Non muri ma ponti. A 27 anni dalla caduta del muro di Berlino, ecco "1989"

I muri che dividono, isolano, imprigionano, impediscono, violano, umiliano, separano, limitano, respingono, uccidono. I muri delle contraddizioni, delle assurdità, dell’incoerenza.

Sta per essere eretto a Calais, con la stretta intesa di Gran Bretagna e Francia, un altro muro della vergogna…

 

Si intitola “1989” il libro che raccoglie dieci racconti scritti da alcuni tra gli autori contemporanei più noti della scena europea per celebrare, vent’anni dopo, la caduta del Muro di Berlino.

Gli autori, Ingo Schulze (ex Germania Est), Didier Daeninckx (Francia), Andrea Camilleri (Italia), Ljudmila Petrusevskaja (Russia), Elia Barceló (Spagna), Heinrich Böll (ex Germania Ovest), Max Frisch (Svizzera), Jirí Kratochvil (Repubblica Ceca), Olga Tokarczuk (Polonia), Miklós Vámos (Ungheria) si sono rivolti a quella generazione nata dopo il 1989 che non ha avuto esperienza diretta del muro.

Per raccontare, per non dimenticare, quanto 112 chilometri di blocchi granitici di cemento siano riusciti a dividere non solo una città ma il mondo intero. Ognuno degli scrittori racconta e affronta il proprio muro attingendo ai ricordi e alla creatività. Raccontano di frontiere, checkpoint, muri di cemento, di mattoni, di filo spinato ma anche di muri astratti, invisibili, impastati con l’odio e l’indifferenza, costruiti per difendersi dalla paura della diversità, dei contrasti, dei pregiudizi rispetto a ciò che non si conosce.

E nell’incantevole racconto di Elia Barceló, la protagonista, Frida, mentre gioca con un gruppo di bambini, raccoglie e dispone le tessere del Lego una dopo l’altra, orizzontalmente, per creare sentieri, strade e ponti per collegare tutte le costruzioni dei suoi compagni. E con l’innocenza illuminante dei bambini pronunciò la frase del grande cambiamento: “Con gli stessi materiali si possono costruire sia muri che ponti”.

La parola “ponte” è familiare, costruttiva, interculturale e si oppone a uno dei termini più usati in questi tempi: muro. All’umanità servono ponti, non muri. È questo il messaggio che il Pontefice porta oggi nel cuore dell’Europa, un’Europa più nella forma che nella sostanza: “I muri mai sono la soluzione, i ponti sì. Le barriere durano poco o molto tempo, ma non sono una soluzione. Il problema rimane e rimane con più odio. In questo momento l’Europa è in difficoltà, dobbiamo essere intelligenti, non è facile trovare soluzioni. Ma con i dialoghi fra Paesi bisogna trovarle”.

Eppure…….

A 27 anni dalla caduta del muro di Berlino, si costruiscono altri muri, si presidiano confini. Anziché accorciarsi, la lista, ostinatamente si allunga. Si innalzano per l’incapacità di trovare una soluzione diversa accomunati da un unico sentimento: la paura. Paura che in fondo stiamo vivendo tutti in un periodo di grande instabilità. Nell’era della globalizzazione e del digitale, dove tutto circola, dove tutti ci possiamo contattare , incontrare, migliaia di chilometri di cemento e filo spinato dividono, lacerano Stati, territori, famiglie, interi popoli. È un fenomeno in controtendenza rispetto ai nostri tempi di universalizzazione – dei diritti, delle culture, delle economie – in cui la libera circolazione delle merci e delle persone è obiettivo fondamentale e valore irrinunciabile tanto a livello sociale che economico.

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Muri per proteggere e muri per conquistare, barricate di cemento e filo spinato, iper-tecnologici, di sabbia o bidoni, barriere in costruzione, razziste, religiose, economiche o politiche, denunciano e mettono a nudo le debolezze della nostra società.

Muri e chilometri di filo spinato per difendere confini, combattere l’immigrazione e il terrorismo fanno una sola cosa: dividono il mondo, isolano, imprigionano, impediscono, violano, umiliano, separano, limitano, respingono, uccidono.

Un fiume di persone che si muove sognando l’Europa . Ma così come velocemente si moltiplica il popolo dei migranti, così, velocemente , si intrecciano fili spinati interiori e si solidificano muri di separazione e disperazione. Ungheria, Serbia, Carinzia, Turchia, Bulgaria, Grecia, Macedonia, Francia , Austria, Croazia, Slovenia Estonia…..

I paesi europei sopraffatti dall’ondata migratoria, chiudono, sigillano le frontiere dimenticando che alcuni furono loro stessi profughi, emigranti per decenni, in Europa e nelle Americhe. Emerge l’incapacità dell’Europa di fare squadra, di individuare strategie e percorsi comuni, l’incapacità di dialogare e trovare soluzioni diplomatiche concordate. È un problema epocale davanti al quale l’Europa resta disarmata non sapendo cosa fare e affrontando la questione in maniera sciolta, senza programmazione. Ogni Nazione europea in questa catastrofe che si chiama immigrazione se ne va per proprio conto. La globalizzazione è solo dell’indifferenza.

Il 2015 è stato l’anno del “Grande Esodo”. L’anno dei morti in mezzo al Mar Mediterraneo. L’anno della nuova rotta balcanica e della fotografia di Aylan Kurdi, il bambino con la maglietta rossa e la faccia nella sabbia, respinto dal mare e ritrovato morto sulla spiaggia di Bodrum in Turchia. Bambini uguali ai nostri figli, uguali a quelli che abbiamo sentito urlare nella metropolitana di Bruxelles. E pochi giorni fa Omran Daqneesh,dentro un’ambulanza diventa il simbolo dell’orrore della guerra in Siria.

 

Esseri umani senza pace, che fuggono da paesi che non esistono più. Fuggono disperati, cacciati dalle guerre, violenze, privazioni, vessazioni, miseria e repressione. Lasciano tutta la loro vita lì, ma per salvarla la vita? E quante migliaia sono le vittime dei nostri muri moderni, di cui anche il mar Mediterraneo, l’Egeo sono entrati a far parte? E quante ne dovremo ancora commemorare prima che la politica sia in grado di trovare soluzioni più accettabili di un “semplice” muro di cemento, di una barriera elettrificata, delle mine e del filo spinato?muro-di-berlino

Sessantamilioni sono i rifugiati nel mondo. Un’intera nazione grande come l’Italia che cerca il conforto di un luogo dove rifugiarsi e sopravvivere. Lontano dalle guerre, dalla fame, dalle carestie. Provengono da Paesi dove sono in corso guerre o conflitti, ma spesso anche da società in cui rappresentano una minoranza etnica o appartengono ad una religione differente da quella di alcuni estremisti. Tra le prime vittime di guerre e persecuzioni si contano donne e bambini. Con le nuove rotte balcaniche arrivano per la maggior parte dalla Siria, ma anche dall’Iraq e dall’Afganistan affrontando viaggi incredibili.

Molti Stati ripristinano i controlli ai confini nazionali, vacillano gli accordi per la libera circolazione interna. I Paesi aderenti all’area Schengen che per principio garantiscono la libera circolazione delle persone, chiedono la sospensione di tale principio e il ripristino dei controlli alle frontiere per evitare un “afflusso eccessivo” di migranti e profughi provenienti da Paesi terzi.

Integrazione europea, Trattato di Lisbona, Diritti sociali, Carta di Nizza, Costituzione per l’Europa. Tutto vacilla. Strampalata Unione, quella europea. È consentito, dopo averle fatte, disfare le regole di Schengen sulla libera circolazione dei cittadini all’interno delle frontiere comunitarie. Più che verso l’integrazione, questo Paese, fatto da “tanti regni diversi”, sembra avviato verso la disintegrazione.

Ma il fenomeno dell’immigrazione, deve essere trattato come un problema? Chi scappa dalla guerra, dalle persecuzioni, dalle ingiustizie non è un problema ma ha un problema. Scappare non è una volontà ma una necessità. Fiumi di persone stanno arrivando spinte dalle guerre e dai problemi che colpiscono le Terre e i Paesi da cui fuggono. C’è l’urgenza di politiche di integrazione, nelle forme opportune, nelle quote concordate, secondo criteri condivisi.

Si rende indispensabile trovare loro un sistemazione adeguata, civile, garantire educazione, assistenza e possibilmente un lavoro. Sono necessarie forme di inclusione che prevedano l’educazione ai valori fondanti delle nostre democrazie. Non si possono ripetere aggressioni come quelle avvenute a Colonia da parte di giovani migranti cresciuti in un Paese dove la libertà delle donne e delle minoranza di fatto non esistono. Senza dubbio occorrono regole certe e condivise. Ma è impensabile che la ricca Europa dei 28 Stati, uno dei continenti tecnologicamente più avanzati del pianeta, non possa accogliere una piccola percentuale in più della sua popolazione attuale. Tra la fine dell’800 e gli inizi del 900 tredici milioni di italiani, uomini e donne, si imbarcavano sulle navi nei porti di Napoli, Palermo, Trieste, Genova e salpavano verso gli Stati Uniti, il Canada, Brasile, Venezuela, Argentina, Uruguay. In quei 50 anni, a cavallo tra i due secoli, un italiano su quattro era migrato all’estero. Oggi all’estero vivono sessantamilioni di oriundi italiani, tanti quanti ne vivono nel nostro Paese.

Per non dimenticare sarebbe utile andare al cinema e vedere Fuocoammare, il film che ha vinto l’Orso d’Oro al festival di Berlino. Perché è un film-verità che racconta la storia dell’emigrazione per disperazione, vista attraverso gli occhi di chi queste storie le ha vissute personalmente. Il film è un omaggio alla gente dell’isola, quella piccola isola in mezzo al mar Mediterraneo più vicina all’Africa che all’Italia, alla quale il regista spera, anzi chiede che venga assegnato il Nobel per la pace. E  alla proposta sarebbe giusto aggiungere anche altre città della costa siciliana interessate al fenomeno, Pozzallo, Augusta, Catania, Messina, Porto Empedocle.

 

Ci sono allora altre chiavi di lettura, altri mezzi per abbattere muri per acquisire più consapevolezza.

Le usa Gianfranco Rosi, regista, con il suo film, un libero racconto che dedica “a tutti coloro che non sono mai arrivati a Lampedusa, a coloro che sono morti, ai lampedusani che mi hanno accolto e hanno accolto le persone che arrivavano. È un popolo di pescatori e i pescatori accolgono tutto ciò che arriva dal mare. Questa è una lezione che dobbiamo imparare. Le barriere non hanno mai funzionato, specialmente quelle mentali. Spero che questo film aiuti ad abbattere queste barriere”.

Le usa Hermes Mangialardo, graphic & motion designer, con il suo Frontiers. Parla con le immagini e nel suo corto le immagini sono straordinarie perché non arrivano solo al cuore, ai sentimenti, si dice alla “pancia”, ma parlano alla testa. Quello che rappresentano sono il punto di vista di un bambino che vede muri, respira odio e un bambino che vede muri probabilmente crescerà odiando chi c’è dall’altra parte .

Era il Natale di qualche anno fa e guardando distrattamente la TV, senza audio, osservavo l’mmagine di alcuni bambini che giocavano con alle spalle un muro in una zona palesemente devastata dalla guerra. Le immagini venivano da Gaza, ma sarebbero potute venire da qualsiasi parte del mondo, da qualsiasi epoca in cui un muro, reale o solo di condizionamenti culturali, religiosi e storici ha “diviso” dei popoli. Muri che crescono e che proprio i bambini con la loro innocenza (piena di buon senso) non comprendono, che trovano assurdi e insensati. Bambini che poi crescono odiando quello che c’è al di là del muro stesso”. 

Nel cortometraggio Frontiers, i bimbi trovano il modo di superare questa barriera grazie alla forza data dalla loro fantasia per finire poi finalmente a giocare insieme. Un messaggio di speranza verso le nuove generazioni, ma anche verso i “grandi”, affinché possano recuperare quella “scintilla” che da piccoli rendeva possibile diventare astronauta, supereroe, e, perché no, superare i muri.

Le usa Banksy, street-artist, con i suoi murales. Il muro, da ostacolo, diventa opportunità. Un grande spazio per la creatività e per la capacità di “far parlare” i muri. Il suo ultimo murales realizzato di fronte all’ambasciata francese a Londra, raffigura una fanciulla in lacrime. La ragazza ricorda Cosette, personaggio de I Miserabili. Victor Hugo ha ispirato il writer per raffigurare i disperati di Calais: i “miserabili” del nostro tempo. Banksy critica la Francia per la politica nei confronti dei migranti e la biasima per le condizioni in cui vivono i rifugiati di Calais il cui unico desiderio è quello di raggiungere il più delle volte invano la Gran Bretagna.

Intanto più lontano, la rotta balcanica è chiusa, continuano le partenze e anche le tragedie.

Le usa il Maestro Mimmo Paladino con la sua Porta d’Europa, un monumento alla memoria dei migranti che non sono mai riusciti a sbarcare sulle coste di Lampedusa. Per ricordarli per sempre, uno per uno. Neri e bianchi, islamici e cattolici, vecchi e bambini. Tutti morti nelle traversate del Mediterraneo. In bilico fra sassi e arbusti la Porta d’Europa è sull’ultimo promontorio dell’isola, il primo scoglio che si avvista dai barconi. Porta aperta all’accoglienza.

Le usa il Papa, Francesco, al centro di accoglienza richiedenti asilo di Castelnuovo di Porto, fuori Roma. Davanti ai piedi di Mohamed, Luchia e Lucia il Papa si è inginocchiato, li ha lavati, li ha asciugati, li ha baciati. E lo stesso ha fatto con i piedi del pakistano Khurram Shahzad, dell’indiano Kunal Sharma, dell’eritrea Kbra Tesfamicael, dei nigeriani Osma Bole, Endurance Okosum, Shadrach Osahon e Miminu Bright Osumah, del maliano Sira Madigata e dell’italiana Angela Ferri. Ancora una volta Francesco ha scelto uno dei luoghi simbolo del disagio e della sofferenza del nostro tempo per fare memoria del gesto compiuto da Gesù con i discepoli. Un centro tra i più importanti d’Italia, dove si realizzano esperienze significative di integrazione e convivenza tra culture e religioni diverse.

Dove non esistono muri.

Chiunque incontri è tuo fratello, figlio, figlia; non ci sono fratelli e sorelle di serie B, C e D. Su tutte le difficoltà riguardanti l’immigrazione, dico: diamo prima l’accoglienza e poi le difficoltà le affronteremo.

Andrea Gallo

L’umanità che mostreremo nell’accogliere i profughi disperati, l’intelligenza con cui affronteremo i fenomeni migratori, la fermezza con cui combatteremo i trafficanti di essere umani saranno il modo con il quale mostreremo al mondo la qualità della vita democratica.

Sergio Mattarella

 

L.P.

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