Ad Auschwitz c’è gente. Tanta gente. Oggi per ricordare. Allora, per morire.

AD AUSCHWITZ OGGI E IERI

* di Mario Setta

A bird flies above a gate of the Auschwitz Museum about two weeks before the 60th anniversary of the liberation of Auschwitz in Oswiecim in this file photo dated in January 9, 2005. The sign “arbeit macht frei” (work will set you free) was stolen early December 18, 2009 according to a duty police officer in Oswiecim. REUTERS/Katarina Stoltz (POLAND – Tags: CRIME LAW ANNIVERSARY)

 

Ad Auschwitz c’è gente. Tanta gente. Oggi per ricordare. Allora, per morire.

“Non si riesce a credere nell’incredibile. Non è possibile che l’irreale diventi realtà” dice nel manoscritto, ritrovato su questo terreno, l’ebreo Zalmen Gradwoski.

Ad Auschwitz non si va in visita come ad un museo. Si va a condividere la tragica sorte di quei milioni di innocenti dei quali si calpestano ancora le ceneri. Annientati con le tecniche più impensabili, con le morti più atroci. Un gusto (!), talmente barbaro e disumano, da non poter nemmeno credere che si sia trattato di comportamenti tra esseri umani.

“Perché Signore hai taciuto? Perché hai potuto tollerare tutto questo?” ha gridato qui Benedetto XVI. Ma la domanda andrebbe rivolta all’Uomo. Perché ad Auschwitz non sono morti ebrei, cattolici (p. Kolbe), zingari, testimoni di Geova, ecc. Sono morti gli uomini. Semplicemente e totalmente uomini. Non pochi, ma milioni. E i carnefici non hanno ucciso solo dei poveri sventurati. Hanno ucciso, anche e soprattutto, se stessi. Una guerra tra morti. Come tutte le guerre.

 

Qui è la tomba dell’umanità. Una tomba che attende la voce di Cristo: “Uomo, vieni fuori!”,

come disse, piangendo, sulla tomba dell’amico Lazzaro. Il grido della “resurrezione” dai morti

dell’intera umanità. Perché, perfino in questa “residenza della morte”,  c’è stato chi ha lottato

per la vita. Eccezioni. Ma ci sono state. Basta ricordare Witold Pilecki, fattosi volontariamente

arrestare dalla Gestapo per  raccontare al mondo gli orrori di Auschwitz.

Ne ha pubblicato una interessante e accurata  biografia, col titolo “Il volontario” (Laterza 2010), Marco Patricelli, storico e giornalista abruzzese. Ci sono anche  i cosiddetti “negazionisti”, che affermano come il genocidio non sia mai esistito e che la “soluzione finale” (endlösung) sia solo un “flatus vocis”. Ma il negazionismo  non è una   questione storiografica. Sembra piuttosto una questione patologica: una cecità.

 

Rudolf Höss, comandante del KL (/KonzentrationLager) di  Auschwitz, Oberstumbannführer delle SS, ha lasciato questa  descrizione agghiacciante, sconvolgente, terrificante:

« Lo sterminio ad Auschwitz avveniva nel modo seguente: gli ebrei destinati alla morte, uomini e donne separatamente, venivano condotti con la maggior calma possibile ai crematori. Negli spogliatoi i prigionieri del Sonderkommando li inducevano a spogliarsi, dicendo che li avevano portati lì per il bagno e la disinfestazione… Dopo la svestizione, gli ebrei entravano nelle camere a gas, provviste di docce  e di lavandini per dare meglio l’impressione di stanze da bagno… Quindi si chiudevano rapidamente le porte e il gas veniva immediatamente fatto uscire dagli appositi serbatoi e immesso, attraverso fori praticati nel soffitto, in un pozzo d’aerazione che li faceva arrivare fino al pavimento. Questo assicurava l’immediato diffondersi del gas. Attraverso gli spioncini praticati nelle porte si poteva osservare come le persone più vicine al pozzo d’aerazione cadessero morte all’istante. Si può dire che un terzo circa moriva subito. Gli altri cominciavano ad agitarsi, a urlare, a lottare in  cerca di aria, ma ben presto le grida si trasformavano in rantoli, e dopo pochi minuti tutti giacevano a terra. Non passavano venti minuti, e già più nessuno si muoveva. […] A questo punto gli uomini del Sonderkommando estraevano ai cadaveri i denti d’oro, e tagliavano i capelli alle donne. Poi i cadaveri venivano portati col montacarichi ai forni che intanto erano stati accesi. »

 

 

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