UTOPIA: COME FAI AD ESSERCI SE NON CI SEI? (Di Aldo Antonelli)

Trovo estremamente significativo che Tommaso Moro nello scrivere il suo romanzo sull’UTOPIA, quello che lo ha reso famoso e della cui pubblicazione quest’anno ricorre il cinquecentesimo anniversario, sia ricorso all’immagine dell’isola. Difatti il titolo originale, in latino, è Libellus vere aureus, nec minus salutaris quam festivus de optimo rei publicae statu, deque nova insula Utopia.

Vi si descrive il viaggio immaginario di Raffaele Itlodeo (Raphael Hythlodaeus nell’originale) in una fittizia “isola-regno”, abitata da una società ideale.

L’isola si basa su una struttura agricola ed è proprio l’agricoltura a fornire i beni utili per industrie, artigianato, ecc. Si produce solo per il consumo e non per il mercato. Oro e argento sono considerati privi di valore e i cittadini non possiedono denaro ma si servono dei magazzini generali secondo le necessità.

Il termine “UTOPIA” è un neologismo coniato da Moro stesso, e presenta un’ambiguità di fondo: “Utopia“, infatti, può essere intesa come la latinizzazione dal greco sia di Εὐτοπεία, frase composta dal prefisso greco ευ– che significa bene e τóπος (tópos), che significa luogo, quindi ottimo luogo, sia di Οὐτοπεία, considerando la U iniziale come la contrazione del greco οὐ (non), che significa non-luogo, luogo inesistente o immaginario. Tuttavia, è molto probabile che quest’ambiguità fosse nelle intenzioni di Moro, e che quindi il significato più corretto del neologismo sia la congiunzione delle due accezioni, ovvero “l’ottimo luogo (non è) in alcun luogo“, che è divenuto anche il significato moderno della parola UTOPIA.

Trovo intrigante e significativa l’immagine dell’isola anche pensando a Josè Saramago, premio Nobel per la letteratura, che nel 1998 scrisse Il racconto dell’isola sconosciuta.

Qui, a dire il vero, si tratta di un’incantevole favola d’amore, magistralmente sospesa tra realtà e sogno.

Da essa, comunque, traggo un dialogo che ci può servire per le nostre riflessioni.

Datemi una barca, disse l’uomo.

-E voi, a che scopo volete una barca, si può sapere, domandò il re.

-Per andare alla ricerca dell’isola sconosciuta, rispose l’uomo.

-Sciocchezze, isole sconosciute non ce ne sono più. Sono tutte sulle carte.

-Sulle carte geografiche ci sono solo le isole conosciute.

-E qual è quest’isola sconosciuta di cui volete andare in cerca.

-Se ve lo potessi dire allora non sarebbe sconosciuta.

Ecco. Partiamo da qui per significare che l’utopia oggi pare un’eresia perché nel mondo regna un’ideologia del presente e dell’evidenza che sembra rendere obsoleti sia le lezioni del passato sia il desiderio d’immaginare un avvenire diverso. È un’ideologia che si esprime in modi diversi, ma che rimane sempre prigioniera della ragion pratica e del discorso ad effetto immediato.

Un degrado che bandisce il sogno e la poesia, l’arte e la cultura, la diversità e la sorpresa, involgarendo il mondo ed appiattendo il suo orizzonte sui bassi latifondi del possesso e del consumo.

Un declivio che parte da lontano e che Ernesto Balducci già nell’anno 1979 denunciava in una delle sue bellissime omelie: «Siamo spettatori di una fase di civiltà in cui tutto consiste nell’assottigliare al massimo lo spessore delle attese umane; nello stabilire una equazione tra le cose che si possono avere e ciò che si deve desiderare, in modo da mutilare l’universo dei desideri che è dentro di noi e da toglierci il senso dell’indigenza dell’esistere». (Il mandorlo e il fuoco; Vol. 2° – p. 328).

Questo è avvenuto, ad opera dei persuasori occulti che oltre a togliere pane e libertà, vogliono strappare anche i sogni.

 

Un Futuro senza speranza

Senza sogni, a tal punto che qualcuno ormai guarda al futuro e ne descrive la fatiscenza come in un finecorsa dopo milioni di anni di storia. Non mi riferisco al libro dell’economista Francis FukujamaThe End of History”. No. Ma ai più recenti testi di Tyler Cowen (The Great Stagnation, 2011) e Robert Gordon (Is the US Growth Over?, 2012), nei quali sostengono che l’innovazione dell’informatica ci porterà alla fine della corsa iniziata 2,5 milioni di anni fa da Homo habilis e che le macchine, essendo ormai in grado di sostituire in toto l’uomo, finiranno per distruggere (stanno già distruggendo) il lavoro e che quindi in futuro vivremo in un mondo di “piena disoccupazione”. «Un mondo – commenta spietatamente Pietro Greco sul numero 13 di Rocca – costituito da una massa sterminata di disoccupati che si aggirano affamati e minacciosi intorno ai castelli feudali dei pochissimi signori dei robot e dell’intelligenza artificiale».

«Viviamo gli anni del serpen­te. – gli fa eco Ezio Mauro su la Repubblica del 30 Giugno – Anni apparentemente post-conflittuali, che non contemplano più ordini, precet­ti, costrizioni e divieti: salvo 1’austerity. Quasi come se la politica avesse delegato alla crisi il controllo spontaneo del sociale, tagli e fratture, disuguaglianze ed esclusioni e se ne volesse lavare le mani, ignorando quel che acca­de sotto di sé perché le basta il sal­do finale, nella nuova meccanica della democrazia dei numeri. Al posto delle ideologie ci sono le emozioni, dove c’erano i valori crescono i sentimenti, spesso nel­la forma del grande risentimen­to collettivo che sta diventando dovunque la cifra del nostro scon­tento, unendo disperazioni indi­viduali, solitudini repubblicane, sedizioni silenziose: e lasciandoci credere che tutto questo è politi­ca».

 

L’Isola che non c’è

In questa umanità desertificata e sterilizzata di ogni sogno e di ogni ardire appare chiaro, allora, perché Tommaso Moro, e con lui tutti i sognatori, parlano e cantano dell’Isola che non c’è…

Ricordate le bellissime parole della canzone di Edoardo Bennato?

«Son d’accordo con voi – non esiste una terra – dove non ci son santi né eroi – e se non ci son ladri – se non c’è mai la guerra – forse è proprio l’Isola – che non c’è… che non c’è…

E non è un’invenzione – e neanche un gioco di parole – se ci credi ti basta perché – poi la strada la trovi da te…

Son d’accordo con voi – niente ladri e gendarmi – ma che razza di isola è?! – Niente odio e violenza, – né soldati né armi – forse è proprio l’Isola che non c’è… che non c’è…

(……)

E ti prendono in giro – se continui a cercarla – ma non darti per vinto perché – chi ci ha già rinunciato – e ti ride alle spalle – forse è ancora più pazzo di te!».

Perché, dunque, l’isola?

Perché l’isola, per essere raggiunta, richiede un cammino. L’isola esige che si abbandoni il continente e che ci si ponga una meta “altra” da raggiungere.

L’isola, prima di esistere, ha bisogno di essere sognata.

E i sogni confliggono con la realtà.

I sogni generano uomini e donne che mal si adattano alla realtà così come essa è.

I sogni partoriscono ribelli.

I sogni sono pericolosi, sono gli incubi dei potenti. Eduardo Galeano nella sua trilogia  “Memoria del Fuoco”, edito dalla Rizzoli, parla di un documento del 1543 nel quale il re di Spagna vieta agli indigeni peruviani di leggere favole e raccontare i loro sogni.

«Coloro che oggi camminano con la testa per aria saranno gli unici ad aver ragione domani», scriveva don Tonuno Bello (Cfr. Ad Abramo e alla sua discendenza; pag.51)

 

Una politica da sogno

Nell’attuale impasse nella quale ci troviamo e che qualcuno ha battezzata con un neologismo molto indicativo, la “Democratura”, è nostra convinzione che non si può far politica senza muoversi, progettare e governare all’interno di un orizzonte utopico.

«Sta sempre dove c’è l’orizzonte, scrive Eduardo Galeano. Mi avvicino di due passi, e lei si allontana di due passi. Cammino dieci passi, e lei si affretta a spostarsi dieci passi più in là. Per quanto continui a camminare, non la raggiungerò mai. A che serve l’Utopia? A questo, a nient’altro che a camminare».

A chiusura di queste considerazioni vogliamo consegnare alle amiche e agli amici lettori di Redié Resch un invito che lo stesso Eduardo Galeano pone a chiusura del suo bellissimo libro “A Testa in giù”, sotto il titolo: “Il diritto al delirio”.

Si era al passaggio tra il secondo e il terzo millennio e scriveva:

«Anche se non possiamo indovinare il tempo che verrà, abbia­mo almeno il diritto di immaginare come vorremmo che fosse.

Nel 1948 e nel 1976 le Nazioni Unite proclamarono estese li­ste di diritti umani; però l’immensa maggioranza dell’umanità ha solo il diritto di vedere, udire e tacere.

Che cosa ne dite di co­minciare a esercitare il mai proclamato diritto di sognare?

Che cosa ne dite di delirare un po’, per un attimo?

Andiamo a fissare gli occhi più in là dell’infamia, per indovinare un altro mondo possibile:

l’aria sarà priva di qualunque veleno che non sia prodotto dal­le paure umane e dalle umane passioni;

per le strade le automobili saranno calpestate dai cani;

la gente non sarà guidata dalla macchina, né programmata dal computer, né comprata dal supermercato, né guardata dal televi­sore;

il televisore smetterà di essere il membro più importante della famiglia e sarà trattato come il ferro da stiro o la lavatrice;

la gente lavorerà per vivere, invece di vivere per lavorare;

si aggiungerà ai codici penali il delitto della stupidità, com­messo da chi vive per avere o per guadagnare, invece di vivere semplicemente per vivere, come l’uccello canta senza sapere di cantare o come il bambino gioca senza sapere di giocare;

in nessun paese verranno arrestati i ragazzi che si rifiutino di fare il servizio militare, bensì quelli che vogliano farlo;

gli economisti non chiameranno livello di vita il livello di consumo, né chiameranno qualità della vita la quantità delle cose;

i cuochi non crederanno che alle aragoste piaccia essere bolli­te vive;

gli storici non crederanno che ai paesi piaccia essere invasi;

i politici non crederanno che ai poveri piaccia mangiare pro­messe;

nessuno morirà di fame, perché nessuno morirà di indige­stione;

i bambini di strada non saranno trattati come spazzatura, per­ché non ci saranno più bambini di strada;

i bambini ricchi non saranno trattati come denaro, perché non ci saranno più bambini ricchi;

l’istruzione non sarà privilegio di coloro che possano pagarla;

la polizia non sarà la maledizione di coloro che non possano comprarla;

la giustizia e la libertà, sorelle siamesi condannate a vivere se­parate, si riuniranno, ben appiccicate, schiena contro schiena;

la Chiesa, inoltre, detterà un altro comandamento, di cui il Si­gnore si era dimenticato: «Amerai la natura di cui fai parte»;

saranno rimboschiti tutti i deserti del mondo e i deserti dell’a­nima;

saremo compatrioti e contemporanei di tutti coloro che abbia­no volontà di giustizia e volontà di bellezza, ovunque siano nati e in qualunque tempo abbiano vissuto, senza che contino nemme­no un po’ le frontiere dello spazio o del tempo;

la perfezione continuerà a essere l’annoiato privilegio degli dei; ma in questo mondo maldestro e fottuto, ogni notte sarà vis­suta come se fosse l’ultima, e ogni giorno sarà vissuto come se fosse il primo».

 

Segue una pagina bianca con queste righe:

L’autore ha finito di scrivere questo libro nell’agosto 1998.

Se volete sapere il seguito, leggete, ascoltate

e guardate le notizie quotidiane.

Noi più che lasciare pagine bianche ci portiamo dentro, scolpito con caratteri di fuoco, il richiamo di Che Guevara: “Sogna e sarai libero nello spirito, lotta e sarai libero nella vita”!

 

 

 

Aldo Antonelli

 

 

 

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