La Dottrina Nucleare Cristiana del Presidente Putin

L’Aquila / La Dottrina Nucleare Cristiana del Presidente Putin al XV Valdai Forum di Sochi (15-18 Ottobre 2018), l’annuale sessione plenaria internazionale. È l’Early Warning Nucleare del Presidente Putin, una delle menti più lucide e illuminate di sempre. Nessuna “minaccia di Putin”, come scrivono i media russofobi occidentali, al solito. Solo un avviso ai naviganti: “Non attaccate la Russia! I Russi non vogliono cambiamenti rivoluzionari, sono stanchi di rivoluzioni. La Russia ha liberato circa il 95% del territorio della Siria e non ha consentito che lo stato crollasse”. La guerra in Siria ha provocato oltre mezzo milione di morti. Dopo sette anni di combattimenti, lo Stato siriano è ancora in piedi. La Repubblica Araba Siriana e i suoi alleati, Russia, Iran e Hezbollah, hanno vinto. Gli eserciti stranieri (gli jihadisti) hanno subìto una cocente sconfitta, però non i loro mandanti: Stati Uniti, Israele, Regno Unito e Francia, Turchia. L’aggressione alla Siria, mascherata dall’espressione “guerra civile”, finirà presto grazie al sistema di automatizzazione Poljana D4M1 per gli S-300 Siriani. Ma nelle terre siriane a Est dell’Eufrate, “gli Usa vogliono creare un quasi-Stato in maniera completamente illegale servendosi dei loro alleati Curdi – rivela il ministro degli Esteri russo Serghiei Lavrov – vogliono crearvi un territorio che sarà la base di un nuovo Stato oppure sarà di nuovo un gioco pericolosissimo con il Kurdistan iracheno, la cosiddetta idea del Grande Kurdistan”. Come espresso nella sua storica intervista sul settimanale Panorama (http://www.ccir.it/ccir/wp-content/uploads/2018/05/2018.05.03-Intervista-Sergey-Lavrov_Panorama.pdf). L’antiterrorismo nella versione Trump rispecchia forse la pericolosa politica bellicista di Israele? Contrariamente alla Siria, che ha ricevuto il sistema S-300 dalla Russia senza dover pagare un centesimo, la Romania, Stato membro della Nato, ha acquistato 7 batterie antiaeree degli Stati Uniti per 3,6 miliardi di euro (roba da Striscia La Notizia e Le Iene). Senza il sistema di automatizzazione della gestione dati. Se scoppiasse una guerra, centinaia di missili Patriot verrebbero lanciati contro obiettivi aerei falsi. Perché la guerra contro la Siria? In contrasto con un’idea diffusa in sette anni di propaganda, la guerra contro la Siria non è una “rivoluzione andata male”. È stata decisa dal Pentagono nel Settembre 2001, è stata a lungo preparata, sebbene abbia incontrato alcuni intoppi. Una guerra preparata per un decennio. In sette anni di guerra, oltre 250.000 combattenti sono arrivati dall’estero per battersi contro la Repubblica Araba Siriana. Dalla Rinascita Europea, mai gli Occidentali avevano fatto ricorso a mercenari su simile scala. Tragedia degna di un colossal cinematografico. Il ministro Lavrov svela il piano degli Usa in Siria: “instaurare in quelle zone autorità alternative agli organi legittimi siriani e favorire attivamente il ritorno dei profughi in quelle terre”. Parlando della presenza illegale del contingente americano di 2mila militari schierati in Siria senza il consenso di Damasco, il Presidente Putin ricorda che “ci sono due modi per correggere la situazione: la prima è che gli Stati Uniti ottengano un mandato dal Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite per la presenza del loro personale militare nel territorio di un paese terzo, in questo caso la Siria, oppure un invito dal governo legittimo della Repubblica Araba Siriana a schierare il contingenti lì”. Putin rivela che “la legge internazionale non prevede altri strumenti per consentire ai paesi di schierare le loro forze militari nel territorio di altre nazioni”, precisando che “dobbiamo perseguire l’obiettivo di non avere forze straniere in Siria, compresa la Russia, se questo fosse richiesto dal governo della Repubblica Araba Siriana”. È ormai chiaro che il progetto iniziale di Stati Uniti, Regno Unito, Israele, Arabia Saudita e Qatar non si realizzerà, così come non si realizzeranno i progetti di Francia e Turchia, due potenze entrate in un secondo tempo nella guerra contro la Siria. Una cosa è certa: la Russia, se aggredita, può affondare tutte le portaerei statunitensi che navigano a Est della Groenlandia. I nuovi missili ipersonici Kh-47M2 Kinzhal e 3M22 Zirkon possono neutralizzare il gruppo navale degli Stati Uniti sullo Stretto di Gibilterra. Il missile Kinzhal ha un’autonomia di 2000 chilometri, una velocità di 12250 km/h e una quota di crociera di 50.000 metri. Il missile Zirkon ha un’autonomia di 1000 km, una velocità di 9800 km/h e una quota di crociera di 40.000 metri. La probabilità di distruggere una portaerei con entrambi i tipi di missili ipersonici, perforandone la difesa aerea, è dell’88%. Ciò significa che su 100 missili ipersonici lanciati, 88 violeranno le difese aeree distruggendo i bersagli. Scacco! La Russia pone fine al monopolio occidentale sul potere. Oggi la Triade Nucleare strategica delle Forze Armate della Federazione Russa può contare anche sul sottomarino nucleare K-433 Svyatoy Georgiy Pobedonosets (https://www.youtube.com/watch?v=euyrvmDueww) il “cavallo di battaglia” del Progetto 667 nella sua classe BDR Kalmar-class (Delta III), in grado di lanciare 16 missili nucleari multitestata su obiettivi indipendenti a oltre 9mila Km di distanza. Il 15 Ottobre 2018 è una data storica sulla faccia della Terra. Perché segna la definitiva vittoria della Russia contro l’Isis nella guerra di liberazione della Siria invasa e occupata da oltre 100mila terroristi tagliagole spediti, in appena tre anni, direttamente al Creatore dalle Forze Aerospaziali russe guidate dal comandante supremo, il Presidente Putin (https://www.youtube.com/watch?v=kYTZgcfgvfU&feature=share) democraticamente eletto. “Se una nazione decidesse di attaccare la Russia con armi nucleari – avverte il Presidente Putin al XV Valdai Club – sarebbe la fine della vita sulla Terra; ma, a differenza degli aggressori ridotti in cenere, i Russi sono sicuri di andare in Paradiso da Martiri. Se ci fosse un attacco nucleare, l’aggressore non avrebbe nemmeno il tempo di pentirsi. I nostri computer dotati di Intelligenza Quantistica – rivela Putin – godono di una visione complessiva del pianeta Terra, sono perfettamente integrati ai nostri sistemi di Early Warning Nucleare, ogni singola arma della Triade Nucleare (Marina, Aviazione, Esercito, Forze Spaziali) è in grado di rispondere a qualsiasi aggressione in brevissimo tempo, calcolando l’esatta traiettoria dell’aggressore (missile o bomba), individuando sia i punti di impatto subìti sia la congrua risposta da offrire verso chi attacca. Ogni singola testata può deciderlo in maniera indipendente, dopo la procedura ufficiale, al mio comando!”. La riapertura delle frontiere siriane con Libano, Israele, Giordania e presto anche con l’Iraq, segna la fine ufficiale del conflitto pianificato dall’Occidente nel “Mediterraneo Allargato”. Tutte le postazioni di confine tra la Repubblica Araba Siriana e il Libano sono già state riaperte. Il 15 Ottobre sono state riattivate anche la postazione di Quneitra con il Golan occupato da Israele e quella di Nassib/Jaber con la Giordania. La riapertura delle frontiere con i Paesi limitrofi, ad eccezione della Turchia, segna la fine delle ostilità internazionali contro la Siria. Soprattutto, dovrebbe permettere di aggirare le “sanzioni”, ossia mettere fine alla guerra economica che nel 2011 spalancò all’Isis l’invasione siriana, e di ripristinare finalmente il commercio nella Regione mediorientale. Analisi della Guerra Siriana. Scenari di catastrofica apocalisse nucleare in Medio Oriente ma anche di pace mondiale. La scelta spetta all’Occidente. In effetti, è tutto sotto tiro, assicura Putin che al Valdai Club parla di tanti altri temi ignorati dai media occidentali, non prima di aver aggiornato gli attenti osservatori sullo status operativo delle superbe armi ipersoniche russe già attive, con un vantaggio di 18-24 mesi sulle nazioni “concorrenti” e delle grandi scoperte russe sulla navigazione e sulle comunicazioni del sistema Avanguard nella sfera di plasma, a temperature superiori ai 2000 gradi Celsius. Che avranno immense ricadute tecnologiche nello sviluppo delle navette spaziali “shuttlecraft” interstellari e trans-atmosferiche già viste in Star Trek, sebbene la russofobia scientifica e tecnologica le nasconda al mondo intero. Vladimir Putin sempre interrogato sull’ipotetico inizio di una guerra nucleare, ribatte: “Non abbiamo nella nostra logica l’uso di armi nucleari come un attacco preventivo. Il nostro concetto è una controffensiva”. Putin sottolinea che la Russia è pronta e userà le armi nucleari solo quando sarà convinta che il potenziale aggressore è il primo a colpire: “l’aggressore dovrebbe sapere che la risposta è inevitabile. Che sarà distrutto”. Il 5 Ottobre 2018, era stato riferito che gli esperti americani hanno valutato le possibilità di successo degli Stati Uniti in una possibile guerra con la Russia e la Cina. Secondo gli analisti, gli Usa non potrebbero reggere a due guerre con potenze di questo livello. Il tema principale di quest’anno al Valdai Forum è stato: “Russia, agenda per il XXI Secolo”. Dell’intervento di Putin, colpisce in particolare il “tono” molto rilassato, a suo agio, nel parlare di tutto con tutti, paziente, spesso sorridente. Un Putin niente affatto di “buon umore” dopo la tragedia di Kerch in Crimea, ma piuttosto con “qualcosa di nuovo” nel tono con cui da Presidente russo parla della politica, sia interna sia estera. È parso a tutti “nuovo” il tono di Putin, se vogliamo, di un leader che comincia a fare dei bilanci, pur sapendo che c’è ancora molto, moltissimo da fare, seppur soddisfatto di quanto realizzato sino ad oggi. Putin si è mostrato cautamente ottimista. Il suo messaggio, in sintesi, è che sulla scena internazionale ci sono tante tensioni, tanti contrasti, ma la Russia è pronta a tornare sulla via del confronto. E Putin crede che questo sarà possibile, che proprio perché la Russia è diventata un attore “scomodo” sulla scena internazionale, sfidando quello che lui chiama “il monopolio”, la presunta “egemonia” americana occidentale, proprio per questo il mondo è e sarà più equilibrato grazie alla Russia. Questo Putin lo rivendica apertamente al XV Valdai Forum, contraddicendo un po’ anche la tesi da cui muove le fila l’incontro, ovvero il rapporto annuale che decreta “il fallimento del multipolarismo”, anche del possibile “bipolarismo Usa-Cina” come quadro di garanzia. Putin crede, invece, che il sistema multipolare non sia affatto morto, anzi: la Russia ha contribuito in questi anni, a suo avviso, a tenerlo in vita e a rilanciarlo. E poi, colpisce la sua dichiarazione d’amore per la Russia. Putin confessa di avere imparato ad amare sempre più il suo Paese negli anni in cui l’ha conosciuto da presidente. “Mi sono convinto della forza della Russia e del suo popolo, della sua saggezza”, dichiara Putin (http://en.kremlin.ru/events/president/news/58848). In Occidente, tra fake news e sconfitte economiche, finanziarie e politico-militari, si affacciano sempre più minacciose le ombre della guerra globale, dell’orrore, della minaccia, della paura, per distrarre i popoli liberi e sovrani. I “mercati” del mondo liberale sembrano pericolosamente annaspare nei propri fallimenti, senza soluzione di continuità, alla ricerca del nemico di turno da abbattere! E poi insegnavano che era il comunismo dopo il nazifascismo, la peggiore minaccia mondiale. No, è il materialismo etico privatistico, il demone da cui difendersi. I fatti di Kerch nella Crimea di Russia, lo dimostrano ampiamente. La globalizzazione del terrore giovanile, è la minaccia numero uno sulla Terra. Oltre alle bombe (https://www.youtube.com/watch?v=QWEvSippTv4), missili nucleari Usa in Italia? Quanto spende l’Italia? La B61-12, la nuova bomba termonucleare Usa che sostituisce la B-61 schierata in Italia e altri Paesi europei, comincerà ad essere prodotta tra meno di un anno. La strategia di demonizzazione della Russia (https://www.youtube.com/watch?v=I6J1bE_BdRE) non funziona tra gli Italiani. “Malgrado oggi restino tante minacce – ricorda Putin – c’è una situazione più equilibrata, perché è stato ripristinato un assetto multipolare, e continueremo su questa strada. Certo, pensavano: meglio andare avanti senza concorrenti. Ma non è bene camminare da soli”. Il rapporto annuale del Valdai Club, intitolato “Vivere in un mondo che sta crollando”, decreta la fine degli equilibri che hanno retto il mondo e garantito la pace dal 1945 e cerca di spiegare perché il pianeta Terra “è scivolato in una chiara, innegabile tendenza a prendere decisioni in modo unilaterale” e quindi “in continua e generale conflittualità”. Il fallimento dell’ordine post-bellico, secondo l’analisi presentata nel primo giorno del meeting annuale del Valdai, “è una diretta conseguenza della vittoria americana nella Guerra Fredda e dell’imposizione delle regole da parte del vincitore: liberalizzazione, crollo delle barriere commerciali e promozione del libero scambio (spinti da internet). Regole che però non sono state accompagnate da una globalizzazione della politica, che hanno creato forti disuguaglianze e hanno finito per essere rifiutate in prima istanza dal Paese che le aveva imposte, ovvero gli Usa”. Conclusione del Valdai Club AD 2018: è impossibile ripristinare l’ordine mondiale emerso dopo il 1945. Questo non significa che bisogna “radere al suolo” l’attuale, traballante ordine. Anzi, convengono gli esperti del Valdai, dobbiamo sperare che non collassi del tutto: “siamo in tempo di domande, non di risposte”. A Mosca si è svolta l’Assemblea Generale di Confindustria Russia che ha visto la partecipazione del ministro dell’Interno italiano e vice primo ministro Matteo Salvini, il quale ha ribadito ancora una volta con determinazione e chiarezza la sua posizione a favore dell’abolizione delle sanzioni, e la volontà di costruire delle relazioni bilaterali ancora più strette tra l’Italia e la Russia. L’Italia ha bisogno di lavorare, e la gente lo sa. Via le sanzioni antirusse! Tel Aviv, Parigi e Ankara sperano però che il presidente Trump perda le elezioni legislative del 6 Novembre 2018 e che venga destituito. Attendono perciò l’esito dello scrutinio prima di prendere decisioni. Nell’ipotesi che Trump vinca le elezioni di mid-term al Congresso, si porrà un altro problema: se gli Occidentali devono rinunciare alla Siria, dove proseguiranno la loro guerra senza fine? Su una cosa tutti gli esperti concordano: la classe dirigente occidentale è talmente presuntuosa e desiderosa di rivincita che non può accettare di essere retrocessa alle spalle delle nuove potenze euroasiatiche. Saggezza vorrebbe che, perduta la guerra, gli aggressori si ritirassero. Ma l’atteggiamento intellettuale degli Occidentali glielo impedisce. La guerra finirà in Siria quando avranno trovato altrove un nuovo osso da rosicchiare (https://www.youtube.com/watch?v=dS_lvqZoqOc). Le relazioni internazionali, dunque, risultano totalmente stravolte, in attesa della tempesta. La strategia di Israele appare rispondente al “piano Yion” del 1982 ovvero a quella dell’Institute for Advanced Strategic and Political Studies del 1995. La strategia di Tel Aviv collima a grandi linee con il “rimodellamento del Medio Oriente Allargato” di Rumsfeld e Cebrowski. Israele ha 400 armi nucleari puntate sull’Iran. Questa dottrina geopolitica è indipendente dagli avvenimenti che le servono da pretesto.

(di Nicola Facciolini)

“Se una nazione decidesse di attaccare la Russia con armi nucleari, sarebbe la fine della vita sulla Terra; ma, a differenza degli aggressori ridotti in cenere, i Russi sono sicuri di andare in Paradiso da Martiri. Se ci fosse un attacco nucleare, l’aggressore non avrebbe nemmeno il tempo di pentirsi” (Vladimir Putin). È l’Early Warning Nucleare del Presidente Putin, una delle menti più lucide e illuminate di sempre. Nessuna “minaccia di Putin”, come scrivono i media russofobi occidentali, al solito. Solo un avviso ai naviganti: “Non attaccate la Russia!”. Come peraltro già espresso dal ministro degli Esteri russo, Lavrov, in una storica intervista su Panorama (http://www.ccir.it/ccir/wp-content/uploads/2018/05/2018.05.03-Intervista-Sergey-Lavrov_Panorama.pdf). La Russia pone fine al monopolio occidentale sul potere. Vladimir Putin interrogato al XV Valdai Forum di Sochi sull’ipotetico inizio di una guerra nucleare, ribatte: “Non abbiamo nella nostra logica l’uso di armi nucleari come un attacco preventivo. Il nostro concetto è una controffensiva”. Putin ha sottolineato che la Russia è pronta e userà le armi nucleari solo quando sarà convinta che il potenziale aggressore è il primo a colpire. “L’aggressore dovrebbe sapere che la risposta è inevitabile. Che sarà distrutto”. Il 5 Ottobre 2018, era stato riferito che gli esperti americani hanno valutato le possibilità di successo degli Stati Uniti in una possibile guerra con la Russia e la Cina. Secondo gli analisti, gli Usa non potrebbero reggere a due guerre con potenze di questo livello. Scacco! Il 15 Ottobre 2018 è una data storica sulla faccia della Terra. Perché segna la definitiva vittoria della Russia contro l’Isis nella guerra di liberazione della Siria invasa e occupata da oltre 100mila terroristi tagliagole spediti, in appena tre anni, direttamente al Creatore dalle Forze Aerospaziali russe guidate dal comandante supremo, il Presidente Putin (https://www.youtube.com/watch?v=kYTZgcfgvfU&feature=share) democraticamente eletto. La riapertura delle frontiere siriane con Libano, Israele, Giordania e presto anche con l’Iraq, segna la fine ufficiale del conflitto pianificato dall’Occidente nel “Mediterraneo Allargato”. Tutte le postazioni di confine tra la Repubblica Araba Siriana e il Libano sono già state riaperte. Il 15 Ottobre sono state riaperte anche la postazione di Quneitra con il Golan occupato da Israele e quella di Nassib/Jaber con la Giordania. La riapertura delle frontiere con i Paesi limitrofi, ad eccezione della Turchia, segna la fine delle ostilità internazionali contro la Siria. Soprattutto, dovrebbe permettere di aggirare le “sanzioni”, ossia mettere fine alla guerra economica che nel 2011 spalancò all’Isis l’invasione siriana, e di ripristinare finalmente il commercio nella Regione mediorientale. Ma il 15 Ottobre segna anche l’annuncio ufficiale della Dottrina Nucleare Cristiana del Presidente Putin, direttamente dal XV Valdai Forum di Sochi (15-18 Ottobre 2018), l’annuale sessione plenaria internazionale che quest’anno celebra il suo quindicesimo anniversario e ha visto la partecipazione di 130 esperti di 33 nazioni. Le parole pronunciate dal Presidente russo sono semplici, pacifiche e di immediata comprensione. Oltre al solito ramoscello di ulivo per la pace mondiale, Putin offre la chiarezza del Popolo russo, l’orgoglio di appartenere a una grande Nazione di nazioni. Un amore per la Russia, privo di ogni sciovinismo nazionalistico. Peraltro impossibile in uno Stato democratico così vasto e variopinto di culture, religioni, tradizioni, saperi e sapori. Grande quanto la superficie del pianeta Plutone, la Russia infatti è impossibile da circondare e invadere, come hanno sperimentato sulla propria pelle i vari Napoleone, Hitler e Mussolini. Altro che “blocco navale” in questi giorni paventato “oltre Oceano” da qualche folle ignorante guerrafondaio! “Se una nazione decide di attaccare la Russia con armi nucleari – avverte il Presidente Putin al XV Valdai Forum –  sarà la fine della vita sulla Terra; ma, a differenza degli aggressori ridotti in cenere, i Russi sono sicuri di andare in Paradiso da Martiri. Ogni aggressore dovrebbe sapere che l’inevitabile conseguenza sarebbe la sua totale distruzione. E dal momento che noi Russi saremo vittime della sua aggressione (Putin sorride con l’uditorio!), noi andremo in Cielo da Martiri. Loro semplicemente periranno, senza neppure il tempo di accorgersene” (https://www.youtube.com/watch?v=kYTZgcfgvfU&feature=share). Putin ricorda che le Forze Nucleari della Federazione Russa non sono predisposte né disegnate per attacchi preventivi, ma sono pienamente efficaci per assicurare la giusta risposta all’aggressione esterna di una nazione straniera. “I nostri computer dotati di Intelligenza Quantistica – rivela Putin – godono di una visione complessiva del pianeta Terra, sono perfettamente integrati ai nostri sistemi di Early Warning Nucleare, ogni singola arma della Triade Nucleare (Marina, Aviazione, Esercito, Forze Spaziali) è in grado di rispondere a qualsiasi aggressione in brevissimo tempo, calcolando l’esatta traiettoria dell’aggressore (missile o bomba), individuando sia i punti di impatto subìti sia la congrua risposta da offrire verso chi attacca. Ogni singola testata può deciderlo in maniera indipendente, dopo la procedura ufficiale, al mio comando!”. In pratica, la Dottrina Nucleare Russa è totalmente diversa da quella “aggressiva” occidentale. La Russia contempla l’uso dell’arma nucleare solo come estrema ratio difensiva anche in un conflitto convenzionale. Ma solo quando aggredita. Cioè quando i computer interpretano l’aggressione esterna come una minaccia diretta all’esistenza stessa della Nazione Russa e dei suoi alleati. Ciò consente alle Forze Nucleari della Russia l’uso di armi tattiche in caso di invasione, anche convenzionale, su larga scala del territorio russo e/o alleato. La Dottrina Nucleare Russa, davvero cristiana, esclude tassativamente l’uso dell’arma nucleare come “primo attacco” (first strike) fin dall’Anno Domini 1993, ossia dall’entrata in vigore dell’attuale Costituzione Federale Russa. Diversamente, gli Usa e gli alleati della Nato, sempre su ordine di Washington e di Bruxelles (Quartier Generale Nato) hanno aggiornato negativamente la loro dottrina che oggi contempla l’uso dell’arma nucleare come risposta a un qualsiasi genere di attacco (anche convenzionale) sugli Usa e i loro alleati, in base dell’Art. 5 del Trattato Nord Atlantico. L’invasione Nato dei Paesi europei già appartenenti all’ex Patto di Varsavia, Baltici compresi, in aperta violazione del Trattato di Non Proliferazione Nucleare sul Teatro Europeo e di ogni accordo ancorché verbale con la Russia, apre le porte dell’inferno agli ignari cittadini del Vecchio Continente, in caso di “Fail Safe” quantistico o di errore umano! Rimangono infatti assai vaghe le esatte circostanze che gli Usa prevedono per giustificare un loro eventuale “first strike” nucleare contro la Russia sulla pelle degli Europei. Giacché l’accerchiamento delle forze nucleari russe da parte della Nato, per contrastare la risposta nucleare del Cremlino, potrebbe benissimo essere interpretato dai computer russi come la fase immediatamente precedente a un attacco preventivo! Putin assicura che i suoi “codici di lancio” sono al sicuro e che giammai la Terza Guerra Mondiale inizierà a causa della Russia. Ma come interpretare la creazione e il dispiegamento di missili “antimissile” Usa in Europa (volgarmente definiti “Euromissili” come già alla fine della Guerra Fredda!) in basi Nato proprio sui confini russi? Tali basi possono essere subito rifornite di vettori nucleari multitestata a medio e corto raggio, senza contare i sottomarini e i bombardieri Usa e alleati sempre più vicini ai Punti di Inizio Attacco. Tutto lascia supporre che la Russia non stia certo a guardare, schierando così le proprie forze nucleari difensive sui suoi immensi confini. In effetti, è tutto sotto tiro, assicura Putin che al Valdai Club parla di tanti altri temi ignorati dai media occidentali, non prima di aver aggiornato gli attenti osservatori sullo status operativo delle superbe armi ipersoniche russe già attive, con un vantaggio di 18-24 mesi sulle nazioni “concorrenti” e delle grandi scoperte russe sulla navigazione e sulle comunicazioni del sistema Avanguard nella sfera di plasma, a temperature superiori ai 2000 gradi Celsius. Che avranno immense ricadute tecnologiche nello sviluppo delle navette spaziali “shuttlecraft” interstellari e trans-atmosferiche già viste in Star Trek, sebbene la russofobia scientifica e tecnologica le nasconda al mondo intero. “Viveva negli Usa e non in Russia, e in questo senso gli Usa hanno una certa responsabilità per quello che gli è successo”. Così Vladimir Putin sul giornalista dissidente saudita Jamal Khashoggi scomparso il 2 Ottobre 2018 dopo essere entrato nel Consolato del suo Paese a Istanbul. “Noi dobbiamo aspettare i risultati delle indagini. In qualche modo la vittima rientrava nell’elite saudita”, riferisce il Presidente russo all’agenzia Askanews che partecipa al XV Valdai Forum. Putin sottolinea che “quello che è successo veramente noi non lo sappiamo. Se verrà chiarito che c’è stato un omicidio allora spero che saranno prese misure, che ci saranno delle condanne. Dobbiamo attendere i risultati dell’autopsia e delle indagini”. Putin invita il Valdai Club a guardate alla Libia: “lo stato ha cessato di esistere e ora singole milizie combattono tra di loro: un disastro totale. Quando dicevo che la Libia è una muraglia che preservava l’Europa dal problema delle migrazioni – incalza Putin ricordando il suo storico discorso del 2015 alle Nazioni Unite – e che avete fatto? L’avete distrutta? L’avete fatto voi, e ora cercate il colpevole”. La crisi libica, secondo Putin, “come quello che abbiamo visto in Iraq, è il risultato di un approccio monopolistico, monocolore, che per fortuna sta tramontando”, da parte dell’Occidente. Le dichiarazioni sulla “ricerca genetica americana in Georgia causano preoccupazioni, tali sviluppi sono molto pericolosi”, avverte Putin. Il 4 Ottobre 2018 il Ministero della Difesa russo ha accusato gli Usa di sviluppo di armi biologiche in Georgia e ha lasciato aperta l’ipotesi che esse vengano prodotte anche in altri laboratori lungo il confine russo e cinese, “modernizzati con fondi del Pentagono”! Chiaramente nulla sui media italiani. Marcello Foa docet. Non finiscono qui le “sorprese” russe del 15esimo incontro annuale del Club internazionale di discussione Valdai, benché concluso sul Mar Nero a Sochi. Ministri russi, diplomatici, analisti, esperti internazionali e giornalisti, hanno discusso apertamente temi di politica estera, economia e cultura nel contesto dell’attuale situazione internazionale. Il tema principale di quest’anno è stato: “Russia, agenda per il XXI Secolo”. Per un giornalista, per un analista e per chi si occupa di Russia, il Valdai Discussion Club è senz’altro una piattaforma unica estremamente valida e preziosa. Perché  si lavora e si discute praticamente 24 ore al giorno. L’agenda è veramente molto ricca. Nella suggestiva Sochi si può riflettere e aggiornarsi non solo con i rappresentanti del Governo russo e con i ministri ma anche con le persone che vengono dagli altri Paesi e percepiscono certi argomenti in modo completamente diverso.  E questo sicuramente è un valore aggiunto di questo Forum che molto spesso viene ingiustamente considerato come una piattaforma filorussa. Certo, si tratta di un Club composto dagli esperti interessati alla Russia, per chi la Russia la vede come un partner di lavoro, ma le critiche e le posizioni “contro”, a Sochi non mancano mai. La 15esima edizione del Valdai Club è tornata a mettere al centro la Russia. Le ultime edizioni del Valdai sono state concentrate sulle nuove dinamiche a livello globale. L’anno scorso il tema era “quale nuovo ordine mondiale” può emergere dagli attuali conflitti. Quest’anno si è parlato sia dell’identità nazionale che si sta ancora formando, sia della cultura e dell’economia, sia naturalmente della politica estera russa, soprattutto in Siria, dove la Russia rivendica una generale stabilizzazione e ora vorrebbe spingere verso il processo politico, puntando sul ritorno dei profughi che, secondo la visione di Mosca, dev’essere accompagnato dalla ricostruzione della Siria. C’è stato un “panel” di alto livello dedicato alla “svolta eurasiatica” che è diventata la scommessa Putiniana in un’epoca di ingiuste sanzioni e movimenti geo-economici alimentati dal rafforzamento cinese sullo scacchiere mondiale. Infatti, non a caso quest’anno al Valdai Forum hanno partecipato tantissimi rappresentati di altissimo livello provenienti dai Paesi asiatici e dalla Cina. Uno di tanti protagonisti del Valdai Forum Ad 2018 è stato Oleg Sirota, imprenditore di 30 anni, un entusiasta del suo lavoro. Produce formaggi semi-stagionati e stagionati nelle vicinanze di Mosca, a Istra. Oleg è diventato al Valdai Club 2018 una sorta di testimonial dell’economia russa in tempo di isolamento dai mercati occidentali. Grazie alle sanzioni introdotte da parte dell’Europa nei confronti della Russia, la sua impresa cresce a ritmi incredibili del 200-300 percento l’anno! Il giovane imprenditore è convinto che in Russia oggi si producano mozzarella e burrata “migliori” che in Italia. Lui, come molti altri uomini d’affari russi, crede che le sanzioni stiano facendo del bene a certe parti dell’economia russa. E sul beneficio dalle sanzioni Oleg ha buoni argomenti: rappresenta il comparto caseario che in effetti lo Stato russo ha deciso di sostenere attivamente dopo il varo delle sanzioni occidentali dal 2014, e relative contro-sanzioni adottate dal governo russo, quelle che per il settore agroalimentare italiano hanno provocato una perdita del 50 percento del proprio export verso la Russia, valutabile in miliardi di euro! All’inizio la tecnologia per produrre era un problema, racconta il giovane imprenditore, “ora è tutto made in Russia, molto è stato copiato e gli occidentali, anche gli italiani si arrabbiano, vanno in tribunale, ma dove trovi di questi tempi un giudice che dia ragione a un imprenditore straniero?”. Ma Oleg non è il solo a credere che le sanzioni stiano facendo bene a certe parti dell’economia russa. O, piuttosto, fanno notare diversi analisti, le misure anti-Putin non hanno l’effetto negativo auspicato o vantato. Secondo Andrey Movchan del Carnegie Center, dal 2014 ad oggi l’economia russa è riuscita in più di un modo a parare l’effetto delle sanzioni (che nel 2017 sono costate alla Russia solo lo 0,32 percento del Pil) e in fin dei conti trarne vantaggio anche politico. Grazie alla politica monetaria ortodossa della Banca Centrale guidata da Elvira Nabiullina, approvata dal Fondo Monetario Internazionale come garanzia di stabilità finanziaria, e all’aumento dei prezzi del petrolio, le riserve russe di valuta estera sono arrivate ad un livello record di circa mille miliardi di dollari: l’equivalente di un terzo del Pil russo, quanto basta a coprire 17 mesi di importazioni. E anche il crollo del valore del Rublo torna utile in termini di bilancio statale, perché a fronte di costanti entrate in dollari dalle esportazioni di idrocarburi, la spesa russa e i relativi progetti sono denominati in Rubli. In più, oltre l’80% dell’economia russa è di proprietà dello Stato oppure controllato da magnati vicini al potere. Quasi il 40% della forza lavoro è impiegato dallo Stato. In pratica, la tenuta dell’economia russa dipende molto meno dall’andamento dei mercati di quanto non sia conseguenza delle politiche ufficiali di redistribuzione delle risorse. Infine, sostiene Movchan, le sanzioni danno a Putin la possibilità di addossare i problemi, o la necessità di prendere decisioni dolorose per la popolazione, alle conseguenze delle sanzioni occidentali. Il dubbio è venuto anche al Wall Street Journal che riflette sulla combinazione di prezzi del petrolio in crescita (+14 percento da Agosto 2018) e svalutazione del Rublo: un binomio che fa aumentare il valore delle entrate da petrolio, gas e materie prima in genere, vendute in dollari, e rimpolpa senza grandi sforzi le casse dello Stato russo. Nel frattempo a Mosca si è svolta l’Assemblea Generale di Confindustria Russia che ha visto la partecipazione del ministro dell’Interno italiano e vice primo ministro Matteo Salvini, il quale ha ribadito ancora una volta con determinazione e chiarezza la sua posizione a favore dell’abolizione delle sanzioni, e la volontà di costruire delle relazioni bilaterali ancora più strette tra l’Italia e la Russia. La visita di Matteo Salvini fa da trait-d’union tra l’incontro del ministro degli Esteri Enzo Moavero Milanesi con il suo collega russo Sergey Lavrov, e la visita del premier Giuseppe Conte del 24 Ottobre 2018 al Cremlino. L’inusuale trasferta russa del ministro dell’Interno italiano che non ha incontrato il suo omologo russo Vladimir Kolokoltsev, ma si è recato a Mosca specificatamente per parlare con gli imprenditori italiani in Russia, i quali rappresentano quasi 500 aziende operanti sul mercato russo, è stata notata. Secondo John Motta, vice presidente di Confindustria Russia, impegnata nella promozione delle attività di aziende italiane in Russia, le strategie che queste ultime dovrebbero adottare in un contesto sanzionatorio russo e il ruolo dell’Italia e del governo italiano nella possibile abolizione delle sanzioni, giocano positivamente a favore di più stretti autonomi rapporti italo-russi. “Confindustria Russia, fondata su impulso del capo dell’ufficio di rappresentanza di ENI in Russia Ernesto Ferlenghi, dal momento della sua fondazione due anni fa – osserva John Motta – ha raggiunto obiettivi importantissimi come questa Assemblea che si tiene alla presenza di moltissimi ospiti tra cui Simone Moro, alpinista di fama mondiale che ci parla delle sue relazioni con la Russia e con gli scalatori russi. Chiaramente ci sono ospiti di carattere politico, infatti abbiamo  l’onore di avere il vicepremier Matteo Salvini il quale si è sempre dimostrato disponibile ad ascoltare le richieste degli imprenditori, non solo in Russia, ma degli imprenditori italiani in tutto il mondo. Ci auguriamo che lavorando nell’ambito delle aziende italiane in Russia, ci sarà un ammorbidimento delle sanzioni e delle contro-sanzioni, con l’obiettivo di riempire di nuovo quel gap formatosi sulla bilancia commerciale con la Russia da diversi anni. Riteniamo che il modello di business, e soprattutto il modello di export com’era stato inteso in passato, dovrebbe essere completamente rivisto in virtù dei dati della bilancia commerciale che vedono una perdita netta di diversi miliardi negli ultimi 4 anni. Gli strumenti giusti da adoperare sono certamente quelli che vanno in direzione di una strutturazione di succursali italiane sul territorio russo. Non sto parlando di delocalizzazione, cosa che di solito in Italia spaventa non solo i sindacati ma anche i lavoratori. Servono più strumenti di supporto per le medie e piccole imprese che hanno intenzione di strutturare delle attività sul territorio russo. Noi in questo caso la vediamo sul fronte italiano. Noi guardiamo alle necessità che possono avere le medie e le piccole imprese in Italia e certamente al supporto per aprire delle succursali delle filiali all’estero, questo perché la Federazione Russa con i decreti federali, ora con quello specifico entrato in vigore dal 1° Gennaio 2017, il Decreto Federale 925, stabilisce – ricorda John Motta – che negli appalti pubblici il governo russo favorisce società di diritto russo e soprattutto produzioni locali. Quindi noi riteniamo che la chiave per recuperare il gap perso in questi 4 anni sia cercare di dare attraverso il governo, ed è quello che chiediamo oggi anche al ministro Salvini, maggiore sostegno alle aziende, soprattutto alle piccole e medie imprese, a strutturare delle succursali, delle filiali all’estero. Perché di solito, a differenza delle grandi aziende che possono autonomamente stipulare contratti di alto livello e chiudere dei contratti altrettanto importanti, le aziende medio piccole fanno persino fatica ad aprire uffici commerciali dove tenere del personale per promuovere le proprie attività e i propri servizi e, secondo noi, con un sostanziale aiuto da parte del governo per cercare di espandersi in Russia, potremmo sicuramente riempire il gap formatosi in questi ultimi quattro anni. Dunque, chiunque dichiarerà al Consiglio Europeo che si debba andare verso un superamento delle sanzioni, creerebbe senza dubbio un precedente per scardinare questo tipo di politiche, non solo l’Italia, ma serviranno anche altri Paesi. L’importante è che si capisca che le sanzioni non hanno raggiunto l’obiettivo per cui sono state imposte. Questa è la cosa più importante. Vanno ripensate. Per noi manager sono solo un ostacolo, e allo stesso livello le contro sanzioni imposte dalla Russia. Penso che l’Italia possa giocare un ruolo importante, ma senza una maggioranza qualificata non potremo superare questa impasse. Vediamo che è rinato un interesse per la Russia e ci fa molto piacere. Sicuramente si andrà nella direzione già intrapresa dal ministro Salvini, ovvero cercare di trovare degli strumenti per ridare fiato alla bilancia commerciale italiana che è drammaticamente in perdita netta. Credo che tutti i viaggi di tutti gli esponenti del governo italiano vadano in questa direzione. L’Italia ha bisogno di lavorare, e la gente lo sa. Mi rendo conto – rileva John Motta – che la geopolitica possa influenzare anche l’economia, ma in questo momento riteniamo che con i nostri partner russi vada riallacciato un rapporto più stretto che si muova in una direzione alternativa rispetto a quella mantenuta dal governo italiano negli ultimi cinque anni”. Dell’intervento di Putin al XV Valdai Club, colpisce in particolare il “tono” molto rilassato, a suo agio, nel parlare di tutto con tutti, paziente, spesso sorridente. Un Putin niente affatto di “buon umore” dopo la tragedia di Kerch in Crimea, ma piuttosto con “qualcosa di nuovo” nel tono con cui da Presidente russo parla della politica, sia interna sia estera. È parso a tutti “nuovo” il tono di Putin, se vogliamo, di un leader che comincia a fare dei bilanci, pur sapendo che c’è ancora molto, moltissimo da fare, seppur soddisfatto di quanto realizzato sino ad oggi. Putin si è mostrato cautamente ottimista. Il suo messaggio, in sintesi, è che sulla scena internazionale ci sono tante tensioni, tanti contrasti, ma la Russia è pronta a tornare sulla via del confronto. E Putin crede che questo sarà possibile, che proprio perché la Russia è diventata un attore “scomodo” sulla scena internazionale, sfidando quello che lui chiama “il monopolio”, la presunta “egemonia” americana occidentale, proprio per questo il mondo è e sarà più equilibrato grazie alla Russia. Questo Putin lo rivendica apertamente al XV Valdai Forum, contraddicendo un po’ anche la tesi da cui muove le fila l’incontro, ovvero il rapporto annuale che decreta “il fallimento del multipolarismo”, anche del possibile “bipolarismo Usa-Cina” come quadro di garanzia. Putin crede, invece, che il sistema multipolare non sia affatto morto, anzi: la Russia ha contribuito in questi anni, a suo avviso, a tenerlo in vita e a rilanciarlo. E poi, colpisce la sua dichiarazione d’amore per la Russia. Putin confessa di avere imparato ad amare sempre più il suo Paese negli anni in cui l’ha conosciuto da presidente. “Mi sono convinto della forza della Russia e del suo popolo, della sua saggezza”, dichiara Putin (http://en.kremlin.ru/events/president/news/58848). Si sente dalla parte giusta della Storia, il Presidente Vladimir Putin, convinto che il futuro gli darà ragione su tutto. Sulla Siria, sul conflitto in Ucraina in Europa, sugli armamenti e sull’economia, ma anche sulla globalizzazione e i suoi evidenti limiti. E, puntando il dito contro la globalizzazione chiamata in causa per la strage nel Politecnico di Kerch (città di 135mila abitanti) nella Crimea di Russia, il Presidente Putin inizia il suo intervento al XV Valdai Club di Sochi. “La tragedia a Kerch è il risultato della globalizzazione, per quanto possa sembrare strano – rivela il Presidente del Cremlino di Mosca – quello che è accaduto significa che non sappiamo reagire, che non diamo ai giovani quello che è giusto e positivo e loro finiscono per cercare di essere eroi in questo modo”. Invece, l’eroismo per Putin parte dalla “difesa della società dalle sue stesse vulnerabilità, ma questo lo si può fare assieme, se si uniscono le forze, purtroppo non lo abbiamo saputo fare”. Dopo la strage in stile “Columbine” in una scuola della Crimea, penisola annessa dalla Russia nel 2014 dopo regolare Referendum popolare, dove un 18enne ha aperto il fuoco, uccidendo 21 persone prima di suicidarsi, Putin punta il dito sulla globalizzazione selvaggia. “Sui Social media, su internet, vediamo che è stata creata un’intera comunità. Tutto è cominciato con i tragici eventi nelle scuole negli Stati Uniti. Ciò significa che tutti noi, non solo in Russia, ma in tutto il mondo, stiamo reagendo male alle mutate condizioni nel mondo. Significa che non stiamo creando il contenuto interessante necessario per i giovani”. Rilassato, paziente, spesso sorridente, Putin trascorre due ore e mezza a rispondere alle domande di analisti, politici, accademici del meeting annuale del Valdai Club. Critica a più riprese “l’Occidente che si accanisce con i suoi due pesi due misure contro la Russia”, ma senza i toni aggressivi dipinti sempre dai media occidentali e che a volte caratterizzano molti dei suoi interventi in passato, ma sempre a fini di bene verso chi non vuole ascoltare. Quasi un discorso-bilancio, un vademecum per l’inizio del suo ultimo mandato al Cremlino, convinto di essere ad oggi riuscito non solo a rilanciare il ruolo della Russia sulla scena internazionale, ma di aver posto le basi per una correzione della brutta piega dell’ordine mondiale, che continuerà a portare frutti. “Malgrado oggi restino tante minacce – ricorda Putin – c’è una situazione più equilibrata, perché è stato ripristinato un assetto multipolare, e continueremo su questa strada. Certo, pensavano: meglio andare avanti senza concorrenti. Ma non è bene camminare da soli”. Ne ha per tutti. “Non è vero che Trump non ascolta, può darsi che con qualcuno lo faccia, ma tra noi c’è un dialogo professionale. Su certe cose abbiamo diversi punti di vista e approcci, è normale. I nostri incontri, direi, sono più positivi che negativi, anche se non penso che le cose siano migliorate sul fronte interno (Usa) dai nostri incontri. Non temiamo nessun conflitto. Noi non abbiamo paura di nulla. Con un territorio del genere, un popolo del genere di cosa dovremmo avere paura? Come sempre, come da sempre, difendiamo la nostra sovranità e il nostro territorio. Sono io – precisa Putin – il primo nazionalista in Russia, ma non dobbiamo rafforzare il nazionalismo delle caverne, perché distruggerebbe il Paese. La Russia, da sempre, dall’inizio, dai suoi primi passi si è formata come stato multinazionale e oggi è solida proprio per questo. Preservare la Russia in tale assetto è nell’interesse di questo Paese: il nazionalismo da caverna, quello cieco, distruggerebbe la Russia. È in corso un re-indirizzamento dei flussi commerciali della Russia, ora con l’Europa abbiamo il 40% dei nostri scambi e con l’Asia già il 30%”. La de-dollarizzazione? “Non lo dico solo io. Si sta progressivamente passando alle valute nazionali in vari ambiti. Non accadrà oggi o domani, ma saranno creati questi meccanismi (di garanzia contro la volatilità) e ci sarà un allontanamento dal dollaro, allora per il dollaro arriveranno tempi duri”. Sulla russofobia occidentale alimentata dalle fake news. “Il miglior modo per normalizzare le relazioni tra Kiev e il Donbass è applicare gli accordi di Minsk, ma oggi è chiaro che le autorità ucraine non hanno intenzione di rispettare questi accordi. Perché mai i nostri partner occidentali dovevano spingere così tanto per fare entrare l’Ucraina nell’accordo commerciale con la Ue? Con cosa fanno commercio oggi? Russofobia e paure, non resta altro. Che la gente desideri dei cambiamenti mi pare assolutamente normale, forse in Germania non c’è richiesta di cambiamento? Guardate i risultati in Baviera e vi sarà tutto chiaro. Quello che conta è che i Russi non vogliono cambiamenti rivoluzionari, sono stanchi di rivoluzioni. Il mio amore per la Russia è enormemente cresciuto in questi anni, non la conoscevo come poi ho imparato a conoscerla dopo il mio arrivo a Mosca, capirete: avevo passato 20 anni nei servizi. Mi sono convinto della forza della Russia e del suo popolo, della sua saggezza”. Al Valdai Forum giungono anche notizie preoccupanti. I terroristi dell’Isis hanno preso qualcosa come 700 ostaggi in Siria, sul versante Ovest dell’Eufrate, hanno lanciato un ultimatum e hanno già iniziato ad uccidere le persone fatte prigioniere: “Non credo che la cosa sia nota – dichiara Putin – ma l’altro giorno ne hanno fucilate una decina, sappiamo che ci sono anche ostaggi americani ed europei. Non si sa bene cosa stia accadendo sulla riva occidentale dell’Eufrate, nell’area controllata dagli Usa, qualcosa chiaramente non è andato come volevano gli americani”. Secondo Putin, l’Isis ha preso in ostaggio 130 famiglie, ovvero 700 persone e minaccia di uccidere tutti, al ritmo di 10 persone al giorno, se non saranno esaudite le richieste dei miliziani jihadisti. In particolare, i terroristi chiedono alla popolazione locale di etnia Curda, di liberare tutti i compagni di lotta e vogliono il controllo di nuove zone di territorio ad Ovest dell’Eufrate. Sono i frutti amari della mancata collaborazione con la Russia. La Cina apprezza molto la posizione di Vladimir Putin sul progetto cinese della “Nuova via della seta”, dichiara il rappresentante ufficiale del Ministero degli esteri cinese, Lu Kang. Il Presidente russo sostiene che l’iniziativa della “Nuova via della seta cinese” sta diventando sempre più rilevante, data la situazione nell’economia globale. Inoltre, Mosca accoglie con favore la partecipazione di Pechino allo sviluppo della rotta del Mare del Nord. Lu Kang osserva che la Russia rimane un partner importante nella realizzazione di questo progetto. La Cina è pronta a collaborare per “trasformare l’iniziativa Nuova via della seta in un canale importante per stimolare la cooperazione economica internazionale e la crescita dell’economia globale”. Il Politburo cinese (Pcc) è venuto ad apporre il sigillo all’alleanza russo-cinese al Valdai Club, il forum geopolitico che ha anticipato anni fa l’inevitabile svolta verso Est, consacrata poi nel BRICS, di una Russia che doveva capitalizzare sul crescente “isolamento” russofobico dell’Ovest. “Per la Cina la Russia è un partner cruciale e mai, nella loro storia, Cina e Russia hanno cooperato a livello regionale e globale come stanno facendo da anni, con la Russia abbiamo già conseguito molti successi in termini di concreta cooperazione pratica”, dichiara Yang Jiechi, membro del Comitato Centrale del Partito comunista cinese e Direttore dell’Ufficio della Commissione Esteri del Pcc, citando la Corea del Nord e la lotta al terrorismo in particolare. E lasciando intendere che l’unione nata come matrimonio di comodo, sulle basi di reciproci interessi di fornitore e cliente energetico, si sta strutturando e sarà più dell’interludio che vari analisti, allo stesso Valdai, ipotizzavano tempo fa. “È stato compiuto un grande passo nella cooperazione regionale e la Cina continuerà a lavorare con la Russia, per costruire un ponte tra le civiltà, a fronte di sfide sempre più complicate da affrontare”, rivela Yang, esponente della “nuova leva” del Politburo, alimentata soprattutto da diplomatici. “La Cina è contro l’approccio che mira a imporre la propria sicurezza a scapito degli altri, ogni popolo ha il diritto di scegliere il proprio modello di sviluppo, dobbiamo respingere la retorica della promozione dei singoli interessi”. L’arrivo di Yang Jiechi al Valdai riunito a Sochi nei giorni scorsi, accompagna il dibattito sulla svolta verso Est della Russia di Putin, che il presidente della Commissione Istruzione e Scienza della Duma, molto ascoltata in politica estera, Vjaceslav Nikonov, preferisce descrivere come “un ragionevole avvicinamento a chi è pronto a cooperare con Mosca”. Un avvicinamento partito nell’Anno Domini 2013, “in piena guerra fredda con l’Occidente – sottolinea Sergey Karaganov, teorico con le parole del filosofo Alexander Dugin, della via eurasiatica per la Russia – ora abbiamo raggiunto un traguardo, probabilmente tra 10-15 anni ci incontreremo di nuovo con l’Europa, ma l’Europa non sarà più quella di 10-15 anni prima”. Alla plenaria del Valdai, poche ore dopo l’intervento di Yang Jiechi, Vladimir Putin conferma che le cose con Pechino vanno a gonfie vele, sottolineando che “la Russia ha oggi il 40 percento dei suoi scambi commerciali con la Ue e con l’Asia siamo già al 30 percento, per ora”. L’interscambio tra Cina e Russia, non altissimo, sta sensibilmente accelerando: quasi 50 miliardi di dollari (49,97) nel primo semestre del 2018, con una crescita del 30,18% su base annua, il maggiore aumento tra tutti partner commerciali cinesi, e il superamento dei 100 miliardi di dollari in vista per la fine dell’anno. Mosca è intanto diventata il nono partner commerciale per la Cina, dall’undicesimo posto che deteneva ancora lo scorso anno. Nel 2017, gli investimenti diretti cinesi in Russia hanno fatto un balzo del 72%, a 2,2 miliardi di dollari. E ancora: a Maggio 2018, Pechino ha firmato con l’Unione Economica Eurasiatica (Russia, Kazakistan, Bielorussia, Armenia, Kirghizistan) un accordo per la semplificazione delle procedure doganali. E la nuova coppia russo-cinese si cimenta in progetti congiunti per “regioni ed aree ad alto potenziale di crescita” come il Lontano Oriente Russo e l’Artico, che si aggiungono a programmi di cooperazione per lo sviluppo delle regioni del fiume Yangtze in Cina e del Volga in Russia. “Il vecchio ordine mondiale è morto, uno nuovo, ancora, non c’è”. Il rapporto annuale del Valdai Club, intitolato “Vivere in un mondo che sta crollando”, decreta la fine degli equilibri che hanno retto il mondo e garantito la pace dal 1945 e cerca di spiegare perché il pianeta Terra “è scivolato in una chiara, innegabile tendenza a prendere decisioni in modo unilaterale” e quindi “in continua e generale conflittualità”. Il fallimento dell’ordine post-bellico, secondo l’analisi presentata nel primo giorno del meeting annuale del Valdai, “è una diretta conseguenza della vittoria americana nella Guerra Fredda e dell’imposizione delle regole da parte del vincitore: liberalizzazione, crollo delle barriere commerciali e promozione del libero scambio (spinti da internet). Regole che però non sono state accompagnate da una globalizzazione della politica, che hanno creato forti disuguaglianze e hanno finito per essere rifiutate in prima istanza dal Paese che le aveva imposte, ovvero gli Usa. Gli Stati stanno diventano sempre più egoisti e concentrati a risolvere i loro problemi, alimentati dalla complessità del mondo – osservano gli esperti del Valdai Club – ma proprio la molteplicità di conflitti e interessi rende impossibile trovare una forma di equilibrio. La buona notizia è che oggi, contrariamente a quanto avveniva nell’Europa in rovine del 1918, nessuno considera la guerra un modo appropriato per risolvere le crisi. Anche perché non c’è un chiaro “noi” e “loro” da contrapporre, in un quadro continuamente ribaltato da eventi imprevedibili, che siano la Brexit, l’elezione di Trump, la crisi ucraina o le Primavere arabe. Il paradigma globale oggi è caratterizzato dalla mutevolezza, dalla fluidità e nessuno può prevedere con ragionevole certezza se l’Occidente resterà dominante, se ci sarà una fusion con l’Est, se l’Asia sarà l’area geopolitica trainante”. Se nei precedenti rapporti la riflessione del Valdai Forum puntava a una sorta di nuova bipolarità, un equilibrio da trovare tra sfere di influenze Usa e cinese, ora si prefigura piuttosto “un mondo senza poli, un ordine caotico in rapido cambiamento, una guerra di tutti contro tutti” che porterà al collasso delle istituzioni tradizionali e imporrà un “totale reset istituzionale, dell’autorità, dei metodi di produzione e delle relazioni internazionali”. In questo quadro confuso, “gli Usa stanno deliberatamente smantellando l’ordine esistente”, mentre la Cina cerca di preservarlo. Se la pace globale oggi “è data per scontata”, la guerra si fa asimmetrica, non dichiarata, e non si tratta solo di cyberwar o dei tentativi di manipolazione dei processi politici. Si combatte per il primato nella trasmissione dei dati, per la restrizione dell’accesso ai mercati finanziari, per la digitalizzazione e la robotica. Gli strateghi militari e i governi si tengono pronti a un potenziale conflitto militare, ma per distruggere le infrastrutture digitali e i sistemi di controllo. “Senza particolare soddisfazione, constatiamo che il momento dell’equilibrio possibile è passato. Non è del tutto scaduto il tempo degli sforzi congiunti, ma non ci sono stati i risultati sperati”, spiega Fyodor Lukianov, Direttore per la ricerca alla Fondazione per lo Sviluppo del Valdai Club, uno degli autori del rapporto. In un mondo interdipendente e suo malgrado bisognoso di “global commons” che scompaiono, divergenze e conflitti si riversano sul fronte interno dei vari Stati, conseguenza generalizzata dell’allontanamento tra élites e società. Questo ha portato in Occidente alla vittoria di forze non sistemiche, più spesso assimilabili alla destra. La percezione delle migrazioni globali come minaccia, che rivela come tutti siano in teoria d’accordo sull’equo accesso alle risorse per tutti, ma nessuno sia pronto ad agire di conseguenza, pone la questione dell’identità e la domanda madre di tutti gli estremismi: chi è migliore tra me e te? Nel Consiglio di Sicurezza di una Onu a sua volta in transizione verso meccanismi ancora sconosciuti, siedono “la Russia che ha posto fine al monopolio occidentale sul potere”, alimentando la volatilità nella relazioni di potere, gli Usa intenti a “trasformare il sistema di relazioni nell’economia mondiale e nei suoi singoli settori”, la Cina che si espande “offrendo un percorso alternativo di sviluppo” a chi voglia seguirla, la Germania che “sta attivamente contribuendo a deformare il sistema politico europeo, prima basato sul principio di eguaglianza sovrana”. Fuori dal club ristretto, l’India “in ascesa, che sta completamente ridisegnando la geopolitica asiatica e di conseguenza mondiale”. Per gli analisti del Valdai, “i cambiamenti in corso porteranno ad un mondo molto diverso entro la metà del XXI Secolo” e il processo più importante che si sta affermando è la “nazionalizzazione delle decisioni”, la crescente tendenza a “rispondere a problemi globali con formule nazionali”. Dato che qualsiasi decisione autonoma ha conseguenze sul resto del mondo, “gli stati punteranno sempre di più ad obiettivi tattici”, piuttosto che ad alleanze o sistemi stabili. E questo farà aumentare il peso di potenze medie regionali: Turchia, Pakistan, Arabia Saudita. Non ci sarà più “una parte giusta della storia” su cui tentare di posizionarsi. Il mondo che sta emergendo sarà privo di un “senso etico universale” e sarà impossibile rivendicare “una nozione comune di ciò che è buono o cattivo” per un singolo Paese. Così, salvo svolte radicali e poco ipotizzabili, l’Onu nel giro di 15-30 anni da strumento di governance globale sarà ridotto a una serie di agenzie incaricate di gestire problemi che gli Stati non vogliono affrontare. Conclusione del Valdai Club AD 2018: è impossibile ripristinare l’ordine mondiale emerso dopo il 1945. Questo non significa che bisogna “radere al suolo” l’attuale, traballante ordine. Anzi, convengono gli esperti del Valdai, dobbiamo sperare che non collassi del tutto: “siamo in tempo di domande, non di risposte”. La Russia ha bloccato l’offensiva su Idlib, l’ultima provincia siriana controllata dall’opposizione, ma “bisogna risolvere il problema degli irriducibili”, dei gruppi radicali che “bisognerà eliminare: non c’è alternativa”: al meeting annuale del Valdai Club, a Sochi, il conflitto siriano ha monopolizzato la scena di un dibattito dedicato al ruolo della Russia in Medio Oriente. Ad annunciare una prossima resa dei conti per Idlib è Vitalij Naumkin, Direttore scientifico dell’Istituto Studi Orientali dell’Accademia delle Scienze russa, consigliere molto ascoltato dai vertici russi per la Siria. Per Naumkin, il presidente Vladimir Putin ha “fatto benissimo a frenare su Idlib, le conseguenze di un attacco frontale sarebbero state terribili dal punto di vista umanitario” e “l’intesa con la Turchia è di per sè un grande successo”. Ma le zone di de-escalation, le aree smilitarizzate concordate con Ankara sono necessariamente temporanee” e bisogna attendersi “abbastanza presto degli attacchi mirati”. La Russia rivendica una generale stabilizzazione in Siria e ora vorrebbe spingere l’acceleratore sul processo politico, a partire da una nuova Costituzione, e sul ritorno dei profughi che nei piani di Mosca deve essere accompagnato dalla ricostruzione. Un’opera immane, per cui il Cremlino vorrebbe coinvolgere la Comunità internazionale, dall’Europa agli Usa. “Servono enormi fondi per la ricostruzione della Siria, centinaia di miliardi di dollari, dobbiamo farlo assieme”, esorta un alto funzionario della Difesa russa, al Valdai Club. Se nella provincia di Idlib sono stati portati 42mila miliziani, molti gruppi estremisti come Hayet Tahrir Al Sham che non si sta arrendendo, nelle cosiddette zone di “de-escalation” secondo i dati russi si trovano oltre 170mila profughi, a fronte di 100mila che sono già rientrati. Gli altri, milioni di Siriani, sono tra Turchia, Giordania, Iraq e in molti Paesi della Ue. Quasi 4.000 in Italia. “Almeno 1,7 milioni di profughi Siriani vogliono tornare, certo non possiamo portarli indietro così, nel nulla, dobbiamo aiutare, mettere a disposizione infrastrutture, garantire una quotidianità funzionante – spiegano i vertici della Difesa russa – ci sembra che sarebbe buona cosa soprattutto per i Paesi dove sono arrivati più profughi dalla Siria, potrebbero investire per farli tornare, naturalmente su base volontaria: chiediamo a tutti di aiutare contribuire”. Putin ricorda al XV Valdai Club che “la Russia ha liberato circa il 95% del territorio della Siria e non ha consentito che lo stato crollasse”. Quanto alla zona smilitarizzata di Idlib, Putin ringrazia “i colleghi turchi per l’assistenza nel regolare la situazione”, sottolineando che “eseguono i propri obblighi, anche se talora è complicato”. Ma in Occidente, tra fake news e sconfitte economiche, finanziarie e politico-militari, si affacciano sempre più minacciose le ombre della guerra globale, dell’orrore, della minaccia, della paura, per distrarre i popoli liberi e sovrani come l’Italia. I “mercati” del mondo liberale sembrano pericolosamente annaspare nei propri fallimenti, senza soluzione di continuità, alla ricerca del nemico di turno da abbattere! E poi, a scuola e all’università, insegnavano che era il comunismo, dopo il nazifascismo, la peggiore minaccia alla pace mondiale. No, è il materialismo etico privatistico, il demone da cui difendersi. I fatti di Kerch nella Crimea di Russia, lo dimostrano ampiamente. La globalizzazione del terrore giovanile, è la minaccia numero uno sulla faccia della Terra. Oltre alle bombe (https://www.youtube.com/watch?v=QWEvSippTv4), missili nucleari Usa in Italia? Quanto spende l’Italia? “Come si temeva, l’abbandono di fatto del Trattato INF, concluso da Washington e Mosca alla fine della guerra fredda, rilancia la corsa agli armamenti. Questa volta però – avverte Manlio Dinucci – la situazione è ancora più complicata perché gli Stati Uniti hanno violato per primi il Trattato, così come violano il Trattato di non proliferazione, e la Russia ha con discrezione guadagnato terreno sul piano tecnologico, fingendo di non occuparsi del problema. La B61-12, la nuova bomba nucleare Usa che sostituisce la B-61 schierata in Italia e altri Paesi europei, comincerà ad essere prodotta tra meno di un anno. Lo annuncia ufficialmente la National Nuclear Security Administration (NNSA). Essa informa che, conclusasi con successo la revisione del progetto finale, questo mese cominciano al Pantex Plant in Texas le attività di qualificazione della produzione, la quale sarà autorizzata a iniziare nel Settembre 2019. Nel Marzo 2020 entrerà in funzione la prima unità di produzione, ossia comincerà la produzione in serie di 500 bombe. Da quel momento, ossia tra circa un anno e mezzo, gli Stati uniti cominceranno a schierare in Italia, Germania, Belgio, Olanda e probabilmente in altri Paesi europei, in funzione anti-Russia, la prima bomba nucleare a guida di precisione del loro arsenale –  spiega Dinucci – dotata di capacità penetrante per esplodere sottoterra così da distruggere i bunker dei centri di comando. Poiché l’Italia e gli altri Paesi, violando il Trattato di non proliferazione, mettono a disposizione degli Usa sia basi sia piloti e aerei per lo schieramento della B61-12, l’Europa sarà esposta a maggiore rischio quale prima linea del crescente confronto nucleare con la Russia. Si prospetta allo stesso tempo una situazione ancora più pericolosa: il ritorno degli Euromissili, ossia di missili nucleari analoghi a quelli schierati negli Anni Ottanta dagli Stati uniti in Europa (anche in Italia) con la motivazione ufficiale di difenderla da quelli sovietici. Questa categoria di missili nucleari a gittata intermedia (tra 500 e 5500 km) con base a terra, fu eliminata col Trattato INF del 1987. Nel 2014, però, l’amministrazione Obama ha accusato la Russia di aver sperimentato un missile da crociera (sigla 9M729) della categoria proibita dal Trattato. Mosca nega che questo missile violi il Trattato INF e, a sua volta, accusa Washington di aver installato in Polonia e Romania rampe di lancio di missili intercettori (quelli dello «scudo») che possono essere usate per lanciare missili da crociera a testata nucleare. L’accusa fatta da Washington a Mosca, non sostenuta da alcuna prova, ha permesso agli Stati Uniti di varare un piano mirante a schierare di nuovo in Europa missili nucleari a raggio intermedio con base a terra. Già l’amministrazione Obama aveva annunciato nel 2015 che «di fronte alla violazione del Trattato INF da parte della Russia, gli Stati Uniti stanno considerando lo spiegamento in Europa di missili con base a terra». Il piano è stato confermato dall’amministrazione Trump: nell’anno fiscale 2018 il Congresso degli Stati Uniti ha autorizzato il finanziamento di «un programma di ricerca e sviluppo di un missile da crociera lanciato da terra da piattaforma mobile su strada». Il piano viene sostenuto dagli alleati europei della NATO. Il recente Consiglio Nord Atlantico a livello di ministri della Difesa, cui ha partecipato per l’Italia Elisabetta Trenta (M5S) ha dichiarato che «il Trattato INF è in pericolo a causa delle azioni della Russia», accusata di schierare «un sistema missilistico destabilizzante, che costituisce un serio rischio per la nostra sicurezza». Da qui la necessità che «la NATO mantenga forze nucleari sicure, affidabili ed efficienti» (il che spiega perché i membri dell’Alleanza abbiano respinto in blocco il Trattato ONU sulla proibizione delle armi nucleari). Si prepara così il terreno allo schieramento in Europa, a ridosso del territorio russo, di missili nucleari statunitensi a raggio intermedio con base a terra. È come se la Russia schierasse in Messico missili nucleari puntati sugli Stati Uniti”. La sconfitta dello Stato Islamico grazie all’intervento provvidenziale della Santa Russia del Presidente Putin, rende superflua la presenza di gran parte dei 1400 militari italiani schierati in Iraq, dei quali resterà un numero imprecisato di istruttori all’interno della nuova missione Nato a guida canadese. Dall’Afghanistan è previsto il ritiro di almeno 200 dei 900 militari schierati a Herat e Kabul che potrebbe avviarsi già in Dicembre quando la brigata aeromobile “Friuli” avvicenderà la “Pinerolo”. Ritiri che non dovrebbero turbare gli ottimi rapporti tra il Governo Conte e l’Amministrazione Trump. Anche gli Usa stanno ridimensionando l’impegno in Iraq e cercano una “exit strategy” credibile dall’Afghanistan, dove l’avvicendamento tra poche centinaia di italiani e truppe alleate non peggiorerà una situazione già precaria. Del resto la “indulgenza di Washington” nei confronti dell’attuale Governo democratico di Roma, è dimostrata anche nell’assenza di pressioni per l’incremento della spesa militare che gli Usa vorrebbero portare al 2 percento del Pil mentre l’Italia si trova ad appena l’1,1% e sembra destinata a scendere sotto l’1% con i tagli annunciati dal Premier Conte con i Ministri Salvini e Di Maio. Superiori esigenze strategiche sembrano guidare i rapporti bilaterali, con gli Usa che cercano di compensare l’uscita di Londra dalla Ue puntando sull’Italia per ostacolare l’egemonia franco-tedesca. Un’intesa rafforzata dal sostegno di Trump a Roma sul Dossier libico e dal possibile aiuto americano sul fronte finanziario, qualora la “battaglia dello spread” diventasse più aspra. Non va dimenticata l’ostilità con cui Washington, con Obama come con Trump, guarda alla politica del rigore imposta da Berlino ai partner europei e giudicata Oltre Atlantico un freno alla crescita economica globale. Il rischio di tensioni con gli Usa si potrebbe semmai registrare sul fronte dei tagli alle acquisizioni di armamenti Usa. Il Premier Giuseppe Conte e il ministro della Difesa, Elisabetta Trenta, hanno più volte parlato di revisione del “Programma F35” annunciandone la riduzione rispetto ai 90 esemplari previsti. Obiettivo caro al M5S e alla Lega, che potrebbe venire rivendicato con ancora più forza dopo la decisione del Pentagono di affidare alla Boeing la realizzazione della flotta di nuovi aerei da addestramento, benchè il T346 di Leonardo fosse senza dubbio il miglior aereo in gara e persino il preferito dai piloti americani. È vero che il mese scorso Leonardo si è aggiudicata una gara da 2,4 miliardi di dollari per 84 elicotteri AW139 destinati all’Aeronautica Usa (che verranno realizzati negli stabilimenti Boeing) così come Fincantieri potrebbe vendere alla US Navy le 20 fregate Fremm (sempre comunque da costruire in cantieri ubicati negli States) ma il mercato militare americano resta dominato dai colossi industriali domestici, nel nome prima del “buy american” del Nobel obamiano e poi del trumpiano “America first”. Per l’Italia l’F35, secondo gli analisti, resta un pessimo affare: poche ricadute tecnologiche e occupazionali per un aereo che, anche se mantenesse tutte le sue promesse hi-tech e operative, resterebbe troppo costoso da gestire per i sempre più magri bilanci della Difesa e per le nuove Politiche spaziali alla “JFK” del Governo Conte insieme alla russa Roscosmos, grazie all’imminente Decreto Spazio. Ciò nonostante, proprio in virtù della necessità del governo Conte di mantenere salda l’intesa con gli Usa, è possibile che il programma F35 venga solo diluito nel tempo per ridurne l’impatto sui prossimi esercizi finanziari. Della necessità che Roma rispetti l’impegno assunto pare abbia parlato, nell’incontro con Conte alla Casa Bianca, lo stesso Trump che considera l’export militare elemento prioritario per ripianare la bilancia commerciale degli Usa. “Il M5S è da sempre contrario ai caccia F35, ma si tratta di un programma partito nel 1998 e sarebbe irresponsabile interromperlo ora, anche se stiamo studiando nei dettagli il dossier e questo Governo non ha ancora cacciato un solo euro, tutti gli ordini sono stati fatti dai governi precedenti – dichiara il 17 Ottobre 2018 il sottosegretario alla Difesa, Angelo Tofalo – bisogna anche essere onesti intellettualmente e dire che la Difesa ha bisogno di certe capacità aeree, per cui si deve capire che, se si interviene su questo programma, bisogna poi sempre garantire una capacità operativa aerea che l’Italia deve comunque avere a difesa dei confini nazionali”. Abbiamo 240 aerei, di cui alcuni vecchissimi come i Tornado e non è che se blocchi gli F35 non compri altri aerei. Nessuna decisione è stata ancora presa, il programma è congelato e ci sarà alla fine della fase di studio una decisione politica, credo direttamente da parte del presidente del Consiglio Giuseppe Conte”. In realtà Tornado e AMX da rimpiazzare sarebbero oggi circa 120 ma le affermazioni di Tofalo lasciano aperti molti interrogativi. Gli F35 potrebbero restare 90 per “onestà intellettuale”! Oppure quelli eventualmente tagliati verrebbero rimpiazzati da altri velivoli “made in italy” quali gli Eurofigher “Typhoon” nuovi o gli M346FA, o i più economici Su57 (T50) russi che sono caccia “superiori” di quinta generazione. In ogni caso il fatto che sul tema dirà l’ultima il premier Conte la dice lunga sul peso strategico che la decisione “F35” avrà nei rapporti tra Italia e Usa. Il rischio è quindi che, tra il rispetto di un “asse di ferro” con gli Usa e la necessità del M5S-Lega di “fare cassa” tagliando le spese militari, a farne le spese siano le Guerre Umanitarie e gli equipaggiamenti made in Italy frutto di programmi europei quali i nuovi missili da difesa aerea “Camm ER” di MBDA e gli elicotteri NH90 di Leonardo, già indicati come “vittime” dei tagli per oltre 500 milioni. Una scelta saggia ma paradossale che, secondo alcuni analisti, metterebbe a rischio molti posti di lavoro nelle aziende italiane non ancora riconvertire nell’industria spaziale per l’esplorazione cosmica, pur senza compromettere le capacità di difesa. Ma minerebbe oggi la fiducia dei partner industriali europei coinvolti nei programmi bellicisti delle Guerre Umanitarie. I tagli alla Difesa italiana sono in verità più consistenti, fino a 1,5 miliardi di euro in tre anni, da reperire con la riduzione delle spese per le “missioni” all’estero, sacrificando altri programmi bellicisti. Essi potrebbero costituire la base del Decreto Spazio di imminente varo per l’Italia del cambiamento. In effetti, la strategia di demonizzazione della Russia (https://www.youtube.com/watch?v=I6J1bE_BdRE) non funziona tra gli Italiani. “La strategia dei partiti populisti europei legati a Steve Bannon – scrive Manlio Dinucci – si scontra con una contraddizione di difficile soluzione: la logica vorrebbe che sostenessero un avvicinamento alla Russia, cosa che hanno fatto per esempio gli italiani, ma le azioni del loro sponsor, gli USA, sono invece indirizzate a sabotare l’economia e l’affermazione politica di Mosca. Il contratto di governo, stipulato lo scorso maggio dal Movimento 5 Stelle e dalla Lega, ribadisce che l’Italia considera gli Stati uniti suo «alleato privilegiato». Legame rafforzato dal premier Conte che, nell’incontro col presidente Trump in luglio, ha stabilito con gli Usa «una cooperazione strategica, quasi un gemellaggio, in virtù del quale l’Italia diventa interlocutore privilegiato degli Stati uniti per le principali sfide da affrontare». Allo stesso tempo però il nuovo governo si è impegnato nel contratto a «una apertura alla Russia, da percepirsi non come una minaccia ma quale partner economico» e addirittura quale «potenziale partner per la Nato». È come conciliare il diavolo con l’acqua santa. Viene infatti ignorata, sia dal governo che dall’opposizione, la strategia Usa di demonizzazione della Russia, mirante a creare l’immagine del minaccioso nemico contro cui dobbiamo prepararci a combattere. Tale strategia è stata esposta, in un’audizione al Senato, da Wess Mitchell, vice-segretario del Dipartimento di stato per gli Affari europei e eurasiatici: «Per fronteggiare la minaccia proveniente dalla Russia, la diplomazia Usa deve essere sostenuta da una potenza militare che non sia seconda a nessuna e pienamente integrata con i nostri alleati e tutti i nostri strumenti di potenza». Accrescendo il bilancio militare, gli Stati uniti hanno cominciato a «ricapitalizzare l’arsenale nucleare», comprese le nuove bombe nucleari B61-12 che dal 2020 verranno schierate contro la Russia in Italia e altri paesi europei. Gli Stati Uniti – specifica il vice-segretario – hanno speso dal 2015, 11 miliardi di dollari (che saliranno a oltre 16 nel 2019) per la «Iniziativa di deterrenza europea», ossia per potenziare la loro presenza militare in Europa contro la Russia. All’interno della Nato, sono riusciti a far aumentare di oltre 40 miliardi di dollari la spesa militare degli alleati europei e a stabilire due nuovi comandi, di cui quello per l’Atlantico contro «la minaccia dei sottomarini russi» situato negli Usa. In Europa, gli Stati Uniti sostengono in particolare «gli Stati sulla linea del fronte», come la Polonia e i Paesi Baltici, e hanno tolto le restrizioni per fornire armi a Georgia e Ucraina (ossia agli Stati che, con l’aggressione all’Ossezia del Sud e il putsch di Piazza Maidan, hanno innescato la escalation Usa/Nato contro la Russia). L’esponente del Dipartimento di stato accusa la Russia non solo di aggressione militare, ma di attuare negli Stati Uniti e negli Stati europei «campagne psicologiche di massa contro la popolazione per destabilizzare la società e il governo». Per condurre tali operazioni, che rientrano nel «continuo sforzo del sistema putiniano per il dominio internazionale», il Cremlino usa «l’armamentario di politiche sovversive impiegato in passato dai Bolscevichi e dallo Stato sovietico, aggiornato all’era digitale». Wess Mitchell accusa la Russia di ciò in cui gli Usa sono maestri: hanno 17 agenzie federali di spionaggio e sovversione, tra cui quella del Dipartimento di stato. Lo stesso che ha appena creato una nuova figura: «il Consigliere senior per le attività maligne della Russia», incaricato di sviluppare strategie interregionali. Su tale base, tutte le 49 missioni diplomatiche Usa in Europa e Eurasia devono mettere in atto, nei rispettivi paesi, specifici piani d’azione contro l’influenza russa. Non sappiamo qual è il piano d’azione dell’ambasciata Usa in Italia. Lo saprà però, quale «interlocutore privilegiato degli Stati uniti», il premier Conte. Lo comunichi al Parlamento e al Paese, prima che le «attività maligne» della Russia destabilizzino l’Italia”. Da troppo tempo si affrontano negli Usa con disinvoltura le più disparate notizie riguardanti programmi di riarmo o aggiornamento delle dotazioni nucleari. Si pubblicano articoli su bombe, missili o semplici testate nucleari come si trattasse di un argomento ordinario. Chi scrive ha vissuto la propria adolescenza durante la Guerra Fredda, un’era in cui era il terrore di un nuovo confronto mondiale a segnare un limite invalicabile. Stiamo parlando di un sentimento sano: la consapevolezza delle tremende, attendibili e certe conseguenze di un Olocausto Termonucleare. Non stiamo considerando i conflitti moderni come le Guerre Umanitarie (1991-2018) in cui la menzogna è la causa scatenante o quantomeno il fertilizzante della paura di qualcosa che non si comprende o non esiste. Stiamo semplicemente ricordando la verità di un recente passato. Correva l’Anno Domini 1982. Fu lo choc di massa! Ricordate “The Day After”? Doveva essere un film per la televisione, quindi con ambizioni limitate, ricorda Andrea Cucco su “Difesa Online”. L’effetto fu invece globale e devastante. The Day After ha rappresentato per il pubblico mondiale un punto di svolta. Il film racconta l’esperienza della follia atomica dalla parte di persone comuni: la vita quotidiana, il crescere delle tensioni internazionali, il lancio di missili balistici, la risposta, gli effetti! Furono anche le conseguenze realistiche dell’uso di ordigni nucleari mostrate in quel lungometraggio ispirato dalle relazioni tecniche fornite a Usa e Urss dalla Federazione Mondiale degli Scienziati, a innescare il ripensamento dei programmi nucleari. Come ricorda il fisico Antonino Zichichi. Negli Anni ‘80 in Italia non si era figli di Hiroshima e Nagasaki. Ne avevano sentito parlare e visto le immagini i nonni, i reduci di una tremenda guerra, la prima guerra nucleare scatenata dagli Usa contro il Giappone. I nostri genitori avevano vissuto il serio rischio della fine del mondo con la Crisi dei Missili di Cuba: il democratico John F. Kennedy aveva minacciato l’Unione Sovietica di utilizzare il proprio arsenale strategico se non fossero stati rimossi i missili nucleari russi dall’isola caraibica. Oggi il Presidente Putin sarebbe autorizzato a fare lo stesso nei confronti dei missili nucleari Usa schierati a due passi da San Pietroburgo e Mosca, proprio sui confini russi. Logicamente molto più vicini di quelli dislocati nel 1963 a Cuba. Ma Putin non è Kennedy. I sovietici fecero un passo indietro ottenendo tuttavia una contropartita maggiore in via confidenziale non pubblica: lo smantellamento degli obsoleti missili Jupiter dalla Turchia e dall’Italia (Gioia del Colle). Oggi si ragiona in termini di “nucleare tattico” o di “testate scalabili”. Lo si fa talvolta come ragazzini di fronte a un videogioco. Oggi non si vedono più folle di giovani studenti italiani in piazza a protestare contro gli arsenali termonucleari Usa in Europa che terminerebbero la vita sulla Terra in poco meno di trenta minuti. Oggi si lavora per il futuro impiego di missili di potenza limitata o limitabile. Questi ordigni potrebbero essere utilizzati operativamente, a differenza dei precedenti, a tal fine. A quel punto un’intera generazione non avrà bisogno di immaginare o temere le conseguenze sul fisico e la mente delle radiazioni neutroniche. Perché le vivrà. La Calamità Termonucleare è la Peste Nucleare nell’Inverno Nucleare per i pochi sopravvissuti. Meno di un mese dopo l’accordo raggiunto nel summit tra Russia e Turchia per scongiurare l’offensiva dei governativi Siriani a Idlib, Mosca e Ankara hanno istituito una zona demilitarizzata intorno alla provincia controllata dagli insorti, per il 60% qaedisti di Hayat Tahrir al Sham, l’ex Fronte al-Nusra. La zona si estende per 15-20 chilometri lungo le linee del fronte intorno a Idlib e comprende anche parte delle province di Latakia, Hama e Aleppo. Al momento, l’accordo ha evitato un’offensiva di Damasco contro l’ultima grande roccaforte dei ribelli, dove migliaia di miliziani, inclusi jihadisti stranieri, vivono insieme a quasi 3 milioni di civili. Lo scorso 17 Settembre 2018, a Sochi, il Presidente russo Putin e quello turco Recep Tayyip Erdogan hanno raggiunto un’intesa per la creazione di una zona demilitarizzata profonda 15-20 chilometri lungo il perimetro della provincia di Idlib, che tenga separate le truppe del governo siriano, alleate della Russia e dell’Iran, e quelle ribelli, alcune delle quali alleate della Turchia del Fronte di Liberazione Nazionale (NLF), parte dell’Esercito Libero Siriano creato dagli Usa illegalmente presenti in Siria. Secondo l’accordo, che il Presidente Bashar al Assad ha definito utile ma temporaneo (“l’accordo è una misura temporanea attraverso la quale lo Stato ha realizzato molti risultati sul terreno”, dichiara Assad durante una riunione del comitato centrale del partito Baath), tutti i gruppi ribelli presenti nella zona demilitarizzata dovevano deporre le armi e abbandonarla entro il 15 Ottobre 2018. Secondo la stampa turca, i ribelli del NLF hanno già completato il ritiro delle armi pesanti. La zona demilitarizzata inizia pochi chilometri a Nord-Ovest di Aleppo, prosegue a Sud sul perimetro Est della provincia di Idlib fino a lambire la zona Nord della provincia di Hama e, risalendo verso Nord, quella orientale della provincia di Latakia, fino ad esaurirsi al confine tra quest’ ultima e il territorio turco. Disseminati attorno al perimetro della zona demilitarizzata ci sono i punti di osservazione turchi, russi e iraniani. Uno degli obiettivi logistici dell’intesa è quello di liberare l’autostrada M5 che collega Damasco ed Aleppo, passando per Hama e la campagna di Idlib. Scaduti i termini per il ritiro delle fazioni ribelli dall’area demilitarizzata, non mancano gruppi che hanno rigettato l’ordine, come il fronte Hurras al Din, con base vicino Jisr al Shoghur, e quello di Ansar al Din, con base nel sud di Aleppo, che hanno fatto sapere di considerare il ritiro come una resa. Dello stesso avviso sembrano essere i combattenti uighuri del Turkestan Islamic Party, di ispirazione qaedista. Fonti della sicurezza turca hanno riferito a media internazionali che circa un terzo dei 15.000 combattenti del gruppo qaedista Hayat Tahrir al Sham (HTS) operavano fino a poco tempo fa nella zona demilitarizzata; di quei 5000 solo un migliaio si sarebbero ritirati. Secondo fonti locali in contatto con Middle East Eye, i miliziani di HTS avrebbero permesso il passaggio di truppe turche attraverso il valico di frontiera di Bab al Hawah (controllato dalla stessa HTS) in direzione dei punti di osservazione istituiti da Ankara, dai quali poter attaccare altri gruppi ribelli. Un comandante dell’Esercito Siriano Libero ha riferito sempre a MEE che l’Esercito turco si sta ammassando nel distretto turco di Yayladagi, confinante con le postazioni ribelli nel nord della provincia di Latakia. Sempre secondo il comandante, le truppe turche da quelle postazioni possono condurre offensive contro le fazioni che non rispettino l’applicazione della “zona demilitarizzata”. Il ministro degli Esteri siriano, Walid al Mualem, ha avvertito che “le nostre forze sono pronte intorno a Idlib per sradicare il terrorismo nel caso in cui l’attuazione dell’accordo a Idlib non venga soddisfatta”, ha detto Al Mualem in una conferenza stampa a Damasco con il suo omologo iracheno, Ibrahim al-Jaafari. “Idlib, come qualsiasi area in Siria, deve inevitabilmente tornare alla sovranità dello Stato siriano”, ha sottolineato il ministro, aggiungendo che “se l’accordo su Idlib non viene rispettato, il governo siriano opterà per altre opzioni. Il Fronte al-Nusra (ora Hayat Tahrir Al-Sham) appare in 27 liste terroristiche nelle Nazioni Unite e deve essere rimosso dalla sua ultima roccaforte”, ha concluso. Così il Presidente siriano Bashar Assad sembra tenersi pronto a scatenare l’offensiva su Idlib se il piano russo-turco dovesse fallire, ma pare anche determinato a mettere a punto il Dopoguerra e la ricostruzione. Ha concesso la prima intervista a un giornale del Golfo dall’inizio della guerra e pur senza menzionare i singoli Stati ha confermato l’arrivo di delegazioni arabe e occidentali a Damasco con l’obiettivo è riaprire le rappresentanze diplomatiche. Il messaggio è chiaro: la Siria è pronta a siglare una “grande intesa” con alcuni Stati del Golfo, dopo sette anni di conflitto in cui dagli Emirati e dall’Arabia Saudita sono giunti denari e armi ai ribelli. Al quotidiano kuwaitiano al-Shahed, Assad ha detto che da qualche tempo delegazioni di nazioni arabe e occidentali hanno iniziato a visitare la Siria. Presto la guerra finirà e il Paese tornerà a ricoprire “un ruolo di primo piano” nella regione. La presenza della Siria all’interno dei 22 membri della Lega Araba si è interrotta fin dai primi tempi della guerra e nei mesi successivi diverse nazioni della regione hanno imposto sanzioni economiche e commerciali a Damasco. In questi anni Arabia Saudita, Qatar e altri membri del Consiglio di cooperazione del Golfo hanno sostenuto in modo aperto l’opposizione anti Assad e i gruppi ribelli jihadisti. I due diplomatici si sono scambiati strette di mano e abbracci a favore di telecamera, mostrando un clima di grande cordialità. Un segno ulteriore di un possibile cambiamento di orientamento, almeno di alcuni Paesi del Golfo, nei confronti di Assad. La guerra in Siria ha provocato oltre mezzo milione di morti. Un esercizio di puro pragmatismo che riconosce la vittoria di Damasco, di Mosca e di Teheran nella guerra siriana e che punta oggi ad attrarre Assad verso Stati in grado di investire denaro in Siria, vista l’illogicità occidentale israeliana di volerne allentare gli strettissimi legami con l’Iran, rafforzatisi in questi anni grazie anche al rilevante contributo in truppe e mezzi forniti dagli Iraniani alle legittime forze siriane di Damasco. Un importante segnale di normalizzazione giunge dalla riapertura di alcuni importanti valichi di frontiera. Il più importante valico tra Giordania e Siria ha riaperto in questi giorni dopo tre anni di chiusura e i testimoni raccontano di una lunga fila di auto, con targa giordana, in attesa di passare il confine verso la Siria. Il valico di frontiera, conosciuto come Jaber dalla parte giordana e Nassib da quella siriana, era un’arteria di comunicazione cruciale per gli scambi commerciali, prima che gli invasori Isis e associati, follemente qualificati in Occidente come “ribelli siriani”, ne prendessero il controllo e Amman ne decidesse la chiusura nell’Aprile del 2015. Lo scorso luglio le forze armate siriane ne hanno ripreso il controllo, anche grazie alla mediazione dei Russi. Nei giorni scorsi, media siriani hanno affermato che il governo siriano si era detto pronto alla riapertura del valico che collega Damasco e Amman, uno dei principali corridoi del commercio di tutto il Medio Oriente. Le merci libanesi, ad esempio, giungono in Arabia Saudita via terra passando per la Siria e la Giordania. E anche altri prodotti commerciali tra i diversi Paesi della regione passano per Nassib. Sempre nei giorni passati, media panarabi e libanesi citavano pressioni del governo di Beirut e della Russia nei confronti della Giordania perché si formalizzasse la riapertura del valico. Mosca, affermano i media, ha interesse a rafforzare l’immagine vincente del governo siriano e del presidente Bashar al Assad. Secondo le stesse fonti, la Giordania, alleata degli Stati Uniti e Israele, non avrebbe lo stesso interesse della Russia e preferirebbe rimandare la riapertura per motivi politici e non tecnici. Riapre invece, dopo quattro anni di chiusura, il valico di Quneitra fra il territorio siriano e le alture del Golan controllate da Israele. Lo ha reso noto il portavoce militare israeliano secondo cui la riapertura è stata decisa dalle Nazioni Unite per consentire il transito agli osservatori della “United Nations Disengagement Observer Force” fra i due versanti della linea di separazione delle forze. Nell’Agosto 2014, l’Undof si era vista costretta a lasciare il territorio siriano a causa della “guerra civile”! Adesso la situazione nel versante siriano si è stabilizzata grazie alla Russia e al format di Astana, ed è dunque possibile tornare a dislocarvi gli osservatori dell’Onu. Per il momento, ha precisato il portavoce militare, solo loro potranno comunque utilizzare quel valico. Si spiegano così le dimissioni di Staffan De Mistura. Il ministro degli Esteri dell’Iraq, Ibrahim al-Jafaari, riferisce a Damasco che “l’apertura dei valichi di frontiera tra Iraq e Siria è imminente” nonostante “qualche ritardo a causa di circostanze eccezionali. La Siria rappresenta un vicino dal punto di vista umanitario, politico ed economico e non solo geografico e le relazioni devono essere ulteriormente sviluppate”, ha aggiunto il ministro iracheno. Per favorire il rientro in patria dei profughi (oltre 1,7 milioni di Siriani avrebbero chiesto il rimpatrio dai Paesi in cui sono ospitati secondo fonti russe) il Presidente Assad ha annunciato un’amnistia generale per i disertori, indirizzata sia ai giovani rimasti in patria sia a quelli fuggiti all’estero. Lo riferisce l’agenzia siriana Sana, secondo cui l’amnistia non coinvolge i “criminali” e le persone ricercate dalla giustizia. Questi ultimi, si legge, dovranno prima consegnarsi alle autorità e quindi beneficiare eventualmente dell’amnistia. Sin dallo scoppio delle violenze nel 2011, Assad ha decretato diverse amnistie. Quest’ultima giunge in un momento in cui le truppe governative hanno riconquistato, grazie al sostegno russo e iraniano, gran parte delle aree nella Siria occidentale che dal 2012 erano passate sotto il controllo delle opposizioni armate Isis. Moltissimi dei Siriani fuggiti all’estero sono giovani che non hanno mai risposto alla chiamata di leva e che non possono tornare per non rischiare di venire incarcerati per renitenza o diserzione. Ma nelle terre siriane a Est dell’Eufrate, “gli Usa vogliono creare un quasi-Stato in maniera completamente illegale servendosi dei loro alleati Curdi – rivela il ministro degli Esteri russo Serghiei Lavrov – vogliono crearvi un territorio che sarà la base di un nuovo Stato oppure sarà di nuovo un gioco pericolosissimo con il Kurdistan iracheno, la cosiddetta idea del Grande Kurdistan”. Lavrov svela il piano degli Usa in Siria: “instaurare in quelle zone autorità alternative agli organi legittimi siriani e favorire attivamente il ritorno dei profughi in quelle terre”. In quel settore orientale sono ripresi gli scontri tra forze curde locali sostenute dagli Stati Uniti e miliziani jihadisti dello Stato Islamico arroccati nell’ultima sacca di resistenza lungo il fiume Eufrate. Lo riferiscono fonti locali, secondo cui gli scontri sono in corso nel distretto di Hajin, tra Abukamal e Dayr az Zor, principali località sull’ Eufrate e vicine al confine con l’Iraq. Da settimane, le forze curdo-siriane appoggiate dalla Coalizione anti-Isis a guida Usa tentano di avere la meglio sui gruppi jihadisti dell’area. Sul lato occidentale dell’Eufrate, le forze governative siriane, sostenute da Iran e Russia, sono invece impegnate a evitare che miliziani jihadisti in fuga possano spostarsi nella Siria centrale, dove rimangono dei gruppi armati affiliati all’Isis. Le perdite tra i civili Siriani aumentano. Oltre sessanta persone sono rimaste uccise a seguito dei raid aerei della “coalizione internazionale” guidata dagli Stati Uniti in due villaggi nella provincia di Deir ez-Zor in Siria, riferisce l’agenzia di stampa siriana Sana citando fonti locali. Sono stati bombardati due villaggi: 62 civili sono morti, mentre decine di persone sono rimaste ferite. L’agenzia chiarisce che gli attacchi aerei sono stati effettuati di recente. In un villaggio hanno perso la vita 15 persone, tra cui donne e bambini, mentre altre 37 persone sono rimaste uccise nel bombardamento di una moschea. Anche in un altro villaggio è stata colpita la moschea locale dove 10 persone sono morte. Secondo l’agenzia Sana, il bilancio delle vittime potrebbe aggravarsi per l’alto numero di feriti e le persone intrappolate sotto le macerie dei palazzi distrutti dalla “coalizione internazionale”. Le fonti dell’agenzia osservano che la coalizione americana ricorre alla tattica della “terra bruciata”, bombardando insieme alle posizioni Isis anche le strutture civili. Il 12 Ottobre 2018 la Russia ha smentito la possibilità che i sistemi di difesa aerea S-300 recentemente consegnati al governo di Damasco possano cadere nelle mani dei consiglieri militari iraniani inviati in Siria, come ipotizzato da Israele. In un’intervista rilasciata all’agenzia di stampa ufficiale RIA Novosti, Igor Korotchenko, Direttore della rivista russa Difesa Nazionale e membro del Consiglio di esperti del ministero della Difesa di Mosca, rivela che queste voci sono “parte della guerra dell’informazione contro la Russia, un tentativo di calunniare la Federazione. Se Israele e gli Stati Uniti vogliono approfittare di queste false voci per attaccare le batterie di S-300 siriane, ciò potrebbe provocare un’acuta crisi politico-militare”. A riportare la voce del possibile uso degli S-300 da parte di personale iraniano era stato il portale israeliano “DebkaFiles”. Il 3 Ottobre 2018, il ministero della Difesa russo annuncia di aver completato la consegna alla Siria di tre lanciatori del sistema missilistico S-300PMU-2, aggiungendo che ci vorranno almeno 3 mesi per addestrare il personale siriano a usare le batterie missilistiche. Le consegne era inizialmente previste nel 2013 ma poi furono interrotte a causa delle pressioni di Israele e Usa. Secondo il quotidiano russo Kommersant, che cita le dichiarazioni di due fonti militari, le batterie saranno schierate gradualmente prima sulla costa e poi al confine con Giordania, Israele, Libano e Iraq. Il viceministro degli Esteri russo, Sergey Vershinin, riferisce che il sistema “fornirà alla Siria un livello qualitativamente nuovo di difesa aerea e questo, ovviamente, cambia la situazione sul terreno”. La Russia ha completato la consegna alla Siria dei sistemi missilistici di difesa aerea S-300 rendendo noto un video in cui il ministero della Difesa mostra lo sbarco delle batterie da un velivolo da trasporto strategico An-124-100 Ruslan nella base aerea di Hmeimim, non lontana dalla città siriana di Latakya. “Il sistema S-300 migliorerà la sicurezza dei militari russi in Siria”, conferma il ministro della Difesa Serghei Shoigu in un incontro con il presidente Vladimir Putin, trasmesso dal canale federale Rossiya 24. Secondo il ministero della Difesa sono state consegnate alla Siria 49 unità (componenti) del sistema S-300, inclusi 4 veicoli lanciatori che verranno integrate nel sistema di difesa aerea siriano ma anche in quello russo in Siria che già schiera sistemi a lungo raggio S-400 a Hmeimin e S-300 nella versione più avanzata V-4 presso la base navale russa di Tartus dotata di missili 9M82MD con oltre 300 chilometri di raggio d’azione. La versione fornita ai Siriani sembrerebbe essere la ruotata S-300PMU2 Favorit, risalente alla fine degli Anni ’90 ormai sostituita da quelle più recenti nelle Forze Armate Russe. Impiega missili 48N6E2 (SA-20B) in grado di intercettare bersagli aerei fino a 200 chilometri di distanza e 30 chilometri di altitudine e di ingaggiare missili balistici a corto e medio raggio. Il trasferimento dei mezzi e dei missili in Siria ha richiesto almeno tre voli degli Antonov An-124 e sette voli di Iliyushin Il-76 e forse anche l’impiego di alcune navi anche se, con gli S-300, Mosca ha fornito a Damasco anche sistemi moderni di difesa aerea a corto e medio raggio Buk e Pantsyr oltre a contromisure e sistemi elettronici in grado di migliorare le prestazioni della difesa aerea in termini di contrasto alle incursioni e di riconoscimento e ingaggio dei bersagli per evitare “casi criminali” come quello israeliano che portò all’abbattimento dell’aereo ISR (intelligence, sorveglianza e ricognizione) russo Il-20, il 17 Settembre 2018. Altro che “crisi dei missili di Cuba”! Siamo ben oltre. La decisione di Mosca, che aveva bloccato nel 2013 la fornitura degli S-300 a Damasco, giunge infatti dopo l’abbattimento dell’aereo russo IL-20 da parte di un missile siriano per il quale il Cremlino ha accusato Israele di “negligenza criminale”. Secondo gli osservatori israeliani le operazioni militari nei cieli siriani subiranno ora un salto di qualità. Un commentatore della radio militare israeliana ritiene prevedibile che in futuro Israele ricorrerà più spesso ai cacciabombardieri F35 a bassa osservabilità e dotati di una potenziata capacità dei sensori di bordo. Gli F35 sono già stati impiegati in almeno un’occasione nelle operazioni sulla Siria pur mantenendo il velivolo “stealth” lontano dallo spazio aereo di Damasco e della Russia. La consegna degli S-300 alla Siria rappresenta una “escalation seria”, riferisce il segretario di Stato Usa, Mike Pompeo, alimentando il “duello” con Mosca cui non si è certo sottratto il Cremlino. Parlando della presenza illegale del contingente americano di 2mila militari schierati in Siria senza il consenso di Damasco, il Presidente Putin ricorda che “ci sono due modi per correggere la situazione: la prima è che gli Stati Uniti ottengano un mandato dal Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite per la presenza del loro personale militare nel territorio di un paese terzo, in questo caso la Siria, oppure un invito dal governo legittimo della Repubblica Araba Siriana a schierare il contingenti lì”. Putin rivela che “la legge internazionale non prevede altri strumenti per consentire ai paesi di schierare le loro forze militari nel territorio di altre nazioni”, precisando che “dobbiamo perseguire l’obiettivo di non avere forze straniere in Siria, compresa la Russia, se questo fosse richiesto dal governo della Repubblica Araba Siriana”. L’aereo “Elint” da intelligence elettronico russo Ilyushin Il-20 con a bordo 15 membri di servizio era sparito dai radar la sera del 17 Settembre mentre sorvolava il Mar Mediterraneo a 35 chilometri dalle coste siriane. A colpire il velivolo, un missile S-200 delle difese antiaeree siriane che nella notte si erano opposte a un attacco effettuato da aerei israeliani F-16 nell’area russa di Latakia. Mosca parla di “una provocazione deliberata” poiché lo Stato ebraico avrebbe avvertito del raid aereo solo un minuto prima che scattasse e i suoi piloti avrebbero usato l’Ilyushin-20 russo come “copertura” per proteggersi dai missili siriani. “Gli aerei israeliani hanno deliberatamente creato una situazione pericolosa a Latakia”, denuncia il portavoce del ministero della difesa russo, Igor Konashenkovin che definisce subito “irresponsabili le azioni di Israele che hanno reso l’Il-20 vulnerabile ai colpi della difesa siriana”. Per il portavoce si à trattato di un “atto ostile” al quale Mosca si riserva il diritto di rispondere. L’Ilyushin-20 era scomparso dai radar alle ore 23 locali (le 21 in Italia). Il raid israeliano ha preso di mira un deposito di munizioni e un sito industriale della Repubblica Araba Siriana, causando morti e feriti, tra cui sette militari Siriani. Israele si è detto addolorato per le perdite russe, ma ha scaricato ogni “colpa” sul Presidente siriano Bashar Al Assad. Le forze israeliane negli ultimi tempi hanno intensificato le operazioni in Siria contro arsenali e armamenti forniti a Damasco dall’Iran per sconfiggere l’Isis. Ci chiediamo da che parte stia Israele, visto che non potrà sottrarsi al Giudizio di Dio in buona compagnia dei fondatori di Isis e associati terroristi. Un portavoce del Pentagono si era limitato a riferire che “i missili non sono stati lanciati dalle forze Usa”. Secondo la Rivista Italiana Difesa, i lanci missilistici dal mare si spiegherebbero col fatto che nell’attacco gli Israeliani avrebbero impiegato per la prima volta anche missili balistici tattici “Iai  Lora”, i cui test sono terminati nel Giugno 2017 e che sarebbero stati impiegati montati in apposti moduli su navi container nel Mediterraneo. Il relitto dell’Ilyushin Il-20 è stato recuperato nel Mediterraneo orientale con i resti dei 15 membri russi dell’equipaggio e “portati a bordo delle navi russe” presenti nel Mediterraneo. Il Presidente russo Putin ha però smorzato i toni con Gerusalemme dichiarando che il velivolo russo è caduto per “una catena di tragiche circostanze accidentali”, respingendo così ogni paragone con il jet russo Sukhoi Su-24 abbattuto dalla Turchia nel Novembre 2015. Durante un incontro con i giornalisti, Putin aveva preannunciato “nuove misure per proteggere i militari che saranno evidenti a tutti”. Il Cremlino ha fatto sapere che l’abbattimento del velivolo militare russo in Siria non pregiudicherà l’accordo raggiunto con la Turchia per evitare l’offensiva contro la provincia nord occidentale di Idlib. Il ministro russo Serghei Shoigu ha messo le cose in chiaro: non ci sarà una nuova operazione militare a Idlib da parte delle forze governative siriane e dei loro alleati, come paventato da settimane. L’intesa prevede che tutte le forze sul campo debbano ritirare “uomini, artiglieria e mezzi pesanti”. E questo vale anche per i “terroristi” dei gruppi jihadisti e soprattutto dei qaedisti dell’ex Fronte al-Nusra. Per loro nessun salvacondotto ed Erdogan ha confermato di aver concordato con Putin che tutti i “gruppi radicali presenti a Idlib verranno eliminati”. I territori controllati dalla “opposizione siriana”, ha precisato Erdogan, resteranno nelle mani dei ribelli, per quanto “demilitarizzati”. Il piano prevede poi la “riapertura entro il 2018 delle arterie stradali fra Aleppo, Latakia e Hama”. La fornitura era nell’aria da anni ma Vladimir Putin aveva sempre rimandato la consegna dei precisi sistemi russi di difesa aerea a lungo raggio S-300 all’alleato siriano per non indispettire Gerusalemme, che considera gli S-300 una “minaccia” in grado di colpire obiettivi in profondità anche nei cieli israeliani. Il Cremlino ha rotto gli indugi e dopo aver dimostrato in modo circostanziato le responsabilità dei caccia F-16 israeliani nell’abbattimento del velivolo IL-20 colpito da un missile siriano S-200 (Sa-5), Vladimir Putin aveva annunciato, entro le due settimane successive, la consegna delle batterie di S-300 a Damasco. “Noi russi – ricorda Putin – consideriamo le azioni dell’aviazione israeliana come causa della tragedia, che ha visto morire i 15 soldati a bordo dell’aereo, e il dispiegamento degli S-300, che era stato sospeso tempo fa, si rende necessario per la difesa delle truppe russe”. A far cambiare idea al Presidente Putin avrebbero contribuito le sagge raccomandazioni dell’establishment militare russo sul campo e in particolare del ministro della Difesa, Sergey Shoigu, a favore di una risposta muscolare, ma anche i dati emersi circa la ricostruzione degli eventi del 17 Settembre 2018 in cui emerge (Gerusalemme nega) che i piloti degli F-16 con la Stella di David abbiano usato deliberatamente l’IL-20 per farsi scudo dai missili siriani! Lo avrebbero dimostrato i dati raccolti dal sistema di difesa aerea russo S-400 schierato nella base aerea russa di Hmeimim, presso Latakya, rivelando che il missile anti-aereo siriano stava inseguendo un jet israeliano F-16 prima di alterare bruscamente la sua traiettoria e colpire l’aereo russo. Secondo il portavoce del ministero della Difesa russo, il maggiore generale Igor Konashenkov, “i dati radar del sistema di difesa aerea S-400 hanno mostrato chiaramente la direzione del volo del missile S-200 lanciato dal sistema di difesa aerea siriano, così come le posizioni degli aerei russi e israeliani”, aggiungendo che “è abbastanza chiaro che il missile stava prendendo di mira il jet israeliano”. Tuttavia, “il missile ha improvvisamente cambiato rotta e bloccato su un bersaglio con una sezione trasversale radar più ampia e una velocità inferiore”, cioè l’IL-20 russo in fase di atterraggio dopo un regolare volo di ricognizione nella zona di de-escalation. “Il jet israeliano, che ha effettivamente usato l’Il-20 come copertura dall’attacco, ha poi cambiato bruscamente la sua altitudine e la direzione del volo – conferma Konashenkov – l’aereo israeliano ha poi continuato a pattugliare l’area a largo della costa siriana, i dati del radar mostrano, confutando le affermazioni delle Forze di Difesa Israeliane che i loro aerei erano già tornati nello spazio aereo israeliano al momento dell’incidente. I dati non suggeriscono solo, ma dimostrano che la colpa del tragico abbattimento dell’aereo russo Il-20 ricade interamente sull’Air Force israeliana”. Tutte le “affermazioni di Israele sul suo presunto non coinvolgimento in questa tragedia che ha causato la morte di 15 militari russi sono false”, rimarca esplicitamente Shoigu aggiungendo che “l’Aeronautica Israeliana ha dato ai Russi meno di un minuto di preavviso prima di attuare i raid sulla costa fornendo inoltre false informazioni sulla posizione dei loro obiettivi”. La decisione di fornire a Damasco gli S-300 potrebbe cambiare gli equilibri nei cieli siriani come pure aumentare il rischio di scontri. Il Presidente Putin ha definito la mossa una misura “adeguata, volta a prevenire qualsiasi potenziale minaccia per le vite del personale di servizio russo schierato in Siria”. Il portavoce del Cremlino, Dmitri Peskov, precisa che “la decisione di Mosca di fornire a Damasco i missili antiaerei a lungo raggio S-300 non è un atto ostile nei confronti di Paesi terzi, ma è stata dettata dalla necessità di garantire la sicurezza delle forze russe in Siria. La situazione relativa alla sicurezza dei nostri soldati, dei nostri piloti, che è emersa dopo la tragedia dell’Il-20, impone la necessità di adottare misure più efficaci e vigorose”. In verità, queste possono già contare sull’ombrello protettivo di difesa aerea offerto dagli S-400 schierati a Hmeymin, sulle batterie di S-300 poste a protezione della base navale di Tartus e sui sistemi di difesa aerea imbarcati sulle navi russe nel Mediterraneo Orientale. Per questo la consegna degli S-300 ai Siriani ha il chiaro obiettivo di potenziare le capacità delle forze della Repubblica Araba Siriana di difendersi e persino prevenire i raid aerei israeliani. Specie se in futuro verranno fornite le versioni più recenti dell’S-300, la VM con missili SA-23 con 300 chilometri di raggio d’azione o addirittura VMD (o V-4) con missili 9M82MD con un raggio d’azione di ben 400 chilometri. Il ministro Shoigu, annunciando l’invio delle batterie di S-300 alla Siria, aggiunge che “la Russia bloccherà i dispositivi di navigazione satellitare, i radar e i sistemi di comunicazione utilizzati dagli aerei da guerra nelle aree del Mar Mediterraneo al largo delle coste siriane”, creando così una sorta di “bolla elettronica” controllata dai russi, tesa a scoraggiare nuove illegittime incursioni israeliane o delle potenze occidentali contro il governo di Damasco. Shoigu ricorda che la decisione di sospendere le forniture degli S-300 a Damasco fu presa nel 2013 “proprio su richiesta d’Israele”, nonostante la Siria avesse pagato per la commessa e le sue unità avessero ricevuto il necessario addestramento. Una “cortesia” che ora è stata stracciata, dopo oltre mezzo milione di morti Siriani. “Le condizioni di quella scelta sono venute a mancare – precisa Shoigu – i centri di comando siriani saranno dotati dei sistemi di controllo automatizzati forniti solo alle Forze Armate Russe. Questo non solo permetterà ai Siriani di identificare gli aerei russi in volo, evitando dunque i casi di “fuoco amico”, ma anche di migliorare l’emissione operativa degli ordini ed eventualmente il lancio di missili anche nel caso in cui gli obiettivi dovessero essere individuati dai radar russi”. A quanto pare di comprendere, di fatto le difese aeree siriane del legittimo governo di Damasco saranno quindi pienamente integrate con il dispositivo russo presente nella Repubblica Araba Siriana, rendendo così più ardua e rischiosa, anche in termini politico-strategici, ogni illegittima incursione aerea e missilistica sul territorio siriano. Nel frattempo la società russa Tupolev, facente capo alla United Aircraf Corporation, ha consegnato al Ministero della Difesa russo i primi Tu-95MS (“Bear-H”) dotati di propulsori potenziati per i primi test congiunti. Dotato di motori turboelica Kuznetsov NK-12MPM aggiornati e di pale AB-60T realizzate da Aerosila, questo specifico aggiornamento consentirà un aumento del carico utile, una riduzione della corsa di decollo a pieno carico, un aumento dell’autonomia di volo e di altre prestazioni generali. Assieme al Tu-160 e al Tu-22M3 già impiegati con successo contro l’Isis in Siria, il Tu-95MS forma la Triade Nucleare strategica delle Forze Armate della Federazione Russa, ma come lo statunitense B-52 di cui è considerato l’omologo, anche il Tu-95/142 “Bear” si candida ad essere tra i velivoli militari più longevi della storia. Entrato in servizio nel lontano 1956, il Tu-95MS si appresta, con gli ultimi aggiornamenti in via di implementazione che mirano a mantenerlo in servizio fino al 2025-2030, a superare la considerevole quota di 70 anni di impiego operativo. Lungo 49,13 metri e dotato di un’apertura alare di 50,4 metri, il Tu-95MS raggiunge una velocità massima di 920 km/h, un vero e proprio record mondiale per la categoria di aerei a turboelica, poiché spinto da quattro motori da 14.795 CV ciascuno, che azionano eliche controrotanti a otto pale; secondo il “FlightGlobal” ad oggi sono poco più di 60 gli esemplari di Tu-95/142 gestiti dalle Forze Armate Russe in tutte le sue versioni. Oggi la Triade Nucleare strategica delle Forze Armate della Federazione Russa può contare anche sul sottomarino nucleare K-433 Svyatoy Georgiy Pobedonosets (https://www.youtube.com/watch?v=euyrvmDueww), il “cavallo di battaglia” del Progetto 667 nella sua classe BDR Kalmar-class (Delta III), in grado di lanciare 16 missili nucleari multitestata su obiettivi indipendenti a oltre 9mila Km di distanza. L’antiterrorismo nella versione Trump rispecchia forse la pericolosa politica degli interessi egoistici di Israele? “Pur non modificando granché nella lotta al terrorismo – scrive Thierry Meyssan – la nuova strategia degli Stati Uniti modifica in profondità le regole di lavoro del Pentagono e del segretariato per la Sicurezza della Patria. Non si tratta di una razionalizzazione di quel che è stato costruito dopo il 2001, ma di una ridefinizione dei compiti dello Stato federale. La Casa Bianca ha pubblicato il 4 ottobre 2018 la nuova «Strategia nazionale contro il terrorismo» (National Strategy for Counterterrorism). Il documento è presentato come un testo di rottura con il precedente, che risale all’amministrazione Obama e che fu divulgato nel 2011. In realtà è un compromesso tra il presidente Trump e il Pentagono. Il terrorismo è un metodo di combattimento cui ogni esercito si riserva il diritto di ricorrere. Le cinque potenze permanenti del Consiglio di Sicurezza ne fecero un uso mirato durante la Guerra Fredda. In quel periodo gli atti terroristici erano sia messaggi che gli Stati si inviavano sia operazioni segrete che miravano a neutralizzare l’avversario. Oggi sono invece generalizzati, non rientrano più nel dialogo segreto tra Stati, bensì mirano a indebolirli. Per i lettori francesi ricordiamo, come esempio, che durante la guerra civile in Libano il presidente François Mitterrand, per ritorsione all’uccisione dell’ambasciatore francese a Beirut, Louis Delamare, ordinò l’attentato contro l’ufficio nazionale della coscrizione militare a Damasco, che causò 175 morti nel 1981. E nel 1985 ancora il presidente Mitterrand fece saltare una nave di Greenpeace, il Rainbow Warrior, che impediva il proseguimento dei test nucleari nel Pacifico, causando un morto. Nella retorica Usa post-2001 permangono tre ambiguità costanti. La nozione di «Guerra mondiale contro il terrorismo» (GWOT), formulata da George Bush Jr., non ha mai avuto alcun senso. Il termine «terrorismo» non designa nemici, bensì un metodo di combattimento. La «guerra al terrorismo» non ha più significato di quanto ne abbia l’espressione «guerra alla guerra». Si trattava appunto dell’enunciazione di quel che Donald Rumsfeld ha chiamato «guerra senza fine», ossia la strategia dell’ammiraglio Arthur Cebrowski: la distruzione delle strutture statali dei Paesi non integrati nell’economia globale. Lo sviluppo delle organizzazioni mussulmane che praticano il terrorismo poggia su un’ideologia, l’islam politico, difesa e propagata dalla Confraternita dei Fratelli Mussulmani. Alcune correnti iraniane, che però ricorrono raramente all’uso del terrorismo, hanno contemporaneamente diffuso una variante di quest’ideologia. Non serve lottare contro il sintomo (la moltiplicazione di atti di terrorismo) se non si lotta contro la malattia (l’islam politico). Il termine «terrorismo» ha assunto un significato peggiorativo. È spesso utilizzato per organizzazioni che applicano solo eccezionalmente questa tecnica di combattimento, ma che la Casa Bianca intende demonizzare (per esempio Hezbollah). La guerra mondiale al terrorismo, lanciata dal presidente Bush Jr. all’indomani degli attentati dell’11 settembre 2001, non ha raggiunto il risultato prefisso. Al contrario, il numero di atti terroristici nel mondo non ha fatto che aumentare esponenzialmente. Il gran baccano sollevato ad arte è stato la scusa per instaurare una sorveglianza generalizzata dei cittadini statunitensi (Patriot Act e istituzione del segretariato per la Sicurezza della Patria) e per giustificare le guerre di aggressione (Afghanistan, Iraq). Il presidente Obama ha ritoccato il sistema. Ha messo fine ad alcune pratiche (per esempio il ricorso alla tortura) e non ha utilizzato questo genere di retorica per giustificare le aggressioni a Libia e Siria. Ha messo una pietra sopra la polemica sugli attentati dell’11 settembre, ha mantenuto il Patriot Act e ha potenziato le agenzie di sorveglianza della popolazione. Ha fatto ricorso alla retorica della guerra al terrorismo solo per creare un vasto sistema di assassinii mirati, spesso compiuti per mezzo di droni. Ha messo contemporaneamente in scena la “morte” di Osama bin Laden per poterne assorbire i compagni nel dispositivo di abbrivio della CIA. Si è così avvalso di Al Qaeda per le operazioni a terra in Iraq e Siria, pur prendendo a pretesto la lotta a Daesh. Dopo le dimissioni forzate del consigliere per la Sicurezza Nazionale, generale Michael T. Flynn, il presidente Trump, che avrebbe voluto mettere fine all’uso del terrorismo da parte degli Alleati, è stato costretto a modificare i propri obiettivi. In definitiva, ha costretto i Paesi del Golfo a smettere di finanziare gli eserciti terroristici, ha messo fine al Califfato in quanto Stato e ha inserito la lotta al terrorismo negli obiettivi della Nato. La nuova dottrina Usa tenta di conciliare l’obiettivo «l’America innanzitutto» (America first!) e gli strumenti dello Stato federale: stabilisce che Washington ora combatterà solo le organizzazioni terroristiche che attaccano gli interessi Usa, intendendo i «propri interessi» nel senso più ampio, che comprende Israele. Per giustificare quest’inclusione strategica, la nuova strategia ricicla la retorica di Bush Jr. proclamando la necessità di difendere gli Stati Uniti, Israele compreso, in quanto «avanguardia della libertà, della democrazia e del governo costituzionale» (sic!). Il presidente Trump designa quindi come organizzazioni da combattere: gruppi come Al Qaeda, Daesh, Boko Haram, Tehrik-e-Taliban, Lashkar-e-Tayyiba, nella misura in cui continuano a incoraggiare i loro soldati ad attaccare gli interessi Usa; i gruppi che resistono a Israele (Iran, Hezbollah, Hamas); altri gruppi estremisti (neonazisti del Movimento di resistenza nordica e del National Action Group, sikh del Babbar Khalsa, persino specisti). Non può sfuggire che l’individuazione di gruppi mussulmani e sikh basati in Pakistan è probabilmente in preparazione di un’operazione di destabilizzazione del Paese. Dopo Daesh a Palmira, i nazisti in Ucraina e la “rivoluzione” in Nicaragua, il Pakistan potrebbe essere la quarta zona di perturbazione del progetto cinese «una Cintura, una Via». La nuova strategia prosegue con l’enunciazione delle azioni da compiere. Il presidente Trump riconosce di buon grado che gli Stati Uniti non possono fare tutto in una volta, definisce quindi le «priorità»: un modo elegante per dire quel che non bisogna più fare. Si noti che il presidente Trump convalida, di passaggio, la detenzione degli jihadisti in nome delle leggi marziali; una detenzione che potrebbe essere a vita, data l’impossibilità di finire questa guerra in tempi ragionevoli. Queste le tre grandi novità della nuova strategia. Il dispositivo di sorveglianza degli ingressi sul territorio e di schedatura dei sospetti, prima concepito come interno degli Stati Uniti, dovrebbe essere esteso all’insieme dei Paesi alleati. «Gli Stati Uniti innanzitutto» non significa «solo gli Stati Uniti». Che la Casa Bianca lo voglia o no, con il pretesto di coordinare la lotta al terrorismo il Pentagono tenterà di ripristinare l’«Impero americano». Se fino a oggi è esistita una propaganda per combattere l’arruolamento di nuovi jihadisti, il Pentagono e il segretariato della Sicurezza delle Patria sono autorizzati a farne un’ideologia di Stato per mobilitare l’intera società. L’antiterrorismo s’avvia a diventare quel che l’anticomunismo fu all’epoca del senatore Joseph McCarthy. Pur combattendo i gruppi etichettati come «terroristi», il Pentagono prende atto che non potrà prevenire tutti gli attentati in territorio Usa, per questa ragione svilupperà un programma di riparazione danni. È un capovolgimento di mentalità. Finora nessun nemico ha raggiunto il suolo statunitense, gli eserciti Usa sono schierati nel mondo per imporre la legge di Washington. Il Pentagono comincia a concepirsi come forza di Difesa del territorio. Questa nuova Strategia nazionale contro il terrorismo è molto lontana dalle analisi formulate da Donald Trump e Michael T. Flynn durante la campagna elettorale. Avrà un impatto minimo sul terrorismo. Bisogna ricercarne l’utilità altrove: il presidente sta riconfigurando un passo per volta l’apparato di sicurezza dello Stato federale. Se sarà applicato, questo testo avrà conseguenze profonde a lungo termine. Partecipa della volontà di trasformazione delle forze armate imperialiste in organi di difesa nazionale”. Le relazioni internazionali, dunque, risultano totalmente stravolte, in attesa della tempesta. Oltre il 6 Novembre 2018. “Tutte le questioni internazionali – scrive Thierry Meyssan – sono in sospeso in attesa delle elezioni statunitensi. I partigiani del vecchio ordine internazionale puntano su un cambiamento di maggioranza al Congresso e su una destituzione rapida del presidente Trump. Se l’ospite della Casa Bianca rimarrà al suo posto, i protagonisti della guerra contro la Siria dovranno ammettere la sconfitta e trovare nuovi campi di battaglia. Viceversa, se Trump perderà le elezioni, il Regno Unito rilancerà immediatamente il conflitto in Siria. La fase attuale, che è iniziata con la reazione della Russia alla distruzione del suo Ilyushin-20 e che si protrarrà fino alle elezioni legislative statunitensi del 6 novembre prossimo, è incerta. Tutti i protagonisti della guerra in Siria aspettano di sapere se la Casa Bianca potrà continuare la politica di rottura con l’attuale ordine internazionale o se il Congresso passerà nelle mani dell’opposizione e darà immediatamente inizio alla procedura di destituzione del presidente Trump. È ormai chiaro che il progetto iniziale di Stati Uniti, Regno Unito, Israele, Arabia Saudita e Qatar non si realizzerà, così come non si realizzeranno i progetti di Francia e Turchia, due potenze entrate in un secondo tempo nella guerra contro la Siria. Dobbiamo avere presente non in che modo abbiamo appreso l’inizio degli avvenimenti, bensì ciò che abbiamo scoperto in seguito. Le manifestazioni di Deraa ci furono presentate come una «rivolta spontanea» contro la «repressione di una dittatura»; oggi sappiamo che invece furono a lungo preparate. Dobbiamo anche smettere di credere che i membri di una Coalizione, benché uniti per conseguire il medesimo obiettivo, condividano anche la stessa strategia. Quale che sia l’influenza dell’uno o dell’altro, ogni Stato custodisce la propria storia, persegue i propri interessi e i propri scopi di guerra. Gli Stati Uniti miravano alla distruzione delle strutture statali del Medio Oriente Allargato, secondo la strategia dell’ammiraglio Arthur Cebrowski. Si appoggiavano al Regno Unito che, da parte sua, metteva in atto la strategia di Tony Blair, finalizzata a insediare nella regione i Fratelli Mussulmani; nonché su Israele, che s’ispirava alla strategia di egemonia regionale d’Oded Yinon  e di David Wurmser. Le armi furono depositate anticipatamente dall’Arabia Saudita nella moschea Omar di Deraa e il Qatar inventò la storia dei bambini cui erano state strappate le unghie. All’epoca, l’Arabia Saudita non cercava né d’imporre una nuova politica alla Siria né di rovesciare il governo siriano. Riad voleva esclusivamente impedire che alla presidenza ci fosse un non-sunnita. Per una strana evoluzione storica, i wahabiti, che due secoli prima consideravano sunniti e sciiti entrambi eretici e incitavano a sterminarli se non si fossero pentiti, si atteggiano ora a difensori dei sunniti e persecutori degli sciiti. Quanto al piccolo emirato del Qatar, voleva rivalersi per l’interruzione del progetto di gasdotto in Siria. La Francia, che avrebbe dovuto partecipare alla congiura in virtù degli accordi di Lancaster House, fu tenuta in disparte per le inaspettate iniziative prese in Libia. Il ministro degli Esteri, Alain Juppé, tentò di spingere la Francia a unirsi ai complottisti, ma l’ambasciatore francese a Damasco, Eric Chevallier, che essendo sul posto poteva constatare la distorsione dei fatti, tirava il freno. Quando fu riaccettata nel complotto, la Francia si prefisse lo stesso obiettivo di colonizzazione della Siria del 1915, sulla scia degli accordi Sykes-Picot-Sazonov. Così come all’epoca fu considerato transitorio, rispetto alla colonizzazione permanente dell’Algeria, il mandato francese sulla Siria nel XXI Secolo è considerato di secondo piano rispetto al controllo del Sahel. Inoltre, nel tentativo di realizzare la vecchia mira, Parigi cominciò a spingere per la creazione di un nucleo statale curdo, sul modello di quel che nel 1917 i Britannici fecero in Palestina con gli ebrei. La Francia si alleò così con la Turchia che, in nome del «giuramento nazionale» di Atatürk, invase il nord della Siria per creare uno Stato dove espellere i Curdi di Turchia. Se gli obiettivi dei primi quattro aggressori, Stati Uniti, Regno Unito, Israele e Arabia Saudita, sono tra loro compatibili, quelli di Francia e Turchia non lo sono con gli altri. Del resto, Francia, Regno Unito e Turchia sono ex potenze coloniali. Tutte e tre cercano d’insediarsi sullo stesso trono. La guerra contro la Siria ha così riacceso le rivalità del passato. A fine 2013 il Pentagono rivide i propri piani nel quadro della strategia Cebrowski. Modificò i piani iniziali, quelli rivelati da Ralph Peters, sostituendoli con il disegno di Robin Wright di creare un «Sunnistan» a cavallo di Siria e Iraq. Tuttavia il dispiegamento in Siria, a settembre 2015, delle Forze Armate Russe per ostacolare la creazione del «Sunnistan» da parte di Daesh rovinò gli intenti dei sei principali partner della guerra. I successivi tre anni di conflitto risposero a un altro obiettivo: da un lato, creare un nuovo Stato a cavallo tra Iraq e Siria, nel quadro della strategia Cebrowski; dall’altro, utilizzare Daesh per tagliare la Via della Seta che la Cina di Xi Jinping desiderava riattivare, mantenendo così il dominio continentale da parte del partito «occidentale». La vicenda della distruzione, il 17 settembre 2018, dell’Ilyuscin-20 ha fornito alla Russia l’occasione di mettere fine a questa guerra infinita e di accordarsi con la Casa Bianca, in contrasto con gli altri aggressori. È la riedizione, su scala minore, della reazione Urss-Usa alla crisi del Canale di Suez del 1956. Mosca non solo ha appena consegnato all’Esercito Arabo Siriano dei missili antiaerei (gli S-300) ma ha anche dispiegato in Siria un intero sistema di integrato sorveglianza. Quando questo sistema sarà operativo e gli ufficiali siriani saranno stati addestrati a manovrarlo, ossia entro tre mesi al più tardi, sarà impossibile agli eserciti occidentali sorvolare la Siria senza il consenso di Damasco. Il presidente Trump aveva annunciato in anticipo l’intenzione di ritirare le truppe statunitensi dalla Siria. Era stato poi costretto a fare marcia indietro per l’insistenza del Pentagono. Trump, di comune accordo con i generali, aveva perciò deciso di mantenere la pressione su Damasco fino tanto che gli Stati Uniti sarebbero stati esclusi dai negoziati di pace di Sochi. Il dispiegamento delle armi russe, probabilmente con il consenso della Casa Bianca, fornisce al presidente Trump l’occasione di far arretrare il Pentagono, che dovrebbe così ritirare le proprie truppe e mantenervi invece i mercenari (in questo caso i Curdi e gli arabi delle Forze Democratiche). Nel suo discorso all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite il ministro degli Esteri siriano, Walid el-Mouallem, ha preteso il ritiro immediato e senza condizioni delle forze d’occupazione straniere Usa, francesi e turche. Se gli Stati Uniti se ne vanno, i francesi e i turchi non potranno restare. Gli israeliani non potranno sorvolare e bombardare il Paese. I britannici si sono già ritirati. Tel Aviv, Parigi e Ankara sperano però che il presidente Trump perda le elezioni legislative del 6 Novembre e che venga destituito. Attendono perciò l’esito dello scrutinio prima di prendere decisioni. Nell’ipotesi che Trump vinca le elezioni di mid-term al Congresso, si porrà un altro problema: se gli Occidentali devono rinunciare alla Siria, dove proseguiranno la loro guerra senza fine? Su una cosa tutti gli esperti concordano: la classe dirigente occidentale è talmente presuntuosa e desiderosa di rivincita che non può accettare di essere retrocessa alle spalle delle nuove potenze euroasiatiche. Saggezza vorrebbe che, perduta la guerra, gli aggressori si ritirassero. Ma l’atteggiamento intellettuale degli Occidentali glielo impedisce. La guerra finirà in Siria quando avranno trovato altrove un nuovo osso da rosicchiare. Solo il Regno Unito ha già pensato a quale sarà la propria risposta. È già da ora evidente che, sebbene Londra mantenga la pressione diplomatica sulla Siria attraverso il Piccolo Gruppo (Small Group), le sue intenzioni sono già rivolte a una ripresa del «Grande Gioco», lo scontro che oppose la corona allo Zar per tutto il XIX Secolo. Dopo essersi inventati l’affare Skripal, sul modello del «Telegramma Sinoniev», Londra ha appena sorpreso in flagrante “delitto” i servizi dell’intelligence russa che stavano tentando di scoprire quel che si stava tramando contro di loro all’interno dell’Organizzazione per la Proibizione delle Armi Chimiche (OPAC, OPWC in inglese). Questa dottrina geopolitica è indipendente dagli avvenimenti che le servono da pretesto. Il «Grande Gioco» era la strategia dell’Impero britannico. La sua riattivazione da parte dell’attuale Regno Unito è conseguenza della Brexit e della politica di «Global Britain». Come nel XIX Secolo, questa configurazione antirussa si accompagnerà, a termine, a una rivalità esacerbata tra Londra e Parigi. Al contrario, in caso di sconfitta di Theresa May, di rimessa in discussione della Brexit e di rientro del Regno Unito nell’Unione Europea, queste proiezioni saranno annullate. Se la Francia pensa sin da ora di lasciare il Medio Oriente per concentrarsi sul Sahel, la posizione degli Stati Uniti è molto più problematica. Dall’11 settembre 2001 il Pentagono gode di una certa autonomia. I dieci Comandanti delle Forze Armate non possono ricevere ordini dal presidente del Comitato di Stato Maggiore congiunto, bensì unicamente dal segretario della Difesa. Col tempo sono diventati dei veri e propri “viceré” dell’ “Impero americano”; una funzione che non hanno intenzione di lasciare ridimensionare dal presidente Trump. Alcuni di loro, come il comandante per l’America del Sud (SouthCom), vogliono proseguire nella strategia dell’ammiraglio Cebrowski, nonostante le obiurgazioni della Casa Bianca. Molte sono perciò le incertezze. Il solo passo compiuto riguarda Daesh; per tre anni gli Occidentali hanno affermato di combattere l’organizzazione terrorista, sebbene continuassero a rifornirla di armi. Adesso Trump ha ordinato di far finire l’esperimento di uno Stato apertamente terrorista, il Califfato, e gli eserciti siriano e russo hanno respinto gli jihadisti. Gli Occidentali non vogliono vedere i loro amici, i “ribelli moderati”, ora chiamati “terroristi”, riversarsi a casa loro. Di conseguenza, che lo confessino o no, auspicano la loro morte in Siria. Saranno le elezioni di mid-term negli Stati Uniti che determineranno la prosecuzione della guerra in Siria o il suo spostamento su un altro campo di battaglia”. Una cosa è certa: la Russia, se aggredita, può affondare tutte le portaerei statunitensi che navigano a Est della Groenlandia. “Il Pentagono non può allestire un blocco navale contro la Russia né nel Mediterraneo né, più in generale, altrove. Allargando il ragionamento – scrive Valentin Vasilescu – oggi ci mostra che gli Stati Uniti non sono più in grado di muovere una guerra navale alla Russia a est della Groenlandia. Mosca ha già dimostrato la superiorità del proprio armamento terrestre in Siria. Benché lo scontro tra i due Grandi sia stato prudentemente evitato, oggi è palese che la Russia non teme più un eventuale attacco convenzionale degli Stati Uniti. Gli Stati Uniti hanno una posizione geografica isolata e possiedono la forza navale più potente, in grado di intervenire in qualsiasi parte del mondo. Un blocco imposto alla Russia nel Mar Nero e Mediterraneo dagli Stati Uniti, come disse a Pittsburgh il segretario agli interni Ryan Zinke al Consumer Energy Alliance, è quasi impossibile, poiché i nuovi missili ipersonici Kh-47M2 Kinzhal e 3M22 Zirkon possono neutralizzare il gruppo navale degli Stati Uniti sullo Stretto di Gibilterra. Il Regno Unito annunciava l’invio di 800 commando nel nord della Norvegia per affrontare “l’aggressione” della Russia. Nel spiegamento di ulteriori truppe Nato negli Stati baltici e polacco, la Marina Usa annunciava la riattivazione della Seconda Flotta, sette anni dopo la disattivazione, con un’area di responsabilità su Nord, Baltico e Oceano Artico. L’avamposto di Kaliningrad nel Baltico e il gasdotto Nord Stream, sono le principali vulnerabilità della Russia nel fianco orientale della Nato. Gli Stati Uniti, sostenuti dalla Nato, potrebbero imporre il blocco navale alla Russia con la Seconda Flotta nell’Atlantico, Mar Baltico ed Artico? Le portaerei non si avventurano nell’Artico perché possono rimanere bloccate nel ghiaccio. Per le altre due zone, questo è possibile, ma senza alcuna possibilità di successo. La Russia può attaccare il blocco navale degli Usa con missili ipersonici contro le navi di superficie non appena entrassero nello Stretto di Skagerrak che collega Mare del Nord e Mar Baltico. Inoltre, i sottomarini a propulsione nucleare armati di missili ipersonici russi possono colpire un gruppo navale statunitense quando si trova a 1000 chilometri dalle costa orientali dell’Oceano Atlantico, a sud dell’Islanda. I Russi possono anche lanciare missili ipersonici Kh-47M2 aero-lanciati dai bombardieri a lungo raggio Tu-160 e Ru-23M3, se il gruppo navale statunitense raggiungesse la Groenlandia meridionale. Per evitare di essere intercettati, la rotta degli aerei sorvolerebbe il Polo Nord. Quali sono le possibilità di sopravvivenza del gruppo navale degli Stati Uniti? Il tempo di reazione degli Statunitensi in caso di un attacco con missili ipersonici è molto basso, a causa dell’elevata velocità e della quantità minima di tempo dei missili ipersonici nella zona di reazione dei sistemi antiaerei. Il missile Kinzhal ha un’autonomia di 2000 chilometri, una velocità di 12250 km/h e una quota di crociera di 50.000 m. Il missile Zirkon ha un’autonomia di 1000 km, una velocità di 9800 km/h e una quota di crociera di 40.000 m. La probabilità di distruggere una portaerei con entrambi i tipi di missili ipersonici, perforandone la difesa aerea, è dell’88%. Ciò significa che su 100 missili ipersonici lanciati, 88 violeranno le difese aeree distruggendo i bersagli. Nel caso degli Stati Uniti, se 11 missili ipersonici russi vengono lanciati contro le 11 portaerei statunitensi, solo 1,3 missili non colpiranno gli obiettivi. Ciò significa che rimarrebbero due portaerei, inclusa una danneggiata, dopo la prima salva di missili ipersonici russi. Per la flotta statunitense, significherebbe un disastro incommensurabile”. La Russia applicherà una “no fly zone” totale in Siria agli Occidentali (Israele incluso)? Come si applica ad una zona “no fly” totale in Siria? “La scienza militare ha usato l’espressione “misure di sicurezza utilizzate in combattimento”. Gli Stati Uniti – scrive Valentin Vasilescu – hanno le misure di sicurezza più sofisticate in tutti i teatri in cui operano per proteggere i loro soldati. Poiché la Russia non voleva contrariare Israele, Turchia e Stati Uniti, non volle prendere questo tipo di misure. Si sono detti: “va tutto bene”. Ma questa politica non ha funzionato. Hanno perso 15 ufficiali, morti quando il loro aereo da ricognizione Il-20 venne abbattuto. Tutti questi ufficiali erano altamente qualificati in un settore molto delicato. La Russia avrà bisogno di 5-6 anni prima di poterli sostituire. La conseguenza di tale dramma è che Mosca adotta misure di sicurezza rigorose in Siria, indipendentemente da quale possa essere la reazione di Washington. Così il Ministro della Difesa russo dichiarava che tra due settimane avrebbe fornito alla Siria i moderni sistemi missilistici antiaerei S-300PMU2, con un raggio di 250 km. Ma non sono questi missili che garantiranno la sicurezza di aerei ed obiettivi terrestri russi e siriani. Questo è il motivo per cui non sono l’elemento più importante. La vera importanza è l’architettura globale creata dalla Russia nello spazio aereo siriano. Oltre ai sistemi S-300PMU2, la Russia fornirà il sistema più moderno al mondo per la gestione dello spazio aereo, chiamato C3I, che garantisce una gestione automatizzata. Questo è un passo da gigante per l’Esercito Siriano, aumentandone la precisione di 50 volte. Quindi il lancio dei missili più vecchi dell’era sovietica (S-200, S-75, S-125, ecc.) non sarà più un’impresa rischiosa; infatti, saranno precisi quasi quanto l’S-300. Il ruolo dei sistemi di gestione automatizzata è l’interfaccia necessaria per consentire alle unità aeree e di difesa siriane di operare contemporaneamente, anche con i Russi. Una volta che un radar in Siria rileva un bersaglio aereo, il sistema automatizzato mostrerà le informazioni su tutti i radar per riconoscere e controllare aerei, i missili e artiglieria antiaerea siriani e russi. Tutte le unità dei missili antiaerei e gli aerei intercettori siriani saranno archiviati nella memoria dei server informatici integrati russi, memorizzando il quadro radar di tutti i bersagli aerei, compresi missili da crociera e F35. Una volta identificati, i bersagli aerei vengono registrati e i loro dati rispediti dal sistema centrale dell’autorità delle Forze Armate Siriane. L’intero processo è supervisionato automaticamente dal capo del contingente russo in Siria. Tutti i bersagli aerei (aerei civili, militari russi, siriani e stranieri) sono simboleggiati da pulsanti colorati, blu, verde, giallo, arancione e rosso, secondo il grado di rischio. Questo crea anche un ordine di priorità nel rispondere all’attacco nemico. Nella seconda schermata il sistema di gestione automatizzato osservava come l’F-16 israeliano manovrò in modo da mettere l’aereo Il-20 russo tra esso e il missile S-200. Il sistema informatico russo mette quindi in posizione di combattimento, tutte le unità dell’Aeronautica Araba Siriana e i missili siriani estrapolando la traiettoria dei bersagli assegnati, predicendo i bersagli terrestri del nemico, calcolando il numero e il tipo di aerei da combattimento disponibili e di missili antiaerei che devono entrare in azione. Aerei e missili siriani sono controllati da un canale di flusso di dati impossibile da manomettere. I sistemi di gestione automatizzati dispongono anche di apparecchiature che rendono impossibile qualsiasi interferenza. Calcolano, col metodo della triangolazione, le coordinate del bersaglio aereo e genera interferenze. Anche l’Esercito Arabo Siriano riceverà dalla Russia materiale specializzato in questo settore. Il risultato è la precisa sequenza delle evoluzioni dei generatori d’interferenza ed eliminazione di falsi bersagli. La Russia disporrà di attrezzature che permettano d’interferire coi sistemi di navigazione via satellite (Gps), radar navali ed aerei, dati e comunicazioni di tutti i mezzi di attacco alla Siria dal Mediterraneo. Quest’apparecchiatura d’interferenza funzionerà in coordinamento col sistema di gestione dello spazio aereo siriano. I missili da crociera “invisibili” inglesi Storm Shadow, lo Scalp francese, gli Jasmm invisibili e i Tomahawk statunitensi lanciati lo scorso Aprile, sono guidati dal Gps. La fortuna non li favorisce più, perché non potranno più colpire alcun bersaglio in Siria. E tutto questo grazie all’operazione con cui gli Israeliani provocarono la distruzione dell’aereo Il-20 russo, con la partecipazione di una fregata francese e di un aereo Tornado inglese. È molto probabile che il sistema di automatizzazione utilizzato sia il Poljana D4M1. Può: coprire un’area di 800 kmq; seguire 500 bersagli aerei e missili balistici contemporaneamente e agire allo stesso tempo contro 250 di essi; integrare più di 14 divisioni di missili antiaerei a lungo raggio S-300, missili antiaerei a corto e medio raggio di qualsiasi generazione. Il tempo di reazione è 1-3 secondi. Una volta che l’Esercito Arabo Siriano sarà integrato in questo sistema di gestione dello spazio aereo, il suo sistema sarà simile a quello degli eserciti russi, statunitensi, inglesi, francesi e israeliani. L’Esercito Arabo Siriano potrà quindi scatenare un’offensiva contro i terroristi nella provincia di Idlib, senza temere rappresaglie statunitensi, inglesi, israeliane e francesi. E da questo punto di vista, l’aggressione alla Siria, mascherata dall’espressione “guerra civile”, finirà presto. Contrariamente alla Siria, che ha ricevuto questo sistema dalla Russia senza dover pagare un centesimo, la Romania, Stato membro della Nato, ha acquistato 7 batterie antiaeree degli Stati Uniti per 3,6 miliardi di euro (roba da Striscia La Notizia e Le Iene). Senza il sistema di automatizzazione della gestione. Se scoppiasse una guerra, centinaia di missili Patriot verrebbero lanciati contro obiettivi aerei falsi”. Come uscire dalla guerra contro la Siria? “La Casa Bianca non riesce a ritirarsi dalla guerra contro la Siria. Il presidente Trump – scrive Thierry Meyssan – si scontra sia con l’autoproclamatosi «Stato permanente» (così definito in un editoriale anonimo del New York Times) che persegue la strategia Rumseld-Cebrowski sia con le rinnovate ambizioni degli alleati israeliani, francesi, britannici e turchi. La logica che sottende questi interessi potrebbe dislocare la guerra anziché risolverla. Sebbene Casa Bianca e Russia si siano accordate per mettere fine alla guerra condotta per procura dagli jihadisti, la pace tarda ad arrivare. Perché? Perché la guerra contro la Siria? In contrasto con un’idea diffusa in sette anni di propaganda, la guerra contro la Siria non è una «rivoluzione andata male». È stata decisa dal Pentagono a settembre 2001, è stata a lungo preparata, sebbene abbia incontrato alcuni intoppi. Una guerra preparata per un decennio. Ricordiamo le principali tappe della pianificazione. A settembre 2001 il segretario Usa alla Difesa, Donald Rumsfeld, adotta la strategia dell’ammiraglio Cebrowski: le strutture statali di mezzo mondo dovranno essere distrutte. Gli Stati Uniti controlleranno l’accesso alle risorse naturali delle regioni non connesse all’economia globale da parte degli Stati la cui economia è invece globalizzata. Il Pentagono comincerà il lavoro «rimodellando» il «Medio Oriente Allargato». Il 12 dicembre 2003 George Bush Jr. firma la Legge sul ripristino della sovranità libanese presentandone il conto alla Siria (Syria Accountability and Lebanese Sovereignty Restoration Act). Da questo momento il presidente degli Stati Uniti è autorizzato a entrare in guerra contro la Siria senza dover passare dal Congresso. Nel 2004, durante il vertice della Lega Araba a Tunisi, il presidente Ben Ali tenta di far passare una mozione che autorizzi la Lega a legittimare l’uso della forza contro gli Stati membri che non rispettino la nuovissima Carta dei Diritti dell’Uomo della Lega. Nel 2005 la CIA organizza la rivoluzione colorata del Cedro in Libano. Assassinando il leader sunnita Rafic Hariri e addossandone la responsabilità al presidente libanese, cristiano, e al presidente siriano, alauita, la CIA vuole provocare un sollevamento sunnita contro la Forza siriana di mantenimento della pace. Mentre i Marines sono pronti a sbarcare a Beirut, la Siria si ritira di propria iniziativa, vanificando la provocazione. Nel 2006 Dick Cheney affida alla figlia Liz il compito di creare il «Gruppo per la Politica e le Operazioni in Iran e i Siria» (Iran Syria Policy and Operations Group). Liz Cheney organizza l’attacco israeliano agli Hezbollah, pensando che questi non potranno resistere a lungo. Il piano prevede che i Marines sbarchino successivamente a Beirut e proseguano nella marcia «liberatrice» su Damasco. L’operazione però non funziona e Israele deve ritirarsi dopo 33 giorni di combattimenti. Nel 2008 Washington tenta ancora di scatenare il conflitto, cominciando nuovamente dal Libano. Il primo ministro Fouad Siniora decide di tagliare le comunicazioni interne della Resistenza e d’interrompere i collegamenti aerei con Teheran. Nello spazio di alcune ore gli Hezbollah rovesciano il dispositivo militare degli Occidentali e ripristinano le proprie infrastrutture. Nel 2010 Washington adotta la strategia del «guidare da dietro le quinte» (leading from behind). L’amministrazione Obama affida l’attacco alla Libia e alla Siria a Regno Unito e Francia (accordi di Lancaster House). Nel 2011 iniziano le operazioni militari in Siria. È dunque assurdo – rileva Thierry Meyssan – parlare della guerra contro la Siria come di un avvenimento spontaneo, sui generis. La particolarità della guerra contro la Siria è sì di essere stata dichiarata da Stati (gli «Amici della Siria») ma di essere stata nei fatti condotta pressoché esclusivamente da eserciti non di Stati, gli jihadisti. In sette anni di guerra, oltre 250.000 combattenti sono arrivati dall’estero per battersi contro la Repubblica Araba Siriana. Si trattava sicuramente di carne da cannone, di gente spesso non preparata, ma nei primi quattro anni di guerra questi soldati erano meglio equipaggiati dell’Esercito Arabo Siriano. Per approvvigionarli in armi e materiale militare è stato organizzato il più grande traffico d’armi della storia. Dalla Rinascita Europea, mai gli Occidentali avevano fatto ricorso a mercenari su simile scala. È dunque assurdo parlare di «rivoluzione andata male». Una guerra cui hanno sovrinteso alleati che avevano finalità proprie. Ricorrendo a Israele per attaccare il Libano, poi affidando le guerre di Libia e Siria a Regno Unito e Francia e, infine, utilizzando le installazioni Nato in Turchia, il Pentagono ha permesso agli alleati di scompaginare il suo piano. In ogni guerra il Paese leader deve promettere agli alleati che l’investimento avrà una contropartita. Ebbene, con l’entrata in guerra della Russia, la vittoria occidentale è diventata impossibile. Ciascun alleato degli Stati Uniti ha perciò progressivamente ripiegato sulla propria strategia nella regione. Con il tempo, gli scopi degli alleati hanno preso il sopravvento sulla finalità degli Stati Uniti, dal momento che costoro si rifiutavano d’impegnarsi militarmente. Nel solco dell’ideologia coloniale di alcuni padri fondatori, Israele persegue una politica di divisione dei suoi grandi vicini in piccoli Paesi, etnicamente o religiosamente omogenei. Per tale ragione ha sostenuto, invano, la divisione del Libano in due Stati, uno mussulmano, l’altro cristiano, nonché la creazione di un Kurdistan in Iraq e, successivamente, in Siria. Non disponiamo di documenti sulla strategia di Israele, ma, retrospettivamente, possiamo ritenere la linea di Tel Aviv rispondente al «piano Yion» del 1982 o a quella dell’Institute for Advanced Strategic and Political Studies del 1995. La strategia israeliana collima a grandi linee con il «rimodellamento del Medio Oriente Allargato» di Rumsfeld e Cebrowski. Non ha però lo stesso obiettivo: il Pentagono vuole controllare l’accesso dei Paesi sviluppati alle ricchezze della regione, Israele vuole invece far sì che nessuno dei propri vicini sia abbastanza forte da rappresentare una minaccia. Regno Unito e Francia vogliono riallacciarsi alla politica coloniale, in atto al momento della caduta dell’Impero Ottomano e della divisione del Medio Oriente (accordi Sykes-Picot). I Britannici rispolverano la «Grande Rivolta Araba del 1915» messa in atto da Lawrence d’Arabia contro gli Ottomani. All’epoca gli Inglesi promisero a tutti gli Arabi la libertà se si fossero liberati dal giogo ottomano e avessero portato i wahabiti al potere; ora promettono agli Arabi la libertà se rovesceranno i governi nazionali e li rimpiazzeranno con i Fratelli Mussulmani. Né nel 1915, quando l’Impero Britannico sostituì l’Impero Ottomano, né nel 2011 gli Arabi riacquisteranno la libertà. Questo il piano della «Primavera Araba del 2011». I Francesi cercano invece di ripristinare il mandato sulla Siria, che fu loro assegnato dalla Società delle Nazioni. Questo è quanto spiega l’ex presidente Giscard d’Estaing, nonché pronipote di Picot (quello degli accordi Sykes-Picot). E questo è quanto chiesto dal presidente Hollande nel suo viaggio negli Stati Uniti del 2015. Come nel 1921, la Francia vuole far leva sulla separazione etnica di Curdi e Arabi. Difende perciò la creazione di un Kurdistan, ma non sul suo territorio storico, in Turchia, bensì in qualunque posto, purché su terre arabe siriane. Quanto alla Turchia, essa sogna di realizzare la promessa del fondatore, Mustafa Kemal Atatürk: il «Giuramento Nazionale» (Misak-ı Millî), adottato dal parlamento ottomano il 12 febbraio 1920. La Turchia vuole annettere il nord della Siria, inclusa Aleppo, e, al tempo stesso, eliminare i cristiani, cattolici di Maalula e armeni di Kessab compresi. La Turchia è in contrasto con gli altri alleati: con gli Israeliani perché vuole annettere il nord della Siria invece di renderlo autonomo; con i Britannici perché vuole ristabilire il Califfato ottomano; infine con i Francesi perché si oppone alla creazione di un Kurdistan indipendente in Siria. Soprattutto, la Turchia è in conflitto con gli Stati Uniti stessi, che non fanno mistero di volerla distruggere, dopo lo smantellamento della Siria. Come uscire da questa guerra? Dopo sette anni di combattimenti, lo Stato siriano è ancora in piedi. La Repubblica Araba Siriana e i suoi alleati, Russia, Iran e Hezbollah, hanno vinto. Gli eserciti stranieri (gli jihadisti) hanno subìto una cocente sconfitta, però non i loro mandanti: Stati Uniti, Israele, Regno Unito e Francia, Turchia. Non solo la guerra ha risvegliato le ambizioni dell’inizio del XX Secolo, ma nessuno dei protagonisti, che non hanno vissuto la sconfitta sulla propria pelle, è disposto ad abbandonare la lotta. Sembra stupido ricominciare daccapo una guerra che gli jihadisti hanno appena perso. La presenza delle Forze Armate Russe rende ora impossibile qualunque scontro diretto. Lungi dall’essere annientati, adesso i Siriani sono agguerriti, ancor più pronti a sopportare, nonché molto meglio armati. Soprattutto, hanno molto riflettuto e sono meno manipolabili del 2011. Eppure, la retorica politica occidentale ha ripescato la vecchia solfa «Bashar deve andarsene». Logica vorrebbe dunque che il conflitto continuasse su un altro terreno. In passato, l’ammiraglio Cebrowski aveva previsto di trasferire in un secondo momento la guerra in Asia centrale e nel Sud-Est asiatico; i suoi eredi devono però prima di tutto farla finita con il Medio Oriente Allargato: ora stanno offrendosi la possibilità di riaccendere il focolaio iracheno, come si può vedere dallo spettacolare dietro-front dell’amministrazione Rohani e dalle sommosse a Bassora”. Israele ha 400 armi nucleari puntate sull’Iran. “Il chiasso che circonda il ritiro degli Stati Uniti dall’accordo sul nucleare iraniano – scrive Manlio Dinucci autore dei libri “Guerra nucleare – il giorno prima” (Zambon) e “Diario di guerra” (Asterios), e di autorevoli interventi su Pandora Tv nella serie “L’Arte della Guerra” (https://www.youtube.com/watch?v=dS_lvqZoqOc) che è anche un suo libro – maschera le sfide vere. La più importante riguarda questo dato fondamentale: Israele è una potenza nucleare, mentre l’Iran non lo è. La decisione degli Stati Uniti di uscire dall’accordo sul nucleare iraniano, stipulato nel 2015 da Teheran con i 5 membri permanenti del Consiglio di Sicurezza dell’Onu più la Germania, provoca una situazione di estrema pericolosità non solo per il Medio Oriente. Per capire quali implicazioni abbia tale decisione, presa sotto pressione di Israele che definisce l’accordo «la resa dell’Occidente all’asse del male guidato dall’Iran», si deve partire da un fatto ben preciso: Israele ha la Bomba, non l’Iran. Sono oltre cinquant’anni che Israele produce armi nucleari nell’impianto di Dimona, costruito con l’aiuto soprattutto di Francia e Stati Uniti. Esso non viene sottoposto a ispezioni poiché Israele, l’unica potenza nucleare in Medio Oriente, non aderisce al Trattato di Non Proliferazione delle Armi Nucleari, che invece l’Iran ha sottoscritto cinquant’anni fa. Le prove che Israele produce armi nucleari sono state portate oltre trent’anni fa da Mordechai Vanunu, che aveva lavorato nell’impianto di Dimona: dopo essere state vagliate dai maggiori esperti di armi nucleari, furono pubblicate dal giornale The Sunday Times il 5 ottobre 1986. Vanunu, rapito a Roma dal Mossad e trasportato in Israele, fu condannato a 18 anni di carcere duro e, rilasciato nel 2004, sottoposto a gravi restrizioni. Israele possiede oggi (pur senza ammetterlo) un arsenale stimato in 100-400 armi nucleari, tra cui mini-nukes e bombe neutroniche di nuova generazione, e produce Plutonio e Trizio in quantità tale da costruirne altre centinaia. Le testate nucleari israeliane sono pronte al lancio su missili balistici, come il Jericho 3, e su cacciabombardieri F-15 e F-16 forniti dagli Usa, cui si aggiungono ora gli F-35. Come confermano le numerose ispezioni della Aiea, l’Iran non ha armi nucleari e si impegna a non produrle sottoponendosi in base all’accordo a stretto controllo internazionale. Comunque – scrive l’ex segretario di stato Usa Colin Powell il 3 marzo 2015 in una email venuta alla luce – «quelli a Teheran sanno bene che Israele ha 200 armi nucleari, tutte puntate su Teheran, e che noi ne abbiamo migliaia». Gli alleati europei degli Usa, che formalmente continuano a sostenere l’accordo con l’Iran, sono sostanzialmente schierati con Israele. La Germania gli ha fornito quattro sottomarini Dolphin, modificati così da poter lanciare missili da crociera a testata nucleare. Germania, Francia, Italia, Grecia e Polonia hanno partecipato, con gli Usa, alla più grande esercitazione internazionale di guerra aerea nella storia di Israele, la Blue Flag 2017. L’Italia, legata a Israele da un accordo di cooperazione militare (Legge n. 94, 2005) vi ha partecipato con caccia Tornado del 6° Stormo di Ghedi, addetto al trasporto delle bombe nucleari Usa B-61 (che tra non molto saranno sostituite dalle B61-12). Gli Usa, con F-16 del 31st Fighter Wing di Aviano, addetti alla stessa funzione. Le forze nucleari israeliane sono integrate nel sistema elettronico Nato, nel quadro del «Programma di cooperazione individuale» con Israele, paese che, pur non essendo membro dell’Alleanza, ha una missione permanente al Quartier Generale della Nato a Bruxelles. Secondo il piano testato nella esercitazione Usa-Israele Juniper Cobra 2018, forze Usa e Nato arriverebbero dall’Europa (soprattutto dalle basi in Italia) per sostenere Israele in una guerra contro l’Iran. Essa potrebbe iniziare con un attacco israeliano agli impianti nucleari iraniani, tipo quello effettuato nel 1981 a Osiraq in Iraq. In caso di rappresaglia iraniana, Israele potrebbe far uso di un’arma nucleare mettendo in moto una reazione a catena dagli esiti imprevedibili”. La Russia si oppone a una guerra tra Iran e Israele. “Nel conflitto Russia-Usa la maggior parte degli osservatori – scrive Thierry Meyssan – si schiera e auspica la vittoria dell’uno o dell’altro campo. Mosca cerca invece di chetare il Medio Oriente e, per questa ragione, ostacola un attacco dell’Iran a Israele, così come nel 2008 si oppose all’operazione israeliana contro l’Iran. Nella notte tra il 29 e il 30 aprile 2018 Israele ha lanciato nove missili contro due basi militari siriane, causando danni molto gravi. Stupisce che i radar russi non hanno allertato i siriani, che quindi non hanno potuto intercettare i missili israeliani. In realtà, l’attacco non voleva colpire obiettivi siriani, bensì bersagli iraniani in basi siriane. In forza di un trattato anteriore alla guerra, l’Iran è intervenuto in aiuto della Siria sin dall’inizio dell’aggressione straniera, nel 2011. Senza il soccorso iraniano la Siria sarebbe stata sconfitta, la Repubblica sarebbe stata rovesciata e i Fratelli Mussulmani sarebbero al potere. Sennonché, da settembre 2015 la Siria ha l’appoggio anche della Russia, la cui potenza di fuoco è di gran lunga superiore a quella iraniana. È stata l’aviazione militare russa a distruggere con bombe di penetrazione le fortificazioni sotterranee costruite dalla Nato, permettendo all’Esercito Arabo Siriano di riconquistare il terreno perduto. Oggi però gli intenti di Iran e Russia divergono. La Russia vuole sradicare le organizzazioni jihadiste e pacificare l’insieme della regione. Spera inoltre di ripristinare quel legame storico che lega la cultura ortodossa e Damasco, città del cristianesimo delle origini, in conformità alla strategia che Caterina la Grande delineò nel XVIII Secolo. L’Iran è oggi un Paese diviso in tre poteri distinti. Da un lato i Guardiani della Rivoluzione, dall’altro il presidente Rohani, in mezzo la Guida Khamenei a dirimerne i conflitti. I Guardiani della Rivoluzione sono una formazione d’élite, distinta dall’esercito regolare. Obbediscono alla Guida, laddove l’esercito dipende dal presidente della Repubblica Islamica. Tentano di liberare il Medio Oriente dall’imperialismo anglosassone. Garantiscono la protezione degli sciiti ovunque nel mondo e, in cambio, contano sul loro appoggio per proteggere l’Iran. Sono presenti soprattutto in Yemen, Iraq, Siria e Libano. Il presidente Hassan Rohani sta cercando di far uscire il Paese dall’isolamento diplomatico, seguito alla Rivoluzione dell’imam Khomeini. Vuole sviluppare il commercio internazionale e ristabilire lo statuto di potenza regionale dominante, riconosciuto al Paese all’epoca dello Scià. L’ayatollah Ali Khamenei, ideologicamente vicino ai Guardiani della Rivoluzione, cerca di mantenere l’equilibrio tra i due poteri e di preservare l’unità del Paese. È un compito oggi ancora più arduo, in quanto le tensioni tra i due poteri hanno raggiunto l’apice. L’ex presidente, Mahmud Ahmadinejad (uscito dai Guardiani della Rivoluzione), e il suo vicepresidente, Hamid Beghaie, sono stati dichiarati dal Consiglio dei Guardiani della Costituzione «cattivi mussulmani». Ahmadinejad è agli arresti domiciliari, Beghaie è stato condannato, in un processo segreto, a 15 anni di reclusione. Dopo l’assassinio di Jihad Mughniyah (figlio di Imad Mughniyad, capo militare dello Hezbollah libanese), avvenuto nel gennaio 2015 sulla linea di demarcazione siriano-israeliana del Golan, tutto induce a credere che l’Iran stia cercando d’impiantare basi militari nel sud della Siria, in vista della pianificazione di un attacco a Israele, coordinato da Gaza, Libano e Siria. È il progetto che Israele cerca di impedire e che la Russia si rifiuta di avallare. Secondo il modo di vedere della Russia, Israele è uno Stato internazionalmente riconosciuto, cui appartengono oltre un milione di cittadini giunti dall’ex Unione Sovietica. Ha diritto a difendersi, indipendentemente dal problema che pongono il furto dei territori palestinesi e l’attuale regime di apartheid. Al contrario, dal punto di vista iraniano Israele non è uno Stato, bensì un’entità illegittima che occupa la Palestina e ne opprime gli storici abitanti. È quindi legittimo combatterlo. La Repubblica Islamica va oltre l’analisi del suo fondatore. Infatti, per l’imam Khomeini Israele è solo uno strumento nelle mani delle due principali potenze coloniali, gli Stati Uniti (il «Grande Satana») e il Regno Unito. Il discorso iraniano sulla Palestina è diventato negli ultimi anni oltremodo confuso: una mescolanza di argomentazioni politiche e religiose, in cui non si disdegnano nemmeno stereotipi antisemiti. Da tre anni Israele chiede a gran voce alla Russia di impedire all’Iran d’installare basi militari a distanze inferiori a 50 chilometri dalla linea di demarcazione. All’inizio, la Russia ha sottolineato che l’Iran stava vincendo la guerra in Siria, mentre Israele la stava perdendo. Quindi, Tel Aviv non poteva vantare pretese. Ma ora che si approssima una possibile fine del conflitto, la posizione della Russia è cambiata: è escluso che venga consentito all’Iran di aprire un nuovo conflitto. È esattamente la stessa posizione che, nel 2008, spinse la Russia a bombardare i due aeroporti presi a nolo in Georgia dallo Tsahal. Lo scopo allora era prevenire un attacco di Tel Aviv a Teheran. Solo che il lasciar-fare di oggi si oppone a un’iniziativa iraniana, non più israeliana. Dal punto di vista siriano, Israele è un nemico che occupa illegalmente il Golan. È un Paese che durante la guerra ha sostenuto gli jihadisti e che ha già bombardato la Siria oltre un centinaio di volte. Ma non per questo il progetto iraniano è benvenuto. Infatti, come Mosca, Damasco non contesta l’esistenza dello Stato ebraico, bensì unicamente il suo ordinamento politico, da cui i Palestinesi sono esclusi. Ma, soprattutto, la Repubblica Araba Siriana non cerca lo scontro con il vicino, bensì la pace. I presidenti Hafez e Bashar al-Assad hanno tentato invano di negoziarla, in particolare con la mediazione del presidente statunitense Bill Clinton. D’altro canto, tutti sanno che l’esercito israeliano gode dell’appoggio senza riserve degli Stati Uniti e che attaccare Israele equivale ad attaccare Washington. Anche se lo volesse, la Siria, che sta uscendo da sette anni di aggressione straniera ed è in gran parte distrutta, non potrebbe impegnarsi in questa direzione neppure se lo volesse. Pertanto, Damasco pur avendo consentito all’Iran di istallare basi sul proprio territorio non si spingerà oltre. Così come ha provocato la crisi attuale, l’approssimarsi della fine della guerra pesa anche sul futuro dell’accordo 5+1. Probabilmente gli Stati Uniti non continueranno a rendersene garanti. Quest’accordo multilaterale non è quel che si crede. Il testo firmato il 14 luglio 2015 è esattamente identico a quello negoziato il 4 aprile. Negli ultimi mesi Washington e Teheran hanno patteggiato a quattr’occhi clausole segrete bilaterali, di cui nessuno conosce la portata. Tuttavia, è evidente che, dalla conclusione di quest’accordo segreto, le truppe di Stati Uniti e Iran, che sono presenti in tutto il Medio Oriente, non si sono mai scontrate direttamente. La parte pubblica dell’intesa verte sulla sospensione, per almeno un decennio, del programma nucleare iraniano, sulla rimozione delle sanzioni internazionali contro l’Iran e su un rafforzamento dei controlli dell’AIEA (Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica, NdA). Quest’accordo è catastrofico per Teheran che, per esempio, ha dovuto chiudere il settore dell’insegnamento della Fisica Nucleare. Ciononostante, l’Iran l’ha firmato, confidando nella rimozione delle sanzioni che colpiscono duramente l’economia. Ebbene, non appena tolte, le sanzioni sono state immediatamente ripristinate sotto altro pretesto (il programma missilistico). Nel frattempo, il livello di vita degli Iraniani continua ad abbassarsi. Contrariamente a un pregiudizio diffuso, già nel 1988 la Repubblica Islamica cessò gli sforzi per avere la bomba nucleare: l’imam Khomeini aveva convinto gli iraniani che le armi di distruzione di massa sono contrarie all’Islam. L’Iran ha continuato la ricerca sul nucleare a uso civile e condotto qualche studio per applicazioni militari tattiche. Oggi, soltanto chi desidera ripercorrere la via dello Scià, ossia il gruppo del presidente Rohani, potrebbe desiderare la ripresa del programma nucleare militare. Ma non accadrà, dati gli eccellenti rapporti con Washington. A Ginevra è in corso una riunione preparatoria della Conferenza Mondiale di monitoraggio del Trattato di Non Proliferazione Nucleare. Iran e Russia sostengono una mozione per dichiarare il Medio Oriente «zona priva di armi nucleari», mozione contro cui sono schierati Israele, Arabia Saudita e i Paesi occidentali. La minaccia che Teheran esercita dalla Siria potrebbe essere interpretata come mezzo di pressione per ottenere il rispetto delle clausole segrete parallele all’accordo 5+1”. Per ora la situazione delle relazioni Usa-Russia continua a deteriorarsi, secondo il ministro degli Esteri russo Sergey Lavrov nella lunga intervista di Maggio 2018 sul settimanale Panorama. “Anche quando dal presidente degli Stati Uniti vengono alcuni impulsi positivi – rivela Lavrov – questi vengono completamente annullati da una eccezionale russofobia dell’establishment americano che presenta il nostro Paese come una minaccia e si dichiara a favore di un sistematico contenimento della Russia che prevede l’applicazione delle sanzioni e di altri strumenti di pressione. Tutto questo, naturalmente, nasce da disaccordi politici interni a Washington e non ha nulla a che fare con la realtà”. La tragedia siriana è degna di un colossal cinematografico.

© Nicola Facciolini

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