Quando Victor Breyer, redattore del quotidiano sportivo francese “Le Velo”, fu incaricato di testare il percorso che da Parigi portava a Roubaix non aveva idea di ciò che lo aspettava. Inforcò una bicicletta di fine Ottocento e si mise in marcia dalla capitale verso il confine belga in mezzo a quella terra così selvaggia che sembrava dimenticata. La cartina geografica dice Francia ma lì tutto sa di Belgio. Le montagne sono sommerse sotto i paesaggi bucolici che descrivono la più classica delle ridenti campagne di periferia lontane dalla frenesia cittadina, di tanto in tanto si scorge un bosco messo lì a caso per spezzare la routine del verde e dei campi appena arati. La peculiarità è il manto di pietre taglienti come lame che trafigge le vedute agresti. Le strade conoscono poco l’asfalto, tutto è rimasto così come era.
Un’armonia con la natura che in bicicletta si trasforma in un “Enfer”. Lo pensò Breyet che, dopo una giornata sotto la pioggia gelida e tra il pavé infido, stava finalmente per dire la sua su quell’idea malsana di organizzare una corsa ciclistica da Parigi a Roubaix. “Questo è un progetto diabolico” recitavano le prime righe di un telegramma indirizzato a Louis Minart, caporedattore di “Le Velo”. Il fato ha voluto che Breyet cambiasse idea, che non inviasse quel messaggio così negativo che avrebbe potuto stroncare sul nascere una delle idee più folli e geniali che la storia ricordi.
Alla fine dell’Ottocento Theodore Vienne e Maurice Perez, due importanti filatori di Roubaix appassionati di pista, decisero di costruire un velodromo nei pressi del parco Barbieux. L’impianto doveva essere all’avanguardia in quanto all’epoca era il ciclismo su pista ad infiammare le folle. Sotto la direzione dell’architetto Dupire i lavori iniziarono nell’aprile 1895 e terminarono alla fine del mese successivo. Il velodromo venne inaugurato il 9 giugno con sette corse e migliaia di spettatori. Non paghi del successo organizzativo e di pubblico, Vienne e Perez volevano andare oltre e riempire ancor di più il portafogli. Fu nel febbraio del 1986 che ebbero l’idea di organizzare una corsa su strada che si concludesse proprio nel Velodromo di Barbieux, sito tra i comuni di Roubaix e Croix, con la partenza da Parigi. Il progetto ottenne l’appoggio di “Le Velo”, in particolare di Minart e Breyer, a cui venne affidata l’organizzazione della corsa.
La prima edizione della Parigi-Roubaix si disputò il 19 aprile 1896 e fu vinta dal tedesco Josef Fischer. Le temute stradine in pavé impiegarono poco per diventare l’incubo di ogni corridore. Le pietre erano così sconnesse tra loro che sembravano quasi gettate a caso per tracciare le vie in mezzo ai campi. Tutto ciò provocava terribili sobbalzi ai quali i corridori dovevano spesso arrendersi. La folle idea dei due filatori aveva dato vita alla corsa più selettiva del mondo senza un metro di salita. Ne venne fuori una roulette, una gara in cui protagonista principale è la pazzia, quella tipica delle lotterie dove si può perdere tutto in un niente, dove l’imprevisto è dietro l’angolo, sia esso una caduta, una foratura o un guasto meccanico. Inutile dire che la pioggia rendeva il tutto più drammatico, con le pietre che si trasformavano in saponette e il fango dipingeva maschere di fatica sul viso scavato dei pionieri del ciclismo.
Col passare degli anni la Roubaix è diventata la “Regina delle Classiche” per quel suo fascino che rende tutto incerto e terribilmente complicato da interpretare. La Regina prende le distanze dall’elite parigina ed abbraccia le terre di periferia così abbandonate ed immerse in quell’alone di nostalgia che si trasforma in magia. Dietro la Roubaix si cela il volto sporco dei contadini che per 364 giorni all’anno percorrono le strade di pietra che portano verso la loro vita, quella fatta di sudore e fatica, di polvere nei polmoni e di un’aria limpida che sembra utopia al giorno d’oggi. La Roubaix è un viso coperto di fango scavato nell’animo, una smorfia di dolore che porta lontano, una bicicletta super tecnologica impregnata di polvere e fango come i macigni di inizio secolo scorso. Non ci sono i paesaggi alpini del Giro o del Tour, non ci sono le chiese graziose che dominano i muri fiamminghi, qui il nulla rappresenta il tutto in un ideale orizzonte di distese verdi che porta nel Velodromo più famoso del mondo.
La Roubaix è una corsa selvaggia, rude, bastarda, quasi spettrale. Nell’immediato secondo dopoguerra il paesaggio attorno a Roubaix era devastato dai bombardamenti; da lì nacque l’“Enfer du Nord”, una definizione riadattata nel tempo anche alla dimensione ciclistica, in cui sono le pietre a rappresentare il vero inferno. La Regina si odia o si ama, non esistono mezze misure. Il primo ad odiarla fu Jacques Anquetil che la definiva una “maledetta lotteria per belgi che si corre sulle pietre”, Bernard Hinault la considerava una “stronzata”, Eddy Merckx evidenziava la paura dei corridori che rinunciavano a parteciparvi per non ritrovarsi la schiena a pezzi e le “mani che tremano come quelle degli anziani”, per Franco Ballerini non bastava essere il più forte per vincerla perché questa è una corsa unica e “proprio nella sua unicità sta tutto il suo fascino”, Tom Boonen non aveva bisogno di tattiche ma piuttosto di “due palle così”, Roger De Vlaemick la rispettava perché “se la aggredisci avrà sempre ragione lei”. Ed è forse per questo che nell’albo d’oro al nome dei miti si affiancano i carneadi. Mathew Hayman è stato l’ultimo dell’elenco, il trionfatore a sorpresa in una folle lotteria sulle pietre, una roba per ciclocrossisti o semplicemente svitati. Il ciclismo c’entra poco con la Roubaix, o forse la Roubaix è l’essenza del ciclismo. La odi o la ami. Il suo fascino sta tutto qui.