di Alina Di Mattia
Faceva freddo quel giorno di marzo del 1866.
Una fitta coltre di nebbia sovrastava la conca del Fucino, avvolgendo il piccolo nucleo abitato di Cerchio e lambendo inquieta i prati del Sirente. Pioveva da settimane e l’umidità penetrava sin dentro le ossa.
I lavori di prosciugamento del lago erano ormai giunti al termine e già cominciavano a sortire gli effetti paventati. I pescatori, rimasti senza lavoro, si rifiutavano di coltivare le terre paludose per timore della malaria e le famiglie povere aumentavano a dismisura. A peggiorare la situazione economica, già precaria, anche le frequenti precipitazioni che sembravano accanirsi sulla piana, quasi a voler restituire alle terre quell’acqua che era stata loro rubata.
Preoccupato per le sfavorevoli condizioni climatiche che stavano infierendo sul Fucino in seguito al drenaggio, Re Vittorio Emanuele II affidò a un esperto l’incarico di recarsi nel territorio di Cerchio. Qui, costui, con il generoso aiuto del barone Giuseppe d’Amore Fracassi, avrebbe annotato, a intervalli di dieci giorni, ogni cambiamento climatico che si fosse ivi verificato.
La baronessa Angela Maria Pietropaoli aveva trascorso gli ultimi mesi di gravidanza nell’angoscia più profonda, dividendosi tra gli oneri assunti dal marito Giuseppe e il patimento per la sopravvenuta bronchite, che lo rendeva imperito ai suoi servigi, cui si aggiunse la grave infermità del piccolo Venanzio. Né il salasso, né l’applicazione delle sanguisughe sull’esile corpicino erano riusciti a placare la febbre, e il destino del giovinetto sembrava ormai segnato.
La donna era già prostrata dai dispiaceri e ormai stremata dalla stanchezza, quando fu sorpresa dalle doglie.
In meno di mezz’ora, l’androne di casa d’Amore Fracassi era tutto un andirivieni di comari concitate, che si rincorrevano nell’aria pungente del mattino, mentre Angela Maria, respirando a fatica e sorretta dalle affettuose braccia della cugina Lucia, sforzava i reni con evidente e vana sofferenza. Il nascituro si era posizionato di traverso e se ne poteva persino intravedere la punta del piede.
Quando la levatrice entrò nella stanza, fu accolta dallo sguardo tribolato della partoriente riversa sul letto e in un bagno di lacrime e sudore. Tutt’intorno, chi singhiozzava sommessamente, chi si affannava intorno al braciere, chi recitava il rosario, chi consolava la povera giovane ridotta al supplizio, le cui urla strazianti arrivavano fino alla Salita del Macello.
Una notte passò, e poi ancora un giorno intero tra afflizione e patimento.
Qual pena, dunque, poteva mai meritare una donna di sì conclamata e sincera fede? Neppure Dostoevskij, nel suo fresco Delitto e Castigo, avrebbe saputo infliggere tormento tanto atroce a uno dei suoi personaggi!
Al calar del sole, anche i valenti chirurghi Serafino Rinaldi da Pescina e Gaetano Maccallini da Aielli scossero la testa davanti al capezzale della Baronessa. Mai, in quarant’anni di pratica, si erano misurati con una situazione tanto drammatica. Impensabile altresì praticare il cesareo, ché l’utero, ostinatamente contratto, lo rendeva impresa temeraria oltre ogni misura.
Soltanto un miracolo avrebbe potuto trarre in salvo la sventurata, oppure, dall’abisso di quel dolore senza fondo, unicamente una manciata di amare pillole per condurla dignitosamente dinanzi al cospetto della morte.
Corse la notizia fino a Vico degli Sdruccioli, dalla Salita del Gigante fin sulla Strada Campanile. Neanche il nuovo cavo del telegrafo, che l’anno precedente aveva unito Europa e America, sarebbe riuscito a divulgare una tale e tragica notizia in così poche ore!
“La Baronessa s’ st’a murì!” si mormorava in ogni angolo del paese, dal Regio Tratturo a Pescina e fino a Gioia de’ Marsi.
La triste novella giunse sino alle orecchie della signora Luisa Sipari, in Pescasseroli, proprio mentre allattava il piccolo Benedetto Croce, di appena due settimane. E forse, la prima preghiera si levò proprio da lì, da quella mamma commiserevole, sorvolò gli altipiani sangri ancora imbiancati di neve, attraversò il Passo del Diavolo, discese le sponde del Giovenco e si posò sulla piazza di Cerchio, gremita di anime in apprensione.
“La processione d’lla Madonna s’ha da fa’ mo’”, sentenziò un giovane, agitando le mani già ruvide e callose.
Era la notte di venerdì 16 marzo.
I più anziani, che ben conoscevano gli avvenimenti prodigiosi accaduti in seguito alla riapparizione dell’immagine sacra del 1803, erano disposti ad anticipare la processione notturna di settembre, ma nessuno pareva farsene carico.
All’improvviso, il pianto disperato del piccolo Venanzio d’Amore Fracassi, che reclamava la madre, azzittì gli astanti. A ogni gemito del bambino, la morente, con le poche e ultime forze rimaste, rispondeva sussurrando il nome del figlioletto. Quei lamenti, strazianti e innocenti, parvero toccare il cielo e il cuore dei cerchiesi che, mossi a compassione, si strinsero in preghiera, protraendo la veglia per tutta la notte nella speranza di un’intercessione dall’alto.
Non era ancora sorta l’alba, quando un brusio si alzò tra lo stupore generale, allorquando il piccolo barone, per mano del padre Giuseppe, entrambi miracolosamente guariti, accese due grossi ceri e li pose all’angolo della porta di casa. Intanto, la povera Angela Maria compiva il suo martirio tra le lacrime dei convenuti.
Alle sette del mattino, un silenzio assordante interruppe l’orazione. La dinamite, da poco inventata dall’ingegno di Alfred Nobel, non avrebbe potuto sortire un tale effetto nepente sulla popolazione.
Trascorsero quattro, cinque, dieci, forse dodici minuti interminabili, durante i quali non cantò neanche un gallo.
Fu allora che, Lucia Carusoni, stretta in un pesante scialle di lana verde e logoro che ne accentuava il pallore, apparve davanti alla folla attonita. Guardò il marito Angelo senza proferire parola, si voltò verso i presenti e con la voce rotta dall’emozione annunziò: “La Madonna ha fatt’ u mirac’l’! La puerpera s’a sgravata i sta ad allatta’!”
Udite tali parole, il curato si precipitò a suonare le campane, i cui festosi rintocchi giunsero sino allo sperone di Aielli e pure alla chiesa tratturale di Collarmele.
Quel mattino, una nutrita schiera di devoti assonnati e provati dalla lunga notte di preghiera recitò unanime e per la prima volta l’Angelus Domini.
Durante il corso dell’anno, Papa Pio IX censì ben 511 nuovi nati nel Regno d’Italia.
La popolazione di Cerchio contava 1669 abitanti.
Quanto al giovane Venanzio, crebbe in salute accanto alla sua adorata mamma e fu sindaco di Cerchio per ben trentaquattro anni, dal 1879 al 1913.
Da quella lontana alba del 1866, dal Canada all’Australia, dal Venezuela alla Francia, dal Belgio agli Stati Uniti, dalla Gran Bretagna alla Germania, sono sempre più numerosi i fedeli cerchiesi che si affidano alle mani misericordiose della Madre di tutte le madri che, ogni anno, nei giorni a lei consacrati, unisce tutti i suoi figli, vicini e lontani, in un unico e infinito abbraccio.