trasportare armi e munizioni per diverse guerre americane. Come insegna l’esperienza sia della II Guerra Mondiale sia dei 40 anni di Guerra Fredda, gli Stati Uniti hanno sempre puntato sulla logistica come uno dei propri maggiori punti di forza. Curando la logistica, la catena di basi, di raccolta e smistamento delle armi, hanno potuto trasferire durante la II Guerra Mondiale le loro forze militari dal continente Nord Americano all’Europa per combattere contro la Germania; poi durante la Guerra Fredda allo stesso modo hanno potuto contare su una catena logistica di rifornimenti dal Nord America verso l’Europa Occidentale e i Paesi della Nato. Nel caso della Guerra Fredda era importante assicurare sempre, se ci fosse stato un conflitto con l’Unione Sovietica, il flusso di rifornimenti verso i Paesi della Nato. La base Camp Darby è strategica, è in una posizione favorevole, è a poca distanza sia dall’Europa Centrale sia dal Mediterraneo e dall’Africa. Gli Stati Uniti continuano sempre nell’ottica Nato ad essere guardinghi verso la Russia, come dimostra la crisi ucraina dal 2014. Al contempo vediamo una forte minaccia del terrorismo islamista e una crescente instabilità in Medioriente. Camp Darby è strategica anche per il Mediterraneo, per assicurare un dispiegamento di mezzi se necessario in Nord Africa e nella fascia delle nazioni islamiche. Al trasporto su strada si aggiunge la via ferroviaria e in più un potenziale uso del canale dei Navicelli, tutto ciò si può leggere come un modo di diversificare su tre vie l’accesso dei mezzi di trasporto alla base Usa in Italia. Oggi inoltre le minacce possono cambiare più in fretta che in passato, per gli Americani trasferire munizioni e carri armati da una base all’altra deve essere il più veloce possibile. Al vicino porto di Livorno attraccano navi militari statunitensi anche con a bordo armi nucleari. In generale, sia per quanto riguarda gli Stati Uniti sia per quanto riguarda le altre grandi potenze nucleari, come la Russia, la Gran Bretagna, la Cina e via dicendo, le armi nucleari sono molto ben custodite ed è veramente impossibile pensare ad un incidente inteso come innesco di un’esplosione nucleare. Non è accaduto negli Anni ‘60 quando ci furono episodi di bombardieri B-52 precipitati in mare: le armi che portavano a bordo furono ritrovate sul fondo del mare, ma non esplosero minimamente. Potrebbe esserci qualche rischio a livello di radioattività. Anche in questo caso l’involucro dell’ordigno nucleare si dovrebbe rompere. All’interno di una base esistono tutti i sistemi di sicurezza. Il rischio è potenziale, ma si può considerare bassissimo, considerando che i controlli sono multipli, così come le chiavi di sicurezza. Nel caso del Muos e di altri tipi di basi è un’altra questione, parliamo in questo caso di onde elettromagnetiche per certe frequenze radar. Se vi sono onde ad altissima frequenza teoricamente potrebbero avere degli effetti sulla salute. Anche in questo caso gli studi sono controversi perché dipende molto dalla distanza delle case dalle antenne radar. Nel momento in cui esistono dei Trattati di alleanza per cui gli Stati Uniti possono aprire e ampliare strutture con il consenso del Governo italiano, entriamo in una questione puramente militare. Non tutto può essere rivelato, purtroppo è un grande “gioco” che da sempre le grandi potenze conducono fra di loro fin dagli albori della storia. Certamente è importante comunque anche sotto l’aspetto politico che in futuro i governi ne possano parlare serenamente anche per rassicurare la popolazione. Questo Governo ha spesso dato segnali di voler superare la contrapposizione fra la Nato e la Russia. La Russia è un partner commerciale e culturale importante per l’Italia. Con questo Governo sicuramente l’Italia può recuperare un ruolo di mediazione che già ha avuto all’epoca del Governo Berlusconi, grazie all’amicizia personale fra l’ex premier e il Presidente Vladimir Putin. Sarebbe importante recuperare il ruolo di mediazione dell’Italia come ponte naturale fra Est ed Ovest in nome di una maggiore comprensione fra l’Occidente e la Russia, badando a quelli che sono i veri nemici comuni: il terrorismo e il crimine organizzato”. Alcune migliaia di fanti, centinaia di carri armati, di veicoli da combattimento della fanteria e di veicoli trasporto truppe, artiglieria ed elicotteri: la Polonia ha deciso di mutare l’assetto geopolitico europeo collocando sul proprio territorio una base militare americana. Infatti, in territorio polacco sarà posizionata un’intera brigata corazzata dell’esercito Usa. Nel cuore dell’Europa. Mentre a Washington si pensa ai dettagli, screditando tutti coloro che la pensano diversamente e creando un apposito Ufficio contro le “attività maligne della Russia nel mondo” alla Casa Bianca, i Polacchi si sono già detti pronti a spendere per la base Usa la bellezza di 2 miliardi di dollari. Quali vantaggi trarranno Varsavia e Washington da questa base in Europa che Papa Francesco dovrebbe cassare all’istante? Gli Usa e la Polonia stanno conducendo trattative bilaterali, al di fuori della Nato. E già questo suona strano e pericoloso per le “democrazie” occidentali. I Polacchi spiegano la necessità della presenza militare americana con la possibile “minaccia russa”. In particolare, sono preoccupati dai solidi legami tra Mosca e Minsk non solo in ambito economico ma anche militare. Il vice ministro polacco della Difesa, Tomasz Szatkowski, pare sia convinto che con il contingente americano schierato in assetto da battaglia in Europa, quindi con tutti i ponti appositamente “validati” per la libera circolazione europea dei mezzi Usa, “la Polonia non verrà più considerata uno Stato cuscinetto e questo contribuirà realmente a un senso di sicurezza”. Dunque nel Paese di San Giovanni Paolo II sono stati ricollocati circa 4000 militari statunitensi sia come divisioni del Pentagono sia come forze multinazionali della Nato. In verità, per ora arrivano in Polonia a rotazione quando prendono parte ai colossali addestramenti comuni in Europa. Tuttavia, per ora gli Usa sembrano indugiare a trasferire le armi corazzate dopo gli addestramenti. Per aggirare gli accordi internazionali, è necessario sfruttare qualche cavillo, qualcje incidente! Ad esempio, nell’Anno Domini 2017 nell’ambito dell’operazione “Atlantic Resolve”, gli Usa hanno collocato in Polonia la Terza Brigata di mezzi corazzati composta da centinaia di carri armati “M1A1” Abrams, obici pesanti semoventi “M109” Paladin e veicoli da combattimento della fanteria “Bradley”. In seguito, a dare il cambio a questa “divisione” hanno mandato la Seconda Brigata di mezzi corazzati con più o meno la stessa composizione. Sulla carta è filato tutto liscio: alcuni soldati arrivano, altri se ne vanno. Ma non hanno portato con sé le armi. Sembrerebbe, insomma, anche secondo le fonti russe, che niente vada contro la legge: i carri armati vuoti sono fermi! Ma gli equipaggi in grado di manovrare questi mezzi in caso di necessità possono arrivare alla base in sole due ore da Ramstein in Germania. Gli Americani utilizzavano questa tattica della “doppia base” già ai tempi della Guerra Fredda. Ogni anno durante gli addestramenti “Reforger” in determinate giornate dispiegavano le truppe nella Germania Occidentale dove avevano accesso ai sistemi di armamenti già pronti all’uso. Gli equipaggi allora erano consegnati per via aerea. La rotazione è una cosa, mentre il contingente militare permanente degli Usa nel cuore dell’Europa orientale, vicino al confine russo, è tutta un’altra storia. L’analista militare Aleksandr Perendzhiev ritiene che la nuova situazione permetterebbe all’élite politica polacca di rafforzare significativamente le proprie posizioni sia nel Paese sia in Europa. “Si tratta di truppe mobili che in caso di necessità possono spostarsi velocemente in qualunque angolo dell’Europa – avverte Perendzhiev – la Polonia diventerà una roccaforte per lo spostamento delle truppe anche verso l’Ucraina. Ma si potrebbe parlare anche di Stati come la Repubblica Ceca, la Slovacchia, l’Ungheria che nell’ultimo periodo stanno dimostrando una certa indipendenza dalla Nato e dalla Ue. La base militare permetterà agli Americani di dare segnali forti che richiamano all’uso della forza durante le trattative. In sostanza, questo è un atto di occupazione dell’Europa orientale in cui l’élite politica polacca serve da strumento e aiutante degli Usa”. Segnali preoccupanti si notano anche in Italia sotto gli occhi del Governo Conte che dovrebbe essere politicamente, ma non sulla carta contrattuale Lega-M5S, “sovranista” per gli Italiani. Il colonnello generale Leonid Ivashov, ex funzionario della Direzione generale per la cooperazione militare internazionale al Ministero della Difesa russo, è convinto che una presenza prolungata delle truppe americane in Polonia abbia come fine la promozione degli interessi economici statunitensi in Europa. “Gli Americani devono vendere agli Europei il loro gas di scisto costoso e di bassa qualità – osserva Ivashov – per questo Washington tiene sotto scacco l’Europa mediante la forza militare, in primis della Nato. Ad esempio, l’esercito della Nato in Europa è sempre comandato da un generale o da un ammiraglio degli Usa a cui è affidato un ampio margine di manovra. Oggi i rapporti tra Washington e i Paesi dell’Europa occidentale stanno peggiorando, in particolare quelli con la Germania e la Francia. Per questo, gli Usa stanno sfruttando per i propri interessi i Paesi orientali che sono maggiormente malleabili. Ad esempio, in seguito a determinate pressioni, la Bulgaria ha rinunciato al gasdotto russo facendo praticamente largo al gas di scisto americano”. È la Guerra del Gas, non solo psicologica. Dal punto di vista militare, gli esperti ritengono che il nuovo sito americano in Europa non rappresenti una minaccia per la sicurezza della Russia. “È una piccola base – precisa Ivashov – non dobbiamo averne paura, abbiamo tutti i mezzi necessari per rispondere in caso di attacco. I militari in quella base saranno al massimo 6000. Le truppe che oggi si trovano in territorio polacco entreranno a far parte dell’equipaggio della base. A queste si aggiungeranno un altro paio di battaglioni: gli Americani, infatti, non hanno un numero infinito di mercenari”. L’Amministrazione Russa di Putin ritiene che la collocazione della base militare statunitense in Polonia sia una decisione sovrana di Varsavia che non contribuisce alla stabilità del continente e porterà alle contramisure russe che poi anche la russofobia cattolica interpreta sempre come “primo atto”, mai come difesa della Russia alle pressioni della Nato sui suoi confini. Oggi il contingente militare Nato in Europa arriva alle 60.000 unità totali. La grande base di Ramstein è situata nella Germania settentrionale. Ramstein è una delle due basi sul territorio germanico in cui sono conservate testate nucleari. È anche un punto di riferimento con il Quartier Generale dell’Aeronautica militare Usa in Europa e una delle basi Nato. In questa struttura vi sono circa 15.000 militari e lavorano approssimativamente 30.000 esperti civili. Ci sono altre basi militari in Olanda, Belgio, Lussemburgo e Italia. Inoltre, a partire dall’Anno Domini 2016 su richiesta di Lettonia, Lituania ed Estonia, i tre Paesi “pacifisti” agli occhi di Papa Bergoglio, la Nato ha dispiegato proprio sulle “tre sorelle” dei battaglioni multinazionali, sui confini russi. In seguito, il Ministero della Difesa lituano ha comunicato la creazione a 60 km dal confine con la Russia del primo poligono aeronautico nella penisola baltica che soddisfa gli standard della Nato. Tuttavia, stando alle informazioni ottenute, la Russia sul fronte “Ovest” non avrebbe sulla carta problemi a garantire la propria sicurezza, perché ha risorse a sufficienza per portare a termine contrattacchi militari efficaci in caso di invasione massiccia di stampo napoleonico-hitleriano. Oggi una “Operazione Barbarossa” contro la Russia non avrebbe speranze fin dall’inizio delle ostilità. Infatti, nella regione di San Pietroburgo sono dispiegati gruppi della Sesta Divisione dell’Esercito dell’Armata Rossa equipaggiata con i carri armati “T72”, con obici a lungo raggio anche nucleari, con sistemi missilistici “Iskander-M” e lanciafiamme “TOS-1A” Solntsepek. Più a sud, nelle regioni di Belgorod, Voronezh e Smolensk, sono dispiegati gruppi della Ventesima Divisione dell’Esercito del Distretto militare occidentale che al momento sta ammodernando i propri armamenti, in particolare con i carri armati T-72B3 di ultima generazione. Nella regione di Pskov sono dispiegate la Settantaseiesima Divisione delle truppe aviotrasportate e una brigata delle Forze speciali. Nella regione di Kaliningrad sono dispiegate l’Undicesima Divisione della Flotta del Baltico con carri armati T72, artiglieria pesante e il sistema missilistico Iskander-M. Dall’alto, a difendere la Russia, vi è la Sesta Divisione dell’Aeronautica militare e i sistemi di difesa antimissilistica delle Forze Spaziali Russe con piattaforme di decollo/atterraggio nelle regioni di Voronezh, Smolensk, San Pietroburgo e Pskov. La Triade Nucleare Russa è sempre pronta H24 a rispondere a qualsiasi attacco a sorpresa. La maggior parte degli analisti russi è concorde sul fatto che la dislocazione della base militare in Polonia non farà scoppiare una grande guerra in Europa perché questo non lo vuole nessuno, né gli Usa né l’Europa né la Russia. La conclusione che se ne può trarre è soltanto una: gli Americani sono nuovamente riusciti, sebbene di poco, a rafforzare il loro controllo sulla Ue, il cui Parlamento risulta totalmente inutile agli occhi dei cittadini europei sovrani. E il Governo polacco (anche italiano) dovrà giustificare ai cittadini i miliardi di euro-dollari spesi per la Difesa d’Oltreoceano imposta dagli Usa. Anche cibernetica. Come riporta il “New York Times”, nella sede di Facebook è infatti già entrata in funzione la “Camera della guerra”. Il compito dei suoi 20 addetti, più circa altri 300 collaboratori di Facebook esterni e 20.000 persone sparse per tutto il mondo, sarà quello di “sradicare la disinformazione e le fake news ed eliminare gli account falsi che potrebbero tentare di influenzare gli elettori prima delle elezioni negli Usa, in Brasile e in altri Paesi”. Alla faccia del bicarbonato di sodio, direbbe il grande Totò. Facebook è una multinazionale telematica americana. Ma è intenzionata a lavorare come “garante della verità” non solo per gli elettori statunitensi, ma anche per “altri Paesi”. No, questo non significa che qualcuno comincerà a chiedere ai Paesi quali criteri debba seguire la Rete di Zuckerberg per bannare i “fake”. In Pakistan, ad esempio, Facebook ha fornito un supporto per “combattere le menzogne” durante le elezioni dell’Estate 2018, collaborando a stretto contatto con la commissione elettorale statale e bloccando quando necessario su richiesta del governo. Vi sono motivi per credere che per paura di essere bloccati o di perdere pubblico potrebbero “addomesticare” questo mezzo anche altri governi, compreso quello russo. A proposito, la Ue già fa pressioni su Facebook su più fronti: il Commissario europeo per la giustizia, Vera Jourova, spiega che Facebook ha tempo fino alla fine dell’anno per smettere di raccogliere e utilizzare i dati degli utenti in ottemperanza alla normativa europea. “Ci lavoriamo da più di due anni e sto cominciando a perdere la pazienza. Vogliamo vedere un risultato. Se non lo vedremo, imporremo delle sanzioni”, comunica il Commissario Ue. Solo 10 anni fa sarebbe stato impensabile sentire una simile arringa da parte di un euro-funzionario ceco, alla vigilia delle nuove elezioni del Parlamento Europeo, il 26 Maggio dell’Anno Domini 2019. Insomma, il futuro dei “social network” sarà estremamente inquieto. In primo luogo, o cominceranno ad osservare le normative di tutti i Paesi che avanzeranno pretese sui loro statuti o saranno costretti a perdere la speranza di legare l’intero mondo a un unico standard (il loro). E, dunque, cominceranno a proporre vari contratti di utenza ai cittadini dei vari Paesi. Ad esempio, alcuni Ucraini potranno essere spiati tramite il monitor, mentre tutti i dati dei Germanici dovranno essere cancellati. In secondo luogo, è altamente probabile che i social network saranno costretti de facto a “proteggere” vari Paesi da reciproche ingerenze. Dunque, in un ufficio di Facebook, si impegneranno a difendere i Sauditi dalla “propaganda sionista” e allo stesso modo, all’altro capo dei computer, gli Israeliani da quella islamista. Se per caso l’ufficio russo del social network americano cominciasse a combattere le ingerenze dell’Amministrazione statunitense nella politica russa, si verrebbe a creare una situazione divertente. Ma la logica degli eventi ci porta a non escludere completamente una tale possibilità. E proprio qui si scopre il “trucco”. I social media, per come li conosciamo, sono stati creati per un Secolo Unipolare in un Mondo Unipolare, quello Usa-Israeliano. Linkedin nel 2002, Facebook nel 2004, Twitter nel 2006 e Instagram nel 2010. Sono strumenti di controllo! Era un periodo in cui Internet non era ancora stato assoggettato alla legge. E contemporaneamente un’epoca in cui il futuro del Pianeta Terra non suscitava grandi preoccupazioni: si prospettava la supremazia di un’unica grande nazione occidentale. E questa supremazia era totalizzante: forze aeronautiche, film di Hollywood, etichette discografiche di Los Angeles e New York, social media della Silicon Valley, ideologia del Gender. Il mondo aveva un’unica scelta: cedere alle regole a stelle e strisce o farlo dopo. Ma farlo. Le cose sono cambiate, checchè vada minacciando il Presidente Trump dallo scranno più alto dell’Assemblea delle Nazioni Unite il 25 Settembre 2018, e anche in modo incredibilmente veloce. Inizialmente entra in crisi il mondo descritto da Fukuyama: nel mondo, oltre agli Usa, vengono a galla altre nazioni. Poi, tra le due metà del mondo occidentale, qualcosa si guasta e l’Europa è pronta a sbarazzarsi del dollaro. E infine le élite politiche e religiose capiscono che Internet è una risorsa per la quale si può e si deve combattere. Ora l’assetto iniziale dei social network non è al passo con le reali richieste dei governi, i quali con il tempo saranno sempre più avidi di “sovranità” sui propri canali di informazione. Ma questo non è tutto. Per il cittadino la cosa più interessante è un’altra. I media russi, quasi sempre ignorati dai Tg italiani, nell’ultimo periodo stanno denunciando la politica mediatica occidentale. I Russi credevano che gli occidentali difendessero la libertà e la democrazia. Ma ora sanno per certo che gli occidentali della “difesa dei diritti umani” erano solo ipocriti. Nascondendosi sotto la lotta alle fake news e alle ingerenze esterne, introducevano una censura diretta e intralciavano la libertà di espressione di coloro che non piacevano ai loro capi. E portano ancora avanti una guerra mediatica ormai allo scoperto contro la Russia. Religiosi, giornalisti, analisti “cristiani” compresi. Vedi Tg2000, la Tv della Conferenza Episcopale Italiana. Dunque, si ritiene che nella cosiddetta “guerra contro la Russia” gli hacker di Putin, gli Skripal avvelenati e i “froci” torturati non siano il motivo principale della campagna stessa. La ragione, invece, di questa guerra mediatica contro la Russia, sarebbe interna e riguarderebbe tutti i Paesi avanzati, cioè la volontà di controllare i media nazionali. Questo perché, va ribadito, ora i vari Paesi hanno capito che le visualizzazioni, i “mi piace” e la condivisione di post, sono un vero e proprio capitale con il quale si possono comprare le persone, la verità e tutto il resto. In pratica la situazione attuale è una specie di unione tra anarchia e occupazione: in Patria c’è la zecca di Stato, ma l’emissione vera e propria del “denaro” si fa all’estero. È il nuovo totalitarismo telematico, un fatto a dir poco paradossale perché “figlio” delle democrazie liberali capitaliste. E le varie nazioni nel frattempo si stanno affrettando a costruire del “filo spinato”, dei “confini” e dei “muri” su Internet all’interno dei quali opprimere l’anarchia delle menti libere. E poiché dichiarare apertamente e direttamente ai cittadini che “la libertà è finita” non è possibile nelle “democrazie” degli stati di diritto, si dice loro invece che è giunto il momento di “difendere” la loro “libertà mediatica”. Da chi? Dai Russi e dai Cinesi, ovviamente. Per questo, è stata introdotta la “polizia per il controllo della libertà”. Pensare che durante il viaggio apostolico di Papa Francesco nelle tre Repubbliche baltiche si potesse parlare di Cina, invece che logicamente della confinante Russia, sarebbe apparso quanto meno assurdo all’attento orecchio dell’esperto vaticanista, la vigilia del volo papale. Ma è ciò che miracolosamente è accaduto. Il 26 Settembre 2018 viene pubblicato un Messaggio di “fraterno incoraggiamento” del Papa ai Cattolici cinesi e a tutta la Chiesa universale, come annunciato da Francesco durante l’Udienza Generale in Piazza San Pietro. “Sabato scorso – ricorda il Santo Padre – è stato firmato a Pechino un Accordo Provvisorio tra la Santa Sede e la Repubblica Popolare Cinese sulla nomina dei Vescovi in Cina. L’Accordo è frutto di un lungo e ponderato cammino di dialogo, inteso a favorire una più positiva collaborazione tra la Santa Sede e le Autorità cinesi per il bene della Comunità cattolica in Cina e per l’armonia dell’intera società. Con ciò auspico che in Cina si possa aprire una nuova fase, che aiuti a sanare le ferite del passato, a ristabilire e a mantenere la piena comunione di tutti i Cattolici cinesi e ad assumere con rinnovato impegno l’annuncio del Vangelo. Cari fratelli e sorelle, abbiamo un compito importante! Siamo chiamati ad accompagnare con fervente preghiera e con fraterna amicizia i nostri fratelli e sorelle in Cina. Essi sanno che non sono soli. Tutta la Chiesa prega con loro e per loro. Chiediamo alla Madonna, madre della Speranza e Aiuto dei Cristiani, di benedire e custodire tutti i Cattolici in Cina, mentre per l’intero Popolo cinese invochiamo da Dio il dono della prosperità e la pace”. Nel quadro dei contatti tra la Santa Sede e la Repubblica Popolare Cinese, che sono in corso da tempo per trattare questioni ecclesiali di comune interesse e per promuovere ulteriori rapporti di intesa, il 22 Settembre 2018 si è svolta a Pechino una riunione tra Mons. Antoine Camilleri, sottosegretario per i Rapporti della Santa Sede con gli Stati, e S.E. il Sig. Wang Chao, Viceministro degli Affari Esteri della Repubblica Popolare Cinese, rispettivamente Capi delle Delegazioni vaticana e cinese. Nel contesto di tale incontro, i due Rappresentanti hanno firmato un Accordo Provvisorio sulla nomina dei Vescovi. Il suddetto Accordo Provvisorio, che è frutto di un graduale e reciproco avvicinamento, viene stipulato dopo un lungo percorso di ponderata trattativa e prevede valutazioni periodiche circa la sua attuazione. Esso tratta della nomina dei Vescovi, questione di grande rilievo per la vita della Chiesa, e crea le condizioni per una più ampia collaborazione a livello bilaterale. È auspicio condiviso che tale intesa favorisca un fecondo e lungimirante percorso di dialogo istituzionale e contribuisca positivamente alla vita della Chiesa cattolica in Cina, al bene del Popolo cinese e alla pace nel mondo. “Non ci sono altri obiettivi in questo Accordo – rivela padre Antonio Spadaro, direttore de La Civiltà Cattolica – le sfide fondamentali sono di carattere pastorale; c’è bisogno, oggi, di annunciare il Vangelo e probabilmente, se vogliamo, questo Accordo sarà anche un segno, un segno di speranza, un segno di pace in un mondo in cui continuano a costruirsi muri, specialmente tra Occidente e Oriente. Con questo Accordo non ci sono più quelle difficoltà che avevano tenuto la Chiesa divisa tra due comunità. A questo punto, non ci sono ostacoli alla comunione della Chiesa nella sua globalità in Cina e nel suo rapporto con il Santo Padre. Questo è l’obiettivo raggiunto da questo Accordo provvisorio. Si completa però nello stesso tempo un processo durato da molto tempo, iniziato da Giovanni Paolo II, di legalizzazione, cioè di riammissione alla comunione con il Papa, di vescovi che sono stati ordinati illegalmente, illecitamente, quindi ordinati dal governo senza il mandato pontificio. Già dal 2000 a oggi sono circa 40 i vescovi legittimati; Francesco ha completato quest’opera. Indubbiamente, sarà un passaggio importante anche per la missione del Vangelo. La Chiesa non più divisa, potrà essere più libera, vivendo un processo di riconciliazione, di annunciare il Vangelo, che è la cosa più importante. Benedetto XVI aveva un’idea molto, molto chiara e cioè: bisognava trovare un modo per stabilire una fiducia tra il Governo cinese, le Autorità cinesi e la Santa Sede. E la fiducia avrebbe aperto spazi di dialogo e lentamente saremmo arrivati a un punto al quale siamo arrivati oggi. Quindi, direi che Francesco ha portato a compimento i desideri profondi scritti da Benedetto XVI in quel documento così importante. L’Asia è il continente del futuro. Ci sono molti cattolici in Asia: a volte sono piccole comunità, in alcuni Paesi sono estremamente dinamiche. Le comunità che potremmo definire dello “zero virgola”: piccole, ma estremamente forti; semi di un futuro. La Cina ha un bisogno spirituale enorme: lo sta esprimendo. Le conversioni al Cristianesimo raggiungono percentuali molto alte. Generalmente sono conversioni al protestantesimo, perché le comunità protestanti non hanno legami particolari, difficoltà con il governo e quindi sono più lanciate nella missione. La Chiesa cattolica, oggi, è chiamata a rispondere a questo grande desiderio di Vangelo. Il futuro consiste nella predicazione del Vangelo. Non ci sono altri obiettivi in questo Accordo. C’è una dimensione pastorale che però, evidentemente, porta in sé dei semi di futuro. Quindi dobbiamo anche capire cosa questo significhi per la Chiesa universale. Ad esempio, Benedetto XVI nella sua introduzione al volume “La luce del mondo”, pubblicato in edizione cinese, auspicava un Cristianesimo cinese, cioè pienamente cristiano e pienamente cinese. Cosa questo vorrà dire in termini di teologia, di riflessione, considerando la grande cultura di questo Paese a cui Papa Francesco si è appellato più volte, definendosi “ammirato” da questa saggezza? Ripeto, le sfide fondamentali sono sfide di carattere pastorale. La firma di questo Accordo provvisorio ha coinciso con la prima tappa di Papa Francesco nei Paesi Baltici, in Lituania. Parlando con le autorità e con i giovani, il Papa ha detto che è importante custodire l’anima e riscoprire le radici di un popolo. Il messaggio di Francesco in Lituania, vale certamente per tutti i cattolici, anche per i cattolici cinesi. Quando il Papa, a Vilnius, ha parlato di radici, ha parlato anche di accoglienza e di apertura. Cioè, in fondo bisogna recuperare le radici non tanto per rimanere aggrappati a radici senza che queste portino frutti: le radici sono radici di alberi che portano frutto. E il Papa ha detto con grande chiarezza, proprio atterrando a Vilnius, che questo è un Paese che, forte delle radici, ha saputo accogliere persone di nazionalità diverse, di lingue diverse, di religioni diverse. Questo è il futuro. Per noi Gesuiti questo Accordo significa tanto perché noi diciamo che nel cuore di ogni Gesuita c’è la Cina. Matteo Ricci è un uomo che si è formato alla cultura rinascimentale e, assorbendo la cultura europea, ha deciso di andare in Cina e questo, proprio la sua formazione, gli ha permesso di dialogare con la cultura di questo grande Paese: se ne è innamorato, l’ha assorbita. E i Gesuiti dopo di lui hanno elaborato, imparato questa cultura, anche il confucianesimo, e l’hanno trasmesso all’Europa. Quindi, in quale modo hanno cinizzato l’Europa. Colpisce molto come l’evangelizzazione, per questi primi Gesuiti, passi dall’amore profondo per la cultura di un popolo. Quindi, non c’è alcuna voglia di evangelizzazione integralista o quasi di missione culturale, ma c’è la voglia di incontrare un popolo e le sue idee. Mi ha molto colpito anche che il Global Times, che è un giornale ufficiale cinese, proprio nel giorno dell’Accordo siglato tra Cina e Santa Sede, abbia definito Papa Francesco “il primo Papa Gesuita” e lo abbia collegato direttamente a Matteo Ricci dicendo che quest’uomo, come il suo predecessore, aveva un rapporto e ha un rapporto molto flessibile e dinamico per l’evangelizzazione, capace di amare il suo popolo. Questo mi ha colpito perché questo esattamente è il senso dell’Accordo: costruire una fiducia, amare un popolo. Dunque, prendersela con l’Occidente non avrebbe alcun senso, né per la Russia nè per la Cina. Semmai, le differenze sono etiche, morali. Ai tempi della “Crisi dei Missili di Cuba”, se gli Usa avessero aperto il fuoco e ucciso 15 militari Russi, sarebbe scoppiata la Terza Guerra Mondiale in un picosecondo. Com’è effettivamente accaduto, la sera del 17 Settembre 2018, sulle coste della Siria, per la “negligenza militare” di quattro caccia F16 israeliani che, attirando malignamente il fuoco difensivo siriano dopo aver proditoriamente bombardato delle fabbriche nella sovrana Repubblica Araba della Siria, hanno fattivamente contribuito all’abbattimento del velivolo da ricognizione russo IL-20, secondo il Ministero della Difesa del Cremlino. È soltanto questa la differenza tra la Santa Russia e l’Impero del Male nell’Asse finanziario Usa-Israele che sono potenze nucleari, chimiche e batteriologiche. “Preghiamo perché nel mondo prevalgano i programmi per lo sviluppo e non quelli per gli armamenti”, scrive Papa Francesco in un “tweet”, lanciato dal suo account @Pontifex, in occasione della Giornata internazionale per la totale eliminazione delle armi nucleari. Per l’occasione si svolgono una serie di iniziative, volte a sensibilizzare la popolazione mondiale sull’importanza del disarmo. La data scelta ricorda la notte del 26 Settembre 1983, quando Stanislav Evgrafovič Petrov, un tenente colonnello dell’Armata Rossa, salvò il mondo dalla distruzione nucleare, ritenendo correttamente che vi fosse un errore nel sistema informatico che, con errori di lettura, evidenziava allarmi missilistici sui propri schermi, e scegliendo correttamente di non lanciare il contrattacco dei bombardieri e dei missili nucleari che avrebbero dovuto colpire non soltanto Washington e New York. La giornata venne istituita nell’Anno Domini 2013 dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite e si celebra ogni anno con l’obiettivo di rafforzare “la consapevolezza pubblica sulla minaccia rappresentata dalle armi nucleari e sulla necessità che vengano totalmente eliminate” e allo scopo di “mobilitare e sostenere gli sforzi internazionali verso la realizzazione dell’obiettivo comune di un mondo libero da armi nucleari”. Il disarmo nucleare continua a essere uno dei traguardi più importanti e urgenti che l’Onu si prefigge di raggiungere. “Ci sono ancora moltissime aree di crisi nel mondo – dichiara Maurizio Simoncelli, Presidente dell’Istituto di ricerche internazionali archivio disarmo – secondo l’Istituto di ricerca di Oslo sono circa 80”. Nell’ambito delle armi nucleari rimangono infatti dei problemi aperti: la Corea del Nord, che non sembra ancora trovare una concreta risoluzione alle trattative per la denuclearizzazione; Israele, armato di Bombe H da Francia e Usa; e l’Iran, che aveva raggiunto un accordo per consentire una produzione nucleare civile controllata e verificata. Però oggi gli Stati Uniti lo stanno rimettendo in discussione in maniera “aggressiva” viste le parole di Trump all’Onu. Per non parlare di tutta un’altra serie di situazioni drammatiche, collegate invece alle Guerre Umanitarie convenzionali. Malgrado la crescente preoccupazione internazionale, la Dottrina della deterrenza nucleare rappresenta ancora un elemento costitutivo delle politiche di sicurezza di molti Stati. Per ora sono solo 2/3, i Paesi del mondo che hanno voluto e firmato il trattato Onu per il divieto dell’utilizzo delle armi nucleari lo scorso anno. Molti ancora non ne hanno ratificato la firma; molti altri non hanno proprio aderito all’iniziativa, come l’Italia. La comunità internazionale è quasi unanime nel condividere l’obiettivo di un mondo privo di armi nucleari, tuttavia rimangono i dissensi in merito alle modalità e alle tempistiche. “L’Italia è al nono posto a livello mondiale nell’ambito del commercio di armi – osserva Simoncelli – esportando verso i Paesi extra Nato e extra Ue, e concentrandosi soprattutto sull’area Mediorientale. Ha quindi un volume di spesa dedicato alla produzione bellica davvero significativo, al punto tale da inserirsi fra i primi 15 Paesi nel mondo”. Occorre puntare al bando delle armi nucleari ed affrontare con un patto planetario la sfida della impresa spaziale interstellare della Umanità. Per questo serve un maggiore impegno nella liberalizzazione della industria spaziale privata dalla riconversione del complesso militare industriale terrestre oggi votato alle Guerre Umanitarie permanenti. Non dobbiamo rassegnarci all’idea “massonica” che le armi nucleari siano qui per restare sulla Terra pronte all’uso! Non dobbiamo dare credito all’idea che le minacce attuali alla pace internazionale, all’ordine mondiale e alla sicurezza planetaria non permettano il disarmo nucleare, chimico e batteriologico. Il mondo non è più sicuro con le armi NBC. È più pericoloso. La Siria e la Russia hanno smantellato il proprio arsenale chimico. Le politiche nucleari di minaccia, da parte di alcune “democrazie” liberali avanzate come Israele e Usa sono in contraddizione con lo spirito e lo scopo delle Nazioni Unite che in questi giorni inaugurano, anche on line, la 73ma sessione dell’Assemblea Generale a New York City. La pace e la stabilità internazionale non possono essere fondate sulla distruzione mutuamente assicurata o sulla minaccia di annientamento totale. Risuonano alla memoria le parole sempre valide e attuali, sebbene non ancora ascoltate da chi di dovere, pronunciate tre anni fa, nell’Anno Domini 2015, dal Presidente Putin (https://www.youtube.com/watch?v=r8DJJ9JMJEs&feature=share) della Federazione Russa. È il discorso presidenziale più logico in assoluto lanciato dal Palazzo di Vetro. Non è fantapolitica l’adesione, come ha già fatto il Vaticano, al Trattato sulla proibizione delle armi nucleari, varato nel Dicembre 2017, finora firmato da 61 Stati e ratificato da 14. Così anche la raccomandazione dell’entrata in vigore del Trattato per la messa al bando totale degli esperimenti nucleari (Ctbt) per fermare lo sviluppo di armi ancora più letali, nel quadro del Trattato di non proliferazione delle armi nucleari (Ntp) e in vista del loro bando totale. L’intenzione dichiarata di alcuni Stati di sviluppare la propria capacità nucleare, minando quel clima di fiducia reciproca indispensabile per il progresso dei negoziati per liberare infine il mondo dalle armi atomiche, mina la vita sulla faccia della Terra e lo sviluppo dell’impresa spaziale interstellare. Ma anche dissolve nel nulla l’urgenza di dare una risposta globale al fenomeno migratorio che ha assunto, anche grazie ai trafficanti di esseri umani per il commercio degli organi, proporzioni tali da richiedere soluzioni immediate nel miglior interesse delle persone in movimento e per i Paesi di asilo e accoglienza. Questi approcci devono rispondere sia al diritto alla vita e alla libera emigrazione consapevole sia al diritto sovrano degli Stati di proteggere i loro confini, le loro costituzioni, per stabilire una libera politica migratoria, sempre nel pieno rispetto dei diritti umani dei migranti e dei cittadini ospitanti, sulla base del loro status migratorio legale. La strada verso Marrakech, fissato dall’Onu in Marocco, il prossimo Dicembre 2018, speriamo conduca all’adozione del “Patto globale per una migrazione sicura, ordinata e regolare”. Un accordo che aiuterà tutti, gli Stati, la società civile e chiunque di noi, ad essere consapevoli delle sfide che le persone in movimento devono affrontare, cosicché possano incontrare la nostra responsabilità condivisa verso di loro, che Papa Francesco riassume in quattro verbi: accogliere, proteggere, promuovere e integrare. Una politica di disarmo nucleare contribuirebbe quindi non solo alla pace, ma anche allo sviluppo e alla prosperità della Terra: l’eliminazione delle armi nucleari, infatti, renderebbe disponibili ampie risorse per una migliore attuazione degli obiettivi dell’Agenda 2030 per lo Sviluppo Sostenibile, a cui l’Italia partecipa con le sue 90 armi termonucleari B61 americane (Nato) che nel 2020 saranno ulteriormente potenziate con le nuove bombe all’Idrogeno B61-12, a potenza variabile da 3 a 300 chilotoni, create per il controverso caccia digitale F35. Alla fine noi Occidentali siamo riusciti a imparare perfettamente la lezione della Storia, riuscendo a creare la nostra “liberale” Urss capitalista che minaccia stati e popoli liberi. I discorsi pronunciati all’Onu dai soliti “potenti” parlano di guerra e non di pace. Una brutta copia dell’Urss, in verità. Senza alcun “Inno alla gioia”! Il totalitarismo globalista finanziario sarà la nostra rovina. La Liberazione che festeggiamo da Italiani il 25 Aprile e da Europei il 9 Maggio di ogni anno, avrebbe dovuto far squillare la sveglia! I trattati scomodi firmati dall’Italia durante la Guerra Fredda si possono comodamente stracciare se e quando violano la Carta fondamentale delle Nazioni Unite. La Libertà si conquista ogni giorno. Vale per tutti. Non solo per i Paesi Baltici. Ma per tutta l’Europa, Russia compresa.

© Nicola Facciolini

 

 

Redazione - Il Faro 24

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