IL MISTERO DEL WARATAH IL PIROSCAFO INGLESE SCOMPARSO CON 211 PASSEGGERI A BORDO

Forse di sbagliato c’era il nome. Waratah. Il fiore rosso australiano che gli aborigeni legano a diverse leggende e che si dice infonda coraggio. Quello che sicuramente non deve essere mancato al capitano Joshua Edward Ilbery nell’assumere il comando di un transatlantico battezzato come in precedenza altre quattro navi colate a picco.  Tra marinai, si sa, fanno presto a correre le superstizioni. Ma a turbare il comandante, che a 69 anni era uno dei più esperti della flotta della Lund Blue Anchor Line ed era prossimo al congedo, potrebbero esserci state però anche questioni più tecniche. Pare infatti che il Waratah, unità a vapore varata a Gasglow il 12 settembre 1908 dalla Barclay, Curle & Company, tendesse a sbandare sulla dritta e fosse piuttosto “ballerina”, sensibile al beccheggio e al rollio come poche. Le sovrastrutture, si diceva fossero troppo massicce, tali da spostare il peso troppo in alto.   La nave, lunga circa 150 metri, quasi 10 mila tonnellate di stazza, cento cabine di prima classe, grandi saloni, lusso anglosassone, era nata per trasportare gli emigranti inglesi tra la Madre Patria e l’Australia. Aveva già coperto la tratta una volta, quello della nostra storia era il suo secondo viaggio. Era salpata da Adelaide il 2 luglio 1909, con 211 passeggeri più 119 membri d’equipaggio, scialuppe per 921anime e un carico di carbone e merci, tra le quali pani di piombo grezzo che erano stati rizzati non al centro ma su un lato della stiva, perché non c’era altro posto. Il che, non aiutava in stabilità. La rotta prevedeva uno scalo a Durban, poi a Città del Capo quindi la traversata fino a Londra. Nella prima sosta sudafricana erano scesi due passeggeri, uno che cercava lavoro a terra e Claude Sawyer, un ingegnere tormentato da un incubo agghiacciante: da quando s’era imbarcato gli appariva nel sonno un guerriero medievale dalla cotta sporca di sangue che emergeva dal mare e chiamava il nome della nave mentre questa si inabissava. Il transatlantico lasciò Durban il 26 luglio, navigando lungo la Transkei Coast, un luogo desolato al largo del quale il mare poteva diventare infernale. Gli ufficiali in plancia il giorno successivo scambiarono segnali con la fregata Clan McIntyre, che era salpata anch’essa da Durban: le due navi restarono in contatto ottico per ore, finché il Waratah accostò a sinistra, aumentò la velocità e sparì. Ma qualcosa inquietò il comandante della fregata, C. G. Phillips. Questi racconterà in seguito, dinnanzi alla commissione d’inchiesta sul naufragio, di aver visto un veliero vecchio stile apparire all’improvviso e dirigersi poi nella stessa direzione del transatlantico. Come il Flying Dutchman, la nave fantasma condannata a doppiare per l’eternità il Capo di Buona Speranza… Un ufficiale di un’altra nave, la Harlow, dirà di aver visto una unità simile al Waratah con un pennacchio di fumo abnorme. E il liner sarebbe stato avvistato anche dall’equipaggio di una terza nave, il Guelph, sempre la sera del 27 luglio… Il giorno seguente fu di tempesta, con raffiche di 50 nodi e onde mostruose. Un caporale dei Cape Mounted Rifles, Joe Conquer, in esercitazione alla foce del fiume Xora, lungo quella costa, testimonierà di aver visto una nave sommersa in pochi minuti da un’onda anomala. Era il Waratah? Una grande tragedia. Il “Titanic australiano”, l’hanno definito. Lo hanno cercato navi militari e cargo, per mesi. Nessuna traccia, nemmeno un corpo, un salvagente. Che era accaduto? Dove era finito il transatlantico? L’ipotesi che sia affondato sotto il colpo di un’onda gigante è la più gettonata, considerato anche i ventilati problemi di stabilità della nave. Ma si è parlato anche di bolle di metano, di gorghi marini, di un’esplosione a bordo. La ricostruzione più suggestiva vuole che sia andato alla deriva verso l’Antartide. Clive Cussler, il celebre scrittore americano, nel suo ultimo libro, “Naufragio” (Longanesi), immagina che sia andato addirittura ad arenarsi in un letto di un fiume del Madagascar, fagocitato da sedimenti e vegetazione e liberato dopo più d’un secolo da un’alluvione che lo avrebbe trasformato in un relitto fantasma alla deriva. Cussler è rimasto affascinato da questa storia, tanto da aver finanziato con la sua società di esplorazioni marine, Numa, le ricerche di Emlyn Brown, un sudafricano ossessionato dal Waratah, che ha speso 22 anni della sua vita per cercare il relitto. Convinto dell’ipotesi dell’onda anomala, si è affidato alla testimonianza di Conquer e al rilevamento di un relitto al largo della foce del fiume Xora da parte di un pilota d’aereo, D. J. Ross: nel 1999 la spedizione definitiva, con un sottomarino della Delta Oceanograpich, a 6 miglia dalla costa, su un fondale di circa cento metri. Ma è stata una sorpresa amara: quella là sotto non era il Waratah, ma il Nailsea Meadow, un’unità silurata da un U-Boot nel 1942. Il mistero del “Titanic australiano” resiste.     

 

( Cicchetti Ivan )

     

 

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