IL DIARIO DI HELGA WEISS

Helga Weiss è un’ebrea ceca nata a Praga nel 1929, lo stesso anno di Anne Frank. Anche Helga scrisse un diario segreto, ma a differenza della bambina olandese, è sopravvissuta alla Shoah. Dopo essere passata indenne da Terezìn, Auschwitz-Birkenau, Freiberg e Mauthausen, Helga Weiss ritornò a Praga dove vive ancora oggi, con una lunga carriera da pittrice e artista figurativa alle spalle, nello stesso appartamento in cui nacque e da cui venne strappata. Il diario che raccoglieva i resoconti delle sue avventure nel campo di Terezìn insieme ai disegni con cui Helga descrisse ciò che vedeva fu consegnato prima della partenza per Auschwitz a uno zio, che lo murò. Ciò che successe nei campi di sterminio Helga lo mise per iscritto alla fine della guerra.


Estate 1941

Ed ecco arrivate le vacanze. Tutti i bambini ariani sono partiti. Delle mie amiche è rimasta solo Eva, ma non quella del nostro palazzo, macché, quella è da un pezzo che non è piú amica mia. Da quando è arrivato Hitler mi guarda dall’alto in basso, chissà chi si crede di essere. Faccia pure, se le fa piacere. Quindi qui è rimasta solo Eva. Stiamo insieme per giornate intere. Vicino a casa di Eva c’è un piccolo giardino, dove noi giochiamo. L’ombra sostituisce i boschi, una tinozza piena d’acqua il fiume. Giochiamo tutto il giorno e siamo ottime amiche. Anche i nostri genitori sono amici. Di domenica, se il tempo è bello, facciamo delle piccole gite. Quando è brutto, ci facciamo visita. Arriviamo sempre subito dopo pranzo e restiamo tutti insieme fino a tarda sera. Cioè, solo fino alle sette e quarantacinque, perché dopo le otto non possiamo piú uscire. Non abbiamo mai voglia di tornare a casa e non vediamo l’ora che arrivi l’indomani, per incontrarci di nuovo. Quindi i giorni volano, uno dopo l’altro, le sere si vanno lentamente accorciando, l’aria si rinfresca. Le vacanze stanno per finire. (….)

12 ottobre 1941 

Dunque ormai è una realtà. «Le consegnano stanotte», si sente dire ovunque tra gli ebrei. La scorsa notte alcune centinaia di famiglie ebree hanno ricevuto la notifica del trasporto. Poverini, non sono neanche riusciti a prepararsi a dovere, è capitato proprio tra sabato e domenica. Domani i negozi sono chiusi e lunedí loro devono già presentarsi. Se almeno sapessimo dov’è che si va. Circolano delle voci sulla Polonia, ma chi può dirlo. Agitata com’è, la gente prende una cosa e se ne scorda un’altra. Si preparano febbrilmente i bagagli, si cuociono pane e dolci, e all’ultimo momento arrivano i saluti. Ringraziando Dio, stavolta non c’era dentro nessuno della nostra famiglia,solo alcuni conoscenti.
Ma cosa succederà piú avanti?
I primi sono appena entrati nel Mercato delle radio ed ecco che già si comincia a parlare di un altro trasporto. Ora sí che si comincia a impacchettare sul serio. In tutta Praga non si riesce a rimediare una sola valigia, uno zaino, una gamella come si deve. Ovunque, passando davanti a una casa ebrea, si sente profumo di roba appena sfornata. Si cuociono biscotti, pane biscottato, trecce dolci. Tutti si preparano per il viaggio. (….)

7 dicembre 1941 

Cinque del mattino. In camera da letto la luce è accesa, anche i miei genitori sono in piedi. Sulla sedia accanto ci sono la biancheria e i vestiti pronti. Sulla scrivania alcuni quaderni, forse quelli miei di scuola. Sulla porta di fronte dei ganci per gli anelli da ginnastica. Sopra quelli la parete è un po’ sbreccata. All’angolo c’è il pianoforte. Gli occhi vagano per la stanza da un oggetto all’altro. Sdraiata sulla schiena, con le mani dietro la testa, mi incido nella memoria tutte queste cose familiari perché non ne possano mai piú sparire. Ci sediamo per far colazione, l’ultima.
Qualunque cosa io faccia oggi, è tutto per l’ultima volta. Sempre lo stesso pensiero: mai piú! Arrivano lo zio e le zie. Possiamo andare. Indosso il cappotto, su quello il numero di trasporto 520. E ormai è inevitabile: dobbiamo andare. Papà ha chiuso a chiave la porta di casa, scendiamo le scale. Il palazzo è silenzioso, tutti gli inquilini stanno ancora dormendo. Usciamo sulla strada deserta. Qua e là s’intravede la sagoma di un operaio che si affretta ad andare al lavoro. Qualcuno si gira a guardarci con compassione, altri non badano assolutamente a noi o ci guardano con occhi pieni di una gioia palese. Gioia per la nostra sofferenza. Ma a comportamenti del genere siamo ormai abituati, e oggi non saranno certo un sorriso o un commento stupido a infastidirci. Non faccio caso a niente, mi limito ad affrettarmi in maniera automatica per non restare indietro. Non riesco a tirar fuori una sola parola, un singhiozzo, una sola lacrima. Pur avvertendone la pressione, ingoiandone l’amaro. Cammino come in sogno. Mi giro ancora verso le finestre del nostro appartamento, che vanno ormai scomparendo in lontananza, ma i miei genitori sono già un pezzo piú avanti e devo correre per raggiungerli. (….).

 

 

Redazione - Il Faro 24

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