Passata l’epoca del ‘Blue Whale’ ecco che spopola la nuova follia dei social, il ‘Planking Challenge’. Consiste nel distendersi sulla strada e rotolare ai lati della carreggiata appena un attimo prima del passaggio di un’auto. Vince chi non riesce a farsi investire.
4,39 miliardi di utenti Internet nel 2019, con una media di 6 ore e 42 minuti trascorsi online. Il 71% appartiene ad un target giovane di cui il 30% sotto i 17 anni. Sono questi i dati divulgati dal report di We are social dello scorso anno sulle abitudini degli utenti in rete. Secondo l’UNICEF, inoltre, 1 utente su 3 è un bambino.
200 milioni è invece il numero dei giovanissimi utenti attivi su TikTok, il social network che arriva dalla Cina e che piace agli adolescenti di età compresa tra i 13 e 16 anni. Nato poco più di tre anni fa come app per creare ed editare brevi clip musicali senza una particolare preparazione tecnologica, è oggi un archivio che accoglie oltre 12 milioni di video al giorno da ogni angolo del pianeta. Video che fino a qualche anno fa, quando il network si chiamava ancora ‘Musical.ly’ erano una sorta di innocui e divertenti karaoke ma che oggi, ahimé, destano preoccupazione a causa della mania incontrollata dei ragazzi di sbalordire la web community. Costi quel che costi, anche la vita.
Malgrado una multa di quasi 6 milioni di dollari inflitta alla società dalla Federal Trade Commission per aver violato la tutela della privacy sui bambini, e nonostante la rimozione continua di hashtag pericolosi, l’uso della app da parte dei minori senza la supervisione degli adulti è assolutamente sconsigliata. Sbalorditiva l’imprudenza con cui i ragazzi diffondono i propri dati nello spazio digitale, ma ancora più sconcertante è la leggerezza con cui gli adulti sottovalutano l’influenza di alcune informazioni reperibili in rete. Messaggi che condizionano i loro figli e interferiscono nella loro naturale crescita generando fenomeni come nomofobia, ovvero la paura di essere offline, ma anche il più insidioso cyberbullismo, nonché il malaugurato grooming, ovvero l’adescamento online da parte di pedofili e criminali. Complice l’ossessione per la popolarità che ha dato inizio alle sfide più assurde e che purtroppo coinvolgono i giovanissimi. Stupire con sesso esplicito o fronteggiare il pericolo per avere il video più virale è il mantra quotidiano degli iscritti. Succede anche su Facebook, succede su Youtube, succede sulle chat di Whatsapp e su molti altri social.
Una mania di esibizionismo insano che miete vittime e sforna disadattati sociali
Come sappiamo, tra le nuove generazioni ogni relazione sociale è filtrata dai social e sottoposta all’approvazione online. Sono i like, i consensi che accrescono la sensazione di accettazione e di crescita di autostima dell’utente. Al contrario, l’indifferenza, o peggio, i commenti dispregiativi sotto il post provocano insicurezza, senso di inadeguatezza e frustrazione che se da una parte rischiano di compromettere la salute mentale del giovane generando patologie come disturbi di ansia e depressione, dall’altra innescano un meccanismo di narcisismo sostenuto da un apparente anonimato che libera ogni inibizione nella persona e la conduce a casi estremi di esibizionismo, tanto da rischiare di morire pur di diventare popolare.
Accade per la mancata supervisione degli adulti, di genitori sempre più accondiscendenti o ancora depauperati dalla loro autorità, ma anche per una certa dipendenza dai contenuti ‘adrenalinici’ che spingono i ragazzi a restare iperconnessi parecchie ore, persino di notte, generando, peraltro, un disturbo del sonno detto vamping, e al seguito di influencer che dettano stili e mode non sempre innocue. Perché tenere alto l’interesse degli utenti è ciò che si prefigge la maggior parte dei network. Lo scopo è quello di bombardare gli onlife di pubblicità, puntando su ciò che viene chiamato effetto contagio.
Un esperimento condotto su Facebook e Twitter nel 2015 ha dimostrato che le emozioni possono essere trasmesse da un navigatore all’altro senza bisogno di contatto fisico tra le persone. Una sorta di epidemia digitale incentivata e supportata dal lavoro incessante degli algoritmi che mostrano ripetutamente contenuti simili a quelli che si guardano, che amplificano e danno enfasi al sentimento provato e, cosa gravissima, senza fare distinzione tra informazione negativa e positiva. Per saperne di più >>> https://www.neurowebcopywriting.com/contagio-emotivo-e-neuromarketing/
È così che le competizioni più assurde ed insidiose trovano terreno fertile sui social trasformando qualsiasi gara, anche la più trasgressiva, in una catena virale. Basta pensare a ciò che accadde con la l”Ice Bucket Challenge‘, il secchio di acqua gelida rovesciato in testa per accendere i riflettori sulla SLA. Ricordate? La sfida di solidarietà internazionale permise la raccolta di 220 milioni di dollari in tutto il mondo. Ma non sempre le competizioni sui social hanno lo stesso nobile fine.
Dalla meno dannosa moda nota come ‘Samara Challenge’, ovvero travestirsi dal personaggio del film horror “The Ring” per terrorizzare la gente in strada, a quella di ingozzarsi di aglio o peperoncino sino a piangere o vomitare, alla più stupida e invasiva tendenza di infilarsi un preservativo dalle narici per farlo uscire dalla bocca, fino alle pratiche dannose per la salute come schiarirsi gli occhi con la candeggina (bufala colossale a cui molti ingenuamente hanno creduto danneggiando gravemente la cornea). La classifica delle sfide più demenziali e idiote continua, ma io mi soffermerò solo su alcune. Tra queste vale la pena di denunciare la ‘Tide Pod Challenge’, una gara per ingerire capsule di detersivo. Più di quaranta i ragazzi ricoverati e in serie condizioni negli ultimi mesi. 10 quelli deceduti per una grave intossicazione, tanto che alcune associazioni di consumatori hanno sollecitato le aziende a cambiare il colore delle capsule per renderle meno attraenti.
Va menzionata pure la ‘Bird Box Challenge‘, ispirata a un film horror in onda su ‘Netflix’, secondo le cui regole astruse i ragazzi vagano bendati nel traffico, guidano automobili e scooter senza vedere, si spostano alla cieca, il tutto per pubblicare i video sui social ed apparire coraggiosi. Il celebre network è stato costretto a diramare un appello per chiedere alle persone di interrompere la scellerata sfida. Proprio in queste ore, alcune testate italiane stanno denunciando casi di dodicenni in coma etilico causato dal ‘binge drinking’, la sfida dell’abbuffata alcolica che nel 2018 ha portato 38mila ragazzini in ospedale. E ancora la ‘Momo Challenge‘ che sembra istigare suicidio o ancora più agghiacciante, la cosiddetta ‘Planking Challenge‘. Una sfida illogica che consiste nel distendersi sulla strada e rotolare ai lati della carreggiata poco prima dell’arrivo di un’automobile, mentre gli amici riprendono la scena con il cellulare. Vince chi non riesce a farsi investire!
Bravate che hanno avuto conseguenze gravissime. Basta leggere la cronaca degli ultimi mesi per capire quanto la pericolosità di azioni sottovalutate danneggi se stesso e anche terze persone, la cui unica colpa è quella di trovarsi nel posto sbagliato al momento sbagliato.
È necessario che i genitori recuperino innanzitutto il ruolo di educatori esaurito nel tempo, ponendosi quale filtro tra le informazioni ricevute dai ragazzi e il messaggio che ne scaturisce, tornando a dialogare con i giovani, insegnando loro i valori della vita e il rispetto per se stessi. Non mi stancherò mai di ripetere che la propria autostima non può e non deve in alcun modo essere misurata con il consenso virtuale, ma va necessariamente costruita nel tempo con interazioni e confronti reali, con gli errori e le cadute, con l’accettazione di sé e dei propri limiti oltrepassando il concetto di competizione e vittoria ad ogni costo, di perfezione fisica spesso irraggiungibile e allontanando le mistificazioni dell’influencer di turno.
La sfida vera, oggi, consiste nel vivere rimanendo immuni a tutto ciò.
di Alina Di Mattia