GABRIELE D’ANNUNZIO E I SUOI PASTORI

di Giuseppe Lalli 

foto tratta da Libriantichionline

 

 

 

 

Settembre, andiamo. E’ tempo di migrare.

Ora in terra d’Abruzzi i miei pastori

lascian gli stazzi e vanno verso il mare:

scendono all’Adriatico selvaggio

che verde è come i pascoli dei monti.

 

Han bevuto profondamente ai fonti

alpestri, che sapor d’acqua natìa

rimanga ne’ cuori esuli a conforto

che lungo illuda la lor sete in via.

Rinnovato hanno verga d’avellano.

 

E vanno pel tratturo antico al piano,

quasi per un erbal fiume silente

su le vestigia degli antichi padri.

O voce di colui che primamente

conosce il tremolar della marina!

 

Ora lungh’esso il litoral cammina

la greggia. Senza mutamento è l’aria.

Il sole imbionda sì la viva lana

che quasi dalla sabbia non divaria.

 

Isciacquìo, calpestìo, dolci rumori.

Ah perché non son io co’ miei pastori?

 

 

 

L’AQUILA – Quelli sopra riportati sono i versi di una celebre poesia che Gabriele D’Annunzio (Pescara 1863 – Gardone Riviera 1938) scrisse nel 1903, conosciuta con il titolo “I pastori”. Il titolo autentico della lirica è “Rimembranze”, ed effettivamente ci fa tornare alla mente un Abruzzo ancestrale. Trasuda da questi versi, appresi da bambini sui banchi di scuola, l’atmosfera di quel mondo che i racconti dei nostri nonni ci ha tramandato, quando, nel mese appena entrato, i loro padri partivano con le greggi verso la Puglia, camminando per giorni lungo “il tratturo antico”. Odori, sapori, voci e rumori settembrini sembrano sprigionarsi da ogni parola. Una malinconia infinitamente dolce sgorga dalla penna del poeta, che quasi accarezza da lontano la sua terra madre.

 

Sembra di vedere la scena, a San Pietro della Jenca, a Chiarino, a Campo Imperatore, o nelle montagne della Maiella, in quei luoghi dell’anima che la memoria ha custodito. Nell’aria frizzante del mattino, ecco i pastori con il cappello, il mantello, anzi “la mantella”, il tascapane rifornito dalle donne di casa a tracolla, e le fanciulle in fiore che salutano il papà che si accinge a partire con il bastone per compagno; mentre i cani abbaiano a lungo prima di correre in aiuto al padrone. E, finalmente, ecco il fiume di lana che inizia a scorrere, tra il belato delle pecore e i fischi ritmati dei pastori. La transumanza: vera epopea! Meriterebbe che ci si scrivesse un romanzo. Chissà…

 

Gabriele D’Annunzio, illustre conterraneo d’Abruzzo, è senza dubbio un grande poeta. Lo riconosceva anche Benedetto Croce, che pure non lo amava: In un saggio a lui dedicato in uno dei primi numeri di “La Critica”, agli inizi del secolo scorso, così si esprimeva: “Il poeta c’è, a volte manca l’uomo”. Si possono disapprovare certe sue scelte, tanto nella vita privata quanto nella vita pubblica, ma non si può non riconoscere che la poesia fu l’essenza stessa della sua vita, che cercò di costruire sul modello di un’opera d’arte. Originale modello di “dandy” italiano, cercò di incarnare ciò che Oscar Wilde scriveva di sé: “Feci dell’arte una filosofia, e della filosofia un’arte”. E’ sempre opportuno tener separate arte, politica e morale quando si giudica un’artista del calibro di D’Annunzio, se non si vuol correre il rischio di rendere un cattivo servigio all’arte, alla politica e, in ultima analisi, alla morale stessa.

 

Gabriele D’Annunzio è poeta sempre, non solo quando compone versi, ma anche quando parla, quando passeggia, quando corrisponde con un amico, quando scrive ad una donna, quando scava nel significato delle parole per cavarne suoni nuovi. La poesia, che affonda le sue radici in quella zona misteriosa dello spirito dove la parola si fonde con l’essenza delle cose, è per lui una religione di cui si sente sacerdote. Ad Andrea Sperelli, il protagonista del suo romanzo “Il piacere”, mette in bocca queste parole, attinte da una sua precedente lirica: “O poeta, divina è la parola; nella pura Bellezza il ciel ripose ogni letizia; e il verso è tutto”.

 

A lui va, non ultimo, il merito di aver rinnovato, insieme a Giovanni Pascoli, il linguaggio stesso della poesia italiana. Poeta sempre, si diceva, in pace e in guerra, nel beffardo volo su Vienna e al comando dell’impresa fiumana: poeta della patria. Ci si potrebbe azzardare a dire, se la cosa non suonasse un po’ cinica, che per lui andare in guerra è un modo per fare poesia con altri mezzi: il poeta-soldato è un poeta che veste i panni del soldato.

 

C’è un episodio poco noto della sua avventura militare, quando, imbattendosi al fronte in un soldato del quale riconobbe l’accento abruzzese, ebbe con lui il seguente colloquio (che riferisco così come ricordo), in dialetto, in quella lingua che sa andare diritta alle cose, senza tanti giri di parole:

 

Ma si abbruzzés tu? (Ma sei abruzzese tu?)

– Scì, e tu chi sì? (Sì, e tu chi sei?)

– So’ Gabriele D’Annunzio (Sono Gabriele D’Annunzio)

– Ah…si D’Annùnzie, e che stì a ffà ècch? (Ah…sei D’Annunzio, e che stai a fare qui?)

– Quéll’ che stì a ffà tu…  (Quello che stai a fare tu)

– Statt accort, ka ècch s’ mòr…  (Statti accorto, perché qua si muore…)

– Statt accort pur’ tu…  (Statti accorto pure tu…)

– Eh…ma s’ mòr ji n’ succéd nnént, ma s’ t’ mòr tu, chi gl’arfà ùn’ cumm’a ti? (Eh… ma se muoio io non succede niente, ma se muori tu, chi lo rifà uno come te?)

 

Stupendo! Si stenta a capire chi tra i due è il vero poeta in questo dialogo, se il Vate già celebre o l’oscuro fante incolto, ma perfettamente in grado di cogliere il valore dell’arte. Gabriele D’Annunzio, a ottant’anni dalla morte: un gigante della letteratura italiana nato e cresciuto sotto il cielo del nostro magico Abruzzo.

Redazione - Il Faro 24

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