Papa Francesco Buddha di Cristo

L’Aquila / Papa Francesco Buddha di Cristo. È il XXI Viaggio Apostolico di Papa Bergoglio: in Myanmar e Bangladesh (27 Novembre – 2 Dicembre 2017) il Santo Padre elogia lo Spirito Santo che soffia dove vuole. Francesco: “La presenza di Dio oggi si chiama anche Rohingya”. Quando Buddha disse la verità al potere, subì attentati contro la sua vita così come dire la verità al potere costò a Gesù Cristo la Sua vita. Francesco riprende il suo pellegrinaggio nel mondo e raggiunge per la terza volta l’Asia, atterrando a Yangon, la capitale del Myanmar, “terra d’oro” (Suvarna Bhumi). Un Paese con milioni di pagode. Nei monasteri buddisti vivono 500.000 monaci e 70.000 monache. Da tre diocesi, ora la comunità cattolica è arrivata a sedici. I 160 sacerdoti iniziali sono diventati 900, le religiose da 200 sono oggi 2400. Un esercito di giovani catechisti svolge un lavoro encomiabile tra le comunità più remote. Tre giorni dopo, Giovedì 30 Novembre, Francesco raggiunge il vicino Bangladesh: nel 2018 ricorrerà il quinto centenario dell’arrivo dei primi cristiani, commercianti provenienti dal Portogallo che si stabilirono a Diang, Chittagong, nell’Anno Domini 1518. Attualmente la Chiesa conta otto diocesi. Un Paese a maggioranza buddista e uno quasi totalmente musulmano, nei quali i cattolici sono una piccola minoranza, ma indispensabile per una vera riconciliazione nazionale. Il dramma del popolo Rohingya, “l’etnia più perseguitata del mondo”, immortalato da Sylvester Stallone nel suo film “John Rambo” del 2008. Sulle orme del beato Paolo VI e di san Giovanni Paolo II, Papa Bergoglio vola con la sua valigetta “nucleare” carica dei preziosi “codici” di lancio del Vangelo di Cristo che non prevedono alcun Ius soli e Ius mortis sic et simpliciter ad uso e consumo di qualsivoglia campagna politica e ideologica massonica internazionale ai danni di nazioni “deboli” come l’Italia che dal 2010 ha perso oltre 800mila giovani costretti a emigrare e 6 miliardi di euro di mancate future entrate all’Erario. Le “estrapolazioni” del magistero della Chiesa non interessano. È la prima volta per un successore di Pietro la visita in Myanmar. Una cospirazione di grazia! La santa messa celebrata nello storico parco di Dhaka è arricchita dall’Ordinazione di sedici sacerdoti. A Dhaka il momento forte di dialogo interreligioso ed ecumenico. L’incontro di Francesco al Supremo Consiglio Sangha dei Monaci Buddisti con il Ven. Bhaddanta Kumarabhivamsa, Presidente del Comitato di Stato Sangha Maha Nayaka. Papa Bergoglio dichiara: “Al Supremo Consiglio dei Monaci Buddisti ho manifestato la stima della Chiesa per la loro antica tradizione spirituale, e la fiducia che cristiani e buddisti possano insieme aiutare le persone ad amare Dio e il prossimo, rigettando ogni violenza e opponendosi al male con il bene. Chi non ‎soffre con il fratello sofferente, anche se è diverso da lui per razza, per religione, ‎per lingua o per cultura”, deve interrogarsi sulla sincerità della sua fede e sulla sua ‎umanità. Sono le parole del Papa. Sì, razza, a riprova del fatto che sulla Terra vivono anche alcune comunità aliene extraterrestri non appartenenti al genere umano terrestre, come rivela nel Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace del Primo Gennaio. L’incontro con i leader buddisti, nel tempio buddista di Yangon, ha lasciato il segno nell’opinione pubblica. I leader buddisti oggi dicono di aver apprezzato molto l’atteggiamento rispettoso del Papa che non è venuto a imporre alcunché, ma che è venuto a dare la sua testimonianza di uomo di Dio, di uomo di dialogo e di pace, di leader spirituale che riconosce la dignità di ogni essere umano. Gli incontri privati con il Presidente birmano Htin Kyaw e con Aung San Suu Kyi, oggi Consigliere di stato e ministro degli Esteri e in passato protagonista di una lunga lotta per la Democrazia contro il regime militare, che le è costata 15 anni di arresti domiciliari e le è valsa il Nobel per la Pace nel 1991. All’arcivescovado di Yangon, Francesco incontra 17 leader religiosi del Myanmar, buddisti, islamici, indù, ebrei, cattolici e cristiani di altre confessioni. Papa Bergoglio osserva versus la ideologia del gender: “Quanto è bello vedere i fratelli uniti. Uniti non vuol dire uguali. L’unità non è uniformità, anche all’interno della stessa confessione. Ognuno ha i suoi valori, le sue ricchezze e anche le sue mancanze. Siamo tutti diversi e ogni confessione ha le sue ricchezze, le sue tradizioni, le sue ricchezze da dare, da condividere. E questo può accadere solo se si vive in ​​pace. E la pace si costruisce nel coro delle differenze. L’unità sempre si dà nelle differenze. La pace è armonia. In questo tempo sperimentiamo una tendenza mondiale verso l’uniformità, a rendere tutto uguale. Questo è uccidere l’umanità. Questa è una colonizzazione culturale. E dobbiamo capire la ricchezza delle nostre differenze (etniche, religiose, popolari) e da queste differenze si dà il dialogo. E da queste differenze si impara dall’altro, come fratelli. Costruite la pace. Non lasciatevi uniformare dalla colonizzazione delle culture. La vera armonia divina si fa attraverso le differenze. Le differenze sono una ricchezza per la pace. La via della vendetta non è la via di Gesù”. Francesco loda il popolo del Myanmar formato attraverso gli insegnamenti del Buddha “ai valori della pazienza, della tolleranza e del rispetto della vita, come pure a una spiritualità attenta e profondamente rispettosa dell’ambiente. Dire la verità al potere, dire la verità nella carità, superare la cultura dell’indifferenza per costruirne una dell’incontro, passare da una cultura della reazione a una della prevenzione; porre fine alla cultura dell’impunità e promuoverne una del rispetto, ambire alla pace sociale attraverso la pace interiore. Buddha e Gesù hanno promosso una cultura della prevenzione, che si rivolge alle radici socio-economiche e politiche di conflitti e tensioni, e cerca di proteggere i più afflitti e vulnerabili; si oppone alle azioni militari offensive indiscriminate; rigetta l’abuso verbale, fisico, sessuale e psicologico; sviluppa relazioni sicure e stabili tra i bambini e i loro genitori; punta a prevenire la violenza contro le donne; salvaguarda l’ambiente, la nostra casa comune; e promuove il dialogo a tutti i livelli per costruire società inclusive. Il buddismo predica ai suoi fedeli due virtù che al Papa stanno molto a cuore: la compassione (karuna) e la misericordia (metta). Le migrazioni globali continueranno: non sono da considerare una minaccia, dobbiamo guardarle con spirito carico di fiducia, spirito che viene dalla sapienza della fede e della scienza. È il cuore del Messaggio di Papa Bergoglio per la prossima Giornata Mondiale della Pace del Primo Gennaio 2018. Scrive Francesco: “In molti Paesi di destinazione si è largamente diffusa una retorica che enfatizza i rischi per la sicurezza nazionale o l’onere dell’accoglienza dei nuovi arrivati, disprezzando così la dignità umana che si deve riconoscere a tutti, in quanto figli e figlie di Dio. Quanti fomentano la paura nei confronti dei migranti, magari a fini politici, anziché costruire la pace, seminano violenza, discriminazione razziale e xenofobia, che sono fonte di grande preoccupazione per tutti coloro che hanno a cuore la tutela di ogni essere umano. Tutti gli elementi di cui dispone la comunità internazionale indicano che le migrazioni globali continueranno a segnare il nostro futuro. Alcuni le considerano una minaccia. Io, invece, vi invito a guardarle con uno sguardo carico di fiducia, come opportunità per costruire un futuro di pace. La Scrittura ci ricorda: «Non dimenticate l’ospitalità; alcuni, praticandola, hanno accolto degli angeli senza saperlo». Auspico di cuore che sia questo spirito ad animare il processo che lungo il 2018 condurrà alla definizione e all’approvazione da parte delle Nazioni Unite di due patti globali, uno per migrazioni sicure, ordinate e regolari, l’altro riguardo ai rifugiati”. È l’immagine della Nuova Gerusalemme celeste. Sono quattro i verbi chiave contenuti nel Messaggio di Francesco: accogliere, proteggere, promuovere e integrare. Essi sono quattro spunti di riflessione su come rispondere al fenomeno migratorio e servono da stimolo ai governanti  per guardare in positivo al movimento di massa globale che caratterizza il nostro presente, senza averne paura”, senza ovviamente giustificare gli strateghi delle deportazioni di massa! Il viaggio del Papa è stato un faro puntato sulla grave situazione umanitaria in cui versano oggi i Rohingya, minoranza di religione musulmana, osteggiata dalla maggioranza buddista in Myanmar. In migliaia sono fuggiti dalle loro case per trovare precaria accoglienza nei campi profughi nel vicino Bangladesh. È “sempre più drammatica la situazione umanitaria nei campi, allestiti in Bangladesh, per ospitare i profughi della minoranza musulmana dei Rohingya provenienti dal Myanmar”: riferendosi alla situazione in Bangladesh, il neo presidente della Croce Rossa Internazionale, Francesco Rocca, sottolinea che “sono 600mila le persone arrivate nell’arco di quattro, cinque settimane. Complessivamente, sono quasi un milione di persone. Sono raccolti in una città più grande di Genova costruita soltanto sotto i teli, senza servizi igienici, senza acqua potabile, senza elettricità. È una tendopoli che si perde a vista d’occhio. Gli operatori camminano anche un’ora e mezza prima di raggiungere il punto dove le persone sanno che, durante il giorno, hanno un minimo di aiuto. L’area è completamente fuori controllo. Ad aggravare la situazione anche la barriera linguistica: in Bangladesh sono pochissimi quelli che parlano la lingua dei Rohingya e loro non parlano inglese o bengalese”. Urgono “traduttori universali” smartwatch indossabili per tutti. Per farsi meglio comprendere, il Papa ricorre anche al linguaggio tecnologico dei teenager: “Dio ha posizionato dentro di noi un software che ci aiuta. Tenete aggiornato il vostro programma”. Parole di Papa Bergoglio. La Chiesa ha bisogno di meno diplomazia, e di più fede. E la fede passa per la verità, di cui non bisogna mai aver paura. Le parole di Papa Francesco pronunciate al termine della messa celebrata nella cattedrale di Yangon, “non vorrei andar via senza fare un po’ di chiasso: custodite i vostri sacerdoti”, sono proprie dei santi. Myanmar pyi ko Payarthakin Kaung gi pei pa sei. Isshór Bangladeshké ashirbád korún. Min gla ba.

(di Nicola Facciolini)

“Cari amici di Myanmar e Bangladesh, grazie per la vostra accoglienza! Invoco su di voi le divine benedizioni di armonia e di pace. La presenza di Dio oggi si chiama anche Rohingya” (Papa Francesco). “Se il sogno di un mondo in pace è condiviso da tanti, se si valorizza l’apporto dei migranti e dei rifugiati, l’umanità può divenire sempre più famiglia di tutti e la nostra terra una reale casa comune” (Giovanni Paolo II). Myanmar pyi ko Payarthakin Kaung gi pei pa sei. Min gla ba. Isshór Bangladeshké ashirbád korún. Papa Francesco vola in Myanmar, la “terra d’oro” (Suvarna Bhumi), con la sua valigetta “nucleare” carica dei preziosi “codici” di lancio del Vangelo di Cristo che però non prevedono alcun Ius soli e Ius mortis sic et simpliciter ad uso e consumo di qualsivoglia campagna politica e ideologica massonica internazionale ai danni di nazioni “deboli” come l’Italia che dal 2010 ha perso oltre 800mila giovani costretti a emigrare e 6 miliardi di euro di mancate future entrate all’Erario. Le “estrapolazioni” del magistero della Chiesa non interessano Papa Francesco che riprende il suo pellegrinaggio nel mondo e lunedì 27 Novembre 2017 raggiunge per la terza volta l’Asia, atterrando a Yangon, la capitale del Myanmar. Rientra a Roma, proveniente da Dakha, alle 23 di Sabato 2 Dicembre. È il primo pontefice a visitare l’ex Birmania. Tre giorni dopo, Giovedì 30 Novembre, si sposta nel vicino Bangladesh. Un Paese a maggioranza buddista e uno quasi totalmente musulmano, nei quali i cattolici sono una piccola minoranza, ma indispensabile per una vera riconciliazione nazionale. I volti sorridenti di un coloratissimo gruppo di bambini accolgono Francesco al suo arrivo in Myanmar. L’Airbus A330 dell’Alitalia decolla Domenica 26 Novembre alle ore 22:10 dall’aeroporto Leonardo da Vinci di Roma diretto a Yangon. Sorridente, con la consueta borsa nera tenuta nella mano sinistra ed appoggiandosi con la destra al corrimano, Papa Bergoglio sale di buon passo sulla scaletta dell’aereo alimentato ancora dai combustibili fossili della obsoleta economia del debito. Arrivato sulla sommità, prima di entrare nel velivolo, si volta verso tutti i presenti e rivolge un cenno di saluto con la mano. Chi non ‎soffre con il fratello sofferente, “anche se è diverso da lui per razza, per religione, ‎per lingua o per cultura”, deve interrogarsi sulla sincerità della sua fede e sulla sua ‎umanità. Sono le parole del Papa. Sì, “razza”, a riprova del fatto che sulla Terra vivono anche comunità aliene extraterrestri non appartenenti al genere umano terrestre, come rivela nel Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace del Primo Gennaio. Al centro dell’attenzione mediatica mondiale per la prima visita di un Papa, il Paese sceglie di mostrare la sua parte migliore: una rappresentanza dei milioni di ragazzi che vivono in questa nazione antica, la cui storia si perde nella notte dei tempi, ma demograficamente giovanissima e sconosciutissima in Europa. Le bambine che accolgono il Pontefice hanno il viso adornato con la “thanakha”, una polvere ricavata dal legno usata per il trucco e per proteggersi dal Sole che da queste parti scotta parecchio. I bambini indossavano il “longyi”, tipico indumento di cotone intrecciato intorno alla vita. Su Yangon sembra vigilare la Cupola d’Oro rivestita di quattromila brillanti della Shwegadon Paya, la più sacra pagoda del Myanmar, che conserva reliquie del Buddha e che viene visitata nel pomeriggio in forma privata dal seguito papale. Costruita 2500 anni fa, è alta 99 metri ed è visibile da ogni angolo della città. Del resto, il buddismo theravada è professato da quasi il 90 percento della popolazione, mentre i cristiani sono solo il 5 percento e i musulmani il 3,5. Yangon, con quasi sei milioni di abitanti, è ancora la più grande città del Paese nonostante non ne sia più la capitale. Conserva i fasti del glorioso passato di antichi regni e tracce evidenti della dominazione britannica. Lo stesso palazzo municipale del sindaco cattolico Maung Maung Soe, è in stile coloniale color lilla e viola, con decorazioni che raffigurano pavoni, nagas (divinità a forma di serpenti) e torrette a tre livelli. Tra gli ampi viali alberati e i bellissimi parchi cominciano a spuntare il cemento, l’acciaio e i vetri di avveniristici grattacieli. Passato e presente coesistono, ne sono espressione le rumorosissime automobili, con la guida a destra, che a colpi di clacson chiedono strada ai vecchi risciò di stile cinese. Un mosaico di etnie, lingue, profumi e religioni anima quello che è il maggior centro economico e culturale del Myanmar. Ma intanto, come accade in Italia, stanno aumentando le baraccopoli, inequivocabili segni di una crescente povertà urbana. Specchio di un Paese in cui, secondo stime recenti, il 30 percento dei 53 milioni di abitanti vive in condizioni di indigenza assoluta. All’udienza generale in Vaticano (Aula Paolo VI) di Mercoledì 6 Dicembre, Francesco torna con la memoria al viaggio in Myanmar e Bangladesh (http://www.photogallery.va/content/photogallery/it/eventi/myanmar-bangladesh2017.html) e, anche nei saluti nelle varie lingue, in particolare in quelli in arabo, confessa di essere “molto toccato” dall’incontro con i rifugiati Rohingya, ricordando che ha ‎chiesto loro il perdono “per le nostre mancanze e per il nostro silenzio”, ‎chiedendo alla comunità internazionale “di aiutarli e di soccorrere tutti i gruppi ‎oppressi e perseguitati presenti nel mondo”. Pure nella catechesi si sofferma sull’incontro con queste popolazioni affluite “in massa” in Bangladesh, in un territorio peraltro “dove la densità di popolazione è già tra le più alte del mondo”. Dopo i ringraziamenti alle autorità e ai vescovi dei due Paesi asiatici per l’invito a visitarli, Francesco sottolinea il primo viaggio di un Papa in Myanmar, grazie alle relazioni diplomatiche stabilite. Quindi pensa alla popolazione locale che “ha sofferto a causa di conflitti e repressioni, e che ora sta lentamente camminando verso una nuova condizione di libertà e di pace”. Tra questa gente “la religione buddista è – osserva Francesco – fortemente radicata e i cristiani sono un piccolo gregge: quella chiesa viva e fervente” che il Santo Padre conferma “nella fede e nella comunione” nell’incontro con i vescovi e nelle due celebrazioni eucaristiche. Una è stata occasione di sottolineare che “le persecuzioni a causa della fede in Gesù sono normali per i suoi discepoli, come occasione di testimonianza, ma – citando il Vangelo di Luca – che “nemmeno un loro capello andrà perduto”. L’altra è stata dedicata ai giovani. “Nei volti di quei giovani, pieni di gioia, ho visto il futuro dell’Asia: un futuro che sarà non di chi costruisce armi, ma di chi semina fraternità”, assicura Francesco che rivive la benedizione delle prime pietre di 16 chiese, del seminario e della nunziatura, per poi passare all’incontro con le autorità del Myanmar e all’incoraggiamento per “sforzi di pacificazione”, auspicando che “tutte le diverse componenti della nazione, nessuna esclusa, possano cooperare a tale processo nel rispetto reciproco”. Del saluto ai rappresentanti delle diverse comunità religiose, il Papa ricorda quello al Supremo Consiglio dei monaci buddisti, la “stima” della Chiesa per la loro antica tradizione spirituale e la fiducia “che cristiani e buddisti possano insieme aiutare le persone ad amare Dio e il prossimo, rigettando ogni violenza e opponendosi al male con il bene”. In Bangladesh, “dove – rileva Francesco – la popolazione è in grandissima parte di religione musulmana”, la sua visita ha segnato un “ulteriore passo in favore del rispetto e del dialogo tra il cristianesimo e l’islam”. D’altra parte, “la Santa Sede ha sostenuto fin dall’inizio la volontà del popolo bengalese di costituirsi come nazione indipendente, come pure l’esigenza che in essa sia sempre tutelata la libertà religiosa”. Il Papa ricorda la Messa a Dhaka con l’ordinazione di sedici sacerdoti, “uno degli eventi – assicura – più significativi e gioiosi del viaggio”. E ringrazia Dio, perché in quelle zone d’Asia “le vocazioni non mancano, segno di comunità vive, dove risuona la voce del Signore che chiama a seguirlo”. Ha incontrato poi i vescovi, incoraggiandoli “nel loro generoso lavoro per le famiglie, per i poveri, per l’educazione, per il dialogo e la pace sociale”, come pure religiosi e consacrati del Paese, assieme ai seminaristi, novizie e novizi, “germogli della Chiesa”. Francesco non dimentica il “momento forte di dialogo interreligioso ed ecumenico” nella capitale del Bangladesh, segno di “apertura del cuore come base della cultura dell’incontro, dell’armonia e della pace”. Un pensiero speciale va alla “Casa Madre Teresa”, dove la santa alloggiava quando si trovava a Dhaka, che accoglie orfani e persone con disabilità. “Là, secondo il loro carisma – ricorda Francesco – le suore vivono ogni giorno la preghiera di adorazione e il servizio a Cristo povero e sofferente. E mai, mai manca sulle loro labbra il sorriso: suore che pregano tanto, che servono i sofferenti e continuamente con il sorriso. È una bella testimonianza. Ringrazio tanto queste suorine”. Quindi il pensiero finale per i giovani bengalesi, di cui ricorda specialmente le danze. “Sanno danzare bene! Una festa che ha manifestato la gioia del Vangelo accolto da quella cultura; una gioia fecondata dai sacrifici di tanti missionari, di tanti catechisti e genitori cristiani. All’incontro erano presenti anche giovani musulmani e di altre religioni: un segno di speranza per il Bangladesh, per l’Asia e per il mondo intero”. Il pensiero del Papa è corso durante l’udienza generale a Gerusalemme, esprimendo “profonda preoccupazione per la situazione che si è creata negli ultimi giorni” dopo l’annuncio da parte del Presidente degli Stati Uniti d’America, Donald Trump, di voler spostare l’ambasciata Usa in Israele da Tel Aviv alla Città Santa per le tre religioni monoteiste. Per questo Francesco ha rivolto “un accorato appello affinché sia impegno di tutti rispettare lo status quo della città, in conformità con le pertinenti Risoluzioni delle Nazioni Unite” che hanno condannato il proclama di Trump. “Gerusalemme – rimarca Papa Francesco – è una città unica, sacra per gli ebrei, i cristiani e i musulmani, che in essa venerano i Luoghi Santi delle rispettive religioni, ed ha una vocazione speciale alla pace. Prego il Signore che tale identità sia preservata e rafforzata a beneficio della Terra Santa, del Medio Oriente e del mondo intero e che prevalgano saggezza e prudenza, per evitare di aggiungere nuovi elementi di tensione in un panorama mondiale già convulso e segnato da tanti e crudeli conflitti”. Riguardo la complessa e delicata vicenda  Francesco ha parlato con il leader palestinese Mahmoud Abbas, durante una telefonata, confermata dal portavoce della Sala Stampa vaticana, Greg Burke, il quale ha specificato che la conversazione avvenuta “per iniziativa di Abbas”, rientra in una serie di contatti avuti dal presidente dello Stato di Palestina, dopo il suo colloquio con Donald Trump durante il quale, secondo quanto riportato dal portavoce di Abbas, il Capo della Casa Bianca ha comunicato l’intenzione di spostare l’ambasciata Usa in Israele da una città all’altra in due anni. Nell’udienza generale Papa Francesco dichiara: “Cari fratelli e sorelle, buongiorno! oggi vorrei parlare del viaggio apostolico che ho compiuto nei giorni scorsi in Myanmar e Bangladesh. È stato un grande dono di Dio, e perciò ringrazio Lui per ogni cosa, specialmente per gli incontri che ho potuto avere. Rinnovo l’espressione della mia gratitudine alle Autorità dei due Paesi e ai rispettivi Vescovi, per tutto il lavoro di preparazione e per l’accoglienza riservata a me e ai miei collaboratori. Un “grazie” sentito voglio rivolgere alla gente birmana e a quella bengalese, che mi hanno dimostrato tanta fede e tanto affetto: grazie! Per la prima volta un successore di Pietro visitava il Myanmar, e questo è avvenuto poco dopo che si sono stabilite relazioni diplomatiche tra questo Paese e la Santa Sede. Ho voluto, anche in questo caso, esprimere la vicinanza di Cristo e della Chiesa a un popolo che ha sofferto a causa di conflitti e repressioni, e che ora sta lentamente camminando verso una nuova condizione di libertà e di pace. Un popolo in cui la religione buddista è fortemente radicata, con i suoi principi spirituali ed etici, e dove i cristiani sono presenti come piccolo gregge e lievito del Regno di Dio. Questa Chiesa, viva e fervente, ho avuto la gioia di confermare nella fede e nella comunione, nell’incontro con i Vescovi del Paese e nelle due celebrazioni eucaristiche. La prima è stata nella grande area sportiva al centro di Yangon, e il Vangelo di quel giorno ha ricordato che le persecuzioni a causa della fede in Gesù sono normali per i suoi discepoli, come occasione di testimonianza, ma che “nemmeno un loro capello andrà perduto” (Lc 21,12-19). La seconda Messa, ultimo atto della visita in Myanmar, era dedicata ai giovani: un segno di speranza e un regalo speciale della Vergine Maria, nella cattedrale che porta il suo nome. Nei volti di quei giovani, pieni di gioia, ho visto il futuro dell’Asia: un futuro che sarà non di chi costruisce armi, ma di chi semina fraternità. E sempre in segno di speranza ho benedetto le prime pietre di 16 chiese, del seminario e della nunziatura: diciotto! Oltre alla Comunità cattolica, ho potuto incontrare le Autorità del Myanmar, incoraggiando gli sforzi di pacificazione del Paese e auspicando che tutte le diverse componenti della nazione, nessuna esclusa, possano cooperare a tale processo nel rispetto reciproco. In questo spirito, ho voluto incontrare i rappresentanti delle diverse comunità religiose presenti nel Paese. In particolare, al Supremo Consiglio dei monaci buddisti ho manifestato la stima della Chiesa per la loro antica tradizione spirituale, e la fiducia che cristiani e buddisti possano insieme aiutare le persone ad amare Dio e il prossimo, rigettando ogni violenza e opponendosi al male con il bene. Lasciato il Myanmar, mi sono recato in Bangladesh, dove per prima cosa ho reso omaggio ai martiri della lotta per l’indipendenza e al “Padre della Nazione”. La popolazione del Bangladesh è in grandissima parte di religione musulmana, e quindi la mia visita, sulle orme di quelle del beato Paolo VI e di san Giovanni Paolo II, ha segnato un ulteriore passo in favore del rispetto e del dialogo tra il cristianesimo e l’islam. Alle Autorità del Paese ho ricordato che la Santa Sede ha sostenuto fin dall’inizio la volontà del popolo bengalese di costituirsi come nazione indipendente, come pure l’esigenza che in essa sia sempre tutelata la libertà religiosa. In particolare, ho voluto esprimere solidarietà al Bangladesh nel suo impegno di soccorrere i profughi Rohingya affluiti in massa nel suo territorio, dove la densità di popolazione è già tra le più alte del mondo. La Messa celebrata in uno storico parco di Dhaka è stata arricchita dall’Ordinazione di sedici sacerdoti, e questo è stato uno degli eventi più significativi e gioiosi del viaggio. In effetti, sia in Bangladesh come nel Myanmar e negli altri Paesi del sudest asiatico, grazie a Dio le vocazioni non mancano, segno di comunità vive, dove risuona la voce del Signore che chiama a seguirlo. Ho condiviso questa gioia con i Vescovi del Bangladesh, e li ho incoraggiati nel loro generoso lavoro per le famiglie, per i poveri, per l’educazione, per il dialogo e la pace sociale. E ho condiviso questa gioia con tanti sacerdoti, consacrate e consacrati del Paese, come pure con i seminaristi, le novizie e i novizi, nei quali ho visto dei germogli della Chiesa in quella terra. A Dhaka abbiamo vissuto un momento forte di dialogo interreligioso ed ecumenico, che mi ha dato modo di sottolineare l’apertura del cuore come base della cultura dell’incontro, dell’armonia e della pace. Inoltre ho visitato la “Casa Madre Teresa”, dove la santa alloggiava quando si trovava in quella città, e che accoglie moltissimi orfani e persone con disabilità. Là, secondo il loro carisma, le suore vivono ogni giorno la preghiera di adorazione e il servizio a Cristo povero e sofferente. E mai, mai manca sulle loro labbra il sorriso: suore che pregano tanto, che servono i sofferenti e continuamente con il sorriso. E’ una bella testimonianza. Ringrazio tanto queste suorine. L’ultimo evento è stato con i giovani bengalesi, ricco di testimonianze, canti e danze. Ma come danzano bene, queste bengalesi! Sanno danzare bene! Una festa che ha manifestato la gioia del Vangelo accolto da quella cultura; una gioia fecondata dai sacrifici di tanti missionari, di tanti catechisti e genitori cristiani. All’incontro erano presenti anche giovani musulmani e di altre religioni: un segno di speranza per il Bangladesh, per l’Asia e per il mondo intero. Grazie”. In un messaggio inviato dall’aereo Alitalia che lo porta a Yangon, il Pontefice prega “per il popolo italiano, affinchè possa guardare al futuro con fiducia e speranza, costruendo il bene comune nell’attenzione ai bisogni di tutti i cittadini. Nel momento in cui lascio Roma per recarmi in Myanmar e Bangladesh come pellegrino di pace, per incoraggiare le piccole ma ferventi comunità cattoliche, mi è caro rivolgere il mio deferente saluto”. Francesco invia telegrammi di saluto agli altri Paesi sorvolati dall’aereo papale: Croazia, Bosnia ed Erzegovina, Montenegro, Serbia (l’ex Federazione Iugoslava fatta a pezzi dalle prime “guerre umanitarie” dell’Occidente negli Anni Novanta del XX Secolo), Bulgaria, Turchia, Georgia, Azerbaigian, Turkmenistan, Afghanistan, Pakistan e India. Papa Francesco arriva alle ore 7:52 italiane di Lunedì 27 Novembre 2017, le 13:22 ora locale, all’aeroporto internazionale di Yangon in Myanmar. Inizia così il suo 21mo viaggio apostolico che poi lo porterà in Bangladesh. Ad accogliere il Papa a bordo dell’aereo, il nunzio apostolico mons. Paul Tschang In-Nam ed il capo del protocollo. Ufficialmente allo scalo di Yangon Francesco viene accolto da un Ministro del Presidente della Repubblica Htin Kyaw. Presenti i vescovi del Myanmar e un centinaio di bambini e gruppi etnici in abito tradizionale. L’accoglienza prevede solo la rassegna della Guardia d’onore, senza discorsi. Il Papa si dirige all’arcivescovado di Yangon nella residenza che lo accoglie nel corso della sua permanenza in Myanmar e qui trova una folla festosa ad aspettarlo. Nel palazzo arcivescovile attorniato da giardini, Francesco celebra la Santa Messa in privato e, subito dopo, è prevista la cena ed il pernottamento. Durante il viaggio in aereo verso il Myanmar, Papa Francesco aveva rivolto un breve saluto ai giornalisti presenti sul volo papale: “Buonanotte, e grazie tante per la compagnia. Grazie per il vostro lavoro che sempre semina tanto bene. Vi auguro un buon soggiorno. Dicono che è troppo caldo, mi spiace, ma almeno sia fruttuoso. Adesso vi saluto”. Un incontro a sorpresa anticipato, quello di Francesco con il generale birmano Min Aung Hlaing, comandante in Capo dei Servizi di Difesa, nell’arcivescovado di Yangon, a poche ore dall’arrivo in Myanmar. La visita di cortesia  del generale, che era prevista per il giorno 30 Novembre, accompagnato da una delegazione, inizia alle 17:55 ora locale e si protrae per un quarto d’ora. Durante il colloquio, secondo il direttore della Sala Stampa vaticana, Greg Burke, “si è parlato della grande responsabilità delle autorità del Paese in questo momento di transizione”. Prima di salutarsi il Papa e il generale Min Aung Hlaing si scambiano dei doni. Francesco regala la Medaglia del Viaggio Apostolico, mentre il Generale dona un’arpa a forma di barca ed una ciotola di riso decorata. Per il Papa è il giorno degli incontri ufficiali. Dopo la parziale pausa nelle ore successive all’arrivo in Myanmar, interrotta da un breve colloquio con il generale Hlaing, nel pomeriggio Francesco si sposta con un breve volo interno a Nay Pyi Taw, la capitale del Paese. Qui alle 16 e alle 16:30 sono due gli incontri privati: il primo con il Presidente birmano Htin Kyaw e il secondo con Aung San Suu Kyi, oggi Consigliere di Stato e ministro degli Esteri e in passato protagonista di una lunga lotta per la Democrazia contro il regime militare, che le è costata 15 anni di arresti domiciliari e le è valsa il Nobel per la Pace nel 1991. Al termine, Francesco raggiunge l’International Convention Center per il primo dei suoi interventi ufficiali davanti ai rappresentanti delle autorità, della società civile e del Corpo diplomatico. Un primo passo per parlare di quella pace interna per il Myanmar che, secondo il magistero di Francesco, non è mai disgiunta dal rispetto dei diritti di tutti e principalmente di chi soffre. All’arcivescovado di Yangon, il Papa incontra 17 leader religiosi del Myanmar, buddisti, islamici, indù, ebrei, cattolici e cristiani di altre confessioni. Il summit, introdotto dal vescovo John Hsane Hgyi, in circa quaranta minuti ha per tema l’unità nella diversità. Dopo gli interventi dei vari esponenti, Francesco tiene il suo discorso parlando a braccio in spagnolo; citando i Salmi insegna: “Quanto è bello vedere i fratelli uniti. Uniti non vuol dire uguali. L’unità non è uniformità, anche all’interno della stessa confessione. Ognuno ha i suoi valori, le sue ricchezze e anche le sue mancanze. Siamo tutti diversi – confessa Francesco – e ogni confessione ha le sue ricchezze, le sue tradizioni, le sue ricchezze da dare, da condividere. E questo può accadere solo se si vive in ​​pace. E la pace si costruisce nel coro delle differenze. L’unità sempre si dà nelle differenze. La pace è “armonia”. In questo tempo “sperimentiamo una tendenza mondiale verso l’uniformità, a rendere tutto uguale. Questo è uccidere l’umanità. Questa è una colonizzazione culturale. E dobbiamo capire la ricchezza delle nostre differenze (etniche, religiose, popolari) e da queste differenze si dà il dialogo. E da queste differenze si impara dall’altro, come fratelli”. Come fratelli – è stata la sua esortazione – voi potete aiutare “a costruire questo paese, che anche geograficamente ha così tante ricchezze e differenze. La natura in Myanmar è molto ricca nelle differenze. Non abbiamo paura delle differenze! Uno è nostro padre. Siamo fratelli. Restiamo come fratelli. E se discutiamo tra di noi, che sia come tra fratelli che subito si riconciliano. Sempre ritornano ad essere fratelli. Penso che solo in questo modo si costruisca la pace. Costruite la pace. Non lasciatevi uniformare dalla colonizzazione delle culture. La vera armonia divina si fa attraverso le differenze. Le differenze sono una ricchezza per la pace”. L’accoglienza ufficiale in Myanmar, in aereo da Yangon, intorno alle 15 ora locale (le 9:30 in Italia), si svolge dopo un’ora circa di volo, il tempo per coprire i 340 chilometri di distanza tra le due città. A Nay Pyi Taw, la nuova capitale birmana, il Papa viene accolto dal Presidente Htin Kyaw nel piazzale antistante il palazzo. Le delegazioni vaticana e birmana  erano schierate alle loro spalle sotto una tettoia dorata. Francesco e il Presidente ascoltano in piedi su un podio gli inni militari, poi l’ingresso nel palazzo dominato da una lunga e ampia scalinata con la guida rossa. All’interno del palazzo, molto sontuoso negli arredi, il Papa si siede in un primo atrio per la firma del Libro d’Onore, quindi affiancato dal Presidente si dirige in un secondo atrio dove sono posizionate le bandiere del Myanmar e del Vaticano, per le foto. Quindi si svolgono i colloqui privati, in una sala col Presidente Htin Kyaw e in un’altra con il Consigliere dello Stato Aung SanSuu Kyi. Dal canto suo la leader birmana afferma che l’incontro con il Papa, “rimarca la nostra fiducia nel potere e nella possibilità di pace”. Cita la crisi del Rakhine, dove sono i musulmani “Rohingya”, e include il Papa tra quei “buoni amici il cui sostegno allo sforzo di pacificazione ha un valore inestimabile. Il nostro obiettivo più importante – sottolinea San Suu Kyi – è portare avanti il ​​processo di pace basato sull’Accordo di cessate-il-fuoco a livello nazionale che è stato avviato dal precedente governo. La strada per la pace non è sempre agevole, ma è l’unico modo che porterà il nostro popolo al sogno di una terra giusta e prospera che sarà il loro rifugio, il loro orgoglio, la loro gioia. La ricerca della pace deve essere rafforzata dal raggiungimento di uno sviluppo sostenibile, affinché il futuro delle generazioni future possa essere assicurato”. Esordisce nel suo discorso il Papa: “Sono venuto per confermare nella fede la piccola ma fervente comunità cattolica della nazione, e incoraggiarla nella fatica di contribuire al bene del Paese”, ma “vorrei che la mia visita potesse abbracciare l’intera popolazione e offrire una parola di incoraggiamento a tutti coloro che stanno lavorando per costruire un ordine sociale giusto, riconciliato e inclusivo”. Questo il significato della presenza del Papa in Myanmar che dal 4 Maggio 2017 ha istituito formali relazioni diplomatiche con la Santa Sede. Ed è proprio la ricostruzione del Paese che sta a cuore al Papa. “Il Myanmar – afferma Francesco – è stato benedetto con il dono di una straordinaria bellezza e di numerose risorse naturali, ma il suo tesoro più grande è certamente il suo popolo che ha molto sofferto e tuttora soffre, a causa di conflitti interni e di ostilità che sono durate troppo a lungo e hanno creato profonde divisioni. Poiché la nazione è ora impegnata per ripristinare la pace, la guarigione di queste ferite si impone come una priorità politica e spiritual fondamentale”. Il Papa esprime apprezzamento per gli sforzi che il governo sta facendo in questo senso e sottolinea come “l’arduo processo di costruzione della pace e della riconciliazione nazionale può avanzare solo attraverso l’impegno per la giustizia e il rispetto dei diritti umani”. Papa Bergoglio cita la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo proclamata dall’Onu, “base per promuovere nel mondo la giustizia, la pace, lo sviluppo e per risolvere i conflitti mediante il dialogo e non con l’uso della forza. Il futuro del Myanmar dev’essere la pace – afferma il Papa – una pace fondata sul rispetto della dignità e dei diritti di ogni membro della società, sul rispetto di ogni gruppo etnico e della sua identità, sul rispetto dello stato di diritto e di un ordine democratico che consenta a ciascun individuo e ad ogni gruppo, nessuno escluso, di offrire il suo legittimo contributo al bene comune”. E in questa sfida, le religioni hanno un ruolo privilegiato da svolgere, possono – ribadisce il Papa – aiutare ad estirpare le cause del conflitto, costruire ponti di dialogo, ricercare la giustizia ed essere voce profetica per quanti soffrono. Le differenze religiose non devono essere fonte di divisione e di diffidenza, ma piuttosto una forza per l’unità, per il perdono, per la tolleranza e la saggia costruzione del Paese. Le religioni possono svolgere un ruolo significativo nella guarigione delle ferite emotive, spirituali e psicologiche di quanti hanno sofferto negli anni di conflitto”. Francesco indica come “un grande segno di speranza” l’impegno comune dei leader delle varie tradizioni religiose del Paese “per la pace, per soccorrere i poveri e per educare agli autentici valori religiosi e umani”. È su questi valori che si costruisce il futuro e in questo senso è importante “investire sulla formazione dei giovani all’onestà, integrità e solidarietà, garanzia per il consolidamento della democrazia e della crescita dell’unità e della pace a tutti i livelli della società”. Quindi un riferimento del Papa alla comunità cattolica del Myanmar che incoraggia a lavorare per il bene comune anche attraverso opere caritative e umanitarie, cooperando con i seguaci di altre religioni e con tutti le persone di buona volontà, “per aprire una nuova era di concordia e di progresso per i popoli di questa amata nazione”. “Santità, continuiamo a camminare insieme con fiducia”, sono le parole, pronunciate in italiano, con cui Aung San Suu Kyi conclude il suo saluto prima del discorso del Papa. All’incontro con i leader religiosi del Myanmar, al Refettorio dell’Arcivescovado di Yangon, Martedì 28 Novembre 2017, Papa Bergoglio dichiara: “Prima di tutto, grazie per essere venuti. Forse avrei dovuto essere io a visitare ognuno di voi, ma siete stati generosi e mi avete risparmiato la fatica. Grazie. Mentre parlavate, mi è venuta in mente una preghiera, una preghiera che recitiamo spesso, tratta dal Libro dei Salmi: “Com’è bello vedere i fratelli uniti”. Uniti non vuol dire uguali, l’unità non è uniformità, anche all’interno della stessa confessione. Ognuno ha i suoi valori, le sue ricchezze, e anche le sue mancanze. Siamo tutti diversi e ogni confessione ha le sue ricchezze, le sue tradizioni, le sue ricchezze da dare, da condividere. E questo può avvenire solo se si vive in pace. E la pace si costruisce nel coro delle differenze. L’unità si realizza sempre con le differenze. Per tre volte uno di voi ha usato la parola “armonia”. Questa è la pace: è armonia. Noi, in questo tempo in cui ci è dato vivere, sperimentiamo una tendenza a livello mondiale verso l’uniformità, a rendere tutto uguale. Questo è uccidere l’umanità. Questa è una colonizzazione culturale. Dobbiamo comprendere la ricchezza delle nostre differenze etniche, religiose, popolari, e proprio da queste differenze nasce il dialogo. E a partire da queste differenze s’impara dall’altro, come fratelli. Come fratelli che si aiutano a vicenda a costruire questo Paese, che anche geograficamente ha tante ricchezze e differenze. La natura in Myanmar è stata molto ricca di differenze. Non dobbiamo aver paura delle differenze. Uno è il nostro Padre, noi siamo fratelli. Amiamoci come fratelli. E se discutiamo tra noi, che sia come fratelli, che si riconciliano subito, che tornano sempre a essere fratelli. Penso che solo così si costruisce la pace. Vi ringrazio per essere venuti a farmi visita. Sono io in realtà che vi sto facendo visita, e vorrei che almeno spiritualmente accoglieste questa visita: la visita di un fratello in più. Grazie. Costruite la pace. Non vi lasciate uniformare dalla colonizzazione delle culture. La vera armonia divina si crea attraverso le differenze. Le differenze sono una ricchezza per la pace. Tante grazie. E mi permetto di recitare una preghiera, da fratello a fratelli. Un’antica benedizione che ci include tutti: “Vi benedica il Signore e vi protegga. Faccia brillare il suo volto su di voi e vi mostri la sua grazia. Rivolga su di voi il suo volto e vi conceda la pace”. Grazie!”. Al summit incontro con le autorità, la società civile e il corpo diplomatico, all’International Convention Centre di Nay Pyi Taw, Martedì 28 Novembre 2017, Papa Francesco dichiara: “Esprimo viva riconoscenza per il gentile invito a visitare il Myanmar e ringrazio la Signora Consigliere di Stato per le sue cordiali parole. Sono molto grato a tutti coloro che hanno lavorato instancabilmente per rendere possibile questa visita. Sono venuto, soprattutto, a pregare con la piccola ma fervente comunità cattolica della nazione, per confermarla nella fede e incoraggiarla nella fatica di contribuire al bene del Paese. Sono molto lieto che la mia visita si realizzi dopo l’istituzione delle formali relazioni diplomatiche tra Myanmar e Santa Sede. Vorrei vedere questa decisione come segno dell’impegno della nazione a perseguire il dialogo e la cooperazione costruttiva all’interno della più grande comunità internazionale, come anche a rinnovare il tessuto della società civile. Vorrei anche che la mia visita potesse abbracciare l’intera popolazione del Myanmar e offrire una parola di incoraggiamento a tutti coloro che stanno lavorando per costruire un ordine sociale giusto, riconciliato e inclusivo. Il Myanmar è stato benedetto con il dono di una straordinaria bellezza e di numerose risorse naturali, ma il suo tesoro più grande è certamente il suo popolo, che ha molto sofferto e tuttora soffre, a causa di conflitti interni e di ostilità che sono durate troppo a lungo e hanno creato profonde divisioni. Poiché la nazione è ora impegnata per ripristinare la pace, la guarigione di queste ferite si impone come una priorità politica e spirituale fondamentale. Posso solo esprimere apprezzamento per gli sforzi del Governo nell’affrontare questa sfida, in particolare attraverso la Conferenza di Pace di Panglong, che riunisce i rappresentanti dei vari gruppi nel tentativo di porre fine alla violenza, di costruire fiducia e garantire il rispetto dei diritti di tutti quelli che considerano questa terra la loro casa. In effetti, l’arduo processo di costruzione della pace e della riconciliazione nazionale può avanzare solo attraverso l’impegno per la giustizia e il rispetto dei diritti umani. La sapienza dei saggi ha definito la giustizia come la volontà di riconoscere a ciascuno ciò che gli è dovuto, mentre gli antichi profeti l’hanno considerata come il fondamento della pace vera e duratura. Queste intuizioni, confermate dalla tragica esperienza di due guerre mondiali, hanno portato alla creazione delle Nazioni Unite e alla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo come base per gli sforzi della comunità internazionale di promuovere in tutto il mondo la giustizia, la pace e lo sviluppo umano e per risolvere i conflitti mediante il dialogo e non con l’uso della forza. In questo senso, la presenza del Corpo Diplomatico in mezzo a noi testimonia non solo il posto che il Myanmar occupa tra le nazioni, ma anche l’impegno del Paese a mantenere e osservare questi principi fondamentali. Il futuro del Myanmar dev’essere la pace, una pace fondata sul rispetto della dignità e dei diritti di ogni membro della società, sul rispetto di ogni gruppo etnico e della sua identità, sul rispetto dello stato di diritto e di un ordine democratico che consenta a ciascun individuo e ad ogni gruppo – nessuno escluso – di offrire il suo legittimo contributo al bene comune. Nel grande lavoro della riconciliazione e dell’integrazione nazionale, le comunità religiose del Myanmar hanno un ruolo privilegiato da svolgere. Le differenze religiose non devono essere fonte di divisione e di diffidenza, ma piuttosto una forza per l’unità, per il perdono, per la tolleranza e la saggia costruzione del Paese. Le religioni possono svolgere un ruolo significativo nella guarigione delle ferite emotive, spirituali e psicologiche di quanti hanno sofferto negli anni di conflitto. Attingendo ai valori profondamente radicati, esse possono aiutare ad estirpare le cause del conflitto, costruire ponti di dialogo, ricercare la giustizia ed essere voce profetica per quanti soffrono. È un grande segno di speranza che i leader delle varie tradizioni religiose di questo Paese si stiano impegnando a lavorare insieme, con spirito di armonia e rispetto reciproco, per la pace, per soccorrere i poveri e per educare agli autentici valori religiosi e umani. Nel cercare di costruire una cultura dell’incontro e della solidarietà, essi contribuiscono al bene comune e pongono le indispensabili basi morali per un futuro di speranza e prosperità per le generazioni a venire. Quel futuro è ancora oggi nelle mani dei giovani della nazione. I giovani sono un dono da amare e incoraggiare, un investimento che produrrà una ricca rendita solo a fronte di reali opportunità di lavoro e di una buona istruzione. Questo è un requisito urgente di giustizia tra le generazioni. Il futuro del Myanmar, in un mondo in rapida evoluzione e interconnessione, dipenderà dalla formazione dei suoi giovani, non solo nei settori tecnici, ma soprattutto nei valori etici di onestà, integrità e solidarietà umana, che possono garantire il consolidamento della democrazia e della crescita dell’unità e della pace a tutti i livelli della società. La giustizia intergenerazionale richiede altresì che le generazioni future possano ereditare un ambiente naturale incontaminato dall’avidità e dalla razzia umana. È indispensabile che i nostri giovani non siano derubati della speranza e della possibilità di impiegare il loro idealismo e i loro talenti nella progettazione del futuro del loro Paese, anzi, dell’intera famiglia umana. Signora Consigliere di Stato, cari amici! In questi giorni, desidero incoraggiare i miei fratelli e sorelle cattolici a perseverare nella loro fede e a continuare a esprimere il proprio messaggio di riconciliazione e fraternità attraverso opere caritative e umanitarie, di cui tutta la società possa beneficiare. È mia speranza che, nella cooperazione rispettosa con i seguaci di altre religioni e con tutti gli uomini e le donne di buona volontà, essi contribuiscano ad aprire una nuova era di concordia e di progresso per i popoli di questa amata nazione. Lunga vita al Myanmar! Vi ringrazio per la vostra attenzione e, con i migliori auguri per il vostro servizio per il bene comune, invoco su tutti voi le benedizioni divine di saggezza, forza e pace. Grazie”. Una Chiesa che conta meno di 700mila fedeli e ne chiama davanti al successore di Pietro più di 150mila, arrivati anche dalle montagne del Myanmar e pure a piedi, è una Chiesa viva, capace anche di solidarietà verso un gran numero di persone, senza distinzione di religione e di etnia, che può aiutare questo paese martoriato da conflitti etnici, non ancora risolti, a trovare la via della guarigione. Alla Messa, la prima in Myanmar, nel grande parco Kyaikkasan di Yangon, in una calda e umida mattinata del Sudest asiatico, Papa Francesco saluta i birmani con il loro augurale benvenuto, “Min gla ba”, e subito ricorda che in Gesù crocifisso troviamo una sicura bussola, che può guidare la nostra vita con la luce che proviene da Dio. E nelle sue ferite possiamo trovare la fonte di ogni cura. “So che molti in Myanmar portano le ferite della violenza, sia visibili che invisibili. La tentazione è di rispondere a queste lesioni con una sapienza mondana che – avverte Francesco – come quella del re nella prima Lettura, è profondamente viziata. Pensiamo che la cura possa venire dalla rabbia e dalla vendetta. Tuttavia la via della vendetta non è la via di Gesù. La via di Gesù è radicalmente differente, perché quando l’odio e il rifiuto lo condussero alla passione e alla morte, Egli rispose con il perdono e la compassione”. Quindi nel dono della Eucaristia impariamo come trovare riposo nelle ferite di Cristo, e là essere purificati da tutte le nostre vie distorte che tentiamo in risposta alla violenza subita. Nelle ferite di Cristo, è stato l’augurio di Francesco ai cattolici birmani, “possiate assaporare il balsamo della misericordia del Padre e trovare la forza di portarlo agli altri, per ungere ogni memoria dolorosa. So che la Chiesa in Myanmar sta già facendo molto per portare il balsamo risanante della misericordia di Dio agli altri, specialmente ai più bisognosi. Vi sono chiari segni che, anche con mezzi assai limitati, molte comunità proclamano il Vangelo ad altre minoranze tribali, senza mai forzare o costringere, ma sempre invitando e accogliendo”. La Chiesa viva che è in Myanmar aiuta poveri e sofferenti di ogni religione ed etnia attraverso il Catholic Karuna Myanmar, la Caritas locale, e “Gesù – assicura il Papa – premierà i vostri sforzi di seminare semi di guarigione e riconciliazione nelle vostre famiglie, comunità e in tutta la società di questa nazione. Il suo messaggio di perdono e misericordia si serve di una logica che non tutti vorranno comprendere, e che incontrerà ostacoli. Tuttavia il Suo amore, rivelato sulla croce è, in definitiva, inarrestabile. È come un Gps spirituale che ci guida infallibilmente verso la vita intima di Dio e il cuore del nostro prossimo”. All’omelia della santa messa celebrata al Kyaikkasan Ground di Yangon, Mercoledì 29 Novembre 2017, Papa Bergoglio insegna: “Cari fratelli e sorelle, prima di venire in questo Paese, ho atteso a lungo questo momento. Molti di voi sono giunti da lontano e da remote aree montagnose, alcuni anche a piedi. Sono venuto come pellegrino per ascoltare e imparare da voi, e per offrirvi alcune parole di speranza e consolazione. La prima Lettura odierna, dal Libro di Daniele, ci aiuta a vedere quanto sia limitata la sapienza del re Baldassàr e dei suoi veggenti. Essi sapevano come lodare «gli dèi d’oro, d’argento, di bronzo, di ferro, di legno e di pietra» (Dn 5,4), ma non possedevano la sapienza per lodare Dio nelle cui mani è la nostra vita e il nostro respiro. Daniele, invece, aveva la sapienza del Signore ed era capace di interpretare i suoi grandi misteri. L’interprete definitivo dei misteri di Dio è Gesù. Egli è la sapienza di Dio in persona (1Cor 1,24). Gesù non ci ha insegnato la sua sapienza con lunghi discorsi o mediante grandi dimostrazioni di potere politico e terreno, ma dando la sua vita sulla croce. Qualche volta possiamo cadere nella trappola di fare affidamento sulla nostra stessa sapienza, ma la verità è che noi possiamo facilmente perdere il senso dell’orientamento. In quel momento è necessario ricordare che disponiamo di una sicura bussola davanti a noi, il Signore crocifisso. Nella croce, noi troviamo la sapienza, che può guidare la nostra vita con la luce che proviene da Dio. Dalla croce viene anche la guarigione. Là Gesù ha offerto le sue ferite al Padre per noi, le ferite mediante le quali noi siamo guariti (1 Pt 2,24). Che non ci manchi mai la sapienza di trovare nelle ferite di Cristo la fonte di ogni cura! So che molti in Myanmar portano le ferite della violenza, sia visibili che invisibili. La tentazione è di rispondere a queste lesioni con una sapienza mondana che, come quella del re nella prima Lettura, è profondamente viziata. Pensiamo che la cura possa venire dalla rabbia e dalla vendetta. Tuttavia la via della vendetta non è la via di Gesù. La via di Gesù è radicalmente differente. Quando l’odio e il rifiuto lo condussero alla passione e alla morte, Egli rispose con il perdono e la compassione. Nel Vangelo di oggi, il Signore ci dice che, come Lui, anche noi possiamo incontrare rifiuto e ostacoli, ma che tuttavia Egli ci donerà una sapienza alla quale nessuno può resistere (Lc 21,15). Egli qui parla dello Spirito Santo, per mezzo del quale l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori (Rm 5,5). Con il dono dello Spirito, Gesù rende capace ciascuno di noi di essere segno della sua sapienza, che trionfa sulla sapienza di questo mondo, e della sua misericordia, che dà sollievo anche alle ferite più dolorose. Alla vigilia della sua passione, Gesù si offrì ai suoi Apostoli sotto le specie del pane e del vino. Nel dono dell’Eucaristia, non solo riconosciamo, con gli occhi della fede, il dono del suo corpo e del suo sangue; noi impariamo anche come trovare riposo nelle sue ferite, e là essere purificati da tutti i nostri peccati e dalle nostre vie distorte. Rifugiandovi nelle ferite di Cristo, cari fratelli e sorelle, possiate assaporare il balsamo risanante della misericordia del Padre e trovare la forza di portarlo agli altri, per ungere ogni ferita e ogni memoria dolorosa. In questo modo, sarete fedeli testimoni della riconciliazione e della pace che Dio vuole che regni in ogni cuore umano e in ogni comunità. So che la Chiesa in Myanmar sta già facendo molto per portare il balsamo risanante della misericordia di Dio agli altri, specialmente ai più bisognosi. Vi sono chiari segni che, anche con mezzi assai limitati, molte comunità proclamano il Vangelo ad altre minoranze tribali, senza mai forzare o costringere, ma sempre invitando e accogliendo. In mezzo a tante povertà e difficoltà, molti di voi offrono concreta assistenza e solidarietà ai poveri e ai sofferenti. Attraverso le cure quotidiane dei suoi vescovi, preti, religiosi e catechisti, e particolarmente attraverso il lodevole lavoro del Catholic Karuna Myanmar e della generosa assistenza fornita dalle Pontificie Opere Missionarie, la Chiesa in questo Paese sta aiutando un gran numero di uomini, donne e bambini, senza distinzioni di religione o di provenienza etnica. Posso testimoniare che la Chiesa qui è viva, che Cristo è vivo ed è qui con voi e con i vostri fratelli e sorelle delle altre Comunità cristiane. Vi incoraggio a continuare a condividere con gli altri la sapienza inestimabile che avete ricevuto, l’amore di Dio che sgorga dal cuore di Gesù. Gesù vuole donare questa sapienza in abbondanza. Certamente Egli premierà i vostri sforzi di seminare semi di guarigione e riconciliazione nelle vostre famiglie, comunità e nella più vasta società di questa nazione. Non ci ha forse detto che la sua sapienza è irresistibile (Lc 21,15)? Il suo messaggio di perdono e misericordia si serve di una logica che non tutti vorranno comprendere, e che incontrerà ostacoli. Tuttavia il suo amore, rivelato sulla croce è, in definitiva, inarrestabile. È come un “Gps spirituale” che ci guida infallibilmente verso la vita intima di Dio e il cuore del nostro prossimo. La Beata Vergine Maria ha seguito suo Figlio anche sull’oscura montagna del Calvario e ci accompagna in ogni passo del nostro cammino terreno. Possa Ella ottenerci sempre la grazia di essere messaggeri della vera sapienza, profondamente misericordiosi verso i bisognosi, con la gioia che deriva dal riposare nelle ferite di Gesù, che ci ha amati sino alla fine. Dio benedica tutti voi! Benedica la Chiesa in Myanmar! Benedica questa terra con la sua pace! Dio benedica il Myanmar!”. Seguono il saluto in lingua birmana e la benedizione in inglese. “Un’importante occasione per rinnovare e rafforzare i legami di amicizia e rispetto e anche un’opportunità per affermare il comune impegno per la pace, il rispetto della dignità umana e la giustizia per ogni uomo e donna”. Sono le parole di Papa Francesco pronunciate incontrando a Yangon il Supremo Consiglio Sangha dei Monaci Buddisti. “Non solo in Myanmar, ma in tutto il mondo – sottolinea Francesco – le persone hanno bisogno di questa comune testimonianza da parte dei leader religiosi. Perché, quando noi parliamo con una sola voce affermando i valori perenni della giustizia, della pace e della dignità fondamentale di ogni essere umano, noi offriamo una parola di speranza. Aiutiamo i buddisti, i cattolici e tutte le persone a lottare per una maggiore armonia nelle loro comunità”. Se “in ogni epoca, l’umanità sperimenta ingiustizie, momenti di conflitto e disuguaglianza tra le persone”, anche nel nostro tempo – constata il Papa –persistono le ferite dei conflitti, della povertà e dell’oppressione”. Da qui l’appello: “Di fronte a queste sfide, non dobbiamo mai rassegnarci”. Quindi Francesco loda la gente del Myanmar, formata attraverso gli insegnamenti del Buddha “ai valori della pazienza, della tolleranza e del rispetto della vita, come pure a una spiritualità attenta e profondamente rispettosa dell’ambiente. In una vera cultura dell’incontro, questi valori possono rafforzare le nostre comunità e aiutare a portare la luce tanto necessaria all’intera società. La grande sfida dei nostri giorni è quella di aiutare le persone ad aprirsi al trascendente”. Tutti “gli sforzi – rimarca il Papa – per promuovere la pazienza e la comprensione, e per guarire le ferite dei conflitti che hanno diviso genti di diverse culture, etnie e convinzioni religiose, non sono mai solo prerogative di leader religiosi né di esclusiva competenza dello Stato, ma dell’intera società. Tuttavia è responsabilità particolare dei leader civili e religiosi assicurare che ogni voce venga ascoltata, cosicché le sfide e i bisogni di questo momento possano essere chiaramente compresi e messi a confronto in uno spirito di imparzialità e di reciproca solidarietà”. Per questo Francesco, auspicando una maggiore cooperazione tra leader religiosi, rassicura che “la Chiesa cattolica è un partner disponibile” perché “la giustizia autentica e la pace duratura possono essere raggiunte solo quando sono garantite per tutti. A nome dei miei fratelli e sorelle cattolici, esprimo la nostra disponibilità a continuare a camminare con voi e a seminare semi di pace e di guarigione, di compassione e di speranza in questa terra”. All’incontro con il Consiglio Supremo “Shanga” dei Monaci Buddisti, al Kaba Aye Centre di Yangon, Mercoledì 29 novembre 2017, Papa Francesco dichiara: “È una grande gioia per me essere con voi. Ringrazio il Ven. Bhaddanta Kumarabhivamsa, Presidente del Comitato di Stato Sangha Maha Nayaka, per le sue parole di benvenuto e per il suo impegno nell’organizzare la mia visita qui oggi. Nel salutare tutti voi, esprimo il mio particolare apprezzamento per la presenza di Sua Eccellenza Thura Aung Ko, Ministro per gli Affari Religiosi e la Cultura. Il nostro incontro è un’importante occasione per rinnovare e rafforzare i legami di amicizia e rispetto tra buddisti e cattolici. E’ anche un’opportunità per affermare il nostro impegno per la pace, il rispetto della dignità umana e la giustizia per ogni uomo e donna. Non solo in Myanmar, ma in tutto il mondo le persone hanno bisogno di questa comune testimonianza da parte dei leader religiosi. Perché, quando noi parliamo con una sola voce affermando i valori perenni della giustizia, della pace e della dignità fondamentale di ogni essere umano, noi offriamo una parola di speranza. Aiutiamo i buddisti, i cattolici e tutte le persone a lottare per una maggiore armonia nelle loro comunità. In ogni epoca, l’umanità sperimenta ingiustizie, momenti di conflitto e disuguaglianza tra le persone. Nel nostro tempo queste difficoltà sembrano essere particolarmente gravi. Anche se la società ha compiuto un grande progresso tecnologico e le persone nel mondo sono sempre più consapevoli della loro comune umanità e del loro comune destino, le ferite dei conflitti, della povertà e dell’oppressione persistono, e creano nuove divisioni. Di fronte a queste sfide, non dobbiamo mai rassegnarci. Sulla base delle nostre rispettive tradizioni spirituali, sappiamo infatti che esiste una via per andare avanti, una via che porta alla guarigione, alla mutua comprensione e al rispetto. Una via basata sulla compassione e sull’amore. Esprimo la mia stima per tutti coloro che in Myanmar vivono secondo le tradizioni religiose del Buddismo. Attraverso gli insegnamenti del Buddha, e la zelante testimonianza di così tanti monaci e monache, la gente di questa terra è stata formata ai valori della pazienza, della tolleranza e del rispetto della vita, come pure a una spiritualità attenta e profondamente rispettosa del nostro ambiente naturale. Come sappiamo, questi valori sono essenziali per uno sviluppo integrale della società, a partire dalla più piccola ma più essenziale unità, la famiglia, per estendersi poi alla rete di relazioni che ci pongono in stretta connessione, relazioni radicate nella cultura, nell’appartenenza etnica e nazionale, ma in ultima analisi radicate nell’appartenenza alla comune umanità. In una vera cultura dell’incontro, questi valori possono rafforzare le nostre comunità e aiutare a portare la luce tanto necessaria all’intera società. La grande sfida dei nostri giorni è quella di aiutare le persone ad aprirsi al trascendente. Ad essere capaci di guardarsi dentro in profondità e di conoscere sé stesse in modo tale da riconoscere le reciproche relazioni che le legano a tutti gli altri. A rendersi conto che non possiamo rimanere isolati gli uni dagli altri. Se siamo chiamati ad essere uniti, come è nostro proposito, dobbiamo superare tutte le forme di incomprensione, di intolleranza, di pregiudizio e di odio. Come possiamo farlo? Le parole del Buddha offrono a ciascuno di noi una guida: «Sconfiggi la rabbia con la non-rabbia, sconfiggi il malvagio con la bontà, sconfiggi l’avaro con la generosità, sconfiggi il menzognero con la verità» (Dhammapada, XVII, 223). Sentimenti simili esprime la preghiera attribuita a San Francesco d’Assisi: «Signore, fammi strumento della tua pace. Dov’è odio che io porti l’amore, dov’è offesa che io porti il perdono, dove ci sono le tenebre che io porti la luce, dov’è tristezza che io porti la gioia». Possa questa Sapienza continuare a ispirare ogni sforzo per promuovere la pazienza e la comprensione, e per guarire le ferite dei conflitti che nel corso degli anni hanno diviso genti di diverse culture, etnie e convinzioni religiose. Tali sforzi non sono mai solo prerogative di leader religiosi, né sono di esclusiva competenza dello Stato. Piuttosto, è l’intera società, tutti coloro che sono presenti all’interno della comunità, che devono condividere il lavoro di superamento del conflitto e dell’ingiustizia. Tuttavia è responsabilità particolare dei leader civili e religiosi assicurare che ogni voce venga ascoltata, cosicché le sfide e i bisogni di questo momento possano essere chiaramente compresi e messi a confronto in uno spirito di imparzialità e di reciproca solidarietà. Mi congratulo per il lavoro che sta svolgendo la Panglong Peace Conference a questo riguardo, e prego affinché coloro che guidano tale sforzo possano continuare a promuovere una più ampia partecipazione da parte di tutti coloro che vivono in Myanmar. Questo sicuramente contribuirà all’impegno per far avanzare la pace, la sicurezza e una prosperità che sia inclusiva di tutti. Certamente, se questi sforzi produrranno frutti duraturi, si richiederà una maggiore cooperazione tra leader religiosi. A tale riguardo, desidero che sappiate che la Chiesa Cattolica è un partner disponibile. Le occasioni di incontro e di dialogo tra i leader religiosi dimostrano di essere un fattore importante nella promozione della giustizia e della pace in Myanmar. Ho appreso che nell’aprile scorso la Conferenza dei Vescovi Cattolici ha ospitato un incontro di due giornate sulla pace, al quale hanno partecipato i capi delle diverse comunità religiose, insieme ad ambasciatori e rappresentanti di agenzie non governative. Tali incontri sono indispensabili, se siamo chiamati ad approfondire la nostra reciproca conoscenza e ad affermare le relazioni tra noi e il comune destino. La giustizia autentica e la pace duratura possono essere raggiunte solo quando sono garantite per tutti. Cari amici, possano i buddisti e i cattolici camminare insieme lungo questo sentiero di guarigione, e lavorare fianco a fianco per il bene di ciascun abitante di questa terra. Nelle Scritture cristiane, l’Apostolo Paolo chiama i suoi ascoltatori a gioire con quelli che sono nella gioia e a piangere con coloro che sono nel pianto (Rm 12,15), portando umilmente i pesi gli uni degli altri (Gal 6,2). A nome dei miei fratelli e sorelle cattolici, esprimo la nostra disponibilità a continuare a camminare con voi e a seminare semi di pace e di guarigione, di compassione e di speranza in questa terra. Vi ringrazio nuovamente per avermi invitato ad essere oggi qui con voi. Su tutti invoco le benedizioni divine di gioia e di pace”. A ricordo dello storico summit, Papa Francesco dona ai Monaci Buddisti del Myanmar la scultura rappresentativa di una Colomba della Pace. Già colonia britannica, indipendente dal 1948 come Unione Federale Birmana, nel 1989 assume il nome di Myanmar. Dopo la lunga dittatura (1962-88) del generale Ne Win, una nuova giunta militare conquista il potere e indice nel 1990 libere elezioni per l’Assemblea Costituente. La schiacciante vittoria della Lega nazionale per la democrazia (Nld) provoca un nuovo colpo di stato dei militari che mettono fuori legge tutti i partiti, sospendono l’Assemblea e creano un Consiglio di Stato per la restaurazione della legge e dell’ordine (divenuto nel 1997 Consiglio di Stato per la pace e lo sviluppo), sciolto nel 2012, quando i poteri passano formalmente alle autorità civili. Alle elezioni del 2015 l’Nld ottiene una larga maggioranza che gli permette di eleggere il Presidente; Aung San Suu Kyi, guida del partito tenuta per molti anni (1989-95; 2007-10) agli arresti domiciliari, ottiene il ministero degli esteri e la carica di Consigliere di stato. Nel 2008 è approvata tramite referendum una nuova Costituzione che prevede lo scioglimento del Consiglio di Stato e l’istituzione di un Parlamento composto da Camera delle Nazionalità (168 membri eletti a suffragio diretto e 56 scelti dai militari) e Camera dei Rappresentanti (330 membri eletti e 110 scelti dai militari), entrambe con mandato di 5 anni. Dal 1948 negli stati occidentali e orientali sono attive guerriglie di numerose minoranze etniche; anche dopo un accordo di cessate il fuoco nazionale nel 2015 alcune milizie non hanno deposto le armi. Scrive su L’Osservatore Romano il cardinale arcivescovo di Yangon, Charles Maung Bo: “Tutto il Myanmar sta attendendo di vedere il nostro caro Santo Padre Francesco. Solo un anno fa sarebbe sembrato un sogno per la nostra gente semplice. Ma Dio è grande e ora abbiamo la grazia inimmaginabile di poter vedere il nostro caro Papa nel nostro Paese. Francesco è il profeta dell’età moderna. Ha spesso parlato di “prospettive dalla periferia” e ha esortato tutti i pastori a recarsi tra le pecore e ritornare “odorando di pecora”. Fedele alla sua parola, sta per recarsi da questo piccolo gregge di cattolici. Giungerà in un momento in cui il paese fa notizia a causa della migrazione di migliaia di persone. C’è la grande speranza che la sua presenza riesca a sciogliere il cuore di tutti e spingere il paese verso una pace duratura. Verrà a vedere una grande nazione, ricca di colori. Il buddismo theravada è la religione maggioritaria. La pratica popolare di meditazione vipassana (consapevolezza) è nata qui. Il monachesimo e l’ascetismo sono parti integranti del buddismo. Nei monasteri buddisti ci sono 500.000 monaci e 70.000 monache, che vivono una vita di testimonianza, con le loro ciotole delle elemosine. Il Cristianesimo è arrivato nel Sedicesimo Secolo, quando i contatti commerciali con Goa portarono qui alcuni missionari. Inizialmente la vita per i cristiani era difficile. Una volta furono uccisi alcuni cristiani laici e quattro sacerdoti, mentre i sopravvissuti si rifugiarono nella parte centrale del Paese. Quella comunità è ancora prospera e fonte di molte vocazioni. Nel Diciottesimo e Diciannovesimo secolo, i missionari cattolici tornarono nuovamente in Myanmar. Questa volta, grazie alle buone relazioni con i re e il dialogo col buddismo, poterono muoversi all’interno del Paese. Il gruppo etnico Bamar, che aveva una grande tradizione buddista, non accolse con entusiasmo il messaggio del Vangelo, ma le altre comunità etniche accolsero la fede. Oggi il 90 percento dei cristiani appartiene a queste comunità. Si trovano cristiani tra i Kachin, i Kayah, i Chin e i Karen. Ma ci sono anche cristiani di origine cinese o indiana. Il Cristianesimo ha avuto la sua buona dose di sofferenza, specialmente dopo l’indipendenza dagli inglesi. Il Paese iniziò come democrazia, scivolando però poi nel conflitto cronico, perché il governo scelse di favorire una religione, una lingua e una “razza”. Per due volte i profondi problemi economici portarono a un colpo di stato. Nel 1964 prese il potere una giunta militare. Gli anni successivi furono una vera via crucis. Tutti i beni della Chiesa, che gestiva alcune delle scuole migliori raggiungendo anche le aree più lontane, furono nazionalizzati. I missionari furono espulsi. Da un giorno all’altro la Chiesa si ritrovò letteralmente in mezzo alla strada. Un’ideologia detta “via birmana al socialismo” ha praticamente impoverito il Paese che un tempo era il più ricco del Sudest asiatico. La giovane Chiesa ebbe grosse difficoltà. Il seminario fu lasciato senza professori. Ma la fede profonda e la generosità dei cattolici, insieme al lavoro intenso, hanno fatto sì che la Chiesa non sia solo sopravvissuta, ma addirittura prosperata. Da tre diocesi, ora è arrivata a sedici. I 160 sacerdoti iniziali sono diventati 900, le religiose da 200 sono oggi 2400; un esercito di catechisti svolge un lavoro encomiabile tra le comunità più remote. I sacerdoti e i religiosi sono molto giovani e mostrano un profondo impegno. La Chiesa è protagonista nella missione sociale. Ha una rete di 16 uffici Caritas, con 800 persone che svolgono servizi qui molto apprezzati dalle Nazioni Unite e dalla comunità diplomatica. È in prima linea quando avvengono catastrofi naturali e nell’aiuto ai rifugiati. Dal 1990 il Paese si è lentamente aperto e la Chiesa ha potuto inviare all’estero il suo personale per brevi periodi di formazione. E quando nel 2010 c’è stato l’avvento della democrazia è iniziata una nuova primavera. Nel 2014, per la prima volta, l’intera Chiesa si è riunita per celebrare i 500 anni del cattolicesimo. Nel 2017 i vescovi del Myanmar hanno elaborato un piano missionario quinquennale. I cinque ambiti principali sono: educazione, sviluppo umano, progresso delle donne, protezione della natura, iniziative interreligiose per la pace. Il Papa visiterà un paese che tradizionalmente veniva chiamato “terra d’oro” (Suvarna Bhumi); un Paese coloratissimo, composto da 8 tribù e 135 sotto-tribù; un Paese permeato da due tradizioni: il buddismo theravada maggioritario e la cultura indigena delle popolazioni etniche; un Paese con milioni di pagode; un Paese situato strategicamente tra due giganti economici: l’India e la Cina; un Paese molto giovane, in cui l’età media è di appena 27 anni, e quasi la metà della popolazione ne ha meno di trenta. Il suo cuore misericordioso si sentirà sciogliere dinanzi alle ferite del passato, come anche dinanzi alle nuove ferite di una nazione che sta rincorrendo una pace e uno sviluppo sfuggenti. Sentirà parlare degli infiniti conflitti etnici, dello sfollamento di migliaia di persone, delle storie strazianti di milioni di giovani costretti a cercare lavoro nei paesi vicini. Sentirà raccontare come i giovani innocenti del Myanmar sono diventati schiavi moderni e schiavi del mare nei paesi vicini. Sentirà parlare delle generazioni passate che, a causa della mancanza di un’educazione di qualità, sono morte senza conoscere le proprie capacità. Sentirà inoltre parlare dell’estremismo che sta alzando la testa e mettendo a disagio tutti in un Paese noto per la grazia e la profondità spirituale. Sentirà parlare dei discorsi di odio di alcuni individui che dovrebbero diffondere pace e riconciliazione. Il suo cuore andrà incontro a tutte le religioni per rendere la religione uno strumento di pace. Vedrà anche un Paese che si sta affrettando a prendere il proprio posto sulla scena globale. E vedrà che la maggior parte delle persone sono bisognose di aiuto perché vittime di un’economia clientelare che rifiuta di integrarle. Come paladino della giustizia ambientale, il Santo Padre pregherà perché il Paese segua il cammino dell’equità e della protezione del creato. Vedrà anche un Paese che si sta impegnando per ottenere il consenso internazionale dopo i recenti eventi che hanno spinto molte persone a rifugiarsi nei paesi vicini. Cercare consenso, perfino nominare il popolo che soffre, è una sfida per tutti. Anche il nome “rohingya” è contestato. Egli incoraggerà tutte le parti a investire nella pace. Pregherà, come ha sempre fatto, per la dignità umana di tutte le persone, a prescindere dalla religione o dalla “razza”. C’è grande attesa per quanto dirà nei suoi discorsi. E dopo la sua visita in questo Paese, si recherà in Bangladesh, che ha accolto migliaia di profughi. Secondo il commento di un leader della Chiesa, questa visita è una “cospirazione di grazia”! La piccola Chiesa non avrebbe mai sognato che il capo della Chiesa cattolica sarebbe venuto a visitare questo Paese. I cattolici sono appena 700.000. Il Paese è tra i più poveri al mondo. La Chiesa sopravvive in mezzo a sfide difficili. Il tema della visita è: “il Papa missionario di amore e pace”. Considerati i decenni di conflitto e il dramma degli sfollati, come anche la necessità che le diverse comunità investano nella pace, il Papa parlerà della pace basata sull’amore. Tra l’altro, il buddismo predica ai suoi fedeli due virtù che al Papa stanno molto a cuore: la compassione (karuna) e la misericordia (metta). La visita si svolgerà in un momento molto delicato della storia del Myanmar, in cui l’attenzione e la preoccupazione del mondo sono rivolte alle migliaia di persone sfollate di recente. Le ferite devono guarire. E il Paese attende con speranza le parole e i gesti del Santo Padre, che porteranno una maggiore comprensione. Ci sono problemi delicati e alcuni si preoccupano per il viaggio. Il Papa è una persona che può raggiungere ogni uomo o donna in qualsiasi parte del mondo. Parla una lingua del cuore comprensibile da tutti. A Cuba, in Colombia e altrove, il Pontefice ha “guarito” con la sua personalità e le sue parole. La Chiesa in Myanmar è fiduciosa che anche questa visita sarà un tempo di grazia e di pace per la gente birmana. Il Papa è un pellegrino di pace che cammina con tutte le persone sofferenti in Myanmar. Prega perché le ferite guariscano, sperando e invocando il Signore per una nazione pacifica e prospera, che affermi i diritti di tutti coloro che sono nati in questa terra d’oro”. Scrive su L’Osservatore Romano il cardinale arcivescovo di Dhaka, Patrick D’Rozario: “Ancora una volta la Chiesa cattolica in Bangladesh è pronta a ricevere la visita di un Papa. Francesco sarà il terzo a toccare il nostro suolo, dopo Paolo VI, che a mezzanotte del 26 novembre 1970 sostò un’ora all’aeroporto di Dhaka per portare vicinanza, preghiere e un aiuto caritativo alle vittime della grandissima inondazione e del ciclone avvenuti due settimane prima, e dopo Giovanni Paolo II, giunto il 19 novembre 1986 per un viaggio che ebbe come principale tema pastorale «comunione e fratellanza». Anche questa visita verrà vista nella prospettiva del tema scelto: «armonia e pace». La gente in Bangladesh e la Chiesa locale considerano il pellegrinaggio di Francesco come un’opzione per i poveri del Paese, che continuano a lottare per vivere i valori umani e spirituali in un contesto di vulnerabilità. Con il Pontefice arriva “la Chiesa dei poveri e la Chiesa per i poveri” per confermare nella fede e nella testimonianza cristiana il “piccolo gregge” che vive e serve come “sale” e “luce” per la nazione. Nel 2018 ricorrerà il quinto centenario dell’arrivo dei primi cristiani; erano commercianti provenienti dal Portogallo, che si stabilirono a Diang, Chittagong, nel 1518. La visita del Papa inaugurerà le celebrazioni giubilari per i cinquecento anni di presenza cristiana in questa parte del subcontinente. Questo territorio della Chiesa fu accorpato a quello della diocesi di Cochin nel 1598, anno in cui approdarono i primi due padri missionari gesuiti, Francesco Fernandes e Domingo D’Souza. Nel 1600 furono costruite due chiese: una a Chandecan (Iswaripur, Jessore), l’altra nella provincia di Chittagong, a Bandel. Il sacerdote gesuita Francesco Fernandes è considerato il primo martire in Bengala. Dopo essere stato sottoposto a torture in una grotta, morì il 14 novembre 1602. Attualmente la Chiesa conta otto diocesi. Quella di Dhaka è stata eretta nel 1886 ed elevata a sede metropolitana nel 1950. Sono seguite poi le erezioni di Chittagong nel 1927 (elevata ad arcidiocesi il 2 febbraio scorso) e Dinajpur, sempre nel 1927; Khulna, nel 1952; Mymensingh, nel 1987; Rajshahi, nel 1990; Sylhet, nel 2011; e Barisal, nel 2015. Il primo vescovo locale è stato Theotonius Amal Ganguly, della congregazione di Santa Croce: consacrato nel 1960, sette anni dopo è stato promosso arcivescovo. È stato dichiarato servo di Dio nel processo di canonizzazione. Attualmente tutti gli ordinari sono originari del Bangladesh. Il primo protestante giunto in Bengala nel 1793 fu William Carey, che annunciò una nuova era missionaria nella regione. Insieme a lui arrivò la Società missionaria battista, seguita da molte altre organizzazioni dall’Inghilterra, dalla Nuova Zelanda, dall’America. Dopo la guerra d’indipendenza, nel 1971 in Bangladesh affluirono altre società missionarie protestanti. Esse stabilirono anche chiese, realizzando e gestendo diverse istituzioni e organizzazioni educative, sanitarie e assistenziali. Attualmente il numero di protestanti è stimato intorno a 200.000, vale a dire circa il 30 percento dell’intera popolazione cristiana. In Bangladesh vivono circa 162 milioni di persone. I cristiani rappresentano solo lo 0,4 percento di fronte a una maggioranza prevalentemente musulmana (88 percento). Tra i cristiani, i cattolici sono circa il 70 percento. Il gruppo etnico più grande tra i cattolici è quello dei Bengalesi (385.000) che appartengono al 98 percento della popolazione nazionale. Tuttavia, i cattolici provenienti da oltre 34 gruppi etnici tribali costituiscono circa il 49 percento della popolazione cattolica totale. La Conferenza episcopale (Cbcb) è stata istituita nel 1971, subito dopo l’indipendenza dal Pakistan. Sebbene la Chiesa cattolica rappresenti una piccolissima minoranza, Dio l’ha benedetta con molte vocazioni. Attualmente, nel Paese operano 35 congregazione religiose e società apostoliche, maschili e femminili, alcune delle quali sono note istituzioni missionarie. Anche uno dei membri della congregazione di Santa Croce, fratel Flavian Doria Laplante (1907-1997), “apostolo dei pescatori”, è stato dichiarato servo di Dio. E la stessa santa Teresa di Calcutta è considerata molto vicina al Bangladesh, dove si è recata spesso, viaggiando tanto e fondando numerosi conventi per le sue missionarie della carità. Nelle otto diocesi del Paese ci sono circa cento parrocchie. I 75 tra ospedali, cliniche e dispensari gestiti dalla Chiesa forniscono soprattutto assistenza generale e sono accessibili principalmente alle persone meno avvantaggiate ed emarginate. Sono considerati l’unico modo per accedere a cure mediche nelle aree più remote. Il programma pastorale viene attuato anche dalle famiglie e dalle piccole comunità cristiane di base attraverso istituzioni educative e mediche, centri sociali e pastorali e attraverso organizzazioni, associazioni e movimenti in cui i laici sono molto attivi. La Caritas è una delle principali organizzazioni non governative locali ed esistono associazioni laiche che svolgono opere di carità e misericordia tra i poveri. Le “unioni cooperative e di credito per lo sviluppo sostenibile” sono tra i più grandi contributi dati dalla Chiesa alla nazione. Avviate da missionari stranieri, ora sono governate e gestite interamente da laici che hanno portato la comunità cristiana a raggiungere l’autonomia economica. Esse sono presenti in quasi tutte le parrocchie e in tutte le diocesi. Diversi sono i programmi e i seminari per la promozione delle donne. I cattolici sono per la maggior parte praticanti e profondamente devoti, ed esprimono la fede attraverso le preghiere, la pietà popolare e gli esercizi spirituali. Nella gerarchia c’è un forte senso di collegialità tra gli stessi vescovi, tra i vescovi e i sacerdoti e tra i sacerdoti. La Chiesa incide sulla società specialmente attraverso l’educazione, l’assistenza sanitaria, le opere caritative, le attività di sviluppo umano, il dialogo interreligioso e l’ecumenismo. Infatti in media, circa il 60-70 percento dei collaboratori della Chiesa nelle istituzioni e nei servizi educativi, sociali, sanitari, caritativi e di sviluppo appartiene ad altre religioni. L’islam è giunto nella regione bengalese durate il Settimo Secolo, attraverso commercianti arabi musulmani e missionari sufi. E la successiva conquista musulmana del Bengala nel Dodicesimo Secolo ha portato alla diffusione di questa religione nella regione. Sotto i governanti musulmani, il Bengala è entrato in una nuova era: furono costruite città; spuntarono palazzi, fortezze, moschee, mausolei e giardini; e nuove vie commerciali portarono prosperità e ricchezza culturale. Il rinascimento bengalese giunse come movimento di riforma sociale tra il Diciannovesimo e il Ventesimo Secolo, nel periodo del dominio britannico. Nel Diciannovesimo Secolo c’è stata una fioritura unica di riformatori religiosi e sociali, studiosi, giganti della letteratura, giornalisti, oratori patriottici e scienziati, che hanno modellato il volto del rinascimento, segnando la transizione dal “medievale” al “moderno”. In Bangladesh esiste anche una popolazione tribale, costituita da circa un milione di persone (0,6 percento del totale) appartenenti a 34 gruppi. Le sette maggiori tribù sono i Chakma e i Marma, che sono principalmente buddisti, i Tripura, che sono o indù o animisti e vivono nelle colline di Chittagong, i Garo, nella regione di Mymensingh, e i Santal, gli Oraon e i Khasi nel nord. Si distinguono dagli altri abitanti del Paese per la loro organizzazione sociale, le tradizioni matrimoniali, i riti legati alla nascita e alla morte, il cibo e altre usanze. Sono detti adivashi e oggi sono maggiormente integrati nella comunità bengalese: parlano bengali e hanno la cittadinanza legale. Come già detto, quasi la metà dei cattolici sono non-bengalesi e appartengono a queste comunità tribali. Anche se il rispetto delle altre religioni, l’esistenza dell’identità e dell’affinità culturale e la comunione spirituale vengono promosse e celebrate, talvolta l’armonia e le relazioni interreligiose sono minacciate da terroristi, fanatici e fondamentalisti, nonché da gruppi militanti ed estremisti e dalle loro attività sovversive. Queste azioni violente contro gli appartenenti a religioni minoritarie stanno portando una situazione nuova nella cultura esistente. I rapporti molto amichevoli tra la Santa Sede e il governo del Bangladesh proseguono ininterrotti. L’ultima visita di Giovanni Paolo II nel 1986 e quella imminente di Papa Francesco sono due pietre miliari di una relazione cordiale, umana e spirituale. La voce del Papa sulle questioni internazionali viene ascoltata con particolare attenzione e convinzione, e la sua sollecitudine paterna è stata espressa, ad esempio, per le ingiustizie nei confronti dei lavoratori tessili, per le vittime di diverse catastrofi naturali e causate dall’uomo, per i rifugiati provenienti dal Myanmar, per la situazione di vulnerabilità locale a causa dei cambiamenti climatici. Il governo dovrebbe adottare misure particolari per garantire le comunità tribali riguardo al diritto alla terra, la casa, l’ambito familiare e l’ambiente”. Il governo birmano ha annunciato che a fine Gennaio dell’Anno Domini 2018 si terrà la terza sessione della Conferenza sulla pace con le minoranze etniche, denominata “Conferenza di Panglong”. L’iniziativa di continuare un percorso di incontro e negoziato con i gruppi etnici armati, con i quali l’esercito birmano combatte da oltre 60 anni, riferisce l’Agenzia Fides, è stata concordata e annunciata in concomitanza con la visita di Papa Francesco nel Paese. Il governo birmano ha firmato un accordo di cessate il fuoco con otto organizzazioni armate, espressione dei gruppi etnici, anche grazie all’impegno del Consigliere di stato, Aung San Suu Kyi, promotrice della Conferenza di pace con le minoranze etniche. Gli argomenti che saranno discussi nel summit Gennaio 2018 includono alcuni aspetti e passi avanti del dialogo politico a livello nazionale con i gruppi appartenenti, tra gli altri, alle minoranze Shan, e anche dei gruppi musulmani presenti nello stato Rakhine, quell’Arakan Liberation Party che accetta di dialogare col governo e che costituisce una rappresentanza del popolo Rohingya. L’obiettivo della Conferenza è trovare un accordo quadro che funzioni per tutte le minoranze armate e avviare così una pace stabile nel Paese. La notizia della Conferenza è stata accolta con favore nella società civile birmana e nelle comunità cattoliche. L’organizzazione internazionale di ispirazione cristiana “Christian Solidarity Worldwide” in una nota inviata a Fides scrive: “Chiediamo al governo del Myanmar di consentire accesso alle organizzazioni internazionali di aiuto umanitario nello stato Rakhine, e di porre fine alle gravi violazioni dei diritti umani negli stati del Kachin e del Shan, contrastando seriamente la campagna di nazionalismo religioso, intolleranza e odio che si registra in tutto il Paese”. In uno Stato “impegnato a superare divisioni profondamente radicate e costruire l’unità nazionale”, la Chiesa del Myanmar segua la “chiamata a favorire l’unità, la carità e il risanamento nella vita del popolo”, permettendo che la comunità cattolica continui ad avere “un ruolo costruttivo nella vita della società”, facendo sentire la propria “voce” nelle questioni di “interesse nazionale”, particolarmente “insistendo sul rispetto della dignità e dei diritti di tutti, in modo speciale dei più poveri e vulnerabili”. Così il Papa incontrando, nel complesso della cattedrale di Yangon, i vescovi locali. Un momento per riflettere su “gioie” e “sfide” del loro ministero, di fronte a “greggi – osserva Francesco – che portano i segni del conflitto e hanno generato valorosi testimoni della fede e delle antiche tradizioni”. Dopo il saluto di mons. Felix Lian Khen Thang, vescovo di Kalay e presidente della Conferenza episcopale del Myanmar, Francesco incentra la riflessione su temi quali guarigione, accompagnamento e profezia. “L’unità che condividiamo e celebriamo – spiega Francesco – nasce dalla diversità: non dimenticare questo, nasce dalla diversità; valorizza le differenze tra le persone quale fonte di mutuo arricchimento e di crescita; le invita a ritrovarsi insieme, in una cultura dell’incontro e della solidarietà”. In particolare il Pontefice mette in luce l’impegno “a favorire la guarigione e la comunione ad ogni livello della vita della Chiesa”, per arrivare a quella pace “che il mondo non può dare. La comunità cattolica in Myanmar può essere orgogliosa della sua profetica testimonianza di amore a Dio e al prossimo, che si esprime nell’impegno per i poveri, per coloro che sono privi di diritti e soprattutto, in questi tempi, per i tanti sfollati che, per così dire, giacciono feriti ai bordi della strada”. Papa Bergoglio ringrazia tutti coloro che si adoperano per portare “a loro e al prossimo che è nel bisogno, senza tener conto della religione o dell’etnia, il balsamo della guarigione”. Quindi sottolinea anche l’impegno per il dialogo ecumenico e la collaborazione interreligiosa. “Prego affinché i vostri continui sforzi a costruire ponti di dialogo e ad unirvi ai seguaci di altre religioni nel tessere relazioni di pace, producano frutti abbondanti per la riconciliazione nella vita del Paese”. In tale prospettiva pone la Conferenza di pace interreligiosa tenutasi a Yangon la scorsa Primavera, “testimonianza importante, davanti al mondo, della determinazione delle religioni a vivere in pace e a rigettare ogni atto di violenza e di odio perpetrato in nome della religione”. Francesco ricorda che la Chiesa è un “ospedale da campo” che deve “guarire ferite”. E ripropone le immagini dei vescovi come pastori con l’odore delle pecore assieme all’odore di Dio e della Chiesa in uscita verso le periferie: “le vostre vite e il vostro ministero sono chiamati a conformarsi a questo spirito di coinvolgimento missionario”, attraverso le “visite pastorali regolari” a parrocchie e comunità per accompagnare, “come padri amorevoli”, i sacerdoti nel “far crescere il gregge in santità, fedeltà e spirito di servizio: perché il prossimo più prossimo del vescovo è proprio il sacerdote”. Partendo da una “fede solida” e da un “fervente anelito missionario” ereditato dagli evangelizzatori in terra asiatica, e con l’aiuto dei catechisti “pilastri” di ogni parrocchia, l’auspicio del Papa per i presuli è a “permeare il laicato nello spirito di un autentico discepolato missionario”, ricercando “una sapiente inculturazione del messaggio evangelico”. Quindi l’accompagnamento ai giovani, verso “sani principi morali” per affrontare “le sfide di un mondo in rapido cambiamento” e minacciato da “colonizzazioni ideologiche e culturali”. In vista del Sinodo dei Vescovi che nel 2018 sarà loro dedicato, Papa Bergoglio ricorda che “una delle grandi benedizioni della Chiesa in Myanmar è la sua gioventù e, in particolare, il numero di seminaristi e di giovani religiosi”, esortando i vescovi a coinvolgerli e sostenerli “nel loro percorso di fede, perché sono chiamati, attraverso il loro idealismo ed entusiasmo, ad essere evangelizzatori gioiosi e convincenti dei loro coetanei”. Ma la Chiesa locale va ricordata pure per le opere educative e caritative, la difesa dei diritti umani, il sostegno ai princìpi democratici: la fiducia del Papa è affidata alla strategia pastorale quinquennale “che la Chiesa ha sviluppato nel più ampio contesto della costruzione dello Stato”, per portare “frutto abbondante non solo per il futuro delle comunità locali, ma anche dell’intero Paese”. Il riferimento è alla “necessità di proteggere l’ambiente e di assicurare un corretto utilizzo delle ricche risorse naturali del Paese a beneficio delle generazioni future”: la custodia del dono divino della creazione, “non può essere separata da una sana ecologia umana e sociale”. La speciale raccomandazione del Papa per i vescovi, è “a mantenere l’equilibrio” nella salute fisica e spirituale, pensando anche alla “salute” dei preti, crescendo quotidianamente pure “nella preghiera e nell’esperienza dell’amore riconciliante di Dio”, perché la preghiera “è il primo compito del vescovo”, è la base della “identità sacerdotale”, la “garanzia” della solidità della predicazione e la “fonte” della carità pastorale. All’incontro con i vescovi del Myanmar, nel salone della Cattedrale di St. Mary di Yangon, Mercoledì 29 Novembre 2017, Papa Bergoglio insegna: “Per tutti noi è stata una giornata piena, ma di grande gioia! Stamani abbiamo celebrato l’Eucaristia insieme ai fedeli provenienti da ogni parte del Paese e nel pomeriggio abbiamo incontrato i leader della maggioritaria comunità buddista. Mi piacerebbe che il nostro incontro stasera fosse un momento di serena gratitudine per queste benedizioni e di tranquilla riflessione sulle gioie e sulle sfide del vostro ministero di Pastori del gregge di Cristo in questo Paese. Ringrazio Mons. Felix [Lian Khen Thang] per le parole di saluto che mi ha rivolto a nome vostro; tutti vi abbraccio con grande affetto nel Signore. Vorrei raggruppare i miei pensieri attorno a tre parole: guarigione, accompagnamento e profezia. La prima, guarigione. Il Vangelo che predichiamo è soprattutto un messaggio di guarigione, riconciliazione e pace. Mediante il sangue di Cristo sulla croce Dio ha riconciliato il mondo a sé, e ci ha inviati ad essere messaggeri di quella grazia risanante, grazia di guarigione. Qui in Myanmar, tale messaggio ha una risonanza particolare, dato che il Paese è impegnato a superare divisioni profondamente radicate e costruire l’unità nazionale. Le vostre greggi portano i segni di questo conflitto e hanno generato valorosi testimoni della fede e delle antiche tradizioni; per voi dunque la predicazione del Vangelo non dev’essere soltanto una fonte di consolazione e di fortezza, ma anche una chiamata a favorire l’unità, la carità e il risanamento nella vita del popolo. L’unità che condividiamo e celebriamo nasce dalla diversità – non dimenticare questo, nasce dalla diversità -; valorizza le differenze tra le persone quale fonte di mutuo arricchimento e di crescita; le invita a ritrovarsi insieme, in una cultura dell’incontro e della solidarietà. Che nel vostro ministero episcopale possiate fare costantemente esperienza della guida e dell’aiuto del Signore nell’impegno a favorire la guarigione e la comunione ad ogni livello della vita della Chiesa, così che il santo Popolo di Dio, il vostro gregge, mediante il suo esempio di perdono e di amore riconciliante, possa essere sale e luce per i cuori che aspirano a quella pace che il mondo non può dare. La comunità cattolica in Myanmar può essere orgogliosa della sua profetica testimonianza di amore a Dio e al prossimo, che si esprime nell’impegno per i poveri, per coloro che sono privi di diritti e soprattutto, in questi tempi, per i tanti sfollati che, per così dire, giacciono feriti ai bordi della strada. Vi chiedo di trasmettere il mio ringraziamento a tutti coloro che, come il Buon Samaritano, si adoperano con generosità per portare a loro e al prossimo che è nel bisogno, senza tener conto della religione o dell’etnia, il balsamo della guarigione. Il vostro ministero di guarigione trova una particolare espressione nell’impegno per il dialogo ecumenico e per la collaborazione interreligiosa. Prego affinché i vostri continui sforzi a costruire ponti di dialogo e ad unirvi ai seguaci di altre religioni nel tessere relazioni di pace producano frutti abbondanti per la riconciliazione nella vita del Paese. La conferenza di pace interreligiosa tenutasi a Yangon la scorsa primavera è stata una testimonianza importante, davanti al mondo, della determinazione delle religioni a vivere in pace e a rigettare ogni atto di violenza e di odio perpetrato in nome della religione. E in questa guarigione ricordatevi che la Chiesa è un “ospedale da campo”. Guarire, guarire ferite, guarire le anime, guarire. Questa è la prima vostra missione, guarire, guarire i feriti. La mia seconda parola per voi stasera è accompagnamento. Un buon Pastore è costantemente presente nei riguardi del suo gregge, conducendolo mentre cammina al suo fianco. Come mi piace dire, il Pastore dovrebbe avere l’odore delle pecore; ma anche l’odore di Dio, non dimenticatevi!, anche l’odore di Dio. Ai nostri giorni siamo chiamati a essere una “Chiesa in uscita” per portare la luce di Cristo ad ogni periferia (Esort. ap. Evangelii gaudium, 20). In quanto Vescovi, le vostre vite e il vostro ministero sono chiamati a conformarsi a questo spirito di coinvolgimento missionario, soprattutto attraverso le visite pastorali regolari alle parrocchie e alle comunità che formano le vostre Chiese locali. È questo un mezzo privilegiato per accompagnare, come padri amorevoli, i vostri sacerdoti nell’ impegno quotidiano a far crescere il gregge in santità, fedeltà e spirito di servizio. Ho parlato di accompagnare i sacerdoti: siate vicini ai sacerdoti, non dimenticate che il prossimo più prossimo che un vescovo ha è il sacerdote. Che ogni sacerdote non solo sappia, ma senta che ha un padre nel vescovo. Per grazia di Dio, la Chiesa in Myanmar ha ereditato una fede solida e un fervente anelito missionario dall’opera di coloro che portarono il Vangelo in questa terra. Su queste fondamenta stabili, e in comunione con i presbiteri e i religiosi, continuate a permeare il laicato nello spirito di un autentico discepolato missionario e a ricercare una sapiente inculturazione del messaggio evangelico nella vita quotidiana e nelle tradizioni delle vostre comunità locali. Il contributo dei catechisti è al riguardo essenziale; il loro arricchimento formativo deve rimanere per voi una priorità. E non dimenticate che i catechisti sono i pilastri, in ogni parrocchia, dell’evangelizzazione. Soprattutto, vorrei chiedervi un impegno speciale nell’accompagnare i giovani. Occupatevi della loro formazione ai sani principi morali che li guideranno nell’affrontare le sfide di un mondo minacciato dalle colonizzazioni ideologiche e culturali. Il prossimo Sinodo dei Vescovi non solo riguarderà tali aspetti, ma interpellerà direttamente i giovani, ascoltando le loro storie e coinvolgendoli nel comune discernimento su come meglio proclamare il Vangelo negli anni a venire. Una delle grandi benedizioni della Chiesa in Myanmar è la sua gioventù e, in particolare, il numero di seminaristi e di giovani religiosi. Ringraziamo Dio per questo. Nello spirito del Sinodo, per favore, coinvolgeteli e sosteneteli nel loro percorso di fede, perché sono chiamati, attraverso il loro idealismo ed entusiasmo, a essere evangelizzatori gioiosi e convincenti dei loro coetanei. La mia terza parola per voi è profezia. La Chiesa in Myanmar testimonia quotidianamente il Vangelo mediante le sue opere educative e caritative, la sua difesa dei diritti umani, il suo sostegno ai principi democratici. Possiate mettere la comunità cattolica nelle condizioni di continuare ad avere un ruolo costruttivo nella vita della società, facendo sentire la vostra voce nelle questioni di interesse nazionale, particolarmente insistendo sul rispetto della dignità e dei diritti di tutti, in modo speciale dei più poveri e vulnerabili. Sono fiducioso che la strategia pastorale quinquennale, che la Chiesa ha sviluppato nel più ampio contesto della costruzione dello Stato, porterà frutto abbondante non solo per il futuro delle comunità locali, ma anche dell’intero Paese. Mi riferisco specialmente alla necessità di proteggere l’ambiente e di assicurare un corretto utilizzo delle ricche risorse naturali del Paese a beneficio delle generazioni future. La custodia del dono divino della creazione non può essere separata da una sana ecologia umana e sociale. Infatti, «la cura autentica delle nostre relazioni con la natura è inseparabile dalla fraternità, dalla giustizia e dalla fedeltà nei confronti degli altri» (Enc. Laudato si’, 70). Cari fratelli Vescovi, ringrazio Dio per questo momento di comunione e prego che questo nostro stare insieme ci rafforzerà nell’impegno ad essere pastori fedeli e servitori del gregge che Cristo ci ha affidato. So che il vostro ministero è impegnativo e che, insieme ai vostri sacerdoti, spesso faticate sotto «il peso della giornata e il caldo» (Mt 20,12). Vi esorto a mantenere l’equilibrio nella salute fisica come in quella spirituale, e a darvi pensiero, in modo paterno, della salute dei vostri preti. E parlando di salute spirituale, ricordate il primo compito del vescovo. Quando i primi cristiani hanno ricevuto le lamentele degli ellenisti perché non erano curati bene le loro vedove e i loro figli, si sono riuniti gli apostoli e hanno “inventato” i diaconi. E Pietro annuncia questa notizia e annuncia anche il compito del vescovo dicendo così: “A noi spettano la preghiera e l’annuncio della Parola” (At 6,1-6). La preghiera è il primo compito del vescovo. Ognuno di noi vescovi dovrà domandarsi, alla sera, nell’esame di coscienza: “Quante ore ho pregato oggi?”. Cari fratelli, vi esorto a mantenere l’equilibrio nella salute fisica e spirituale. Soprattutto, vi incoraggio a crescere ogni giorno nella preghiera e nell’esperienza dell’amore riconciliante di Dio, perché è la base della vostra identità sacerdotale, la garanzia della solidità della vostra predicazione e la fonte della carità pastorale con la quale conducete il popolo di Dio sui sentieri della santità e della verità. Con grande affetto invoco la grazia del Signore su di voi, sui sacerdoti, i religiosi e su tutti i laici delle vostre Chiese locali. Vi chiedo, per favore, di non dimenticarvi di pregare per me. E adesso vi invito a pregare tutti insieme, voi in birmano, io in spagnolo, l’Ave Maria alla Madonna. Vi benedica Dio Onnipotente Padre e Figlio e Spirito Santo”. Nella Santa Messa con i giovani alla Cattedrale di Saint Mary di Yangon, Giovedì 30 Novembre 2017, Papa Bergoglio insegna: “Mentre la mia visita alla vostra bella terra si avvia alla conclusione, mi unisco a voi nel ringraziare Dio per le molte grazie che abbiamo ricevuto in questi giorni. Guardando a voi, giovani del Myanmar, e a tutti coloro che ci seguono al di fuori di questa cattedrale, desidero condividere un’espressione della prima Lettura di oggi, che risuona dentro di me. Tratta dal profeta Isaia, viene ripresa da San Paolo nella sua Lettera alla giovane comunità cristiana di Roma. Ascoltiamo una volta ancora queste parole: «Quanto sono belli i piedi di coloro che recano un lieto annuncio di bene!» (Rm 10,15; Is 52,7). Cari giovani del Myanmar, dopo aver sentito le vostre voci e avervi ascoltato oggi cantare, vorrei applicare queste parole a voi. Sì, sono belli i vostri passi, ed è bello e incoraggiante vedervi, perché ci recate «un lieto annuncio di bene», il lieto annuncio della vostra gioventù, della vostra fede e del vostro entusiasmo. Certo, voi siete un lieto annuncio, perché siete segni concreti della fede della Chiesa in Gesù Cristo, che reca a noi una gioia e una speranza che non avranno mai fine. Alcuni si chiedono come sia possibile parlare di lieti annunci quando tanti attorno a noi soffrono. Dove sono i lieti annunci quando tanta ingiustizia, povertà e miseria gettano ombra su di noi e sul nostro mondo? Vorrei, però, che da questo luogo uscisse un messaggio molto chiaro. Vorrei che la gente sapesse che voi, giovani uomini e donne del Myanmar, non avete paura di credere nel buon annuncio della misericordia di Dio, perché esso ha un nome e un volto: Gesù Cristo. In quanto messaggeri di questo lieto annuncio, siete pronti a recare una parola di speranza alla Chiesa, al vostro Paese, al mondo. Siete pronti a recare il lieto annuncio ai fratelli e alle sorelle che soffrono e hanno bisogno delle vostre preghiere e della vostra solidarietà, ma anche della vostra passione per i diritti umani, per la giustizia e per la crescita di quello che Gesù dona: amore e pace. Ma vorrei anche proporvi una sfida. Avete ascoltato attentamente la prima Lettura? Lì san Paolo ripete per tre volte la parola “senza”. E’ una piccola parola, che però ci provoca a pensare al nostro posto nel progetto di Dio. In effetti, Paolo pone tre domande, che io vorrei rivolgere a ciascuno di voi personalmente. La prima: “Come crederanno in lui senza averne sentito parlare?”. La seconda: “Come ne sentiranno parlare senza un messaggero che lo annunci?”. La terza: “Come può esserci un messaggero senza che sia stato mandato?” (Rm 10,14-15). Mi piacerebbe che tutti voi pensaste a fondo a queste tre domande. Ma non abbiate paura! Come padre (o meglio come nonno!) che vi vuole bene, non voglio lasciarvi soli di fronte a queste domande. Permettetemi di offrirvi alcuni pensieri che possano guidarvi nel vostro cammino di fede e aiutarvi a discernere che cosa il Signore vi sta domandando. La prima domanda di San Paolo è: “Come crederanno in lui senza averne sentito parlare?”. Il nostro mondo è pieno di tanti rumori e distrazioni che possono soffocare la voce di Dio. Affinché altri siano chiamati a sentirne parlare e a credere in Lui, hanno bisogno di trovarlo in persone che siano autentiche, persone che sanno come ascoltare. È certamente quello che voi volete essere. Ma solo il Signore può aiutarvi a essere genuini; perciò parlategli nella preghiera. Imparate ad ascoltare la sua voce, parlandogli con calma nel profondo del vostro cuore. Ma parlate anche ai santi, nostri amici in cielo che possono ispirarci. Come Sant’Andrea, che festeggiamo oggi. Era un semplice pescatore e divenne un grande martire, un testimone dell’amore di Gesù. Ma prima di diventare un martire, fece i suoi errori ed ebbe bisogno di essere paziente, di imparare gradualmente come essere un vero discepolo di Cristo. Anche voi, non abbiate paura di imparare dai vostri errori! Che i santi vi possano guidare a Gesù, insegnandovi a mettere la vostra vita nelle sue mani. Sapete che Gesù è pieno di misericordia. Dunque condividete con Lui tutto quello che avete nel cuore: le paure e le preoccupazioni, i sogni e le speranze. Coltivate la vita interiore, come fareste con un giardino o con un campo. Questo richiede tempo, richiede pazienza. Ma come un contadino sa attendere la crescita della messe, così, se saprete aver pazienza, il Signore vi concederà di portare molto frutto, un frutto che potrete poi condividere con gli altri. La seconda domanda di Paolo è: “Come ne sentiranno parlare senza un messaggero che lo annunci?”. Ecco un grande compito affidato in modo speciale ai giovani: essere “discepoli missionari”, messaggeri del lieto annuncio di Gesù, soprattutto per i vostri coetanei e amici. Non abbiate paura di fare scompiglio, di porre domande che facciano pensare la gente. E non abbiate paura se a volte percepirete di essere pochi e sparpagliati. Il Vangelo cresce sempre da piccole radici. Per questo, fatevi sentire! Vorrei chiedervi di gridare, ma non con la voce, no, vorrei che gridaste con la vita, con il cuore, così da essere segni di speranza per chi è scoraggiato, una mano tesa per chi è malato, un sorriso accogliente per chi è straniero, un sostegno premuroso per chi è solo. L’ultima domanda di Paolo è: “Come può esserci un messaggero senza che sia stato mandato?”. Al termine della Messa saremo tutti mandati a prendere i doni che abbiamo ricevuto e a condividerli con altri. Ciò potrebbe essere un po’ scoraggiante, dal momento che non sappiamo sempre dove Gesù ci può mandare. Ma Egli non ci invia mai senza camminare al tempo stesso al nostro fianco, e sempre un po’ davanti a noi, per introdurci in nuove e magnifiche parti del suo regno. In che modo il Signore manda Sant’Andrea e suo fratello Simon Pietro nel Vangelo di oggi? «Seguitemi», dice loro (cfr Mt 4,19). Ecco cosa significa essere inviati: seguire Cristo, non precipitarsi in avanti con le proprie forze! Il Signore inviterà alcuni di voi a seguirlo come preti e a diventare in questo modo “pescatori di uomini”. Altri li chiamerà a diventare persone consacrate. E altri ancora li chiamerà alla vita matrimoniale, a essere padri e madri amorevoli. Qualunque sia la vostra vocazione, vi esorto: siate coraggiosi, siate generosi e, soprattutto, siate gioiosi! Qui in questa bella Cattedrale dedicata all’Immacolata Concezione, vi incoraggio a guardare a Maria. Quando lei disse “sì” al messaggio dell’Angelo, era giovane come voi. Ma ebbe il coraggio di confidare nel lieto annuncio che aveva ascoltato e di tradurlo in una vita di fedele dedizione alla sua vocazione, di totale donazione di sé e di completo affidamento all’amorevole premura di Dio. Come Maria, possiate tutti voi essere miti ma coraggiosi nel portare Gesù e il suo amore agli altri. Cari giovani, con grande affetto affido tutti voi e le vostre famiglie alla sua materna intercessione. E vi chiedo, per favore, di ricordarvi di pregare per me. Dio benedica il Myanmar! Myanmar pyi ko Payarthakin Kaung gi pei pa sei”. Le migrazioni globali continueranno: non sono da considerare una minaccia, dobbiamo guardarle con spirito carico di fiducia, spirito che viene dalla sapienza della fede e della scienza. È il cuore del Messaggio di Papa Bergoglio per la prossima Giornata Mondiale della Pace del Primo Gennaio 2018. Scrive Francesco: “Pace a tutte le persone e a tutte le nazioni della Terra! La pace, che gli angeli annunciano ai pastori nella notte di Natale, è un’aspirazione profonda di tutte le persone e di tutti i popoli, soprattutto di quanti più duramente ne patiscono la mancanza. Tra questi, che porto nei miei pensieri e nella mia preghiera, voglio ancora una volta ricordare gli oltre 250 milioni di migranti nel mondo, dei quali 22 milioni e mezzo sono rifugiati. Questi ultimi, come affermò il mio amato predecessore Benedetto XVI, «sono uomini e donne, bambini, giovani e anziani che cercano un luogo dove vivere in pace». Per trovarlo, molti di loro sono disposti a rischiare la vita in un viaggio che in gran parte dei casi è lungo e pericoloso, a subire fatiche e sofferenze, ad affrontare reticolati e muri innalzati per tenerli lontani dalla meta. Con spirito di misericordia, abbracciamo tutti coloro che fuggono dalla guerra e dalla fame o che sono costretti a lasciare le loro terre a causa di discriminazioni, persecuzioni, povertà e degrado ambientale. Siamo consapevoli che aprire i nostri cuori alla sofferenza altrui non basta. Ci sarà molto da fare prima che i nostri fratelli e le nostre sorelle possano tornare a vivere in pace in una casa sicura. Accogliere l’altro richiede un impegno concreto, una catena di aiuti e di benevolenza, un’attenzione vigilante e comprensiva, la gestione responsabile di nuove situazioni complesse che, a volte, si aggiungono ad altri e numerosi problemi già esistenti, nonché delle risorse che sono sempre limitate. Praticando la virtù della prudenza, i governanti sapranno accogliere, promuovere, proteggere e integrare, stabilendo misure pratiche, «nei limiti consentiti dal bene comune rettamente inteso, per permettere quell’inserimento». Essi hanno una precisa responsabilità verso le proprie comunità, delle quali devono assicurarne i giusti diritti e lo sviluppo armonico, per non essere come il costruttore stolto che fece male i calcoli e non riuscì a completare la torre che aveva cominciato a edificare. In vista del Grande Giubileo per i 2000 anni dall’annuncio di pace degli angeli a Betlemme, San Giovanni Paolo II annoverò il crescente numero di profughi tra le conseguenze di «una interminabile e orrenda sequela di guerre, di conflitti, di genocidi, di “pulizie etniche”, che avevano segnato il XX Secolo. Quello nuovo non ha finora registrato una vera svolta: i conflitti armati e le altre forme di violenza organizzata continuano a provocare spostamenti di popolazione all’interno dei confini nazionali e oltre. Ma le persone migrano anche per altre ragioni, prima fra tutte il «desiderio di una vita migliore, unito molte volte alla ricerca di lasciarsi alle spalle la “disperazione” di un futuro impossibile da costruire». Si parte per ricongiungersi alla propria famiglia, per trovare opportunità di lavoro o di istruzione: chi non può godere di questi diritti, non vive in pace. Inoltre, come ho sottolineato nell’Enciclica Laudato si’, «è tragico l’aumento dei migranti che fuggono la miseria aggravata dal degrado ambientale». La maggioranza migra seguendo un percorso regolare, mentre alcuni prendono altre strade, soprattutto a causa della disperazione, quando la patria non offre loro sicurezza né opportunità, e ogni via legale pare impraticabile, bloccata o troppo lenta. In molti Paesi di destinazione si è largamente diffusa una retorica che enfatizza i rischi per la sicurezza nazionale o l’onere dell’accoglienza dei nuovi arrivati, disprezzando così la dignità umana che si deve riconoscere a tutti, in quanto figli e figlie di Dio. Quanti fomentano la paura nei confronti dei migranti, magari a fini politici, anziché costruire la pace, seminano violenza, discriminazione razziale e xenofobia, che sono fonte di grande preoccupazione per tutti coloro che hanno a cuore la tutela di ogni essere umano. Tutti gli elementi di cui dispone la comunità internazionale indicano che le migrazioni globali continueranno a segnare il nostro futuro. Alcuni le considerano una minaccia. Io, invece, vi invito a guardarle con uno sguardo carico di fiducia, come opportunità per costruire un futuro di pace. La sapienza della fede nutre questo sguardo, capace di accorgersi che tutti facciamo «parte di una sola famiglia, migranti e popolazioni locali che li accolgono, e tutti hanno lo stesso diritto ad usufruire dei beni della terra, la cui destinazione è universale, come insegna la dottrina sociale della Chiesa. Qui trovano fondamento la solidarietà e la condivisione». Queste parole ci ripropongono l’immagine della nuova Gerusalemme. Il libro del profeta Isaia (cap. 60) e poi quello dell’Apocalisse (cap. 21) la descrivono come una città con le porte sempre aperte, per lasciare entrare genti di ogni nazione, che la ammirano e la colmano di ricchezze. La pace è il sovrano che la guida e la giustizia il principio che governa la convivenza al suo interno. Abbiamo bisogno di rivolgere anche sulla città in cui viviamo questo sguardo contemplativo, «ossia uno sguardo di fede che scopra quel Dio che abita nelle sue case, nelle sue strade, nelle sue piazze promuovendo la solidarietà, la fraternità, il desiderio di bene, di verità, di giustizia», in altre parole realizzando la promessa della pace. Osservando i migranti e i rifugiati, questo sguardo saprà scoprire che essi non arrivano a mani vuote: portano un carico di coraggio, capacità, energie e aspirazioni, oltre ai tesori delle loro culture native, e in questo modo arricchiscono la vita delle nazioni che li accolgono. Saprà scorgere anche la creatività, la tenacia e lo spirito di sacrificio di innumerevoli persone, famiglie e comunità che in tutte le parti del mondo aprono la porta e il cuore a migranti e rifugiati, anche dove le risorse non sono abbondanti. Questo sguardo contemplativo, infine, saprà guidare il discernimento dei responsabili della cosa pubblica, così da spingere le politiche di accoglienza fino al massimo dei «limiti consentiti dal bene comune rettamente inteso», considerando cioè le esigenze di tutti i membri dell’unica famiglia umana e il bene di ciascuno di essi. Chi è animato da questo sguardo sarà in grado di riconoscere i germogli di pace che già stanno spuntando e si prenderà cura della loro crescita. Trasformerà così in cantieri di pace le nostre città, spesso divise e polarizzate da conflitti che riguardano proprio la presenza di migranti e rifugiati. Offrire a richiedenti asilo, rifugiati, migranti e vittime di tratta una possibilità di trovare quella pace che stanno cercando, richiede una strategia che combini quattro azioni: accogliere, proteggere, promuovere e integrare. “Accogliere” richiama l’esigenza di ampliare le possibilità di ingresso legale, di non respingere profughi e migranti verso luoghi dove li aspettano persecuzioni e violenze, e di bilanciare la preoccupazione per la sicurezza nazionale con la tutela dei diritti umani fondamentali. La Scrittura ci ricorda: «Non dimenticate l’ospitalità; alcuni, praticandola, hanno accolto degli angeli senza saperlo». “Proteggere” ricorda il dovere di riconoscere e tutelare l’inviolabile dignità di coloro che fuggono da un pericolo reale in cerca di asilo e sicurezza, di impedire il loro sfruttamento. Penso in particolare alle donne e ai bambini che si trovano in situazioni in cui sono più esposti ai rischi e agli abusi che arrivano fino a renderli schiavi. Dio non discrimina: «Il Signore protegge lo straniero, egli sostiene l’orfano e la vedova». “Promuovere” rimanda al sostegno allo sviluppo umano integrale di migranti e rifugiati. Tra i molti strumenti che possono aiutare in questo compito, desidero sottolineare l’importanza di assicurare ai bambini e ai giovani l’accesso a tutti i livelli di istruzione: in questo modo essi non solo potranno coltivare e mettere a frutto le proprie capacità, ma saranno anche maggiormente in grado di andare incontro agli altri, coltivando uno spirito di dialogo anziché di chiusura o di scontro. La Bibbia insegna che Dio «ama lo straniero e gli dà pane e vestito»; perciò esorta: «Amate dunque lo straniero, poiché anche voi foste stranieri nel paese d’Egitto». “Integrare”, infine, significa permettere a rifugiati e migranti di partecipare pienamente alla vita della società che li accoglie, in una dinamica di arricchimento reciproco e di feconda collaborazione nella promozione dello sviluppo umano integrale delle comunità locali. Come scrive San Paolo: «Così dunque voi non siete più stranieri né ospiti, ma siete concittadini dei santi e familiari di Dio». Auspico di cuore che sia questo spirito ad animare il processo che lungo il 2018 condurrà alla definizione e all’approvazione da parte delle Nazioni Unite di due patti globali, uno per migrazioni sicure, ordinate e regolari, l’altro riguardo ai rifugiati. In quanto accordi condivisi a livello globale, questi patti rappresenteranno un quadro di riferimento per proposte politiche e misure pratiche. Per questo è importante che siano ispirati da compassione, lungimiranza e coraggio, in modo da cogliere ogni occasione per far avanzare la costruzione della pace: solo così il necessario realismo della politica internazionale non diventerà una resa al cinismo e alla globalizzazione dell’indifferenza. Il dialogo e il coordinamento, in effetti, costituiscono una necessità e un dovere proprio della comunità internazionale. Al di fuori dei confini nazionali, è possibile anche che Paesi meno ricchi possano accogliere un numero maggiore di rifugiati, o accoglierli meglio, se la cooperazione internazionale assicura loro la disponibilità dei fondi necessari. La Sezione Migranti e Rifugiati del Dicastero per il Servizio dello Sviluppo Umano Integrale ha suggerito 20 punti di azione quali piste concrete per l’attuazione di questi quattro verbi nelle politiche pubbliche, oltre che nell’atteggiamento e nell’azione delle comunità cristiane. Questi ed altri contributi intendono esprimere l’interesse della Chiesa cattolica al processo che porterà all’adozione dei suddetti patti globali delle Nazioni Unite. Tale interesse conferma una più generale sollecitudine pastorale nata con la Chiesa e continuata in molteplici sue opere fino ai nostri giorni. Ci ispirano le parole di San Giovanni Paolo II: «Se il “sogno” di un mondo in pace è condiviso da tanti, se si valorizza l’apporto dei migranti e dei rifugiati, l’umanità può divenire sempre più famiglia di tutti e la nostra terra una reale “casa comune”». Molti nella storia hanno creduto in questo “sogno” e quanto hanno compiuto testimonia che non si tratta di una utopia irrealizzabile. Tra costoro va annoverata Santa Francesca Saverio Cabrini, di cui ricorre nel 2017 il centenario della nascita al cielo. Oggi, 13 novembre, molte comunità ecclesiali celebrano la sua memoria. Questa piccola grande donna, che consacrò la propria vita al servizio dei migranti, diventandone poi la celeste patrona, ci ha insegnato come possiamo accogliere, proteggere, promuovere e integrare questi nostri fratelli e sorelle. Per la sua intercessione il Signore conceda a noi tutti di sperimentare che «un frutto di giustizia viene seminato nella pace per coloro che fanno opera di pace»”. Pensieri che riecheggiano nelle parole del prefetto del dicastero per il Servizio dello Sviluppo umano integrale, il card. Peter Turkson: “Lasciare il proprio Paese a causa delle guerre, della miseria e della paura, non può e non deve compromettere per migranti e rifugiati  la dignità umana”. Da questo presupposto prendono spunto i quattro verbi chiave contenuti nel Messaggio di Francesco: accogliere, proteggere, promuovere e integrare. Essi sono quattro spunti di riflessione su come rispondere al fenomeno migratorio e servono da stimolo ai governanti  per guardare in positivo al movimento di massa globale che caratterizza il nostro presente, senza averne paura”, senza ovviamente giustificare gli strateghi delle deportazioni di massa! “Tanti volti provati dalla vita, ma nobili e sorridenti, sono rimasti “nel cuore e nella preghiera” di Papa Francesco dopo la visita in Myanmar e in Bangladesh. Lo confida lui stesso all’Angelus recitato a mezzogiorno di Domenica 3 Dicembre, all’indomani della conclusione del viaggio. Il Pontefice traccia un primo bilancio delle giornate trascorse in Asia durante il consueto incontro con i giornalisti a bordo dell’aereo in volo da Dhaka a Roma. Se si eccettua un riferimento alla questione degli arsenali nuclear, sulla quale il Papa evoca lo spettro della “distruzione dell’umanità” invitando a interrogarsi sul “limite” della corsa agli armamenti come peraltro già espresso dal Presidente Vladimir Putin della Federazione Russa in numerosi summit, tutte le domande sono state centrate sugli aspetti più significativi della visita. A cominciare dall’incontro di Venerdì 1° Dicembre con i Rohingya, che Francesco rievoca con accenti commossi, chiarendo che la scelta di non nominarli espressamente durante la tappa in Myanmar è stata dettata dalla volontà di non chiudere subito la porta del dialogo. A muovere il Pontefice è invece l’intenzione di far arrivare il messaggio ai suoi destinatari senza “sbattere la porta in faccia pubblicamente”. Così, spiega, “ho descritto le situazioni, i diritti di cittadinanza, nessuno escluso, per permettermi nei colloqui privati di andare oltre”. E alla fine, confida, “sono rimasto molto, molto soddisfatto dei colloqui che ho potuto avere, perché ho avuto la soddisfazione di dialogare, di far parlare l’altro, di dire la mia e così il messaggio è arrivato”. Il Papa parla dell’incontro avuto all’inizio del viaggio con il generale Min Aung Hlaing, rivelando che durante la conversazione non c’è stata alcuna “negoziazione” della verità e che “anche lì il messaggio è arrivato”. Quanto al Bangladesh, Francesco rimarca la scelta delle autorità di puntare tutto sull’educazione per far fronte alle drammatiche conseguenze di una globalizzazione che penalizza le fasce più povere della popolazione. Dal Pontefice un accenno ad altri due possibili viaggi nel continente asiatico: in India, dove conta di recarsi nel 2018, in Russia e in Cina. A proposito di quest’ultimo, il Papa afferma che “non è in preparazione”, ma ha ammesso: “Mi piacerebbe, non è una cosa nascosta”. Le testimonianze “altre” confermano la fiducia di Francesco. “Senza amore non possiamo fare niente a questo mondo: questo valore manca molto nel nostro mondo. Papa Francesco ha mostrato qui in Bangladesh e anche in Myanmar cosa vuol dire amore, specialmente verso i profughi, ma verso tutta la popolazione bangladese”, afferma all’Agenzia Fides il maulana Fariduddin Mashud, leader islamico che è tra i tanti capi musulmani bangladesi ad apprezzare la visita e la presenza di Francesco. Il leader indù bangladese Shami Druveshanando rimarca che “Papa Francesco è stato un portatore della pace in Bangladesh”, mentre il prof. Anisus Zaman, musulmano, osserva: “Siamo felici per aver ricevuto Papa Francesco nel nostro Paese. È giunto in un momento in cui ne avevamo molto bisogno: dove c’è disperazione, egli è venuto a portare la speranza. Ha portato simpatia ed empatia verso i profughi Rohingya e ha lanciato un appello per la loro dignità. Sicuramente questa visita di Papa Francesco aprirà una finestra per il nostro futuro, per creare autentica fraternità”. Sebbene si siano registrati sui social media bangladesi alcuni commenti negativi sulla presenza del Papa da parte di pochi esponenti estremisti, “possiamo dire con certezza che l’accoglienza da parte della popolazione bangldese è stata ottima”, nota p. Lintu D’Costa, sacerdote di Dacca. La piccola Chiesa del Bangladesh, lo 0,2% in una nazione a maggioranza islamica, porta nel suo cuore “la benedizione ricevuta da Papa Francesco. Tutti abbiamo apprezzato la sua umiltà e semplicità, il suo farsi prossimo con i piccoli, i poveri, gli emarginati, proprio come faceva Gesù. Il suo spirito e la sua autentica testimonianza evangelica, oltre alle sue parole sempre incisive, come perdono, dialogo, dignità umana, hanno colpito tutti e lasceranno una traccia indelebile nella nostra vita”. Papa Francesco ha lasciato una traccia evangelica di compassione e di misericordia in una nazione a maggioranza buddista. La popolazione birmana ha percepito con chiarezza il suo messaggio di pace e riconciliazione: è quanto resta della visita di Papa Bergoglio in Myanmar, come rimarcano leader e fedeli cattolici che hanno partecipato e seguito i diversi momenti del viaggio apostolico. Spiega Joseph Kung Za Hmung, laico cattolico, fondatore del servizio cattolico birmano di mass-media e web Gloria Tv: “L’atmosfera nella comunità cattolica oggi è di grande entusiasmo. Siamo davvero felici per questo storico evento. La piccola Chiesa birmana si è sentita davvero sostenuta e incoraggiata da Pietro che è giunto a far visita a una periferia. Soprattutto i giovani sono stati particolarmente colpiti. Sono la nostra speranza e tutta la Chiesa birmana beneficerà di questo rinnovato entusiasmo, nel donare alla nazione il Vangelo della riconciliazione, della guarigione e della pace”. Un secondo livello dell’impatto della visita di Francesco è quello del dialogo interreligioso: “L’incontro con i leader buddisti, nel tempio buddista di Yangon, ha lasciato il segno nell’opinione pubblica. I leader buddisti oggi dicono di aver apprezzato molto l’atteggiamento rispettoso del Papa che non è venuto a imporre alcunché, ma che è venuto a dare la sua testimonianza di uomo di Dio, di uomo di dialogo e di pace, di leader spirituale che riconosce la dignità di ogni essere umano che incontra”. C’è poi il valore prettamente “politico” della visita. “La presenza del Papa – spiega Joseph Kung Za Hmung – ha avuto anche un valore politico perché con le autorità civili si è parlato di inclusione delle minoranze, di processo di pace, di guarire le ferite della nazione, nella prospettiva di costruire il bene comune, e nel rispetto dei diritti umani. Questo messaggio evangelico ha un impatto di natura politica che è stato portato con delicatezza e insieme con chiarezza. Auspichiamo possa avere un effetto concreto nella conferenza di dialogo tra il governo e le minoranze etniche, ma anche in altri ambiti della vita pubblica, come sulla costruzione della democrazia, perché la nazione si ispiri sempre a principi di giustizia, pace e sviluppo uguale per tutti”. Il viaggio del Papa è stato un faro puntato sulla grave situazione umanitaria in cui versano oggi i Rohingya, minoranza di religione musulmana, osteggiata dalla maggioranza buddista in Myanmar. In migliaia sono fuggiti dalle loro case per trovare precaria accoglienza nei campi profughi nel vicino Bangladesh. Il Papa a Dhaka chiede loro perdono per l’indifferenza del mondo nei loro riguardi. Ma alla radice della crisi che schiaccia questa gente ci sono grossi interessi di natura geopolitica ed economica. A contendersi l’influenza sulla loro terra, Stati Uniti d’America (cf. film Usa di propaganda del 2005 “Stealth, arma suprema”) e Cina. In Bangladesh la gente più povera è spesso costretta a lavorare per 12 ore al giorno per una paga insufficiente. Bambini compresi. Un “viaggio è riuscito quando riesco a incontrare il popolo”, è la convinzione, peraltro ben nota, con cui Francesco apre e chiude le conferenze stampa in volo. Una confidenza che Francesco sceglie personalmente di mettere a suggello dei 58 minuti trascorsi con i giornalisti al rientro, durante i quali affronta fra l’altro il dramma umanitario dell’etnia Rohingya, il tema del disarmo nucleare, la possibilità per il momento remota, ma desiderata, di un viaggio in Cina. “A me il viaggio fa bene quando riesco a incontrare il popolo dei Paesi, il popolo di Dio. Quando riesco a parlare, incontrarli o salutarli, gli incontri con la gente. Abbiamo parlato degli incontri con i politici, ma la gente, il popolo è proprio il profondo di un Paese. Quando riesco a trovare questo, sono felice”. Che Francesco tenesse in modo particolare a condividere i pensieri a caldo sul suo 21mo viaggio apostolico lo si capisce quando dopo pochi minuti sollecita espressamente “domande sul viaggio” intervenendo in modo placido su quell’abitudine di alcuni media di coinvolgere il capo della Chiesa sui temi caldi dell’attualità quasi “dimenticando” le Chiese appena visitate! E, in effetti, la prima domanda tocca subito il nervo scoperto di un argomento acceso da tempo sui media mondiali, riguardante non solo il dramma del popolo Rohingya, “l’etnia più perseguitata del mondo”, peraltro immortalato da Sylvester Stallone nel suo film “John Rambo” del 2008. I cronisti vogliono conoscere dalla voce del Papa cosa abbia portato a quel momento inatteso e intenso, quando abbraccia commosso un gruppo di profughi sotto gli occhi del pianeta Terra. Un gesto di umanità e un colpo di scena mediatico, giunto dopo settimane in cui molti avevano dibattuto sul perché Francesco avesse deciso di non pronunciare il nome di quell’etnia nei suoi discorsi ufficiali in Myanmar e Bangladesh. Per spiegare il tutto, il Papa fa l’esempio di un adolescente che talvolta parlando con qualcuno si irrigidisce e sbattendo “la porta sul naso” rompe il rapporto. “Per me, obietta Francesco, la cosa più importante è che il messaggio arrivi. Per questo ho visto che se nel discorso ufficiale avessi detto quella parola, avrei sbattuto la porta in faccia. Ma ho descritto le situazioni, i diritti, nessuno escluso, la cittadinanza, per permettermi nei colloqui privati di andare oltre. Io sono rimasto molto, molto soddisfatto dei colloqui che ho potuto avere, perché è vero, diciamo così, non ho sbattuto la porta in faccia, pubblicamente, una denuncia: no; ma ho avuto la soddisfazione di dialogare, di far parlare l’altro, di dire la mia e così il messaggio è arrivato”. Francesco descrive i momenti vissuti al termine dell’Incontro interreligioso di Dhaka. Dice di aver pianto con i Rohingya, in lacrime davanti a lui, e anche di essersi “arrabbiato” e aver chiesto per loro “rispetto” a chi cercava di farli andar via con troppa celerità dal palco. Racconta di come l’idea della preghiera finale che ha riunito tutti a semicerchio sul palco, una delle immagini più potenti del 21mo viaggio apostolico, sia nata sul momento, suggeritagli dall’avere vicino dei leader di altre religioni, e poco dopo, sollecitato da una domanda, confessa pure di aver pensato di raggiungere il campo dei Rohingya ma di non aver potuto per problemi organizzativi. Una domanda stimola il Papa sulla figura di Aung San Suu Kyi, Premio Nobel per la Pace in favore della democrazia nell’ex Birmania e oggi al centro di giudizi controversi nella sua veste di Consigliere di stato e ministro degli Esteri birmano. “Nel Myanmar è difficile valutare una critica senza chiedere: è stato possibile fare questo? O come sarà possibile fare questo? La situazione politica? È una Nazione in crescita, politicamente in crescita; è una Nazione in transizione che ha tanti valori culturali nella Storia, ma politicamente è in transizione. E per questo, le possibilità devono valutarsi anche da questa ottica”. Sulla visita del generale birmano, anticipata rispetto al programma, Francesco conferma di averlo ricevuto su sua richiesta e, riemergendo ancora la problematica sull’utilizzo o meno in quella circostanza del nome Rohingya, sottolinea con intenzione che durante quel colloquio “non ho negoziato la verità” e “ho usato tutte le parole che volevo dire”. Poi si passa al Bangladesh e un giornalista nota come Francesco sia stato più vicino ai Rohingya di tante altre formazioni, alcune  di stampo terroristico, che invece, e il Papa lo stigmatizza, hanno cercato di “approfittare la situazione. Per quanto mi riguarda – Francesco replica – io non cerco di parlare con questa gente, io cerco di parlare con le vittime”. Un giornalista di lingua inglese chiede cosa sia cambiato oggi rispetto a Giovanni Paolo II che nel 1982 definì l’opzione nucleare “moralmente accettabile”, mentre Francesco l’ha recentemente condannata, sullo sfondo della crisi tra Usa e Nord Corea. “Nella nostra epoca, chiarisce, è cambiata l’irrazionalità. Oggi siamo al limite: questo si può discutere, ma è la mia opinione; ma la mia opinione convinta: io ne sono convinto. Siamo al limite della liceità di avere e usare le armi nucleari. Perché? Perché oggi, con l’arsenale nucleare così sofisticato, si rischia la distruzione dell’umanità, o almeno di gran parte dell’umanità. Cosa è cambiato? Questo: la crescita dell’armamento nucleare sofisticato e anche crudele, capace di distruggere le persone senza toccare le strutture. Siamo al limite”. Una domanda posta in modo critico sonda il Papa sul tema dell’evangelizzazione che in alcuni contesti può creare “tensioni”. Francesco, citando Benedetto XVI,  ribadisce che la “Chiesa non cresce per proselitismo ma per attrazione”. Quindi il discorso tocca il capitolo dei viaggi apostolici, quelli messi in preventivo ma poi rinviati come l’India, il Papa ammette che la vastità del subcontinente ne richiederebbe uno specific, e quelli al momento solo un’idea e forse qualcosa di più. “Il viaggio in Cina non è in preparazione. Mi piacerebbe, non è una cosa nascosta. Le trattative con la Cina sono di alto livello culturale. Poi c’è il dialogo politico, soprattutto per la Chiesa cinese, con la questione della Chiesa patriottica, la Chiesa clandestina, si deve andare passo passo, con delicatezza, come si sta facendo con pazienza. Ma le porte del cuore sono aperte”. Con un messaggio di speranza per il futuro della società bangladese, affidato nelle mani delle nuove generazioni, il Papa conclude il suo viaggio in Asia. Così come aveva fatto solo due giorni prima in Myanmar, nel pomeriggio di Sabato 1° Dicembre 2017 anche a Dakha il Pontefice riserva l’ultimo appuntamento pubblico ai giovani, confidando di apprezzarne l’entusiasmo e la capacità di rischiare, al punto da sentirsi “ringiovanito” egli stesso ogni volta che si trova in mezzo a loro. Ed essi, a loro volta, lo accolgono con trasporto. Come i due ragazzi che, in segno di rispetto, si chinano a terra per toccargli i piedi. E rispondendo alle loro domande, che esprimono ansie e dubbi tipici di questa età “fragile” a qualsiasi latitudine, Francesco sottolinea l’importanza dell’amicizia sociale capace di andare oltre le differenze e dell’armonia tra le religioni per il progresso del Bangladesh. Per farsi meglio comprendere, il Papa ricorre anche al linguaggio tecnologico dei teenager: “Dio ha posizionato dentro di noi un software che ci aiuta. Tenete aggiornato il vostro programma”. Parole di Papa Bergoglio. L’incontro si svolge al Notre Dame College di Dhaka, uno dei migliori istituti di istruzione superiore del Paese. Qui ogni anno si iscrivono almeno tremila studenti, 125 dei quali sostenuti nel loro percorso formativo grazie a borse di studio. Nel campo sportivo dell’Istituto il Papa è accolto dal vescovo Subroto Howlander, incaricato della pastorale giovanile, dal rettore dell’ateneo e dal direttore della scuola, entrambi gestiti dalla congregazione di Santa Croce. Compiendo un giro in “golf kart” tra i giovani festanti, Francesco osserva da vicino i volti sorridenti di migliaia di ragazze e di ragazzi, nei quali si riflettono le aspettative di un domani migliore. Anche perché qui le persone hanno poche possibilità di frequentare la scuola e, soprattutto tra le donne, si registrano alti tassi di analfabetismo. Mentre vengono eseguiti una danza di benvenuto e un canto corale, il Papa prende posto sul podio. Al saluto del vescovo Gervas Rozario, di Rajshahi, seguono le testimonianze di due giovani, Upsana e Anthony, intervallate ancora da canti e coreografie ispirati al tema della pace. Poi il discorso del Pontefice e la benedizione conclusiva, prima del congedo ufficiale avvenuto all’aeroporto cittadino. Mentre Francesco parla, dalla vicina moschea si sente distintamente il richiamo alla preghiera per i musulmani. Una significativa coincidenza per un viaggio che vede nella dimensione interreligiosa uno dei suoi aspetti più importanti. L’ultima giornata in Asia per il Papa inizia con la celebrazione della messa in privato nella cappella della nunziatura, dove la sera precedente aveva incontrato un gruppo di gesuiti che lavorano in Bangladesh. In automobile Francesco raggiunge, con un po’ di anticipo sul programma, la “casa della compassione” nel quartiere periferico di Tejgaon, aperta dalle Missionarie della carità nel complesso della parrocchia del Santo Rosario che comprende anche l’antica chiesa dei missionari portoghesi. “Madre Teresa venne a Dhaka dalla vicina Calcutta nel 1971 subito dopo la guerra d’indipendenza dal Pakistan” ricorda un’anziana suora, poggiandosi a un bastone in attesa dell’arrivo del Pontefice. Era una delle giovani bangladesi che seguì la santa quando l’anno seguente aprì nella Old Town la prima delle diverse strutture dove oggi le “discepole di Gesù” lavorano nel Paese. Nella zona di Islampur, il centro Shishu Bhavan per le “biranganas”, cominciò ad accogliere le donne rimaste incinte dopo le violenze subite dai soldati pakistani nel corso del conflitto. Molti di quei bambini nati nella casa sono stati poi adottati da famiglie europee, americane e australiane. Accolto dalla superiora della comunità, tra numerose immagini di madre Teresa, Papa Bergoglio viene condotto in due stanze, dov’erano ad attenderlo disabili e ammalati anche allettati, in particolare bambini e anziani, che vengono amorevolmente assistiti dalle religiose con il sari bianco bordato d’azzuro. “Se giudichi le persone non avrai tempo di amarle”, osserva una giovane novizia, citando una frase della santa di Calcutta. Nell’ambiente sobrio e austero, a lungo Francesco si ntrattiene con ciascuno dei presenti, approfittando anche del maggior tempo che ha a disposizione. In dono lascia un quadro raffigurante Madre Teresa ritratta con le mani giunte; poi, accompagnato dal canto dei bambini e scortato da quattro ragazzine, due delle quali lo prendono per mano, il Papa si incammina lungo il cortile per dirigersi alla vicina chiesa del Santo Rosario, dove incontra il clero, i consacrati e i seminaristi. Anche la moderna basilica a forma di conchiglia, per richiamare il rito del battesimo, è officiata dalla congregazione di Santa Croce, che qui si occupa pure di due centri educativi, uno femminile e uno maschile. Il saluto dell’arcivescovo Moses M. Costa di Chittagong introduce cinque brevi testimonianze. Un prete, un missionario, una suora, un religioso e un giovane allievo del seminario raccontano la loro storia vocazionale. Abbandonato il testo preparato, il Pontefice improvvisa un discorso in spagnolo, tradotto in inglese dall’interprete. Infine vengono recitate due preghiere: una mariana, composta da padre Mintu Palma, e il Padrenostro in lingua bengali. Nella prima si affida alla Vergine il Pontefice: “Ti chiediamo di custodire il nostro Santo Padre, con amorevole cura, così che, godendo di buona salute, egli possa guidare il popolo di Dio per i sentieri della salvezza, continuando a promuovere pace e armonia nel mondo”. Al termine dell’incontro, Francesco esce da una porta che affaccia sul cimitero parrocchiale in cui sono sepolti molti religiosi, per una sosta di silenzioso raccoglimento sulle loro tombe. Dopo aver acceso una candela in memoria dei defunti, il Papa entra nella vicina Japamala Rani Churc. La chiesetta fu eretta nell’Anno Domini 1677, come testimonia una scritta sul pinnacolo, dai missionari portoghesi, i primi evangelizzatori del Bangladesh, anche se la predicazione dell’Apostolo Tommaso nel subcontinente indiano risale addirittura al Primo Secolo dopo Cristo. Nell’antico edificio di culto, oggi usato come cappella per l’adorazione perpetua del Santissimo Sacramento, il toccante incontro del Pontefice con duecento orfani. Mentre gli venivano presentati i bambini e i ragazzi, Francesco li benedice e li incoraggia, chiedendo loro di recitare un’Ave Maria alla Madonna ogni notte prima di andare a dormire. Papa Francesco durante la sua visita apostolica in Mynamar usa un pastorale di legno realizzato artigianalmente e donatogli dai rifugiati cattolici della minoranza etnica Kachin, che ora si trovano nel campo profughi della città di Winemaw, nello stato Kachin, con popolazione a maggioranza cristiana, nella parte settentrionale del Myanmar. Lo rivela a Fides Joseph Myat Soe, laico cattolico attivo dalla regione di Kachin, spiegando che i fedeli Kachin si trovano ora nel campo profughi di Winemaw a causa della guerra civile tra l’esercito birmano e i gruppi armati Kachin, in uno dei diversi conflitti a sfondo etnico che si registrano nel Paese composto, a livello sociale, dalla maggioranza Bamar e da 135 minoranze etnico linguistiche.
Come informa Myat Soe, “i profughi Kachin offrono questo pastorale di legno al Santo Padre come auspicio per riportare la pace nello stato Kachin, dato che non sarà possibile per loro partecipare alla Messa a Yangon, a causa dello stato di indigenza in cui versano”. Il vescovo ausiliare di Yangon, John Saw Han, conferma a Fides che “nonostante la guerra civile in corso, e nonostante i problemi economici, circa cinquemila cattolici Kachin saranno a Yangon per incontrare e pregare con il Santo Padre per la pace nella loro regione. I giovani Kachin, in particolare faranno di tutto perchè considerano questa un’opportunità irripetibile per vedere il Papa e pregare con lui”, nota il vescovo. La guerra civile tra il Kachin Independent Army e le truppe governative dura dal 1965; nel 2010 è stato negoziato un cessate il fuoco, violato nel 2015. La guerra ha costretto centinaia di migliaia di Kachin a fuggire e trovare riparo nei campi profughi. La Chiesa cattolica locale li sta sostenendo: nella diocesi di Myitkyina vi sono oltre 8mila sfollati che non possono rientrare nei loro villaggi per la violenza che prosegue. La Caritas li assiste, cercando di predisporre per loro anche la possibilità di coltivare la terra, perchè essi stessi possano contribuire al loro sostentamento. I vescovi birmani lo scorso anno denunciarono che “più di 150.000 persone languono nei campi profughi, ridotte alla condizione di sfollati e in attesa di aiuti internazionali”, deplorando “una guerra cronica che ha prodotto solo perdenti, cioè le persone innocenti abbandonate nei campi, mentre le loro terre sono disseminate di ordigni, il traffico di esseri umani imperversa, la droga è una condanna a morte per i giovani Kachin, le risorse naturali come le miniere di giada sono saccheggiate. Questa è la causa principale del conflitto”. Nell’area si nutrivano speranze di pace dopo la conferenza sulla riconciliazione con le minoranze etniche, organizzata dal governo birmano nel Settembre 2016, ma quella conferenza non ha avuto un reale impatto sulla realtà dei Kachin, mentre la presenza militare nello stato resta invasiva. Ci sono quattro vescovi cattolici della regione dei Kachin, conosciuta come “terra dei gioielli” per il sottosuolo ricco di oro e giada. Due sono le diocesi cattoliche dello stato, mentre circa 70 sono i sacerdoti che assistono 70.000 fedeli cattolici. Non sono molti gli scrittori del giovane Stato birmano, dalla nuova Repubblica del 1948 alla nuovissima Unione del 1989, che mentre evitano le tradizioni locali (apologie, leggende, pantomime e racconti popolari) coniugano in dialettico confronto progressismo pratico e alti ideali, in contemporanea ricerca di originale espressività e nuove forme di stile. Non numerosi neanche quelli che si dedicano al pur singolare paesaggio monsonico (dorsali prehimalayane e pianure, bacini, golfi e isole), più rivolti alla rara geografia umana (le donne “giraffa” dal collo avvolto da molteplici anelli, “scoperte” in Italia nei documentari Rai “Superquark” e “Ulisse” di Piero e Alberto Angela) o ispirati a preoccupazioni di ordine sociale. Autrice di una fondante esperienza di romanzo, genere pressoché sconosciuto fino ai primi del Ventesimo Secolo, ma destinato a diventare la più notevole caratteristica della moderna letteratura birmana, è Journal-Gyaw Ma Ma Lay (1917-1982) fra le più sincere ritrattiste della società a lei coeva, specialmente femminile, già responsabile neanche ventenne di uno stimolante “Diventare donne con conoscenza”, articolo di giornale non gradito e vittima della seconda rivolta studentesca. Ma ciò che si ascrive maggiormente al suo talento (Ma Ma Lay fu anche apprezzata praticante di medicina tradizionale e ardente nazionalista) è “La sposa birmana”  del 1944, giunto in Occidente nel 2009, ambientato nella Birmania primi Anni Quaranta tra lotta di liberazione dall’occupazione britannica e la strisciante prossimità della guerra contro il Giappone, in cui la giovane Wai Wai sposa un birmano naturalizzato inglese, ciecamente devoto purtroppo alla mentalità dei dominatori, soffrendo sia il momento storico della crisi d’identità sia il doloroso frangente familiare.
Prima della crisi, intanto, una servile routine. “Doveva compiere ogni mattina piccoli servizi per lui: caricargli l’orologio, riempire il portasigarette e metterlo nella tasca dei pantaloni, riempire la penna stilografica e infilarla nel taschino della giacca”. Ma finché c’è l’amore, la violenza psicologica e culturale o non si avverte o si sopporta. Fuori infuria il movimento indipendentista dei Thakin (che significa “padrone”); in casa le distanze ingigantiscono e tra ossessiva ipocondria del marito per ogni piccolo malessere e ingenua fiducia di lei nella medicina tradizionale, il baratro è aperto: “Io ti amo più di qualsiasi cosa al mondo, ma tu non sei capace di restituirmi tutto questo amore”. Due chiavi di lettura si impongono nel racconto: la netta contrarietà alla sottomissione femminile e il richiamo al buddismo come religione intrinseca del Paese, benché la libertà di culto già avesse favorito l’espansione del cristianesimo. Prima del dolce nome Myanmar, dalla lingua scorrevole poi definita l’italiano dell’estremo oriente, un membro della polizia coloniale indocinese ancora ignoto, George Orwell, aveva scritto “Giorni in Birmania” (1934) intrecciando anche lui tema sentimentale (l’amore infelice per Flory) e tema politico (profonda indignazione per l’ingiustizia sociale) quasi prefigurando la triste vicenda della “sposa birmana” (“burattino gelosamente conservato in una scatola”, ma anche ideologicamente frustrata), paragonabile all’eroina di Ma Ma Lay. Lei, alla fine, arrestata dai militari di Ne Win, muore dopo soli quattro anni di carcere. Destino di redenzione, invece, per “Pascal Khoo Thwe” (1967), tutto in salita, naturalmente, specie agli inizi. Khoo Thwe nasce in una tribù di collina (il Padaung, a sud-est della Birmania, che si chiamava Burma) così emarginata e remota che la ricorda come una terra di mille anni fa, imbevuta di magia, miti, leggende, tradizioni animistiche e onnipresenti spiriti, ancorché raggiunta da missionari italiani e inglesi. Fuggito nella giungla al confine con la Thailandia nel 1988 dopo una delle sanguinose repressioni del regime del generale Ne Win, il ragazzo finisce tra i ribelli e vive la guerriglia come uno di loro, vedendo spesso i suoi amici morire e rischiando la vita lui stesso. Era già stato studente in città, ma è solo al momento di continuare gli studi all’Università di Mandalay che la sua vita cambia. Lavorando in un ristorante si era intrattenuto un giorno con alcuni turisti inglesi, cui aveva confidato di ammirare James Joyce, letto fortunosamente in un libro in comune con colleghi, in particolare “Gente di Dublino”, e ancor più particolarmente la novella “Evelyn”. Da qui la confidenza era rimbalzata agli orecchi di un amico di quei turisti, un professore di Cambridge di nome John Casey che si era preso premura di rintracciare il ragazzo e di offrirgli il suo aiuto intellettuale oltre che politico, favorendone la fuga in Inghilterra e l’entrata nella prestigiosa università inglese. Questo lo si sa dal libro che ha fatto conoscere Khoo Thwe al mondo intero, quel “Dalla terra dei fantasmi verdi”, apparso nel 2002 (in Francia nel 2009, in Italia nel 2012) con la sorprendente traduzione di “Il ragazzo che parlava con il vento”. Cosa avesse colpito il giovane Pascal del racconto di Joyce e della sua poco affabile scrittura, non si sa: forse la conquista della vita, della propria vita. In una parola, andarsene. Lo avremmo visto più affascinato dal Kipling de “Il libro della giungla”, dal momento che nella giungla era nato e che l’ambiente era quello delle antiche civiltà asiatiche. In più, il professor Casey era lì proprio per una ricerca su un particolare dell’opera di Kipling. In realtà, “Dalla terra dei fantasmi verdi” narra del brutale regime della dittatura sostenuta dalle potenze coloniali per ragioni geostrategiche. Dopo ventiquattro anni di esilio, Khoo Thwe torna in patria, al suo Paese d’origine, vede la libertà, apprezza i progressi, anche se non è del tutto contento. A un intervistatore del “The Irrawaddy” del febbraio 2013 risponde: “Mi sono reso conto che la mia gente ha avuto una resistenza stoica reale. Ora sono rinati, sia fisicamente che emotivamente. Ciò li rende unici. Hanno guadagnato il mio rispetto e devo fare qualcosa per loro”. Ordine sociale “inclusivo”. Pace fondata “sul rispetto di ogni gruppo etnico”. La storia recente e non del Myanmar racconta altro. Conflitti interni e sangue non stati risparmiati alle ultime generazioni di birmani. La costruzione della pace è un “cammino arduo che può avanzare solo attraverso l’impegno per la giustizia e il rispetto dei diritti umani”. Di fronte alle autorità politiche e civili del Myanmar, il Papa indica la via maestra della riconciliazione nazionale “a un Paese che ha molto sofferto e tuttora soffre, a causa di conflitti interni e di ostilità che sono durate troppo a lungo e hanno creato profonde divisioni”. Costruita come una cittadella blindata in mezzo a risaie e campi di canna da zucchero, la “sede dei re”, questo significa Nay Pyi Taw, è la capitale dal 2005, e da allora ospita gli uffici del governo. È una sorta di agglomerato urbano “fantasma”, nonostante conti un milione di abitanti; e la sensazione di isolamento si avverte soprattutto nella zona ministeriale, dove per ragioni di sicurezza e di difesa sono stati scavati fossati tra i vari palazzi, collegati tra loro solo attraverso avveniristici ponti. Da parte sua, Papa Bergoglio rilancia i temi della Conferenza di pace di Panglong del 2016, la prima dopo quella del 12 Febbraio 1947 che sancì la nascita dello stato moderno unendo diverse etnie del paese: i Bamar, che costituiscono la componente maggioritaria, e le minoranze Chin, Kachin e Shan. Per tutti auspica un futuro di pace basato sul rispetto delle differenze e sulla solidarietà. Del resto il Myanmar è tutt’oggi tra le nazioni più povere del continente e conta un milione di sfollati interni. Dal 2010 il governo civile ha attuato graduali riforme e scarcerato gli oppositori, convocando libere elezioni. E ora, dopo decenni di isolamento, si sta registrando un discreto sviluppo, associato a una continua trasformazione sociale. Un piccolo boom economico trainato dai settori del turismo, dell’export di petrolio e gas, dell’industria manifatturiera e di quella tecnologica. L’agricoltura continua a impegnare il 70 percento della popolazione, ma l’urbanizzazione sta riducendo i terreni di quella che fino alla Seconda Guerra Mondiale era considerata “la ciotola di riso asiatica”. Nelle aree rurali proliferano, purtroppo, altre colture: il Paese è infatti tra i maggiori produttori mondiali di oppio. Nelle regioni montane del nord, all’interno del famigerato “triangolo d’oro” che oltre al Myanmar comprende anche Thailandia e Laos, i lavoratori dei “villaggi del papavero” vengono sfruttati dai signori della droga. E chi prova a fuggire (gli espatriati nei Paesi vicini sono oltre quattro milioni) finisce vittima della tratta di esseri umani, col rischio di riduzione in schiavitù. Sulle stesse rotte fiorisce anche il contrabbando di legname, soprattutto tek, e di pietre preziose, giade e rubini, provenienti dallo sfruttamento selvaggio del sottosuolo e da una vasta deforestazione che ha eguali solo in Brasile e Indonesia. Papa Francesco esorta i giovani a gridare con la vita l’amore per Gesù. Ai buddisti chiede di continuare a lavorare insieme per la pace mentre alla Chiesa del Paese asiatico esorta di favorire l’unità facendo sentire sempre la propria voce. Un cuneo di verde sorvegliato a Nord dalla Catena dell’Himalaya e perennemente minacciato dalle piene di Gange e Brahmaputra, che poi si abbracciano, a Sud, in un Delta d’imponente portata. È uno Stato molto giovane il Bangladesh: toltosi nel 1947 dal dominio inglese, ottiene l’indipendenza dal Pakistan nel 1971 registrando poi un seguito di giunte militari, tra filo-occidentali e integraliste musulmane. Giovane la repubblica popolare, ma secolari la cultura e la spiritualità indiane (basti ricordare il Nobel Tagore che compone l’inno nazionale e chiama il Bengala “madre mia”) che però si stemperano e via via danno vita a una letteratura di netta marca post-coloniale e tutta moderna. Le ultime generazioni del Novecento, infatti, native del Bangladesh o tornatevi in seguito, hanno prodotto romanzi e racconti, in special modo autrici donne, accolti dalla comunità internazionale nonostante viga la prassi che il libro di una donna raramente viene letto prima di essere respinto. Shaheen Akhtar, bangladese del 1962, ha al suo attivo quasi una decina di titoli (da “Nessuna via di fuga” del 2000 a “La ricerca” del 2004), antologie di scrittura femminile, documentari cinematografici, e collabora con organizzazioni per i diritti umani. I suoi temi sono la giustizia sociale, la comprensione (mai la tolleranza) per le violenze e gli abusi nei confronti delle donne, la guerra e quel che ne consegue dal punto di vista delle vittime, l’onore perduto per i codardi o i collaborazionisti. Ha iniziato a narrare vite di donne single, confida a Shabnam Nadiya dell’“Eclectica Magazine”, “qualcosa di nuovo nella nostra letteratura. I miei colleghi non hanno voluto prestargli molto interesse”. Poi denuncia anche la mancanza d’attenzione critica, la competizione troppo sbilanciata a favore degli uomini, l’attributo di “femminista” usato a vanvera. “Le poche donne al potere, prosegue, si comportano come i maschi, e non si scorge nessuna vera alternativa nel modo di condurre le cose”. In definitiva, pensa Akhtar, farà scrittura delle proprie esperienze. Non altro. Di esperienze d’altri intesse invece la sua narrativa Monica Ali (1967), nata in Bangladesh ma ben presto allontanatasene, nota più per il suo esordio inglese con Brick Lane (2003) che per il secondo romanzo, “Alentejo Blue” (2006) ambientato in Portogallo. Mentre è la Londra degli immigrati che Ali privilegia, dando titolo al libro con il nome di una strada nel cuore della capitale, trasformando la cronaca di una famiglia bangladese, in Italia sarà un inatteso “Sette mari tredici fiumi”, nella singolare saga multiculturale di una comunità birmana: un’invenzione di modernità di netto sorpasso delle strutture tradizionali. I temi dell’immigrazione e dell’integrazione sono di un’attualità sorprendente: potremmo anzi dire di intelligente preveggenza. La giovane Nazneen del romanzo sposa un uomo assegnatole dalle famiglie e con il doppio dei suoi anni, che la porterà in Inghilterra, con grandi ma vani progetti nella mente. È una persona civile ed educata ma inconcludente, per cui la moglie, che non osa ribellarsi ma a lungo andare non sopporta un destino sciatto, incolore e frustrante, sceglie una sua libertà, quella del cuore, pur restando fedele alla cultura che l’ha vista nascere. Seguono la Cerimonia di benvenuto di Papa Francesco in Bangladesh all’Aeroporto Internazionale di Dhaka, la visita al National Martyrs’ Memorial di Savar, l’omaggio al “Padre della Nazione” e la firma del Libro d’Onore al Bangabandhu Memorial Museum. Al Suo arrivo il Papa è accolto dal Presidente della Repubblica del Bangladesh, Sig. Abdul Hamid. Quindi due bambini in abito tradizionale offrono dei fiori e un vaso di terra al Santo Padre che li benedice. Presenti alcune autorità politiche e civili, dieci Vescovi del Bangladesh, un gruppo di fedeli e 40 bambini che eseguono  danze tradizionali. Nel Palazzo Presidenziale a Dhaka, dopo l’intervento del Presidente della Repubblica, Papa Bergoglio pronuncia il suo discorso: “All’inizio della mia permanenza in Bangladesh vorrei ringraziarLa, Signor Presidente, per il gentile invito a visitare questo Paese e per le Sue cortesi parole di benvenuto. Mi trovo qui sulle orme di due miei Predecessori, Papa Paolo VI e Papa Giovanni Paolo II, a pregare con i miei fratelli e sorelle cattolici e ad offrire loro un messaggio di affetto e di incoraggiamento. Il Bangladesh è uno Stato giovane, eppure ha sempre avuto un posto speciale nel cuore dei Papi, che fin dal principio hanno espresso solidarietà con il suo popolo, intesa ad accompagnarlo nel superare le difficoltà iniziali, e lo hanno sostenuto nell’esigente compito di costruire la nazione e il suo sviluppo. Sono grato dell’opportunità di rivolgermi a questa assemblea, che raduna uomini e donne con particolari responsabilità nel delineare il futuro della società del Bangladesh. Durante il mio volo per giungere qui, mi è stato ricordato che il Bangladesh, “Golden Bengal”, è un Paese tutto avvolto da una vasta rete fluviale e di vie d’acqua, grandi e piccole. Questa bellezza naturale è, credo, emblematica della vostra particolare identità come popolo. Il Bangladesh è una nazione che si sforza di raggiungere un’unità di linguaggio e di cultura nel rispetto per le diverse tradizioni e comunità, che fluiscono come tanti rivoli e ritornano ad arricchire il grande corso della vita politica e sociale del Paese. Nel mondo di oggi, nessuna singola comunità, nazione o Stato, può sopravvivere e progredire nell’isolamento. In quanto membri dell’unica famiglia umana, abbiamo bisogno l’uno dell’altro e siamo dipendenti l’uno dall’altro. Il Presidente Sheikh Mujibur Rahman ha compreso e cercato di incorporare questo principio nella Costituzione nazionale. Egli ha immaginato una società moderna, pluralistica e inclusiva, in cui ogni persona e ogni comunità potesse vivere in libertà, pace e sicurezza, nel rispetto dell’innata dignità e uguaglianza di diritti di tutti. Il futuro di questa giovane democrazia e la salute della sua vita politica sono essenzialmente connessi alla fedeltà a questa visione fondativa. Infatti, solo attraverso un dialogo sincero e il rispetto della legittima diversità un popolo può riconciliare le divisioni, superare prospettive unilaterali e riconoscere la validità di punti di vista differenti. Perché il vero dialogo guarda al futuro, costruisce unità nel servizio del bene comune ed è attento ai bisogni di tutti i cittadini, specialmente dei poveri, degli svantaggiati e di coloro che non hanno voce. Nei mesi scorsi, lo spirito di generosità e di solidarietà che caratterizza la società del Bangladesh si è manifestato molto chiaramente nel suo slancio umanitario a favore dei rifugiati affluiti in massa dallo Stato di Rakhine, provvedendoli di un riparo temporaneo e delle necessità primarie per la vita. Questo è stato fatto con non poco sacrificio. Ed è stato fatto sotto gli occhi del mondo intero. Nessuno di noi può mancare di essere consapevole della gravità della situazione, dell’immenso costo richiesto di umane sofferenze e delle precarie condizioni di vita di così tanti nostri fratelli e sorelle, la maggioranza dei quali sono donne e bambini, ammassati nei campi-profughi. È necessario che la comunità internazionale attui misure efficaci nei confronti di questa grave crisi, non solo lavorando per risolvere le questioni politiche che hanno condotto allo spostamento massivo di persone, ma anche offrendo immediata assistenza materiale al Bangladesh nel suo sforzo di rispondere fattivamente agli urgenti bisogni umani. Nonostante la mia visita sia primariamente diretta alla Comunità cattolica del Bangladesh, un momento privilegiato sarà il mio incontro domani a Ramna con i Responsabili ecumenici e interreligiosi. Insieme pregheremo per la pace e riaffermeremo il nostro impegno a lavorare per la pace. Il Bangladesh è noto per l’armonia che tradizionalmente è esistita tra i seguaci di varie religioni. Questa atmosfera di mutuo rispetto e un crescente clima di dialogo interreligioso consentono ai credenti di esprimere liberamente le loro più profonde convinzioni sul significato e sullo scopo della vita. Così essi possono contribuire a promuovere i valori spirituali che sono la base sicura per una società giusta e pacifica. In un mondo dove la religione è spesso – scandalosamente – mal utilizzata al fine di fomentare divisione, questa testimonianza della sua forza di riconciliazione e di unione è quanto mai necessaria. Ciò si è manifestato in modo particolarmente eloquente nella comune reazione di indignazione che ha seguito il brutale attacco terroristico dell’anno scorso qui a Dhaka, e nel chiaro messaggio inviato dalle autorità religiose della nazione per cui il santissimo nome di Dio non può mai essere invocato per giustificare l’odio e la violenza contro altri esseri umani nostri simili. I cattolici del Bangladesh, anche se relativamente pochi di numero, tuttavia cercano di svolgere un ruolo costruttivo nello sviluppo del Paese, specialmente attraverso le loro scuole, le cliniche e i dispensari. La Chiesa apprezza la libertà, di cui beneficia l’intera nazione, di praticare la propria fede e di realizzare le proprie opere caritative, tra cui quella di offrire ai giovani, che rappresentano il futuro della società, un’educazione di qualità e un esercizio di sani valori etici e umani. Nelle sue scuole la Chiesa cerca di promuovere una cultura dell’incontro che renda gli studenti capaci di assumersi le proprie responsabilità nella vita della società. In effetti, la grande maggioranza degli studenti e molti degli insegnanti in queste scuole non sono cristiani, ma provengono da altre tradizioni religiose. Sono certo che, in accordo con la lettera e lo spirito della Costituzione nazionale, la Comunità cattolica continuerà a godere la libertà di portare avanti queste buone opere come espressione del suo impegno per il bene comune.
Signor Presidente e cari amici, vi ringrazio per la vostra attenzione e vi assicuro le mie preghiere, affinché nelle vostre nobili responsabilità siate sempre ispirati dagli alti ideali di giustizia e di servizio verso i vostri concittadini. Invoco volentieri su di voi e su tutto il popolo del Bangladesh le divine benedizioni di armonia e di pace. Grazie”. Grazie alla vista apostolica e alla presenza di Papa Francesco in Bangladesh, un Paese con tanti problemi e tante sfide politiche e sociali, “il piccolo gregge dei fedeli cattolici bangladesi vuole toccare Gesù Cristo e avere un’esperienza diretta, concreta del Vangelo”, rivela Fr. Lintu Francis D’Costa, sacerdote della diocesi di Dacca, che spiega: “Il Bangladesh è una terra antica con un’identità nazionale nuova. Essa ha raggiunto l’indipendenza dal Pakistan nel solo 1971 e ha una popolazione di più di 160 milioni di abitanti rappresentando il settimo Paese per numero di abitanti nella graduatoria mondiale. La povertà di questo popolo è uno dei problemi più impellenti. Una parte consistente, circa il 36%, vive in uno stato di indigenza estrema con un reddito di poco superiore ai 1.000 dollari annui. Nella Nazione emergono anche tensioni sociali con il declino del settore agricolo e con la crescita di industrie di fertilizzanti chimici e di aziende del settore tessile di tutto il mondo che qui installano le loro produzioni impiegando manodopera a basso costo. Per questo ed altri motivi economici – osserva p. D’Costa – è in atto una grande migrazione verso le città. Ciò ha prodotto una disgregazione sociale nei villaggi e nelle zone rurali in cui rimangono gli anziani e gli strati meno propensi alla innovazione e allo spostamento”. Altra caratteristica del Paese è la presenza di varie tradizioni religiose: circa il 90% della popolazione professa l’Islam, vi sono poi comunità induiste, buddiste e cristiane. “Ed è proprio la piccola comunità cristiana, circa 400mila fedeli, che vede l’arrivo di Papa Francesco come occasione unica per poter entrare in contatto con la Chiesa universale, per poter toccare con mano l’umanità del Vicario di Cristo. Come ha sottolineato il Cardinal Patrick D’Rozario, i fedeli desiderano fare esperienza diretta del Papa, avere un uomo santo in mezzo a loro, rappresentante di Dio sulla terra. I cristiani vivono loro fede e testimonianza del Vangelo in una terra dove essi sono una piccola comunità. Tutto ciò non può che essere che un incoraggiamento a continuare su questa strada. La Chiesa Cattolica in Bangladesh sta avendo uno sviluppo costante e un apprezzamento via via più marcato per le iniziative umanitarie, sociali e culturali rivolte alla popolazione, senza distinzione di etnia o credo religioso. Una particolare attenzione è data ai più poveri ed emarginati tramite organizzazioni caritatevoli. In tal senso la visita di Papa Francesco è un pellegrinaggio al centro del messaggio dell’amore di Dio per ogni uomo”. Anche per i non cristiani la visita del pontefice è molto importante. “La figura di Francesco è quella di un leader credibile che per il suo pensiero e le sue iniziative. Rappresenta la voce della coscienza del mondo e il richiamo ad un’umanità senza divisioni, in cui la pace e l’amore per l’altro – rimarca il sacerdote – sono un ideale cui tutti possono e devono aspirare. Tutto ciò incoraggia il dialogo interreligioso e aiuta a migliorare le relazioni tra persone di tutte le religioni”. Di particolare rilevanza è l’incontro di Papa Francesco con i giovani bangladesi: “Il Papa si rivolgerà agli studenti universitari e ai giovani lavoratori, parlerà cioè alla futura classe dirigente del Paese. Una scelta importante anche in considerazione che i giovani sotto i 25 anni sono il 60% della intera popolazione bangladese”. E “con la sua visita a Dacca, Papa Francesco prosegue nella missione di riportate le periferie al centro del mondo – rivela l’Arcivescovo di Chittagong, Moses M. Costa – con la nostra comunità ci stiamo preparando da due mesi, soprattutto spiritualmente. Per noi è una benedizione, un incoraggiamento e anche un riconoscimento del lavoro svolto finora”, prosegue l’Arcivescovo all’interno del suo ufficio di Chittagong, città portuale del Bangladesh da cinque milioni di abitanti. Nel Paese, a maggioranza islamica, i cattolici sono una minoranza: secondo le stime governative, 384.000 su una popolazione totale di 170 milioni. Percentuali simili si registrano anche nel distretto di Chittagong, che copre cinquemila chilometri quadrati di superficie: “Abbiamo 35 preti, circa 50 suore, una quindicina di fratelli, per una popolazione molto ampia. Siamo una comunità piccola, ma molto attiva. Soprattutto nel campo dell’educazione, con le diverse scuole che gestiamo, il cui valore è riconosciuto da tutti, ma anche nel settore dello sviluppo e dell’aiuto ai più bisognosi, attraverso i progetti realizzati dalla Caritas. Si tratta di una comunità decentralizzata, sparsa sul territorio, che sa arrivare fino agli ultimi, comprese le popolazioni indigene che abitano sulle colline, spesso prive di riconoscimento da parte del governo. La visita di Papa Bergoglio è un modo per far conoscere meglio al Paese e al resto del mondo la nostra presenza, minoritaria ma fondamentale, che va preservata con attenzione. Negli ultimi anni è cresciuto il fondamentalismo islamico. Non siamo preoccupati, ma seguiamo attentamente il corso degli eventi. Affinché non si perda la tradizione di convivenza interreligiosa che contraddistingue il Bangladesh: qui le diverse fedi hanno convissuto pacificamente in passato. Non vogliamo perdere questa eredità. La visita del Santo Padre rafforzerà lo spirito di tolleranza e riconciliazione, pace e armonia”. Un’armonia che, secondo l’Arcivescovo Costa, riguarda anche le questioni sociali: “L’armonia va ritrovata non solo tra le religioni, ma anche tra le classi sociali, tra i ricchi e i poveri, tra i privilegiati e gli svantaggiati. La giustizia sociale è il tema centrale del mondo contemporaneo, nelle periferie come nel presunto centro del mondo. Il Santo Padre ce lo ricorda continuamente. E, soprattutto qui in Bangladesh, consideriamo le sue parole come profetiche”. L’Arcivescovo Moses M. Costa dichiara all’Agenzia Fides: “Papa Francesco saprà trovare le parole giuste, al momento giusto anche per affrontare la delicata questione dei Rohingya, la minoranza musulmana costretta a fuggire dalle persecuzioni subite in Myanmar. La Chiesa ha bisogno di meno diplomazia, e di più fede. E la fede passa per la verità, di cui non bisogna mai aver paura”. È “sempre più drammatica la situazione umanitaria nei campi, allestiti in Bangladesh, per ospitare i profughi della minoranza musulmana dei Rohingya provenienti dal Myanmar”: riferendosi alla situazione in Bangladesh, il neo presidente della Croce Rossa Internazionale, Francesco Rocca, sottolinea che “sono 600mila le persone arrivate nell’arco di quattro, cinque settimane. Complessivamente, sono quasi un milione di persone. Sono raccolti in una città più grande di Genova costruita soltanto sotto i teli, senza servizi igienici, senza acqua potabile, senza elettricità. È una tendopoli che si perde a vista d’occhio. Gli operatori camminano anche un’ora e mezza prima di raggiungere il punto dove le persone sanno che, durante il giorno, hanno un minimo di aiuto. L’area è completamente fuori controllo”. Molti dei profughi Rohingya sono minori non accompagnati: “ci sono migliaia di bambini, senza genitori, arrivati accompagnati da adulti che li hanno presi e raccolti in questa fuga precipitosa”. Ad aggravare la situazione anche la barriera linguistica: “in Bangladesh – rivela Francesco Rocca – sono pochissimi quelli che parlano la lingua dei Rohingya e loro non parlano inglese o bengalese”. Urgono “traduttori universali” smartwatch indossabili per tutti. L’intervento umanitario è sostenuto dalle autorità locali. “Il governo del Bangladesh – spiega Francesco Rocca – ci ha autorizzato ad operare. Stiamo lavorando con la Mezzaluna Rossa del Bangladesh. È un Paese che affronta delle difficoltà enormi, però nonostante questo abbiamo trovato una grande generosità e disponibilità. I rapporti tra la Croce Rossa e la Mezzaluna Rossa sono contraddistinti da una piena sinergia e collaborazione”. Papa Francesco rende omaggio allo “spirito di generosità e di solidarietà con cui il Bangladesh si è adoperato a favore dei rifugiati affluiti in massa dallo Stato di Rakhine, provvedendoli di un riparo temporaneo e delle necessità primarie per la vita”. Di fronte ai rappresentanti del mondo politico, accademico e civile, incontrati nel pomeriggio di Giovedì 30 Novembre nel palazzo presidenziale della capitale Dhaka, Francesco denuncia con forza all’opinione pubblica mondiale la “gravità della situazione e le precarie condizioni in cui vivono tanti nostri fratelli e sorelle, la maggioranza dei quali sono donne e bambini, ammassati nei campi-profughi”. La richiesta che Papa Francesco rivolge ai Vescovi del Bangladesh nell’incontro avuto con loro a Dacca, nella Casa per sacerdoti anziani, nel pomeriggio di Venerdì 1° Dicembre, è chiara: “Vi chiederei di mostrare una vicinanza anche più grande verso i fedeli laici”. Il Santo Padre invita l’episcopato bangladese a promuovere l’effettiva partecipazione dei laici “nella vita delle vostre Chiese particolari, non da ultimo tramite le strutture canoniche che fanno sì che le loro voci vengano ascoltate e le loro esperienze apprezzate. Riconoscete e valorizzate i carismi dei laici, uomini e donne, e incoraggiateli a mettere i loro doni al servizio della Chiesa e della società nel suo complesso”. Questo sono le parole spontanee del Santo Padre prima di entrare in Cattedrale: “Buonasera! Ringrazio tutti voi che siete qui presenti, leader cristiani, laici che lavorano al servizio del Regno di Dio. Semplicemente mi hanno detto che devo fare un saluto e mi viene in mente una parola da condividere con voi. L’Apostolo Paolo diceva che sentiva dentro di sé: “Guai a me se non evangelizzo!”. Noi vogliamo che si viva il Vangelo come una grazia, come un tesoro, e lo abbiamo ricevuto gratuitamente. Dobbiamo chiedere al Signore di sentire ciò che sentiva Paolo. Sentire quel fuoco, quell’ansia nel cuore per evangelizzare. Non si tratta di fare proselitismo, no. La Chiesa, Regno di Dio, non cresce per proselitismo, cresce con la testimonianza. Si tratta di mostrare con la parola e la vita il tesoro che ci è stato donato. E questo è evangelizzare. Io vivo così, vivo questa parola, e che gli altri vedano; ma non è fare proselitismo. Vi ringrazio per quello che fate, vi ringrazio per l’impegno, vi ringrazio perché mostrate il dono che Dio ci ha dato. E oso chiedervi un favore: custodite il tesoro che Dio ci ha donato nel Vangelo. E il modo migliore di custodirlo è la grazia di Dio. Perciò vi chiedo di pregare molto, pregate molto perché venga questa grazia e vi conservi il tesoro. E andiamo avanti nel cammino facendo vedere questo tesoro che Dio ci ha donato gratuitamente e che dobbiamo offrire agli altri gratuitamente. Ed ora come fratelli tutti insieme chiediamo questa grazia gli uni per gli altri, recitando la preghiera che Gesù ci ha insegnato”. Segue la preghiera del Padre Nostro. “Il Signore vi benedica e vi protegga. Faccia splendere il suo volto su di voi e vi mostri la sua grazia. Vi sveli il suo volto e vi conceda la grazia. Amen. Non dimenticatevi di pregare per me”. Nel suo discorso ufficiale ai Vescovi del Bangladesh, Papa Bergoglio dichiara: “Quanto è bene per noi stare insieme! Ringrazio il Cardinale Patrick [D’Rozario] per le sue parole di introduzione, con cui ha presentato le svariate attività spirituali e pastorali della Chiesa in Bangladesh. Ho particolarmente apprezzato il suo riferimento al lungimirante Piano Pastorale del 1985, che ha messo in luce i principi evangelici e le priorità che hanno guidato la vita e la missione della comunità ecclesiale in questa giovane nazione. La mia personale esperienza di Aparecida, che ha lanciato la missione continentale in Sud America, mi ha convinto della fecondità di tali piani, che coinvolgono l’intero popolo di Dio in un continuo processo di discernimento e di azione. Mi piace anche la durata di questo piano pastorale, perché una delle malattie dei piani pastorali è che muoiono giovani. Ma questo è vivo da l’85: complimenti! Auguri! Si vede che è stato ben fatto, che riflette la realtà del Paese e i bisogni pastorali; e riflette anche la perseveranza dei vescovi. La realtà della comunione è stata al cuore del Piano Pastorale e continua ad ispirare lo zelo missionario che distingue la Chiesa in Bangladesh. La vostra stessa guida episcopale è stata tradizionalmente segnata dallo spirito di collegialità e di mutuo sostegno. E questo è grande! Questo spirito di affetto collegiale viene condiviso dai vostri sacerdoti e, tramite loro, si è propagato alle parrocchie, alle comunità e alle diverse forme di apostolato delle vostre Chiese locali. Esso trova espressione nella serietà con cui, nelle vostre diocesi, vi dedicate alle visite pastorali e dimostrate concreto interesse per il bene della vostra gente. Vi chiedo di perseverare in questo ministero di presenza. Voglio sottolineare che cosa vuol dire: non solo farsi vedere – si può farsi vedere mediante la tv -; ma una presenza come quella di Dio in noi, che si è fatto vicinanza, che si è fatto prossimità nell’Incarnazione del Verbo, nella condiscendenza, quella condiscendenza del Padre che ha mandato il Figlio a farsi uno di noi. E mi piace come voi abbiate coniato questa parola: “ministero di presenza”. Il vescovo è uno che è presente, che è vicino ed è prossimo. Sempre. Ripeto: perseverare in questo ministero di presenza, che solo può stringere legami di comunione unendovi ai vostri sacerdoti, che sono vostri fratelli, figli e collaboratori nella vigna del Signore, e ai religiosi e alle religiose che rendono un così fondamentale contributo alla vita cattolica in questo Paese. Una parola vorrei sottolineare sui religiosi. Siamo abituati a dire: sì, ci sono due vie di santificazione nella Chiesa: la via presbiterale e la via laicale. Ma le suorine, cosa sono? Laiche? No. Per favore, bisogna far crescere l’idea che c’è una terza via di santificazione: la via della vita consacrata. Che non è un aggettivo: “questo è un laico, una laica consacrata”; è un sostantivo: “questo è un consacrato, questa è una consacrata”. Come diciamo “questo è un laico o una laica”, e “questo è un sacerdote”. E’ importante. Nello stesso tempo, vi chiederei di mostrare una vicinanza anche più grande verso i fedeli laici. Loro devono crescere. Bisogna promuovere la loro effettiva partecipazione nella vita delle vostre Chiese particolari, non da ultimo tramite le strutture canoniche che fanno sì che le loro voci vengano ascoltate e le loro esperienze apprezzate. Riconoscete e valorizzate i carismi dei laici, uomini e donne, e incoraggiateli a mettere i loro doni al servizio della Chiesa e della società nel suo complesso. Penso qui ai numerosi zelanti catechisti di questa nazione – i catechisti sono i pilastri dell’evangelizzazione! -, il cui apostolato è essenziale alla crescita della fede e alla formazione cristiana delle nuove generazioni. Essi sono veri missionari e guide di preghiera, specie nelle zone più remote. Siate attenti ai loro bisogni spirituali e alla loro costante formazione nella fede. I catechisti. Ma anche i laici che ci aiutano e ci sono vicini, i consiglieri: i consiglieri pastorali, i consiglieri negli affari economici. In una riunione avuta sei mesi fa, ho sentito dire che forse un po’ più della metà delle diocesi, la metà o un po’ di più, ha i due consigli che il Diritto Canonico ci chiede di avere: quello pastorale e quello degli affari economici. E l’altra metà? Questo non può essere. Non è solo una legge, non è solo un aiuto, è spazio per i laici. In questi mesi di preparazione per la prossima assemblea del Sinodo dei Vescovi, siamo tutti sollecitati a riflettere su come rendere meglio partecipi i nostri giovani della gioia, della verità e della bellezza della nostra fede. Il Bangladesh è stato benedetto con vocazioni al sacerdozio – oggi l’abbiamo visto! – e alla vita religiosa; è importante assicurare che i candidati siano ben preparati per comunicare le ricchezze della fede agli altri, particolarmente ai loro contemporanei. In uno spirito di comunione che unisce le generazioni, aiutateli a prendere in mano con gioia ed entusiasmo il lavoro che altri hanno iniziato, sapendo che essi stessi un giorno saranno chiamati a loro volta a trasmetterlo. Quell’atteggiamento interiore di ricevere l’eredità, farla crescere e trasmetterla: questo è lo spirito apostolico di un presbiterio. Che i giovani sappiano che il mondo non incomincia con loro, che loro devono cercare le radici, devono cercare le radici storiche, religiose… Far crescere quelle radici e trasmettere i frutti. Insegnate ai giovani a non essere sradicati; insegnate loro a colloquiare con gli anziani. Quando sono entrato qui (nell’Arcivescovado) c’erano i seminaristi delle medie. Dovevo fare loro due domande, en passant, ma ne ho fatta una soltanto, la prima, la più naturale: “Giocate a calcio?”. Tutti: “Sì!”. La seconda era: “Andate a trovare i nonni, i preti anziani? A sentire le storie della loro vita, del loro apostolato?”. I formatori del seminario devono educare i giovani seminaristi ad ascoltare i vecchi preti: lì ci sono le radici, lì c’è la saggezza della Chiesa. Una notevole attività sociale della Chiesa in Bangladesh è diretta all’assistenza delle famiglie e, specificamente, all’impegno per la promozione delle donne. La gente di questo Paese è nota per il suo amore alla famiglia, per il suo senso di ospitalità, per il rispetto che mostra verso i genitori e i nonni e la cura verso gli anziani, gli infermi e i più indifesi. Questi valori sono confermati ed elevati dal Vangelo di Gesù Cristo. Una speciale espressione di gratitudine è dovuta a tutti coloro che lavorano silenziosamente per sostenere le famiglie cristiane nella loro missione di dare quotidiana testimonianza all’amore riconciliante del Signore e nel far conoscere il suo potere di redenzione. Come l’Esortazione Ecclesia in Asia ha segnalato, «la famiglia non è semplicemente l’oggetto della cura pastorale della Chiesa, ma ne è anche uno degli agenti di evengelizzazione più efficaci» (n. 46). Un obiettivo significativo indicato nel Piano Pastorale, e che si è davvero dimostrato profetico, è l’opzione per i poveri. La Comunità cattolica in Bangladesh può essere fiera della sua storia di servizio ai poveri, specialmente nelle zone più remote e nelle comunità tribali; continua questo servizio quotidianamente attraverso il suo apostolato educativo, i suoi ospedali, le cliniche e i centri di salute, e la varietà delle sue opere caritative. Eppure, specie alla luce della presente crisi dei rifugiati, vediamo quanto ancora maggiori siano le necessità da raggiungere! L’ispirazione per le vostre opere di assistenza ai bisognosi sia sempre la carità pastorale, che è sollecita nel riconoscere le umane ferite e rispondere con generosità, a ciascuno personalmente. Nel lavorare per creare una “cultura di misericordia” (Lett. ap. Misericordia et misera, 20). In questo lavoro, le vostre Chiese locali dimostrano la loro opzione per i poveri, rafforzano la proclamazione dell’infinita misericordia del Padre e contribuiscono in non piccola misura allo sviluppo integrale della loro patria. Un importante momento della mia visita pastorale in Bangladesh è l’incontro interreligioso ed ecumenico che avrà luogo immediatamente dopo il nostro incontro. La vostra è una nazione dove la diversità etnica rispecchia la diversità delle tradizioni religiose. L’impegno della Chiesa di portare avanti la comprensione interreligiosa tramite seminari e programmi didattici, come anche attraverso contatti e inviti personali, contribuisce al diffondersi della buona volontà e dell’armonia. Adoperatevi incessantemente a costruire ponti e a promuovere il dialogo, non solo perché questi sforzi facilitano la comunicazione tra diversi gruppi religiosi, ma anche perché risvegliano le energie spirituali necessarie per l’opera di costruzione della nazione nell’unità, nella giustizia e nella pace. Quando i capi religiosi si pronunciano pubblicamente con una sola voce contro la violenza ammantata di religiosità e cercano di sostituire la cultura del conflitto con la cultura dell’incontro, essi attingono alle più profonde radici spirituali delle loro varie tradizioni. Essi provvedono anche un inestimabile servizio per il futuro dei loro Paesi e del nostro mondo insegnando ai giovani la via della giustizia: «occorre accompagnare e far maturare generazioni che rispondano alla logica incendiaria del male con la paziente ricerca del bene» (Discorso ai partecipanti alla Conferenza internazionale per la pace, Al-Azhar, Il Cairo, 28 aprile 2017). Cari confratelli Vescovi, sono grato al Signore per questi momenti di conversazione e condivisione fraterna. Sono anche contento che questo Viaggio Apostolico, che mi ha condotto in Bangladesh, mi ha permesso di testimoniare la vitalità e il fervore missionario della Chiesa in questa nazione. Nel presentare al Signore le gioie e le difficoltà delle vostre comunità locali, chiediamo insieme una rinnovata effusione dello Spirito Santo, perché ci conceda «il coraggio di annunciare la novità del Vangelo con audacia – parrhesía – a voce alta e in ogni tempo e luogo, anche controcorrente» (Esort. ap. Evangelii gaudium, 259). Possano i sacerdoti, i religiosi, i consacrati e le consacrate, e i fedeli laici affidati alla vostra cura pastorale, trovare una sempre rinnovata forza nei loro sforzi di essere «evangelizzatori che annuncino la Buona Notizia non solo con le parole, ma soprattutto con una vita trasfigurata dalla presenza di Dio» (ibid.). A tutti voi, con grande affetto, imparto la mia benedizione, e vi chiedo, per favore, di pregare per me. Grazie”. Tuttavia “sembra molto difficile, se non impossibile un ritorno dei profughi Rohingya dal Bangladesh allo Stato Rakhine, in Myanmar. Ci sono troppi interessi economici su quel territorio, sia con l’India che con la Cina. Sembra che l’economia e il danaro contino di più degli esseri umani – dichiara Alberto Quattrucci della Comunità di Sant’Egidio all’Agenzia Fides, mentre si trova in Bangladeesh per avviare interventi umanitari in favore dei Rohingya e a Cox’s Bazar, località di confine in cui sono ammassati oltre 600mila profughi giunti dal Mynamar – la condizione attuale è davvero drammatica e questo è senza dubbio il primo intervento urgente; c’è poi il problema del buio sul futuro. L’accoglienza in Bangladesh, pure positiva, sembra un fatto piuttosto temporaneo. Credo sarebbe importante sostenerla e rafforzarla, pensando all’integrazione che anche per la comunanza della lingua, è possibile. Ho poi l’impressione che la vicenda Rohingya possa costituire per il debole, frammentato e povero Bangladesh, una chance di sviluppo generale per il Paese, a livello di strutture locali. Va considerata, infatti, la grande quantità di aiuti economici internazionali che stanno arrivando dall’estero”. Resta l’emergenza umanitaria: “per il momento sembra e necessario concentrarsi sugli aiuti di prima necessità, ma parallelamente è importante guardare al futuro, in particolare per gli oltre 300.000 bambini che sopravvivono nei campi profughi dell’area di Cox’s Bazar. Sarebbe importante pensare ad un progetto educativo per loro come Centri nutrizionali e Scuole della pace. Bisogna coinvolgere l’Unione Europea e l’UNICEF”. Ma anche la Russia. La situazione dei Rohingya è stata citata dal Presidente bangladese Abdul Hamid che, incontrando Papa Francesco, nel suo secondo giorno di visita nel Paese, ha detto: “Il nostro governo ha dato rifugio a un milione di Rohingya che sono stati costretti a lasciare la loro antica patria nello Stato di Rakhine in Myanmar. Migliaia di loro, incluse donne e bambini, sono stati brutalmente uccisi e le donne violentate”, ricordando che l’appello del Papa “per soccorrerli e assicurare loro pieni diritti responsabilizza la comunità internazionale ad agire con prontezza”. C’è un atteggiamento molto positivo verso il Papa in tutti i massmedia orientali, e questo “è prezioso per la minoranza dei cristiani locali: un effetto benefico ci investe e durerà nel tempo. D’altronde Papa Francesco è testimone dell’amore di Dio per il popolo del Bangladesh, che risponde con stima e apprezzamento verso i cristiani locali – dichiara p. Nikhil Andrew Gomes, sacerdote impegnato nelle comunicazioni sociali e Direttore del Centro diocesano pastorale “Khristo Jyoti” nella diocesi di Rajshahi – il Papa è al centro dell’attenzione dei media in questi giorni. L’interesse dei media locali è molto alta. Diversi canali televisivi hanno dato ampia copertura e i giovani bangladesi esprimono il loro entusiasmo sui social network. Il Papa è figura di spicco nel mondo ed è un leader spirituale famoso in Asia, anche nei social media. Dalla copertura mediatica si evince che Papa Francesco viene accolto con favore e simpatia da tutti, non solo dai cristiani, ma anche dai musulmani. I giornalisti del Bangladesh sono molto interessati a pubblicare notizie sulla visita del Papa in Bangladesh: oltre 300 giornalisti locali si sono accreditati all’apposito Comitato per i massmedia creato dai vescovi. A livello nazionale, tutti ricordano bene che Papa Francesco ha parlato con forza contro la violenza e nel 2013, quando si è verificato il disastro di Rana Plaza in Bangladesh, con la morte di tanti lavoratori, Francesco ha mostrato la sua vicinanza e solidarietà. Questo è rimasto impresso nella coscienza del popolo bangladese. In questi giorni il cuore della piccola comunità cattolica del Bangladesh, solo lo 0,2% della popolazione, vibra di entusiasmo e di gioia. Il Papa porta la sua testimonianza evangelica in un Paese a maggioranza musulmana: questo è un forte incoraggiamento per i giovani cattolici ma anche i preti, e tutti i fedeli cattolici saranno ispirati dal vedere e ascoltare il pontefice. Per la Chiesa del Bangladesh, la presenza del Papa rappresenta l’opportunità per comunicare e avere contatti con altri media laici, facendo così conoscere meglio la fede e la Chiesa cattolica. Il comitato per i media creato ad hoc ha iniziato a produrre e diffondere documenti e articoli su Papa Francesco e sulle attività della Chiesa del Bangladesh, realizzando anche un cd audio, due documentari e un libro in lingua bengali sulla vita del Papa. Inoltre, sarà pubblicato anche un album fotografico a conclusione del viaggio. Siamo convinti che dalla visita apostolica del Papa la comunità cattolica in Bangladesh trarrà grande beneficio, nella sua vita di piccola minoranza in un Paese islamico”. Che “la visita di Papa Francesco” sia “una vera benedizione per noi. La nostra fede ne uscirà rafforzata. Non vediamo l’ora di poterlo vedere e ascoltare. E soprattutto di pregare con lui”, è convinto Shuvro Purification, 18 anni, della città di Rajshahi, nel Nordovest del Bangladesh, paese a maggioranza musulmana. È un aspirante frate della Congregazione della Santa Croce a Dacca, la capitale. È in classe con altri venti confratelli, in attesa che arrivi l’insegnante, frate Rosy, 30 anni, originario di Gazipur, con alle spalle diversi anni di studio in India. Siamo nella parte vecchia di Dacca, all’interno del complesso che ospita anche la Scuola cattolica San Gregorio, fondata dal missionario benedettino Gregory De Groote nel 1882 e divenuta, nel corso degli anni, una delle più rinomate istituzioni educative della capitale. Fin dal 1851, la Congregazione di Propaganda Fide affidò ai missionari della Congregazione della Santa Croce la responsibilità della missione nel Bengala Orientale e tutt’oggi questa è una comunità molto stimata e rispettata in Bangladesh. Solo un ampio cortile divide l’edificio della Scuola San Gregorio da quello in cui studiano gli aspiranti. Hanno tra i 17 e i 18 anni, sono al loro primo anno, dedicato all’apprendimento dell’inglese, provengono da ogni angolo del Paese, ma un elemento li accomuna: l’entusiasmo per la visita di Papa Francesco. Shorob Costa ha 17 anni, viene da Dacca, e all’Agenzia Fides dichiara di essere “così emozionato da non dormire la notte”. Partecipa alla messa che il Santo Padre celebra nel parco Suhrawardy Udian, forse l’occasione più sentita dai cattolici bangladesi, che qui rappresentano una minoranza: 384.000 su 170 milioni di abitanti. Alla messa partecipano oltre 100.000 persone. Molti si preparano da tempo: “Lavoriamo da settimane per prepararci alla visita di Papa Francesco, non solo dal punto di vista pratico, ma anche spirituale”, dichiara Prodip Placid Gomes, Direttore della Scuola San Gregorio, ricordando che “su 3.500 studenti, il 95% non sono di fede cattolica, un segno di quell’armonia che il Santo Padre enfatizza nel suo messaggio”. Per partecipare alla messa al parco Suhrawardy Udian e ascoltare il messaggio del Santo Padre, c’è stata una mobilitazione eccezionale da ogni angolo del Bangladesh, come confermano le testimonianze raccolte. “C’è chi ha preso le ferie dal lavoro, pur di avere l’occasione di incontrare Papa Francesco”, rivela Damian Quiah, un fedele incontrato dopo la messa alla Chiesa Nostra Signora del Santo Rosario a Chittagong, in un incontro con venti fedeli organizzato da padre Clement Reagan D’Costa. “La Chiesa ha organizzato alcuni bus da qui a Dacca. Ma molti vanno nella capitale per conto loro. C’è chi prende il treno, chi l’autobus, qualcuno l’aereo. Qualunque mezzo è utile, pur di vedere il Santo Padre e pregare con lui – prosegue – non vedo l’ora di accogliere Papa Francesco”. Ho pregato molto per lui, “affinché arrivasse sano e salvo – spiega Sorna Dajel, una donna cattolica di Chittagong – la sua visita ci rende più uniti. E rende più facile la convivenza interreligiosa”. Una festa di Dio, una festa per la piccola Chiesa che è in Bangladesh. Trentun anni dopo San Giovanni Paolo II, un altro successore di Pietro ordina presbiteri alcuni giovani diaconi del Golden Bengal nel corso della sua visita al Paese. Nel 1986 furono 18, e nell’unica celebrazione pubblica prevista a Dhaka animata dai canti in Bengali, Papa Francesco impone le mani su 16 diaconi, 10 diocesani e 6 di congregazioni religiose, davanti a più di 100mila fedeli riuniti nel Suhrawardy Udyan Park, già club militare per i soldati britannici e poi ippodromo. I giovani si sono prostrati a terra su un palco dell’altare molto semplice, ornato di canna di bambù e paglia. Dopo l’omelia tratta dal rituale per l’ordinazione dei presbiteri, nella quale il Papa invita i nuovi sacerdoti a seguire sempre l’esempio del Buon Pastore, che non è venuto per essere servito ma per servire, Francesco si rivolge a braccio, in italiano, alla folla che segue con grande raccoglimento la celebrazione: “Adesso voglio rivolgermi a voi, cari fratelli e sorelle che siete venuti a questa festa, a questa grande festa di Dio nell’ordinazione di questi fratelli sacerdoti. So che tanti di voi siete venuti da lontano, in un viaggio di più di due giorni. Ma, grazie per la vostra generosità! Questo indica l’amore che voi avete per la Chiesa, questo indica l’amore che voi avete per Gesù Cristo. Grazie per la vostra fedeltà. Continuate avanti con lo spirito delle Beatitudini, e mi raccomando, pregate sempre per i vostri sacerdoti, specialmente per quelli che oggi riceveranno il sacramento dell’ordine sacro. Il popolo di Dio sostiene i sacerdoti con la preghiera. È la vostra responsabilità sostenere i sacerdoti. Qualcuno di voi potrà domandarmi: Ma, padre, come si fa per sostenere un sacerdote?. Fidatevi della vostra generosità. Il cuore generoso che voi avete vi dirà come sostenere i sacerdoti. Ma il primo sostegno del sacerdote è la preghiera. Non stancatevi mai di pregare per questi che saranno i vostri sacerdoti, so che lo farete!”. Poi, il suggestivo rito dell’ordinazione, con i 16 diaconi che promettono rispetto e obbedienza al cardinale Patrick D’Rozario, arcivescovo di Dhaka, e poi chinano il capo davanti a Papa Francesco che impone loro le mani. Nell’omelia Papa Bergoglio dichiara: “Fratelli carissimi, questi nostri figli sono stati chiamati all’ordine del presbiterato. Riflettiamo attentamente a quale ministero saranno elevati nella Chiesa. Come voi ben sapete, fratelli, il Signore Gesù è il solo sommo sacerdote del Nuovo Testamento; ma in lui anche tutto il popolo santo di Dio è stato costituito popolo sacerdotale. Nondimeno, tra tutti i suoi discepoli, il Signore Gesù volle sceglierne alcuni in particolare, perché esercitando pubblicamente nella Chiesa in suo nome l’ufficio sacerdotale a favore di tutti gli uomini, continuassero la sua personale missione di maestro, sacerdote e pastore. Come infatti per questo egli era stato inviato dal Padre, così egli inviò a sua volta nel mondo prima gli Apostoli e poi i vescovi loro successori, ai quali infine furono dati come collaboratori i presbiteri, che, ad essi uniti nel ministero sacerdotale, sono chiamati al servizio del popolo di Dio. Dopo matura riflessione, ora noi stiamo per elevare all’ordine dei presbiteri questi nostri fratelli, perché al servizio di Cristo maestro, sacerdote e pastore cooperino a edificare il corpo di Cristo, che è la Chiesa, in popolo di Dio e tempio santo dello Spirito. Quanto a voi, figli dilettissimi, che state per essere promossi all’ordine del presbiterato, considerate che esercitando il ministero della sacra dottrina sarete parte­cipi della missione di Cristo, unico maestro. Dispensate a tutti quella parola di Dio, che voi stessi avete ricevuto con gioia. Leggete e meditate assiduamente la parola del Signore per credere ciò che avete letto, insegnare ciò che avete appreso nella fede, vivere ciò che avete insegnato. Sia dunque nutrimento al popolo di Dio la vostra dottrina, gioia e sostegno ai fedeli di Cristo il profumo della vostra vita, perché con la parola e l’esempio edifichiate la casa di Dio, che è la Chiesa. Voi continuerete l’opera santificatrice di Cristo. Mediante il vostro ministero il sacrificio spirituale dei fedeli viene reso perfetto, perché congiunto al sacrificio di Cristo, che per le vostre mani in nome di tutta la Chiesa viene offerto in modo incruento sull’altare nella celebrazione dei santi misteri. Riconoscete dunque ciò che fate, imitate ciò che celebrate, perché partecipando al mistero della morte e risurrezione del Signore, portiate la morte di Cristo nelle vostre membra e camminiate con lui in novità di vita. Con il Battesimo aggregherete nuovi fedeli al popolo di Dio; con il sacramento della Penitenza rimetterete i peccati nel nome di Cristo e della Chiesa; con l’Olio santo darete sollievo agli infermi; celebrando i sacri riti e innalzando nelle varie ore del giorno la preghiera di lode e di supplica, vi farete voce del popolo di Dio e dell’umanità intera. Consapevoli di essere stati scelti fra gli uomini e costituiti in loro favore per attendere alle cose di Dio, esercitate in letizia e carità sincera l’opera sacerdotale di Cristo, unicamente intenti a piacere a Dio e non a voi stessi. Infine, partecipando alla missione di Cristo, capo e pastore, in comunione filiale con il vostro vescovo, impegnatevi a unire i fedeli in un’unica famiglia, per condurli a Dio Padre per mezzo di Cristo nello Spirito Santo. Abbiate sempre davanti agli occhi l’esempio del Buon Pastore, che non è venuto per essere servito, ma per servire, e per cercare e salvare ciò che era perduto. Adesso voglio rivolgermi a voi, cari fratelli e sorelle che siete venuti a questa festa, a questa grande festa di Dio nell’Ordinazione di questi fratelli sacerdoti. So che tanti di voi siete venuti da lontano, con un viaggio di più di due giorni… Grazie per la vostra generosità! Questo indica l’amore che voi avete per la Chiesa, questo indica l’amore che voi avete per Gesù Cristo. Grazie tante! Grazie tante per la vostra generosità, grazie tante per la vostra fedeltà. Andate avanti, con lo spirito delle Beatitudini. E mi raccomando, oggi, mi raccomando, pregate sempre per i vostri sacerdoti, specialmente per questi che oggi riceveranno il sacramento dell’Ordine sacro. Il popolo di Dio sostiene i sacerdoti con la preghiera. E’ vostra responsabilità sostenere i sacerdoti. Qualcuno di voi potrà domandarmi: “Ma, padre, come si fa per sostenere un sacerdote?”. Fidatevi della vostra generosità. Il cuore generoso che voi avete vi dirà come sostenere i sacerdoti. Ma il primo sostegno del sacerdote è la preghiera. Il popolo di Dio – cioè tutti, tutti – sostiene il sacerdote con la preghiera. Non stancatevi mai di pregare per i vostri sacerdoti. Io so che lo farete. Grazie tante! E adesso continuiamo il rito dell’Ordinazione di questi diaconi che saranno i vostri sacerdoti. Grazie”. Un gruppo di mercanti portoghesi e, come accadeva all’epoca, piccoli “commando” di apostoli con tonache diverse e lo stesso obiettivo. È così che tra il 1599 e il 1600 il cristianesimo arriva in Bangladesh. A portarlo, stringendo la croce al seguito di chi inseguiva dei buoni traffici, sono padri Domenicani, Francescani, Gesuiti, Agostiniani. Questo filo, di storia e di fede, sta dietro i giovani volti bruniti che per 16 volte si inginocchiano davanti al Papa. C’è il filo del primo martire, il padre gesuita Francisco Fernandez ucciso nel 1602, che si intreccia con la trama di una Chiesa che 200 anni dopo si può strutturare nel Vicariato Apostolico del Bengala, e diventa il tessuto che oggi può vedere diversi suoi figli inginocchiarsi ed essere consacrati nelle mani del Vicario di Cristo. Il Papa si premura di non dare per scontata una vocazione che mai può esserlo anche se è un ponte che unisce la Terra al Cielo. Alzandosi dopo aver letto l’omelia preparata, Francesco rimarca che un sacerdote vive bene il suo ministero se è la sua gente a custodirlo. “Custodite i vostri sacerdoti”. È un impegno antico quanto il Vangelo, ma in tante parti del mondo, specie occidentale, dimenticato e tanti, troppi sacerdoti, sono vittime di una solitudine che può uccidere anche la convinzione più forte. Un impegno che in Bangladesh invece già solo i numeri sembrano dire sarà preso e mantenuto, perché 16 sacerdoti sono moltissimi in una realtà in cui i cattolici sono lo 0,24% della popolazione.E se questi numeri sono il segno di una sostanza, ciò aiuterà i giovani che oggi per la prima volta indossano la stola a essere il tipo di pastori preferiti da Francesco, quelli “con l’odore delle pecore”, ma anche, come ha detto a Yangon, “con l’odore di Dio” addosso. Terminata la messa il Pontefice ha un colloquio con il Primo Ministro del Paese, la signora Shekh Hasina, visita la cattedrale di Dhaka sostando in preghiera nella Cappella del Santissimo. “Cerchiamo di trasmettere ai più giovani la convinzione che con le proprie mani possono creare il loro futuro”, dichiara padre Riccardo Tobanelli, missionario saveriano, in Bangladesh dal 1982, che nel Paese asiatico visitato dal Papa si occupa dei bambini di strada, i cosiddetti “Tokai”, in particolare di quelli che vivono nei pressi della stazione di Dhaka. Per loro ha creato un apposito centro, il Tokai Songho, che si trova a Nishan Nolouakuri, a Nord della capitale, e ospita una sessantina di bambini e giovani tra i 3 e i 18 anni. L’impegno di padre Riccardo, trasmesso oggi ai suoi collaboratori, in gran parte ex ragazzi di strada, è quello di andare a cercare, proprio lungo la linea ferroviaria, i bambini che hanno più bisogno di aiuto: “cercano di conoscerli, gestirli, per qualsiasi tipo di problema, di salute, di violenze o aggression – spiega il missionario nell’intervista in Bangladesh a Xavier Sartre – cerchiamo di proporre ai bambini, soprattutto a quelli ancora in una fascia di età tra i 5 e gli 8 anni, che non hanno ancora preso l’abitudine di usare droga o (sniffare, ndr) colla, di crescere in un ambiente normale. Certo, ammette il saveriano, vanno, tornano, scappano, ritornano, ma comunque si porta avanti un percorso di crescita sia scolastica sia umana sia di appartenenza a una famiglia. Nella struttura creata, si cerca il più possibile di autogestirci, partecipiamo alla cucina, al lavoro, alla coltivazione: anche perché questo è un elemento educativo per i bambini che hanno vissuto in strada”. Ad affiancare padre Riccardo c’è anche Maria Cristina, italiana della Caritas di Salerno, che vive in Bangladesh da sette anni. Nell’intervista di Xavier Sartre, racconta che i bambini la considerano una “sorella maggiore”. Si tratta, spiega, “di vivere con bambini che vivono il senso dell’abbandono. Hanno un dolore interno, una ferita che non si sa se negli anni passerà mai. Quando arrivano al centro possono essere arrabbiati, violenti, magari appena ti vedono ti prendono in giro. Ma sono solo ragazzi che hanno bisogno di amore, quello che trovano al centro Tokai Songho”. Papa Francesco trova in Bangladesh una Chiesa aperta al dialogo specie con l’Islam. “Tranne tensioni momentanee tra cattolici e musulmani in Bangladesh c’è impegno comune nella preghiera e condivisione di momenti importanti della vita di fede”, testimonia padre Gabriel Amal Costa missionario del Pime nel Paese asiatico, durante la visita del Pontefice. “Il governo fa la sua parte contro il fanatismo religioso e come minoranza ci sentiamo tutelati”, afferma. Nelle sue parole la voce di cattolici che “senza paura e nella verità affrontano la testimonianza della fede. Siamo un piccolo seme che sta portando frutti sia in termini di vocazioni sia come conversioni. A 31 anni dalla presenza di un Papa nel Paese, siamo certi che Francesco porterà incoraggiamento e speranza”. All’incontro interreligioso ed ecumenico per la pace, nella residenza dell’Arcivescovado di Dhaka, Venerdì 1° Dicembre 2017, rivolto al gruppo di profughi Rohingya, Papa Bergoglio dichiara: “Cari Amici, il nostro incontro, che riunisce i rappresentanti delle diverse comunità religiose di questo Paese, costituisce un momento molto significativo della mia visita in Bangladesh. Ci siamo radunati per approfondire la nostra amicizia e per esprimere il comune desiderio del dono di una pace genuina e duratura. Il mio ringraziamento va al Cardinale D’Rozario per le sue gentili parole di benvenuto e a quanti mi hanno accolto con calore a nome delle comunità musulmana, induista, buddista, cristiana e anche della società civile. Sono grato al Vescovo anglicano di Dhaka per la sua presenza, alle varie comunità cristiane e a tutti coloro che hanno contribuito a rendere possibile questa riunione. Le parole che abbiamo ascoltato, ma anche i canti e le danze che hanno animato la nostra assemblea, ci hanno parlato in modo eloquente del desiderio di armonia, fraternità e pace contenuto negli insegnamenti delle religioni del mondo. Possa il nostro incontro di questo pomeriggio essere un chiaro segno degli sforzi dei leader e dei seguaci delle religioni presenti in questo Paese a vivere insieme nel rispetto reciproco e nella buona volontà. In Bangladesh, dove il diritto alla libertà religiosa è un principio fondamentale, questo impegno sia un richiamo rispettoso ma fermo a chi cercherà di fomentare divisione, odio e violenza in nome della religione. È un segno particolarmente confortante dei nostri tempi che i credenti e le persone di buona volontà si sentano sempre più chiamati a cooperare alla formazione di una cultura dell’incontro, del dialogo e della collaborazione al servizio della famiglia umana. Ciò richiede più che una mera tolleranza. Ci stimola a tendere la mano all’altro in atteggiamento di reciproca fiducia e comprensione, per costruire un’unità che comprenda la diversità non come minaccia, ma come potenziale fonte di arricchimento e crescita. Ci esorta a coltivare una apertura del cuore, in modo da vedere gli altri come una via, non come un ostacolo. Permettetemi di esplorare brevemente alcune caratteristiche essenziali di questa “apertura del cuore” che è la condizione per una cultura dell’incontro. In primo luogo, essa è una porta. Non è una teoria astratta, ma un’esperienza vissuta. Ci permette di intraprendere un dialogo di vita, non un semplice scambio di idee. Richiede buona volontà e accoglienza, ma non deve essere confusa con l’indifferenza o la reticenza nell’esprimere le nostre convinzioni più profonde. Impegnarsi fruttuosamente con l’altro significa condividere le nostre diverse identità religiose e culturali, ma sempre con umiltà, onestà e rispetto. L’apertura del cuore è anche simile ad una scala che raggiunge l’Assoluto. Ricordando questa dimensione trascendente della nostra attività, ci rendiamo conto della necessità di purificare i nostri cuori, in modo da poter vedere tutte le cose nella loro prospettiva più vera. Ad ogni passo la nostra visuale diventerà più chiara e riceveremo la forza per perseverare nell’impegno di comprendere e valorizzare gli altri e il loro punto di vista. In questo modo, troveremo la saggezza e la forza necessarie per tendere a tutti la mano dell’amicizia. L’apertura del cuore è anche un cammino che conduce a ricercare la bontà, la giustizia e la solidarietà. Conduce a cercare il bene del nostro prossimo. Nella sua Lettera ai cristiani di Roma, San Paolo ha così esortato: «Non lasciarti vincere dal male, ma vinci il male con il bene» (12,21). Questo è un atteggiamento che tutti noi possiamo imitare. La sollecitudine religiosa per il bene del nostro prossimo, che scaturisce da un cuore aperto, scorre come un grande fiume, irrigando le terre aride e deserte dell’odio, della corruzione, della povertà e della violenza che tanto danneggiano la vita umana, dividono le famiglie e sfigurano il dono della creazione. Le diverse comunità religiose del Bangladesh hanno abbracciato questa strada in modo particolare nell’impegno per la cura della terra, nostra casa comune, e nella risposta ai disastri naturali che hanno afflitto la nazione negli ultimi anni. Penso anche alla comune manifestazione di dolore, preghiera e solidarietà che ha accompagnato il tragico crollo del Rana Plaza, che rimane impresso nella mente di tutti. In queste diverse espressioni, vediamo quanto il cammino della bontà conduce alla cooperazione al servizio degli altri. Uno spirito di apertura, accettazione e cooperazione tra i credenti non solo contribuisce a una cultura di armonia e di pace; esso ne è il cuore pulsante. Quanto ha bisogno il mondo di questo cuore che batte con forza, per contrastare il virus della corruzione politica, le ideologie religiose distruttive, la tentazione di chiudere gli occhi di fronte alle necessità dei poveri, dei rifugiati, delle minoranze perseguitate e dei più vulnerabili! Quanta apertura è necessaria per accogliere le persone del nostro mondo, specialmente i giovani, che a volte si sentono soli e sconcertati nel ricercare il senso della vita! Cari amici, vi ringrazio per i vostri sforzi nel promuovere la cultura dell’incontro, e prego che, con la dimostrazione del comune impegno dei seguaci delle religioni a discernere il bene e a metterlo in pratica, aiuteremo tutti i credenti a crescere nella saggezza e nella santità, e a cooperare per costruire un mondo sempre più umano, unito e pacifico. Apro il mio cuore a tutti voi e vi ringrazio ancora una volta per la vostra accoglienza. Ricordiamoci vicendevolmente nelle nostre preghiere. Cari fratelli e sorelle, noi tutti vi siamo vicini. È poco quello che noi possiamo fare perché la vostra tragedia è molto grande. Ma facciamo spazio nel nostro cuore. A nome di tutti, di quelli che vi perseguitano, di quelli che hanno fatto del male, soprattutto per l’indifferenza del mondo, vi chiedo perdono. Perdono. Tanti di voi mi avete detto del cuore grande del Bangladesh che vi ha accolto. Adesso io mi appello al vostro cuore grande perché sia capace di darci il perdono che chiediamo. Cari fratelli e sorelle, il racconto ebreo-cristiano della creazione dice che il Signore che è Dio ha creato l’uomo a sua immagine e somiglianza. Tutti noi siamo questa immagine. Anche questi fratelli e sorelle. Anche loro sono immagine del Dio vivente. Una tradizione delle vostre religioni dice che Dio, all’inizio, ha preso un po’ di sale e l’ha buttato nell’acqua, che era l’anima di tutti gli uomini; e ognuno di noi porta dentro un po’ del sale divino. Questi fratelli e sorelle portano dentro il sale di Dio. Cari fratelli e sorelle, soltanto facciamo vedere al mondo cosa fa l’egoismo del mondo con l’immagine di Dio. Continuiamo a far loro del bene, ad aiutarli; continuiamo a muoverci perché siano riconosciuti i loro diritti. Non chiudiamo i cuori, non guardiamo dall’altra parte. La presenza di Dio, oggi, anche si chiama “Rohingya”. Ognuno di noi, dia la propria risposta”. Un altro fuori programma di questo viaggio apostolico giunge al termine dell’incontro interreligioso ed ecumenico quando Papa Francesco chiama intorno a sé un gruppo di profughi Rohingya fuggiti dal Myanmar. Parlando a braccio il Santo Padre ricorda la grande tragedia che vivono questi fratelli e sorelle e chiede perdono per il male loro arrecato e per l’indifferenza cieca del mondo. Era ormai sera a Dhaka quando il Papa, visibilmente commosso, dopo aver ascoltato a lungo in silenzio le testimonianze di una quindicina di profughi provenienti dai campi di Cox Bazar, prende il microfono improvvisando il suo accorato appello. È l’immagine simbolo della visita in Asia che volge al termine. In Bangladesh dicono “Milo ne ananda” per esprimere “la gioia della comunione”, quando si sta bene insieme anche tra persone che professano fedi diverse. Quell’atmosfera che si respira durante l’appuntamento di preghiera pomeridiano nel cuore della capitale. Introdotto da canti e danze folcloristici, che richiamano le varie anime del popolo bangladese in cui le diversità etniche riflettono quelle religiose, il suggestivo momento è arricchito da cinque testimonianze. Le hanno offerte autorevoli esponenti delle comunità musulmana, hindu, buddista, cattolica e della società civile. Il canto per la pace, intonato dal coro, precede il discorso del Pontefice, incentrato sulla promozione della cultura dell’incontro e della collaborazione, da contrapporre ai virus della corruzione, delle ideologie distruttive, e soprattutto alla tentazione di chiudere gli occhi davanti alle necessità dei poveri, dei rifugiati e delle minoranze perseguitate. Rappresentate a Dhaka proprio dal piccolo gruppo di Rohingya, accompagnati da due interpreti della Caritas. Con loro Francesco trascorre pochi ma intensi minuti, fatti di sguardi e di lacrime, subito dopo la preghiera ecumenica pronunciata da un vescovo anglicano particolarmente commosso, che si inginocchia davanti al Papa per farsi benedire. Accolti con un fragoroso applauso dai presenti, uno dietro l’altro i profughi salgono sul palco per raccontare al Pontefice le loro drammatiche storie di dolore, di lutti, di violenze, di privazioni, visto che nei campi dove cercano di sopravvivere mancano acqua, cibo, medicinali, vestiti e coperte. Tra loro due donne che indossano il velo e portano anche il “niqab” sul volto, abbassato. Francesco ascolta tutti con attenzione, il volto assorto, stringendo loro le mani o carezzandone il capo per incoraggiarli. Dopo l’appello, li invita a posare con lui per una foto ricordo, e qualcuno inizia a piangere; infine tutti insieme prega, ciascuno come sa fare. E attraverso quei gesti Francesco vuole stringere a sé gli oltre seicentomila profughi, metà dei quali sono bambini, ammassati nella località di confine, dove numerose Ong stanno offrendo assistenza umanitaria. L’incontro suggella una giornata aperta con la messa celebrata sotto un sole cocente al Suhrawardy Udyan Park di Dhaka. Si tratta di un altro sacrario della nazione: dopo essere stato un club militare delle truppe coloniali britanniche è divenuto l’ippodromo di Ramna, prima di essere destinato a memoriale e museo dell’indipendenza, al cui interno riposano tre grandi leader. Qui il “Bangabandhu” Sheikh Mujibur Rahman pronunciò uno storico discorso prima della guerra che nel 1971 portò alla nascita della giovane nazione. E qui l’esercito pakistano si arrese, al termine di un sanguinoso conflitto costato molte vite umane. Poiché la Chiesa fu in prima linea nell’assistenza e nella riabilitazione delle vittime della guerra di liberazione, essa pur rappresentando un’esigua minoranza nel quarto Paese per popolazione islamica nel mondo gode di un discreto prestigio. Rientrato in nunziatura nel primo pomeriggio, Francesco riceve la visita del primo ministro Shekh Hasina. La figlia del “padre della nazione” si trovava in Germania quando suo padre fu assassinato ed è stata costretta a vivere a lungo in esilio. Divenuta leader dell’opposizione, dal 1996 ha assunto la guida del governo del Bangladesh, con incarichi rinnovati nel 2008 e nel 2014. Al termine del colloquio, durato 15 minuti, Francesco dona un trittico di medaglie, ricevendo in cambio il modellino d’argento di una caratteristica imbarcazione dei pescatori del golfo del Bengala. Quindi in automobile raggiunge Ramna, ove risiede il cardinale D’Souza e dove riposano i suoi predecessori, gli arcivescovi Theotonio Amal Ganguly e Michael Rozario. Nel complesso che comprende la cattedrale, l’arcivescovado, la casa per anziani sacerdoti e il seminario, Papa Bergoglio benedice i mosaici commemorativi delle tre visite papali, quella di Montini il 27 novembre 1970, di Wojtyła il 19 novembre 1986 e la sua, oltre alla prima pietra di un nuovo centro pastorale. Quindi si dirige all’interno della cattedrale di Santa Maria per pregare in silenzio nella cappella del Santissimo Sacramento. Infine, nella casa per sacerdoti anziani, si rivolge alla Conferenza episcopale: una dozzina di presuli, tra i quali Paul Ponen Kubi, il primo Adivasi, come vengono chiamati gli autoctoni. Nel suo discorso, integrato con diverse aggiunte subito tradotte in inglese dall’interprete, Francesco esprime apprezzamento per il piano pastorale del 1985, rilanciando l’opzione per i poveri. Nel discorso ufficiale Papa Bergoglio dichiara: “Cari fratelli e sorelle,
sono molto contento di essere con voi. Ringrazio l’Arcivescovo Moses Costa per il caloroso saluto a nome vostro. Sono grato specialmente a quanti hanno offerto le loro testimonianze e condiviso con noi il loro amore per Dio. Esprimo anche la mia gratitudine a Padre Mintu Palma per aver composto la preghiera che tra poco reciteremo alla Madonna. In quanto successore di Pietro è mio dovere confermarvi nella fede. Ma vorrei che sappiate che oggi, attraverso le vostre parole e la vostra presenza, anche voi confermate me nella fede e mi date una grande gioia. La Comunità cattolica in Bangladesh è piccola. Ma siete come il granello di senape che Dio porta a maturazione a suo tempo. Mi rallegro di vedere come questo granello stia crescendo e di essere testimone diretto della fede profonda che Dio vi ha dato (Mt 13,31-32). Penso ai missionari devoti e fedeli che hanno piantato e curato questo granello di fede per quasi cinque secoli. Tra poco visiterò il cimitero e pregherò per questi uomini e donne che con tanta generosità hanno servito questa Chiesa locale. Volgendo lo sguardo a voi, vedo missionari che proseguono questa santa opera. Vedo anche molte vocazioni nate in questa terra: sono un segno delle grazie con cui il Signore la sta benedicendo. Sono particolarmente lieto della presenza tra noi delle suore di clausura, e delle loro preghiere. È bello che il nostro incontro abbia luogo in quest’antica Chiesa del Santo Rosario. Il Rosario è una magnifica meditazione sui misteri della fede che sono la linfa vitale della Chiesa, una preghiera che forgia la vita spirituale e il servizio apostolico. Che siamo sacerdoti, religiosi, consacrati, seminaristi o novizi, la preghiera del Rosario ci stimola a dare le nostre vite completamente a Cristo, in unione con Maria. Ci invita a partecipare alla sollecitudine di Maria nei riguardi di Dio al momento dell’Annunciazione, alla compassione di Cristo per tutta l’umanità quando è appeso alla croce e alla gioia della Chiesa quando riceve il dono dello Spirito Santo dal Signore risorto. La sollecitudine di Maria. C’è stata, in tutta la storia, una persona sollecita quanto Maria al momento dell’annunciazione? Dio la preparò per quel momento ed ella rispose con amore e fiducia. Così pure il Signore ha preparato ciascuno di noi e ci ha chiamati per nome. Rispondere a tale chiamata è un processo che dura tutta la vita. Ogni giorno siamo chiamati a imparare ad essere più solleciti nei riguardi del Signore nella preghiera, meditando le sue parole e cercando di discernere la sua volontà. So che il lavoro pastorale e l’apostolato richiedono da voi molto, e che le vostre giornate sono spesso lunghe e vi lasciano stanchi. Ma non possiamo portare il nome di Cristo o partecipare alla sua missione senza essere anzitutto uomini e donne radicati nell’amore, accesi dall’amore, attraverso l’incontro personale con Gesù nell’Eucaristia e nelle parole della Sacra Scrittura. Padre Abel, tu ci hai ricordato questo quando hai parlato dell’importanza di coltivare un’intima relazione con Gesù, perché lì sperimentiamo la sua misericordia e attingiamo una rinnovata energia per servire gli altri. La sollecitudine per il Signore ci permette di vedere il mondo attraverso i suoi occhi e di diventare così più sensibili alle necessità di quanti serviamo. Cominciamo a comprendere le loro speranze e gioie, le paure e i pesi, vediamo più chiaramente i molti talenti, carismi e doni che essi apportano per edificare la Chiesa nella fede e nella santità. Fratel Lawrence, quando parlavi del tuo eremo, ci hai aiutati a comprendere l’importanza di prenderci cura delle persone per saziare la loro sete spirituale. Che tutti voi possiate, nella grande varietà del vostro apostolato, essere una fonte di ristoro spirituale e di ispirazione per coloro che servite, rendendoli capaci di condividere i loro doni sempre più pienamente tra di loro, facendo progredire la missione della Chiesa. La compassione di Cristo. Il Rosario ci introduce nella meditazione della passione e morte di Gesù. Entrando più in profondità in questi misteri del dolore, giungiamo a conoscere la loro forza salvifica e siamo confermati nella chiamata a esserne partecipi con la nostra vita, con la compassione e il dono di sé. Il sacerdozio e la vita religiosa non sono carriere. Non sono veicoli per avanzare. Sono un servizio, una partecipazione all’amore di Cristo che si sacrifica per il suo gregge. Conformandoci quotidianamente a Colui che amiamo, giungiamo ad apprezzare il fatto che le nostre vite non ci appartengono. Non siamo più noi che viviamo, ma Cristo vive in noi (Gal 2,20). Incarniamo questa compassione quando accompagniamo le persone, specialmente nei loro momenti di sofferenza e di prova, aiutandole a trovare Gesù. Padre Franco, grazie per aver messo questo aspetto in primo piano: ciascuno di noi è chiamato a essere un missionario, portando l’amore misericordioso di Cristo a tutti, specialmente a quanti si trovano alle periferie delle nostre società. Sono particolarmente grato perché in tanti modi molti di voi sono impegnati nei campi dell’impegno sociale, della sanità e dell’educazione, servendo alle necessità delle vostre comunità locali e dei tanti migranti e rifugiati che arrivano nel Paese. Il vostro servizio alla più ampia comunità umana, in particolare a coloro che si trovano maggiormente nel bisogno, è prezioso per edificare una cultura dell’incontro e della solidarietà. La gioia della Chiesa . Infine, il Rosario ci riempie di gioia per il trionfo di Cristo sulla morte, la sua ascensione alla destra del Padre e l’effusione dello Spirito Santo sul mondo. Tutto il nostro ministero è volto a proclamare la gioia del Vangelo. Nella vita e nell’apostolato, siamo tutti ben consapevoli dei problemi del mondo e delle sofferenze dell’umanità, ma non perdiamo mai la fiducia nel fatto che la forza dell’amore di Cristo prevale sul male e sul Principe della menzogna, che cerca di trarci in inganno. Non lasciatevi mai scoraggiare dalle vostre mancanze o dalle sfide del ministero. Se rimanete solleciti verso il Signore nella preghiera e perseverate nell’offrire la compassione di Cristo ai vostri fratelli e sorelle, allora il Signore riempirà certamente i vostri cuori della confortante gioia del suo Santo Spirito. Suor Mary Chandra, tu hai condiviso con noi la gioia che sgorga dalla tua vocazione religiosa e dal carisma della tua Congregazione. Marcelius, anche tu ci hai parlato dell’amore che tu e i tuoi compagni di seminario avete per la vocazione al sacerdozio. Entrambi ci avete ricordato che siamo chiamati tutti e quotidianamente a rinnovare e approfondire la nostra gioia nel Signore sforzandoci di imitarlo sempre più pienamente. All’inizio, questo può sembrare difficile, ma riempie i nostri cuori di gioia spirituale. Perché ogni giorno diventa un’opportunità per ricominciare, per rispondere di nuovo al Signore. Non scoraggiatevi mai, perché la pazienza del Signore è per la nostra salvezza (2 Pt 3,15). Rallegratevi nel Signore sempre! Cari fratelli e sorelle, vi ringrazio per la vostra fedeltà nel servire Cristo e la sua Chiesa attraverso il dono della vostra vita. Assicuro a tutti voi la mia preghiera e ve la chiedo per me. Rivolgiamoci ora alla Madonna, Regina del Santo Rosario, chiedendole che ottenga a tutti noi la grazia di crescere in santità e di essere testimoni sempre più gioiosi della forza del Vangelo, per portare guarigione, riconciliazione e pace al nostro mondo”. Tra le testimonianze ascoltate da Papa Francesco durante l’incontro con sacerdoti e religiose nella Chiesa del Santo Rosario a Dhaka in Bangladesh, anche quella di padre Franco Caniasso, missionario del Pime originario di Torino, dal 1978 nel Paese asiatico. Il sacerdote racconta di avere ereditato il lavoro di tanti missionari che, con fatiche enormi, hanno evangelizzato queste terre. Un lavoro che oggi porta i suoi frutti. Padre Franco presenta infatti una Chiesa seppur piccola ma ormai strutturata, con i suoi carismi e i suoi ministeri, una Chiesa che dà testimonianza di Cristo in mezzo ad una stragrande maggioranza di altre fedi. “Siamo ridotti nei numeri – osserva il missionario – ma vogliamo restare qui per cercare le periferie di cui parla il Papa ed essere segno di una Chiesa missionaria fin dalle origini nel popolo che la ospita e presso altri popoli”. Nelle parole di padre Franco la gioia che oggi la Chiesa cristiana cattolica del Bangladesh possa inviare missionari nel resto del mondo e riceverne anche da Paesi che non li hanno mai inviati come Africa e America Latina. “Siamo grati a questi popoli che ci accolgono e ci permettono di vivere il Vangelo con loro”. Come in Myanmar anche la visita in Bangladesh si conclude con un incontro fra il Papa e i giovani. Con danze dai mille colori e dalle suggestive coreografie, con canti ma soprattutto con gioia, in circa 7mila lo accolgono al Notre Dame College di Dhaka, Sabato 2 Dicembre 2017. Non solo cattolici ma anche molti musulmani e di altre religioni. Papa Francesco dichiara: “Cari giovani, cari amici, buonasera! Sono grato a tutti voi per la vostra calorosa accoglienza. Ringrazio Mons. Gervas Rozario per le sue gentili parole, Upasana e Anthony per le loro testimonianze. C’è qualcosa di unico nei giovani: voi siete sempre pieni di entusiasmo, sempre. E questo è bello. E io mi sento ringiovanire ogni volta che vi incontro. Upasana, tu hai parlato di questo nella tua testimonianza, hai detto di essere davvero “molto entusiasta”, e io posso vederlo e anche percepirlo. Questo entusiasmo giovanile si collega con lo spirito di avventura. Uno dei vostri poeti nazionali, Kazi Nazrul Islam, lo ha espresso, definendo la gioventù del Paese «impavida», «abituata a strappar fuori la luce dal ventre dell’oscurità». È bello questo! I giovani sono sempre pronti a proiettarsi in avanti, a far accadere le cose e a rischiare. Vi incoraggio ad andare avanti con questo entusiasmo nelle circostanze buone e in quelle cattive. Andare avanti, specialmente in quei momenti nei quali vi sentite oppressi dai problemi e dalla tristezza e, guardandovi intorno, sembra che Dio non appaia all’orizzonte. Ma, andando in avanti, assicuratevi di scegliere la strada giusta. Cosa vuol dire? Vuol dire saper viaggiare nella vita, non girovagare senza meta. Io vi faccio una domanda: voi viaggiate o girovagate? Cosa fate, viaggiate o girovagate? La nostra vita non è senza direzione, ha uno scopo, uno scopo datoci da Dio. Egli ci guida, orientandoci con la sua grazia. È come se avesse posizionato dentro di noi un software, che ci aiuta a discernere il suo programma divino e a rispondergli nella libertà. Ma, come ogni software, anch’esso necessita di essere costantemente aggiornato. Tenete aggiornato il vostro programma, prestando ascolto al Signore e accettando la sfida di fare la sua volontà. Il software aggiornato. È un po’ triste quando il software non è aggiornato; ed è ancora più triste quando è guasto e non serve. Anthony, hai fatto riferimento a questa sfida nella tua testimonianza, quando hai detto che siete uomini e donne che stanno «crescendo in un mondo fragile che reclama sapienza». Hai usato la parola “sapienza” e, così facendo, ci hai fornito la chiave. Quando si passa dal viaggiare al girovagare senza meta, tutta la sapienza è persa! La sola cosa che ci orienta e ci fa andare avanti sul giusto sentiero è la sapienza, la sapienza che nasce dalla fede. Non è la falsa sapienza di questo mondo. E’ la sapienza che si intravede negli occhi dei genitori e dei nonni, che hanno posto la loro fiducia in Dio. Come cristiani, possiamo vedere nei loro occhi la luce della presenza di Dio, la luce che hanno scoperto in Gesù, che è la sapienza stessa di Dio (1 Cor 1,24). Per ricevere questa sapienza dobbiamo guardare il mondo, le nostre situazioni, i nostri problemi, tutto con gli occhi di Dio. Riceviamo questa sapienza quando cominciamo a vedere le cose con gli occhi di Dio, ad ascoltare gli altri con gli orecchi di Dio, ad amare col cuore di Dio e a valutare le cose coi valori di Dio. Questa sapienza ci aiuta a riconoscere e respingere le false promesse di felicità. Ce ne sono tante! Una cultura che fa false promesse non può liberare, porta solo a un egoismo che riempie il cuore di oscurità e amarezza. La sapienza di Dio, invece, ci aiuta a sapere come accogliere e accettare coloro che agiscono e pensano diversamente da noi. È triste quando cominciamo a chiuderci nel nostro piccolo mondo e ci ripieghiamo su noi stessi. Allora facciamo nostro il principio del “come dico io o arrivederci”. E questo è un cattivo principio: “O si fa come dico io o ciao, arrivederci”. Questo non aiuta. E quando usiamo questo principio rimaniamo intrappolati, chiusi in noi stessi. Quando un popolo, una religione o una società diventano un “piccolo mondo”, perdono il meglio che hanno e precipitano in una mentalità presuntuosa, quella dell’“io sono buono, tu sei cattivo”. Tu, Upasana, hai evidenziato le conseguenze di questo modo di pensare, quando hai detto: «Perdiamo la direzione e perdiamo noi stessi» e «la vita ci diventa insensata». Ha detto bene! La sapienza di Dio ci apre agli altri. Ci aiuta a guardare oltre le nostre comodità personali e le false sicurezze che ci fanno diventare ciechi davanti ai grandi ideali che rendono la vita più bella e degna di esser vissuta. Sono contento che, insieme ai cattolici, ci siano con noi molti giovani amici musulmani e di altre religioni. Col trovarvi insieme qui oggi mostrate la vostra determinazione nel promuovere un clima di armonia, dove si tende la mano agli altri, malgrado le vostre differenze religiose. Questo mi ricorda un’esperienza che ebbi a Buenos Aires, in una nuova parrocchia situata in un’area estremamente povera. Un gruppo di studenti stava costruendo alcuni locali per la parrocchia e il sacerdote mi aveva invitato ad andare a trovarli. Così andai e quando arrivai in parrocchia il sacerdote me li presentò uno dopo l’altro, dicendo: «Questo è l’architetto, è ebreo, questo è comunista, questo è cattolico praticante» (Saluto ai giovani del Centro culturale P.F. Varela, L’Avana, 20 settembre 2015). Quegli studenti erano tutti diversi, ma stavano tutti lavorando per il bene comune. Questo è importante! Non dimenticatevi: diversi, ma lavorando per il bene comune, in armonia! Avete capito? Questa è l’armonia bella che si percepisce qui nel Bangladesh. Quegli studenti, diversi tra loro, erano aperti all’amicizia sociale e determinati a dire “no” a tutto ciò che avrebbe potuto distoglierli dal proposito di stare insieme e aiutarsi a vicenda. La sapienza di Dio ci aiuta anche a guardare oltre noi stessi per riconoscere la bontà del nostro patrimonio culturale. La vostra cultura vi insegna a rispettare gli anziani. Questo è molto importante. Come ho detto prima, gli anziani ci aiutano ad apprezzare la continuità delle generazioni. Portano con sé la memoria e la sapienza esperienziale, che ci aiuta ad evitare di ripetere gli errori del passato. Gli anziani hanno “il carisma di colmare le distanze”, in quanto assicurano che i valori più importanti vengano tramandati ai figli e ai nipoti. Attraverso le loro parole, il loro amore, il loro affetto e la loro presenza, comprendiamo che la storia non è iniziata con noi, ma che siamo parte di un antico “viaggiare” e che la realtà è più grande di noi. Parlate con i vostri genitori e  i vostri nonni; non passate tutta la giornata col cellulare, ignorando il mondo attorno a voi! Parlate con i nonni, loro vi daranno sapienza. Upasana e Anthony, avete concluso le vostre testimonianze con parole di speranza. La sapienza di Dio rafforza in noi la speranza e ci aiuta ad affrontare il futuro con coraggio. Noi cristiani troviamo questa speranza nell’incontro personale con Gesù nella preghiera e nei Sacramenti, e nell’incontro concreto con Lui nei poveri, nei malati, nei sofferenti e negli abbandonati. In Gesù scopriamo la solidarietà di Dio, che costantemente cammina al nostro fianco. Cari giovani, cari amici, guardando i vostri volti sono pieno di gioia e di speranza: gioia e speranza per voi, per il vostro Paese, per la Chiesa e per le vostre comunità. Che la sapienza di Dio possa continuare a ispirare il vostro impegno a crescere nell’amore, nella fraternità e nella bontà. Lasciando il vostro Paese oggi, vi assicuro la mia preghiera perché tutti possiate continuare a crescere nell’amore di Dio e del prossimo. E per favore, non dimenticatevi di pregare per me. Dio benedica il Bangladesh! Isshór Bangladeshké ashirbád korún”. All’Aeroporto internazionale di Dhaka a salutare il Papa in partenza verso Roma, anche il vescovo di Khucma mons James Romen Boiraghi che fa un primo bilancio della traccia lasciata dalla presenza e dalle parole del Papa, nella comunità ecclesiale del Bangladesh: “Restano nel nostro cuore di sacerdoti, vescovi e consacrati, i diversi incoraggiamenti che il Pontefice ci ha lasciato. In particolare il riferimento di mons James Romen Boiraghi è su come vivere la comunità e su come portare avanti, armonicamente, il cammino del dialogo con fedeli delle altre religioni. Il Papa ci ha dato forza per vivere in pace con ciascuno”. Per il Segretario di Stato vaticano, cardinale Pietro Parolin, che come sempre accompagna il Papa nel suo viaggio apostolico, “in questi due Paesi la comunità cattolica costituisce una minoranza all’interno di maggioranze rispettivamente musulmana in Bangladesh e buddista in Myanmar. È logico che la prima attenzione, il primo interesse del Santo Padre in questo suo viaggio è rivolto proprio alla comunità cristiana per esprimere vicinanza, per esprimere sostegno e, nello stesso tempo, credo che il Papa incoraggi queste comunità, oltre naturalmente a confermarle nella fede, ad essere una presenza di pace, di riconciliazione e di solidarietà all’interno della loro società, quindi a lavorare soprattutto per il bene comune, a non essere considerate estranee alla realtà dei loro Paesi, ma finalmente integrate e capaci di dare un contributo alla crescita civile e pacifica di questi Paesi. Il Santo Padre varie volte ha già invitato a cercare la strada del dialogo per risolvere le controversie esistenti. Il Santo Padre è sempre disposto ad offrire tutto il suo aiuto e quello della Santa Sede per tentare di affrontare e risolvere questi problemi attraverso il dialogo, il negoziato e l’incontro. Credo che ancora una volta, in questa circostanza, rinnovi questo appello, sapendo che al di fuori di questi mezzi non c’è possibilità di risolvere in maniera pacifica queste situazioni così preoccupanti, sapendo appunto, come già i Papi hanno ripetuto tante volte, che niente è perduto con la pace e tutto può esserlo con la guerra, soprattutto se si tratta, come nella prospettiva, di una guerra atomica. È ben noto che il Papa ha già manifestato più volte la sua attenzione nei confronti della situazione di questi profughi; basterebbe pensare all’appello pronunciato dopo il Regina Coeli, il 24 Maggio del 2015. Naturalmente l’appello del Papa va sempre nella direzione, prima di tutto, di insistere sull’accoglienza dei profughi e quindi di esprimere anche apprezzamento e ringraziamento per i Paesi che si fanno carico di queste persone che fuggono dal loro Paese, che hanno bisogno di aiuto, di assistenza per la situazione di grande vulnerabilità e sofferenza in cui si trovano. Poi, il suo appello va nel senso di invitare la comunità internazionale ad offrire tutta l’assistenza umanitaria possibile di fronte a questo dramma. Credo poi, alla fine, il suo appello sia un invito ad una soluzione duratura di questi problemi, soprattutto per quello che riguarda lo Stato di Rakhine in Myanmar e i profughi che vivono questa situazione. Una soluzione duratura che venga ricercata da parte di tutti gli attori, di tutti i protagonisti in spirito umanitario, tenendo conto anche dell’importanza per la gente, per la popolazione, di avere una nazionalità e sapendo che solamente questa soluzione  duratura può offrire stabilità, pace e sviluppo a quella zona e a tutte le zone di conflitto”. In Bangladesh i poveri sono più di un terzo della popolazione; soffrono anche per le alluvioni causate dai cambiamenti climatici. “Credo che nella Laudato si’ il Papa metta in luce proprio il rapporto tra i cambiamenti climatici e la povertà, nel senso che sono i poveri che subiscono di più gli effetti dei cambiamenti climatici. E i Paesi più poveri sono i più esposti a questi fenomeni. Questo capita anche in Bangladesh, dove c’è questa relazione tra la povertà, il cambiamento climatico e il degrado ambientale, anche se in quest’ultimo caso credo valga la pena di insistere, o perlomeno di ricordare, che sono stati fatti dei passi notevoli, dei buoni passi in avanti sia per quanto riguarda la cura dell’ambiente, come è stato riconosciuto dallo stesso programma delle Nazioni Unite per l’ambiente sia nella lotta alla povertà. Diversi milioni di persone sono uscite dalla situazione di estrema povertà. Questo incoraggia il Paese ad andare avanti in questa direzione senza dimenticare che ci vuole anche l’aiuto della comunità internazionale, la quale non può disinteressarsi di queste situazioni ma deve essere lì per sostenere gli sforzi in modo tale che si esca da questa situazione di povertà e nello stesso tempo e prendersi cura dell’ambiente”. Il Myanmar è un Paese al 90% buddista e il Bangladesh è musulmano. “Il Papa propone quello che ha sempre proposto nei Paesi dove sono presenti varie religioni, diversi gruppi religiosi, cioè il dialogo interreligioso come forma di incontro tra queste religioni e la collaborazione per il bene comune della società. L’idea, appunto, che le religioni possano dare un contributo notevole alla pace, allo sviluppo alla riconciliazione alla convivenza pacifica tra i popoli e all’interno dei Paesi si può realizzare se si uniscono insieme per lavorare in questo senso”. Per il cardinale Luis Antonio Tagle “molto spesso si parla di poveri, ma intesi come concetto. La Giornata Mondiale dei Poveri ha voluto portare i poveri fuori dal concetto astratto di povertà e considerarli come persone vere, perché loro sono persone e quando incontriamo le persone vere noi non diamo loro solamente ciò di cui hanno bisogno, e certo dovremmo!, ma riceviamo molto da loro. Questo è il fulcro della questione. Parte della loro dignità umana aiutarli a capire che loro sono anche agenti, protagonisti attivi, non solo della loro vita, ma agenti attivi nel mondo: possono anche renderlo migliore se riconoscono il loro potenziale e la presenza di Dio nelle loro vite. Siamo molto contenti che il Santo Padre visiti Paesi come il Myanmar, il Bangladesh, dove i cristiani rappresentano una minoranza. In Asia, soprattutto in questi due Paesi, c’è una situazione politica molto precaria; anche quella umanitaria lo è. Quindi speriamo che anche se la Chiesa è piccola in entrambi i Paesi, la presenza del Santo Padre possa creare quel ponte che il Vangelo rappresenta. Il Vangelo porta la gente a sperare insieme nell’amore. Quindi speriamo molto che questo possa accadere”. Dire la verità al potere, dire la verità nella carità, superare la cultura dell’indifferenza per costruirne una dell’incontro, passare da una cultura della reazione a una della prevenzione; porre fine alla cultura dell’impunità e promuoverne una del rispetto, ambire alla pace sociale attraverso la pace interiore. Sono i sei itinerari per “«percorrere insieme la via della non violenza” suggeriti dal card. Jean-Louis Tauran a conclusione del sesto colloquio buddista-cristiano, svoltosi a Taiwan dal 13 al 16 Novembre 2017. Il presidente del Pontificio Consiglio per il Dialogo Interreligioso, promotore dell’iniziativa, interviene alla sessione finale tracciando un bilancio delle tre giornate di lavoro nel monastero Ling Jou di Taipei. “Poiché la violenza distrugge le vite umane, il nostro compito comune è quello di guarire un mondo frammentato”. E “il dialogo interreligioso è l’antidoto alla violenza”. Per questo, “le nostre reazioni devono evitare contraddizioni e incongruenze ed essere basate sulla dignità della persona, non sulle nostre identità e i nostri pregiudizi. In particolare, come riporta L’Osservatore Romano, il porporato esorta a un comune impegno sociale: “Coltiviamo nelle nostre famiglie e nelle nostre istituzioni politiche, civili e religiose un nuovo stile di vita dove la violenza viene rifiutata e la persona umana è rispettata”. Quanto ai sei punti raccomandati, il cardinale Tauran attinge alla ricca tradizione buddista per proporre esempi concreti di come poter percorrere “insieme la via della non violenza”, secondo quanto auspicato anche nel messaggio per il Vesakh di quest’anno. “Dire la verità al potere – spiega il cardinale Tauran sviluppando il primo punto – significa parlare apertamente in difesa degli inermi, chiedendo giustizia e denunciando le situazioni che perpetuano l’ingiustizia. Nella convinzione che le verità religiose che professiamo ci chiamano a parlare per conto delle vittime degli abusi dei potenti”. E in proposito ricorda che “quando Buddha disse la verità al potere, subì attentati contro la sua vita” così come “dire la verità al potere costò a Gesù Cristo la sua vita”. Perciò, come “seguaci delle due religioni dobbiamo avere il coraggio di condannare i mali che vediamo, visto che tali parole e azioni confortano gli afflitti”. Il porporato fa riferimento al monaco buddista Thich Nhat Hanh che durante la Guerra del Vietnam venne giudicato un traditore da entrambe le parti in conflitto perché aveva chiesto la pace per il Paese, mentre il monaco trappista statunitense Thomas Merton lo chiamò “mio fratello”. Cosicché “la loro amicizia interreligiosa rafforzò la loro determinazione a parlare con una sola voce, la voce dell’amore e della compassione”. Che a sua volta “divenne una voce per i senza voce: un esempio di solidarietà che può ispirare chi affronta situazioni di ingiustizia, oppressione ed esclusione”. Riguardo alla necessità “di imparare come parlare della verità della non violenza con la carità”, il presidente del dicastero vaticano cita Angulimāla, uno spietato serial killer che fu convertito da Buddha e in seguito divenne un arahant, “degno di venerazione”, in pratica un santo; come Matteo, l’esattore delle tasse disprezzato dai suoi correligionari ebrei perché collaborava con i romani, che chiamato da Gesù divenne uno dei dodici apostoli e uno dei quattro evangelisti. “Entrambe – rivela il cardinale Tauran – sono esperienze di trasformazione che mostrano come l’uomo abbia la capacità di progredire spiritualmente, indipendentemente dal proprio passato”. In materia di superamento della cultura dell’indifferenza con la cultura dell’incontro, il cardinale evidenzia che quest’ultima “denuncia l’esclusione e l’isolamento dei poveri e degli emarginati, e promuove l’ospitalità riconoscendo che noi e gli altri condividiamo una comune umanità, indipendentemente dalle differenze etniche, religiose, culturali o socio-economiche”. Il porporato rimarca che la violenza genera solo maggior violenza e crea un circolo vizioso: “In molte parti del mondo, ci sono situazioni politiche che portano a innumerevoli atti di vendetta. Il Ventunesimo Secolo è ancora caratterizzato da conflitti basati sull’identità, legati a identificazioni etniche, culturali e religiose. Ma Buddha e Gesù hanno promosso una cultura della prevenzione, che si rivolge alle radici socio-economiche e politiche di conflitti e tensioni, e cerca di proteggere i più afflitti e vulnerabili; si oppone alle azioni militari offensive indiscriminate; rigetta l’abuso verbale, fisico, sessuale e psicologico; sviluppa relazioni sicure e stabili tra i bambini e i loro genitori; punta a prevenire la violenza contro le donne; salvaguarda l’ambiente, la nostra casa comune; e promuove il dialogo a tutti i livelli per costruire società inclusive”. Le parole di Papa Francesco pronunciate al termine della messa celebrata nella cattedrale di Yangon, “non vorrei andar via senza fare un po’ di chiasso”, sono proprie dei santi.

                                                                    © Nicola Facciolini

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