Gli Infiniti Mondi Alieni Sfidano La Terra

L’Aquila / Gli Infiniti Mondi Alieni Sfidano La Terra. L’Extremely Large Telescope inaugurerà una nuova era dell’Astronomia. Osservazioni ESO mostrano il primo asteroide interstellare, Oumuamua, qualcosa di mai visto prima, ricco di preziose Terre Rare, forse proveniente dalla stella Vega come preconizzato dagli “anime” nipponici Goldrake e Yamato. Sembra un’astronave aliena. Grazie a Dio un incontro non “causale” di Intelligenze extraterrestri magari ostili. Autoscatto con la stella Antares. Se ALMA e Rosetta trovano il Freon-40 nello spazio, gli scienziati nutrono poche speranze che questa molecola possa indicare la presenza di vita. A soli 39 anni luce dal Sistema Solare, e con ben sette pianeti simili alla Terra, Trappist-1 rimane il sistema di esopianeti più promettente per la futura ricerca di un esomondo abitabile. Il Telescopio Spaziale Kepler segna la quota di 4496. La missione della Nasa dedicata all’identificazione dei potenziali pianeti al di fuori del Sistema Solare fa un ulteriore balzo in avanti, spostando l’asticella: 3558 confermati, 2650 sistemi solari alieni e 881 esomondi “terrestri”. Di essi, 10 nuovi candidati potrebbero essere simili per dimensioni alla Terra e trovarsi nella cosiddetta fascia di abitabilità. Dopo decine di secoli di speculazioni essenziali, sapere scientificamente se oltre il “nostro” Sistema Solare abitato, esistano luoghi potenzialmente favorevoli all’emergere di vita complessa, è oggi uno degli argomenti di frontiera dell’Astrofisica del XXI Secolo. Una tale scoperta non sarebbe solamente rivoluzionaria per il campo di ricerca che se ne occupa, ma avrebbe anche una profonda valenza antropologica, sociologica, economica, politica, religiosa, filosofica, culturale. Il VLT rivela un oggetto scuro, rossastro e molto allungato. Si è stimato che sia lungo almeno 400 metri. Calcoli preliminari dell’orbita hanno suggerito che Oumuamua sia apparentemente arrivato dalla direzione approssimativa della stella brillante Vega, nella costellazione settentrionale della Lira. In ogni caso, anche viaggiando alla velocità vertiginosa di circa 95000 km/h, c’è voluto così tanto tempo per questo viaggio interstellare fino al “nostro” Sistema Solare, che Vega non era nemmeno in quella posizione quando l’asteroide era là vicino circa 300mila anni fa. Oumuamua potrebbe aver vagato per la Via Lattea, senza essere legato ad alcun sistema solare alieno, per centinaia di milioni di anni prima di aver casualmente incontrato il Sistema Solare. Un’esplorazione umana diretta in situ, magari grazie al nuovo Space Shuttle eurorusso “Buran” di Roscosmos ed Esa, secondo alcune fonti tre volte più grosso del vecchio prototipo degli Anni ’80, potrebbe risolvere questi e altri “misteri”, alla ricerca delle Terre Rare interstellari. La caccia ai pianeti extrasolari prosegue. È stato scoperto il più vicino esomondo alieno con clima temperato di massa terrestre in orbita intorno alla stella tranquilla Ross 128. Un pianeta dal clima mite, di dimensioni terrestri, a soli 11 anni luce dal Sistema Solare. HARPS, il famoso cercatore di pianeti extrasolari, offre il nuovo esomondo designato come Ross 128b, il secondo esopianeta più vicino dal clima temperato dopo Proxima b. È anche il più vicino scoperto in orbita su una nana rossa non attiva. Sistema esoplanetario multiplo su Proxima Centauri. Red Dots, continua la ricerca in diretta di pianeti terrestri intorno a Proxima. L’ESO si unisce a questo esperimento di “open notebook science”, di scienza presentata in tempo reale, che consente al pubblico e alla comunità scientifica di accedere ai dati osservativi di Proxima Centauri nel momento stesso in cui si svolge la campagna. Cieli di Titanio sul gioviano WASP-19b. L’ossido di Titanio è raro sulla Terra. I modelli più raffinati permetteranno di capire meglio come interpretare le osservazioni, per la scoperta inequivocabile di ET su altri mondi abitabili. Occhi aperti per MASCARA in Cile: la prima luce del cacciatore di pianeti installato all’Osservatorio ESO di La Silla. HARPS, MATISSE, ESPRESSO, MUSE e SPHERE sono i nostri occhi ESO spalancati sugli altri mondi. SPHERE rivela un esopianeta unico. Se HARPS è sensibile anche ai movimenti più lenti, di soli 3,5 km/h da trilioni di chilometri di distanza, ora si passa ai centimetri per secondo. Via libera ai telescopi spaziali Cheops e Plato insieme alla Russia. La strada per trovare pianeti abitabili attorno a stelle vicine alla Terra è stata definitivamente tracciata. Trappist-1e, ecco dove cercare la vita. È comune la nascita di sistemi planetari con un alto numero di pianeti come il Sistema Solare. Chissà se gli autori della nuova serie Star Trek Continues, legittima erede della saga di Gene Roddenberry, sapranno immaginare lassù avventure spaziali! Se si vuole davvero trovare vita su altri pianeti, occorre cercare l’atmosfera giusta. Fra i principali traccianti, l’idrossile (OH), il monossido di Azoto (NO) e l’Ossigeno molecolare (O2), tutte molecole che si formano nell’interazione fra atmosfere simili alla nostra e le violente tempeste stellari tipiche di alcune stelle nane, quelle arancioni in testa. In attesa dell’ingresso ufficiale della Russia nell’ESO, l’Australia firma una cooperazione strategica con l’Osservatorio Europeo Australe. Il professor Xavier Barcons inizia il suo mandato come Direttore Generale dell’ESO il 1° Settembre 2017. È l’ottavo Direttore Generale dell’ESO, dopo Tim de Zeeuw, in carica dal 2007. Barcons inaugura il suo mandato in un momento esaltante per l’ESO: la costruzione del telescopio ELT (Extremely Large Telescope) continua a ritmo spedito. La prima luce è prevista per il 2024. Nel frattempo cambia nome per espressa dichiarazione del Direttore Generale dell’ESO. Finora il gigantesco telescopio dell’ESO è stato chiamato Telescopio Europeo Estremamente Grande, ovvero E-ELT dal nome inglese “European Extremely Large Telescope”. Ora questo nome, che è sempre stato considerato provvisorio, diventa sempre meno appropriato. In considerazione della vocazione mondiale, mentre il progetto si sta rapidamente spostando alla fase di costruzione, l’Organizzazione ha deciso di utilizzare un nome più corto: invece del Telescopio Europeo Estremamente Grande, il più grande occhio del mondo rivolto al cielo verrà chiamato semplicemente il Telescopio Estremamente Grande o ELT (Extremely Large Telescope). Senza più l’aggettivo European. Le gemme sul Calendario 2018 dell’ESO.

(di Nicola Facciolini)

“Tra tutti i concetti scaturiti dalla mente umana, tra gli unicorni i gargantua e la bomba all’idrogeno, forse il buco nero è il più fantastico” (Kip Thorne). Catturare, analizzare, registrare la luce spesso molto debole del cielo è sempre stato un aspetto essenziale dell’Astronomia. Il primo “rivelatore” astrofisico in assoluto è stato naturalmente l’occhio umano senza l’ausilio di alcuno strumento, prima di Galilei. L’astronomia ha fatto molta strada da allora, sviluppando in 400 anni rivelatori innovativi che sono montati sui telescopi moderni. Così per la prima volta in assoluto alcuni astronomi dell’Osservatorio Europeo Australe (ESO) hanno studiato un asteroide che è giunto nel Sistema Solare dallo spazio interstellare. Le osservazioni con il Very Large Telescope in Cile e altri strumenti in tutto il mondo mostrano che l’oggetto singolare chiamato 1I/2017U1, alias “Oumuamua”, ha viaggiato nello spazio per milioni di anni prima dell’incontro casuale con il “nostro” Sistema Solare. Grazie a Dio non “causale” di Intelligenze extraterrestri magari ostili che hanno mancato stavolta il bersaglio! Sembra che sia un oggetto scuro, rossastro, molto allungato, roccioso e con un elevato contenuto di metalli, tra cui le preziose Terre Rare (sulla Terra) interstellari. I risultati sono pubblicati sulla rivista Nature del 20 Novembre 2017, nell’articolo “A brief visit from a red and extremely elongated interstellar asteroid”, di K. Meech et al. del team composto da Karen J. Meech (Institute for Astronomy, Honolulu, Hawai`i, USA [IfA]) Robert Weryk (IfA), Marco Micheli (ESA SSA-NEO Coordination Centre, Frascati, Italia; INAF–Osservatorio Astronomico di Roma, Monte Porzio Catone, Italia), Jan T. Kleyna (IfA), Olivier Hainaut (ESO, Garching, Germania), Robert Jedicke (IfA), Richard J. Wainscoat (IfA), Kenneth C. Chambers (IfA), Jacqueline V. Keane (IfA), Andreea Petric (IfA), Larry Denneau (IfA), Eugene Magnier (IfA), Mark E. Huber (IfA), Heather Flewelling (IfA), Chris Waters (IfA), Eva Schunova-Lilly (IfA) e Serge Chastel (IfA). Il 19 Ottobre scorso, il telescopio “Pan-STARSS 1” dalle Isole Hawaii osserva un puntino di luce che si muove in cielo. All’inizio sembra un tipico asteroide in rapido movimento, ma ulteriori analisi nei giorni seguenti consentono di calcolarne la strana orbita con precisione. I dati mostrano senza possibilità di dubbio (ma non di errore) che questo corpo celeste non proviene dalla periferia del Sistema Solare terrestre, come tutti gli altri asteroidi o comete finora osservati, ma  dallo spazio alieno interstellare. Pur se originariamente classificato come “cometa”, le osservazioni dell’ESO e di altre agenzie astronomiche internazionali non hanno trovato alcun segno di attività cometaria dopo il passaggio in prossimità del Sole nel Settembre 2017. L’oggetto è stato quindi riclassificato come asteroide interstellare 1I/2017U1 Oumuamua. Il nome proposto dal team Pan-STARRS è stato accettato dalla Unione Astronomica Internazionale (IAU), l’organo responsabile tra l’altro della nomenclatura ufficiale dei corpi celesti nel Sistema Solare e oltre. Il nome è hawaiano e gli ulteriori dettagli (www.minorplanetcenter.org/mpec/K17/K17V17.html) rivelano come l’IAU abbia anche creato una nuova classe di oggetti per gli asteroidi interstellari. Oumuamua è il primo a ricevere la nuova designazione. Le forme corrette di riferirsi a questo oggetto ora sono: 1I, 1I/2017 U1, 1I/`Oumuamua e 1I/2017 U1 (`Oumuamua). Si noti che il carattere prima della O è un “okina”, l’occlusiva glottidale sorda: la pronuncia diventa perciò qualcosa come “H O u  mu a mu a”. Prima della introduzione di questo nuovo schema, il nome dell’oggetto era A/2017 U1. “Dovevamo muoverci in fretta – spiega Oliver Hainaut, membro dell’equipe ESO di Garching in Germania – Oumuamua aveva già oltrepassato il suo punto di avvicinamento al Sole e stava tornando verso lo spazio interstellare”. Il VLT è stato quindi messo subito in moto per misurare l’orbita, la luminosità e il colore dell’oggetto con più precisione dei piccoli telescopi. La rapidità era fondamentale perchè Oumuamua stava rapidamente svanendo alla vista, allontanandosi dal Sole e dall’orbita della Terra, nel suo cammino verso l’esterno del Sistema Solare. Ma c’erano in riserbo altre sorprese. Infatti, combinando le immagini prese dallo strumento FORS sul VLT, usando quattro filtri diversi, con quelli di altri grandi telescopi, il team di astronomi guidato da Karen Meech dell’Institute for Astronomy delle Hawaii, ha scoperto che Oumuamua varia di intensità in modo drammatico, di un fattore dieci, mentre ruota sul proprio asse ogni 7,3 ore. “Questa variazione di luminosità insolitamente grande – rivela Karen Meech che spiega l’importanza della scoperta – significa che l’oggetto è molto allungato: circa dieci volte più lungo che largo, con una forma complessa e contorta. Abbiamo anche scoperto che ha un colore rosso scuro, simile agli oggetti delle zone esterne del Sistema Solare, e confermato che è completamente inerte, senza la minima traccia di polvere”. Queste proprietà suggeriscono che Oumuamua sia denso, probabilmente roccioso o con un contenuto elevato di metalli, che non abbia quantità significative di acqua o ghiaccio e che la sua superficie sia scura e arrossata a causa dell’irradiazione da parte dei raggi cosmici nel corso di milioni di anni. Si è stimato che sia lungo almeno 400 metri. Un’esplorazione umana diretta in situ, magari grazie al nuovo Space Shuttle eurorusso “Buran” di Roscosmos ed Esa, secondo alcune fonti tre volte più grosso del vecchio prototipo degli Anni ’80, potrebbe risolvere questi e altri “misteri”, alla ricerca delle Terre Rare. Come preconizzato dagli “anime” nipponici Goldrake e Yamato, calcoli preliminari dell’orbita hanno suggerito che l’oggetto sia apparentemente arrivato dalla direzione approssimativa della stella brillante Vega, nella costellazione settentrionale della Lira. In ogni caso, anche viaggiando alla velocità vertiginosa di circa 95000 km/h, c’è voluto così tanto tempo per questo viaggio interstellare fino al nostro Sistema Solare, che Vega non era nemmeno in quella posizione quando l’asteroide era là vicino circa 300000 anni fa. Oumuamua potrebbe aver vagato per la Via Lattea, senza essere legato ad alcun sistema solare alieno, per centinaia di milioni di anni prima di aver casualmente incontrato il “nostro” Sistema Solare. Gli astronomi stimano che un asteroide interstellare simile a Oumuamua attraversi il Sistema Solare interno circa una volta all’anno, ma poichè sono deboli e difficili da trovare non sono stati finora identificati. Solo recentemente i telescopi come Pan-STARSS sono diventati sufficientemente potenti per avere la possibilità di scovare questo strani oggetti alieni simili ad astronavi. “Stiamo continuando a osservare questo oggetto, unico nel suo genere – osserva Olivier Hainaut – speriamo di riuscire a identificare con maggior precisione il suo luogo di origine e la prossima destinazione di questo suo viaggio galattico. E ora che abbiamo trovato la prima roccia interstellare, ci stiamo preparando per le prossime!”. Nell’ottobre del 2012, l’asteroide “near-Earth” 2012TC4 ha avuto un incontro ravvicinato con la Terra. È passato a una distanza che corrisponde a solo un quarto di quella che ci separa dalla Luna. Nell’Ottobre del 2017, questo piccolo asteroide che misura solo tra i 15 e i 30 metri è ritornato per un altro passaggio molto ravvicinato, il che lo rende l’oggetto perfetto per testare la rete di rilevazione e monitoraggio degli asteroidi. Dato che 2012TC4 non era stato visibile per molti anni, la sua orbita non era molto conosciuta. In particolare, gli astronomi non potevano prevedere quanto vicino sarebbe stato alla Terra durante il suo prossimo passaggio ravvicinato nel 2017. Dunque, trovarlo di nuovo e osservarlo nel dettaglio era fondamentale per capire quanto si sarebbe avvicinato al “nostro” pianeta e per migliorare la conoscenza della sua orbita. Dato che l’asteroide è così piccolo e allora molto distante, molto debole e dunque difficile da individuare. Tuttavia, usando il Very Large Telescope gli astronomi hanno potuto ottenere un’immagine del nostro “visitatore” per la prima volta in molti anni e calcolarne la traiettoria. La nuova osservazione indicava che sarebbe passato a una distanza dalla Terra di circa 44000 km, corrispondenti a 6,85 raggi terrestri, il 12 Ottobre 2017. Il VLT dell’ESO non è l’unico telescopio che sta studiando 2012TC4. Si sta svolgendo un’importante campagna di osservazione internazionale per identificare e studiare questo oggetto, sfruttando l’incontro ravvicinato. Ora che il VLT ha ricatturato 2012TC4, è disponibile una nuova orbita aggiornata. Vari telescopi di tutto il mondo sono ora in grado di localizzare l’asteroide, sfruttando queste rare opportunità. La ricerca dei pianeti extrasolari prosegue. È stato scoperto il più vicino esomondo alieno con clima temperato di massa terrestre in orbita intorno alla stella tranquilla Ross 128 grazie allo strumento HARPS dell’ESO. Un pianeta dal clima mite, di dimensioni terrestri, a soli 11 anni luce dal Sistema Solare. HARPS, il famoso cercatore di pianeti extrasolari, offre ai Terrestri il nuovo mondo designato come Ross 128b, il secondo esopianeta più vicino dal clima temperato dopo Proxima b. È anche il pianeta più vicino scoperto in orbita intorno a una nana rossa non attiva. Questo fatto potrebbe aumentare le probabilità che l’esomondo possa sostenere la vita complessa da milioni di anni. Ross 128b sarà uno dei principali bersagli dell’Extremely Large Telescope dell’ESO, il grande occhio astrofisico che sarà in grado di cercare biomarcatori nell’atmosfera del pianeta alieno. L’equipe che ha utilizzato lo strumento “High Accuracy Radial velocity Planet Searcher” all’Osservatorio di La Silla in Cile, ha scoperto che intorno alla nana rossa Ross 128 orbita ogni 9,9 giorni un pianeta di piccola massa che dovrebbe avere un clima temperato, con una temperatura superficiale “vicina” a quella della Terra. Ross 128 è la più tranquilla delle stelle a noi più prossime ad ospitare un esopianeta con queste condizioni. Il team è composto da X. Bonfils (Univ. Grenoble Alpes, CNRS, IPAG, Grenoble, Francia [IPAG]), N. Astudillo-Defru (Observatoire de Genève, Université de Genève, Sauverny, Svizzera), R. Díaz (CONICET – Universidad de Buenos Aires, Instituto de Astronomía y Física del Espacio (IAFE), Buenos Aires, Argentina), J.M. Almenara (Observatoire de Genève, Université de Genève, Sauverny, Svizzera), T. Forveille (IPAG), F. Bouchy (Observatoire de Genève, Université de Genève, Sauverny, Svizzera), X. Delfosse (IPAG), C. Lovis (Observatoire de Genève, Université de Genève, Sauverny, Svizzera), M. Mayor (Observatoire de Genève, Université de Genève, Sauverny, Svizzera), F. Murgas (Instituto de Astrofísica de Canarias, La Laguna, Tenerife, Spagna), F. Pepe (Observatoire de Genève, Université de Genève, Sauverny, Svizzera), N.C. Santos (Instituto de Astrofísica e Ciências do Espaço and Universidade do Porto, Portogallo), D. Ségransan (Observatoire de Genève, Université de Genève, Sauverny, Svizzera), S. Udry (Observatoire de Genève, Université de Genève, Sauverny, Svizzera) e A. Wünsche (IPAG). “La scoperta è basata sul monitoraggio intensivo con HARPS durato più di un decennio, insieme con tecniche di riduzione e analisi dati all’avanguardia – rivela Nicola Astudillo-Defru, coautore dell’articolo “A temperate exo-Earth around a quiet M dwarf at 3.4 parsecs”, di X. Bonfils et al., pubblicato sulla rivista Astronomy & Astrophysics – solo HARPS ha dimostrato la precisione necessaria e continua ad essere il miglior strumento per la misura di velocità radiali, 15 anni dopo l’inizio delle operazioni”. Le nane rosse sono tra le stelle più fredde, più deboli, più longeve e più comuni dell’Universo, il che le rende ottimi obiettivi per la ricerca di esopianeti e civiltà extraterrestri. Logicamente sono sempre più studiate dagli astrofisici di tutto il mondo. Il primo autore Xavier Bonfils ha perciò definito il loro programma HARPS come “la scorciatoia per la felicità” in quanto è più facile trovare “gemelli” della Terra, freddi e piccoli, intorno a questi astri piuttosto che tra le stelle nane gialle più simili al “nostro” Sole. Un pianeta in orbita vicino a una nana rossa influisce, dal punto di vista gravitazionale, sulla stella più di quanto possa fare un simile esomondo più lontano dalla sua stella massiccia come il Sole. Ne risulta che questa “velocità del movimento riflesso” sia più facile da misurare dalla Terra. Ma il fatto che le nane rosse siano più deboli rende più difficile raccogliere un segnale sufficiente per misurare con la precisione necessaria il segnale. Molte nane rosse, tra cui Proxima Centauri, sono soggette a brillamenti che a volte inondano i loro pianeti di micidiali radiazioni UV e X, ovviamente mortali. Sembra invece che Ross 128 sia un astro molto più quieto. Ne consegue che i suoi pianeti potrebbero essere i più vicini candidati a ospitare la vita così come oggi la concepiamo. Anche se attualmente si trova a 11 anni luce dalla Terra, Ross 128 si sta muovendo nella nostra direzione e dovrebbe essere il nostro “vicino” più prossimo tra appena 79000 anni! Un batter d’occhio in termini cosmici. Ross 128b strapperà dunque a Proxima b il primato dell’esopianeta più vicino alla Terra. Con i dati di HARPS, l’equipe ha scoperto che Ross 128b orbita 20 volte più vicino rispetto alla Terra intorno al Sole. Nonostante la sua vicinanza, Ross 128b riceve solo 1,38 volte più irradiazione rispetto alla Terra. Di conseguenza, la temperatura di equilibrio di Ross 128b è stimata tra -60 e +20 gradi Celsius, grazie alla natura fredda e debole della nana rossa che ha una temperatura superficiale poco più della metà di quella del Sole. Mentre gli scienziati coinvolti nella scoperta considerano Ross 128b un pianeta dal clima temperato, rimangono molte incertezze sul fatto che l’esomondo si trovi all’interno, all’esterno o proprio sul confine della zona abitabile “Riccioli d’oro”, dove l’acqua sarebbe liquida se esistesse sulla superficie. La fascia verde vitale è definita dall’insieme delle orbite intorno a una stella in cui un pianeta disponga della temperatura, della densità e della pressione atmosferica corrette perché l’acqua possa essere liquida sulla sua superficie. Gli astronomi stanno scoprendo sempre più esopianeti dal clima temperato (https://exoplanets.nasa.gov/) mentre la fase successiva sarà di studiare la loro atmosfera aliena, la loro composizione e la loro chimica in dettaglio. Un grandissimo passo fondamentale sarà l’identificazione di biomarcatori (indicatori biologici e industriali) come l’Ossigeno e le molecole complesse nell’atmosfera dei pianeti extrasolari più vicini alla Terra, per essere risolti angolarmente rispetto alla propria stella. “Nuovi strumenti all’ESO avranno innanzitutto un ruolo fondamentale nel censimento dei pianeti di massa terrestre suscettibili di caratterizzazione – spiega Xavier Bonfils – in particolare NIRPS, il braccio infrarosso di HARPS, aumenterà l’efficienza nell’osservare nane rosse che emettono la maggior parte della loro radiazione nell’infrarosso. Poi, l’ELT fornirà l’opportunità di osservare e caratterizzare gran parte di questi pianeti”. Nel frattempo il super radiotelescopio ALMA dell’ESO rivela polvere intorno a Proxima Centauri, la stella più vicina al Sistema Solare. Le nuove osservazioni mostrano la luce diffusa dalla polvere fredda in una regione che si trova a una distanza da Proxima Centauri compresa tra una e a quattro volte quella della Terra dal Sole. I dati suggeriscono la presenza di una cintura di polvere ancora più fredda all’esterno e potrebbero indicare la presenza di un sistema esoplanetario “elaborato”. Queste strutture sono simili alle fasce più grandi che si trovano nel Sistema Solare e si pensa siano fatte di particelle di rocce e ghiaccio che non sono riuscite a formare pianeti. Proxima Centauri è la stella più vicina alla Terra dopo il Sole. È debole, ad appena quattro anni luce da noi, nella costellazione australe del Centauro. Le orbita intorno il pianeta Proxima b, un esomondo temperato simile alla Terra scoperto nell’Anno Domini 2016, il pianeta più vicino al Sistema Solare. Le nuove osservazioni di ALMA rivelano le emissioni di nuvole di polvere cosmica fredda intorno alla stella, il che lascia supporre l’esistenza di molti altri esomondi su Proxima Centauri. “La polvere intorno a Proxima Centauri è importante perché – spiega l’autore principale dello studio “ALMA Discovery of Dust Belts Around Proxima Centauri” di Guillem Anglada et al., pubblicato dalla rivista Astrophysical Journal Letters – dopo la scoperta del pianeta di tipo terrestre Proxima b, è la prima indicazione della presenza, intorno alla stella più vicina al Sole, di un sistema planetario complesso e non di un singolo pianeta”. L’equipe scientifica è composta da Guillem Anglada (Instituto de Astrofísica de Andalucía (CSIC), Granada, Spagna [IAA-CSIC]), Pedro J. Amado (IAA-CSIC), Jose L. Ortiz (IAA-CSIC), José F. Gómez (IAA-CSIC), Enrique Macías (Boston University, Massachusetts, USA), Antxon Alberdi (IAA-CSIC), Mayra Osorio (IAA-CSIC), José L. Gómez (IAA-CSIC), Itziar de Gregorio-Monsalvo (ESO, Santiago, Cile; Joint ALMA Observatory, Santiago, Cile), Miguel A. Pérez-Torres (IAA-CSIC; Universidad de Zaragoza, Zaragoza, Spagna), Guillem Anglada-Escudé (Queen Mary University of London, London, Regno Unito), Zaira M. Berdiñas (Universidad de Chile, Santiago, Cile; IAA-CSIC), James S. Jenkins (Universidad de Chile, Santiago, Cile), Izaskun Jimenez-Serra (Queen Mary University of London, London, Regno Unito), Luisa M. Lara (IAA-CSIC), Maria J. López-González (IAA-CSIC), Manuel López-Puertas (IAA-CSIC), Nicolas Morales (IAA-CSIC), Ignasi Ribas (Institut de Ciències de l’Espai, Barcelona, Spagna), Anita M. S. Richards (JBCA, University of Manchester, Manchester, Regno Unito), Cristina Rodríguez-López (IAA-CSIC) e Eloy Rodríguez (IAA-CSIC). Pare ragionevole pensare a una coincidenza “cosmica” che il primo autore dello studio, Guillem Anglada, abbia lo stesso nome dell’astronomo che ha guidato l’equipe alla scoperta di Proxima Centauri b. Le fasce di polvere sono i resti di materia non utilizzati dalla Gravità nella formazione di un corpo più grande di un asteroide o un pianeta. Le particelle di roccia e ghiaccio di queste fasce variano di dimensione, dai grani di polvere più fini, più piccoli di un millimetro, fino a corpi asteroidali di molti chilometri di diametro. Proxima Centauri è una stella vecchia, di età simile al Sistema Solare. Le fasce di polvere intorno all’astro sono probabilmente simili alla polvere residua della Fascia di Kuiper, della Fascia Principale di asteroidi del Sistema Solare e della polvere che produce la Luce Zodiacale. I dischi spettacolari che ALMA ha ripreso intorno a stelle più giovani, come HL Tauri, contengono molta più materia in procinto di formare pianeti. La polvere sembra raccolta in una fascia di qualche centinaio di milioni di chilometri da Proxima Centauri, con una massa totale di circa un centesimo di quella terrestre. Si stima che la cintura abbia una temperatura di circa meno 230 gradi Celsius, fredda come la Fascia di Kuiper nella zona esterna del Sistema Solare. Esistono altresì indicazioni nei dati di ALMA di un’altra fascia di polvere ancora più fredda, circa dieci volte più lontana. Se confermata, la natura della cintura esterna è interessante, dato l’ambiente così freddo, lontano da una stella più fredda e più debole del Sole. Entrambe le fasce sono più lontane da Proxima Centauri del pianeta Proxima b che orbita a soli quattro milioni di chilometri dalla sua stella madre. Se confermata, la forma apparente della cintura esterna, molto debole, darebbe agli astronomi un mezzo per stimare l’inclinazione del sistema planetario di Proxima Centauri. Apparirebbe ellittica, infatti, a causa dell’inclinazione di quello che si suppone essere un anello circolare. Questo a sua volta permetterebbe una miglior stima della massa di Proxima b, per ora nota solo come un limite inferiore. Le implicazioni della scoperta appaiono ovvie. “Questo risultato suggerisce che Proxima Centauri potrebbe avere un sistema multiplo di pianeti con una ricca storia di interazioni che hanno prodotto una fascia di polvere – rivela Guillem Anglada – ulteriori studi potrebbero dare informazioni sulla ubicazione di pianeti aggiuntivi non ancora identificati”. Il sistema planetario di Proxima Centauri è particolarmente interessante anche perché esistono sulla carta piani come il “Progetto Starshot” per una futura esplorazione diretta del sistema solare alieno con microsonde guidate da vele solari spinte da potenti laser. La conoscenza della distribuzione della polvere nell’ambiente che circonda Proxima Centauri è dunque essenziale per pianificare la missione entro i prossimi 25 anni terrestri. “Questi primi risultati mostrano che ALMA può rivelare le strutture di polvere in orbita intorno a Proxima – rileva Pedro Amado – ulteriori osservazioni potrebbero darci un quadro più dettagliato del sistema planetario di Proxima. In combinazione con lo studio del disco protoplanetario intorno a giovani stelle, saranno svelati molti dei dettagli dei processi che hanno portato alla formazione della Terra e del Sistema Solare circa 4600 milioni di anni fa. Quello che vediamo ora è solo l’antipasto rispetto a tutto ciò che verrà!”. Altri astronomi “armati” con le potenti ottiche del VLT dell’ESO hanno trovato per la prima volta l’ossido di Titanio nell’atmosfera di un esopianeta. La scoperta della molecola intorno al gioviano caldo WASP-19b è stata possibile grazie alle potenzialità dello strumento FORS2 che fornisce informazioni uniche sulla composizione chimica e sulla distribuzione di temperatura e pressione nell’atmosfera di questo esomondo caldissimo e insolito. I risultati sono disponibili sulla rivista Nature. L’equipe di astronomi, guidata da Elyar Sedaghati, borsista ESO recentemente diplomato alla TU di Berlino, ha esaminato l’atmosfera di WASP-19b in un dettaglio mai raggiunto prima. L’oggetto notevole ha quasi la stessa massa di Giove, ma è così vicino alla sua stella madre che completa un’orbita in appena 19 ore e la sua temperatura raggiunge i 2000 gradi Celsius. Quando WASP-19b orbita di fronte alla stella, parte della luce solare attraversa l’atmosfera dell’esopianeta e lascia tenui impronte del suo passaggio nella luce catturata dai nostri telescopi sulla Terra: usando lo strumento FORS2 installato sul VLT, gli scienziati hanno analizzato in dettaglio questi fotoni atmosferici alieni che contengono piccole quantità di ossido di Titanio, Acqua e tracce di Sodio, oltre a un caligine globale che diffonde la luce. “Trovare queste molecole non è un compito semplice – rivela Elyar Sedaghati che ha lavorato per due anni su questo progetto come studente all’ESO – non solo servono dati di qualità eccezionale, ma dobbiamo anche elaborarli con programmi sofisticati. Abbiamo usato un algoritmo per esplorare milioni di spettri alla ricerca di un’ampia gamma di composizioni chimiche, temperature e proprietà della caligine, prima di poter trarre le nostre conclusioni”. L’ossido di Titanio è raro sulla Terra. Si sa che esiste nelle atmosfere delle stelle fredde. Nell’atmosfera di un pianeta caldo come WASP-19b agisce come assorbente di calore. Se fossero presenti in quantità sufficienti, queste molecole impedirebbero al calore di entrare o di sfuggire attraverso l’atmosfera, portando all’effetto di Inversione Termica, con la temperatura più alta negli strati superiori dell’atmosfera e più bassa in quelli inferiori, l’opposto di quel che accade normalmente. L’Ozono svolge un simile ruolo nell’atmosfera terrestre, causando l’inversione termica nella stratosfera. “La presenza dell’ossido di Titanio nell’atmosfera di WASP-19b può avere effetti importanti sulla struttura della temperatura e sulla circolazione atmosferica”, fa notare Ryan MacDonald. “Poter esaminare gli esopianeti a questo livello di dettaglio è promettente e molto emozionante”, rileva Nikku Madhusudhan della Cambridge University che ha supervisionato l’interpretazione teorica delle osservazioni presentate nell’articolo “Detection of titanium oxide in the atmosphere of a hot Jupiter” di Elyar Sedaghati et. al. pubblicato dalla rivista Nature. L’equipe è composta da Elyar Sedaghati (ESO; Deutsches Zentrum für Luft- und Raumfahrt, Germania; and TU Berlin, Germania), Henri M.J. Boffin (ESO), Ryan J. MacDonald (Cambridge University, Regno Unito), Siddharth Gandhi (Cambridge University, Regno Unito), Nikku Madhusudhan (Cambridge University, Regno Unito), Neale P. Gibson (Queen’s University Belfast, Regno Unito), Mahmoudreza Oshagh (Georg-August-Universität Göttingen, Germania), Antonio Claret (Instituto de Astrofísica de Andalucía – CSIC, Spagna) e Heike Rauer (Deutsches Zentrum für Luft- und Raumfahrt, Germania e TU Berlin, Germania). Gli astronomi hanno raccolto le osservazioni di WASP-19b per oltre un anno: misurando le variazioni relative del raggio del pianeta a diverse lunghezze d’onda della luce che attraversa l’esoatmosfera e confrontando le osservazioni con modelli di atmosfera, hanno potuto derivare diverse proprietà, come il contenuto chimico dell’atmosfera dell’esopianeta. Questa nuova informazione sulla presenza di ossidi metallici come il Titanio e altre sostanze permetterà modelli molto più precisi di esoatmosfere aliene. E, guardando al futuro, quando gli astronomi saranno in grado di osservare le atmosfere di possibili pianeti abitabili, i modelli più raffinati permetteranno di capire meglio come interpretare le osservazioni, per la scoperta diretta inequivocabile di ET. “Questa importante scoperta è il risultato di una ristrutturazione dello strumento FORS2 pensato proprio a questo scopo – aggiunge Henri Boffin dell’ESO – e diventato lo strumento più adatto per questo tipo di studi da terra”. Il giorno 19 Luglio 2017 la stazione MASCARA, alias “Multi-site All-Sky CAmeRA”, all’Osservatorio ESO di La Silla ha visto la sua prima luce. Il nuovo strumento cerca transiti di esopianeti, il momento cioè in cui l’esomondo passa di fronte alla sua brillante stella madre, per creare un catalogo di bersagli delle prossime osservazioni che caratterizzeranno gli esopianeti. Nel Giugno 2016, l’ESO firma un accordo con l’Unviersità di Leida per installare una simile stazione in Cile, in grado di sfruttare le eccellenti condizioni osservative dei cieli meridionali. La Stazione ha ora realizzato con successo le sue prime osservazioni. MASCARA è la seconda a iniziare i lavori. La prima si trova infatti nell’emisfero boreale, all’Osservatorio del Roque de los Muchachos sull’isola europea di La Palma nelle Isole Canarie. Ogni stazione contiene una batteria di fotocamere in un ambiente a temperatura controllata. Con queste si può osservare continuamente quasi tutto il cielo visibile dalla sua posizione. MASCARA può monitorare stelle fino alla magnitudine ottica di 8,4. Circa dieci volte più deboli di quanto si possa vedere a occhio nudo in una notte buia e serena. Grazie alla sua struttura, MASCARA è meno sensibile alle condizioni atmosferiche di altri strumenti, perciò le osservazioni si possono realizzare anche quando il cielo è parzialmente nuvoloso, allungando i tempi di osservazione. “Servono stazioni sia nell’emisfero australe che in quello boreale, in modo da poter ottenere una copertura completa del cielo – osserva Ignas Snellen dell’Università di Leida, a capo del progetto MASCARA – con la seconda stazione a La Silla possiamo ora monitorare quasi tutte le stelle più brillanti in tutto il cielo”. Costruito all’Università di Leida nei Paesi Bassi, MASCARA è un cacciatore di pianeti alieni. Il suo progetto, compatto e a basso costo, non è spettacolare, ma risulta innovativo, flessibile e molto affidabile. Composto da cinque fotocamere digitali costruite con componenti di mercato, questo piccolo cercatore di esopianeti osserva ripetutatmente e misura la luminosità di migliaia di stelle. Un software dedicato controlla la presenza di piccoli affievolimenti della luce astrale dovuti al passaggio di un esomondo. Questo metodo di scoperta è noto come Fotometria di transito. La dimensione del pianeta e l’orbita possono essere determinate direttamente e, in sistemi molto brillanti, si può anche caratterizzare l’atmosfera con ulteriori osservazioni da telescopi molto grandi come il VLT. Lo scopo primario di MASCARA è di trovare esopianeti intorno alle stelle più brillanti del cielo, che al momento non sono investigate nè dallo spazio nè dalle “survey” da terra. La popolazione osservata da MASCARA consiste soprattutto di pianeti gioviani caldi, grandi esomondi fisicamente simili al “nostro” Giove ma in orbite molto più vicine alla propria stella madre. Ciò produce una temperatura superficiale alta e periodi orbitali di poche ore. Sono stati scoperti Giovi caldi a decine con il metodo delle velocità radiali, poichè la loro influenza gravitazionale sull’astro risulta elevata. “Non si può imparare molto dai pianeti scoperti con il metodo della velocità radiale, poichè servono tecniche di produzione di immagini molto sofisticate per separare la luce di questi pianeti, vecchi e freddi, da quella della stella madre – fa notare Snellen – al contrario, i pianeti che transitano di fronte alla loro stella madre possono essere caratterizzati facilmente”. MASCARA ha anche la potenzialità di scoprire super-Terre e pianeti delle dimensioni di Nettuno. Il progetto dovrebbe fornire un catalogo dei bersagli più brillanti e vicini per le future osservazioni di caratterizzazione dettagliata delle esoatmosfere. Altro strumento interessante è MATISSE, che sta per “Multi-AperTure mid-Infrared SpectroScopic Experiment”, passato da una serie di test iniziali condotti all’Osservatorio della Costa Azzurra (Francia) al trasporto in Cile per essere integrato nel Very Large Telescope Interferometer all’Osservatorio Paranal dell’ESO. MATISSE è un sistema che combina la luce raccolta da un massimo di 4 telescopi su 8 del VLTI ed effettua sia osservazioni dirette sia spettroscopiche. Insieme, MATISSE e il VLTI avranno un potere risolutivo pari a quello di un telescopio con diametro fino a 200 metri, a seconda della configurazione ottica, e saranno in grado di produrre immagini straordinariamente dettagliate. MATISSE osserverà la luce infrarossa dalla banda L alla banda N, tra le lunghezze d’onda del visibile e le microonde nello spettro elettromagnetico. Lo strumento è stato concepito per far avanzare diverse aree di ricerca fondamentali dell’Astronomia: si concentrerà sulle regioni interne di dischi intorno a stelle giovani dove i pianeti sono in fase di formazione, studierà stelle in diversi stadi della loro vita e l’ambiente intorno a buchi neri situati in Nuclei Galattici Attivi. Anche il cacciatore di pianeti ESPRESSO è diretto in Cile. Acronimo che sta per “Echelle SPectrograph for Rocky Exoplanet and Stable Spectroscopic Observations”, ossia spettrografo echelle per le osservazioni spettroscopiche di pianeti rocciosi, ha superato il “Preliminary Acceptance Europe” (PAE) dell’ESO, ha completato con successo tutti i test preliminari per essere impacchettato e spedito in Cile dove sarà installato nel “fuoco coudé combinato” del Very Large Telescope. ESPRESSO vedrà la prima luce a breve. È uno degli strumenti attesi con più impazienza nel mondo astronomico. ESPRESSO è stato progettato e costruito da un consorzio formato da: Osservatorio Astronomico dell’Università di Ginevra e dell’Università di Berna, Svizzera; Osservatorio Astronomico Inaf di Trieste e Osservatorio Astronomico Inaf di Brera, Italia; Instituto de Astrofísica de Canarias, Spagna; Instituto de Astrofisica e Ciências do Espaço, Università di Porto e Lisbona, Portogallo ed ESO. È il successore del cacciatore di pianeti HARPS sul telescopio da 3,6 metri dell’ESO a La Silla e supererà la precisione di HARPS di circa 10 volte. Lo strumento HARPS riesce a misurare il moto di una stella con una precisione superiore a un metro per secondo. Ma ESPRESSO punterà a una precisione di pochi centimetri per secondo, grazie ai progressi della tecnologia e al suo posizionamento su un telescopio molto più grande. Come cacciatore di pianeti di nuova generazione, ESPRESSO misurerà i minuscoli cambiamenti nella luce delle stelle, causati da pianeti (alcuni dei quali più piccoli di Nettuno) che vi ruotano intorno. Il metodo della velocità radiale, com’è noto, registra variazioni molto piccole nel moto di una stella, causate dall’influenza gravitazionale di un pianeta: la stella “oscilla” se l’esomondo le ruota intorno. Più piccolo è il pianeta, più piccola è l’oscillazione ed è necessario uno strumento ad altissima precisione per rilevare esopianeti piccoli e rocciosi potenzialmente vitali. Usando questo metodo, ESPRESSO potrà localizzare alcuni dei pianeti più piccoli e promettenti come la Terra. Il metodo della velocità radiale è molto importante se vogliamo conoscere le proprietà fisiche di un esopianeta, per esempio la sua massa: combinando i risultati ottenuti con altri metodi, come il transito, si possono anche dedurre altre informazioni, quali la dimensione e la densità dell’esopianeta. Il telescopio “Next-Generation Transit Survey”, ovvero strumento per survey di transito di nuova generazione, che si trova al Paranal, dà la caccia agli esopianeti usando il metodo del transito. Così come HARPS, anche ESPRESSO sarà usato per osservazioni di “follow-up” dei mondi candidati in transito (quando un esopianeta, visto dalla Terra, passa di fronte alla sua stella madre) per confermare la loro natura di pianeta e misurare la loro massa, oltre che per la spettroscopia di transito degli esopianeti. Quest’ultima tecnica di osservazione permette agli astronomi di determinare i componenti principali dell’atmosfera di un pianeta, come sodio e vapore acqueo. ESPRESSO userà la luce raccolta da uno dei quattro “Unit Telescope” del VLT, ma sarà anche in grado di raccogliere la luce da tutti e quattro gli UT simultaneamente, usufruendo, quindi, di un’area ottica di raccolta fotonica pari a quella di un telescopio di 16 metri di diametro, con la possibilità di osservare oggetti molto deboli. Questo consentirà di esplorare i luoghi più reconditi dell’Universo osservando con alta precisione il Mezzo Intergalattico tra la Terra e i Quasar molto lontani, permettendo di indagare se le “costanti” fisiche fondamentali siano cambiate nel tempo e/o nello spazio. A progettare e costruire lo spettrografo è stato un consorzio internazionale guidato da Francesco Pepe dell’Osservatorio astronomico di Ginevra. E come il nome Espresso sembra suggerire la partecipazione italiana, in particolare dei ricercatori dell’Inaf, all’ideazione e alla realizzazione dello strumento è stata determinante. “L’Osservatorio astronomico di Trieste ha contribuito soprattutto per quel che riguarda l’elettronica, il software di controllo e di analisi dati dello strumento – osserva Stefano Cristiani dell’Inaf di Trieste, uno dei responsabili del progetto – l’Osservatorio astronomico di Brera, invece, soprattutto per quel che riguarda l’apparato optomeccanico che raccoglie la luce dai quattro telescopi Vlt e la convoglia all’interno dello spettrografo. Uno spettrografo echelle è un tipo particolare di spettrografo, ovvero uno strumento che separa la luce nelle componenti/colori di lunghezza d’onda diversa, che al posto del convenzionale reticolo singolo utilizza due reticoli di diffrazione, ruotati di 90 gradi uno rispetto all’altro, in modo da aumentare la qualità, in particolare la risoluzione, e la quantità d’informazione raccolta. A fine anno lo strumento vedrà la “prima luce” in cielo, e noi scienziati dell’Inaf speriamo finalmente, dopo sei anni di lavoro, di poter iniziare lo studio di pianeti extrasolari (siamo a caccia, in particolare, di pianeti come la Terra che ruotino attorno a stelle come il Sole) e del mezzo intergalattico, cercando di misurare variazioni delle costanti fisiche fondamentali e le proprietà fisico-chimiche della materia nell’Universo com’era miliardi di anni fa”. Al giorno d’oggi, uno dei settori più stimolanti e appassionanti dell’Astronomia è la ricerca di esopianeti, altri mondi che orbitano intorno ad altre stelle. Di recente, utilizzando lo strumento SPHERE, alias “Spectro-Polarimetric High-contrast Exoplanet REsearch instrument”, installato sul Very Large Telescope, è stato scoperto l’esopianeta HIP 65426b. Situato a circa 385 anni luce dalla Terra, HIP 65426b è il primo pianeta trovato da SPHERE e risulta essere anche particolarmente interessante. Una precedente nota dell’ESO aveva riportato un’osservazione di SPHERE che era stata interpretata come un pianeta. Tuttavia, tale interpretazione è stata messa in dubbio. Perciò, HIP 65426b è attualmente la prima rilevazione attendibile di un esopianeta effettuata dallo strumento SPHERE. Il pianeta è caldo, tra 1000 e 1400 gradi Celsius, con una massa da sei a dodici volte quella di Giove. Sembra avere un’atmosfera molto polverosa, piena di nubi spesse, e orbita intorno a una giovane stella molto calda che ruota in maniera incredibilmente veloce. Curiosamente, vista la sua età, la stella non sembra essere circondata da un disco di detriti, la cui assenza suscita interrogativi inaspettati anzitutto sul modo in cui il pianeta si sia formato. Potrebbe essersi addensato in un disco di gas e polvere e, quando il disco si è dissipato rapidamente, avrebbe interagito con altri pianeti per poi spostarsi su un’orbita più distante dove gli astronomi adesso lo osservano. Altrimenti, la stella e il pianeta potrebbero essersi formati insieme come un sistema binario in cui il componente più massiccio avrebbe impedito all’altra potenziale stella di accumulare materia a sufficienza per diventare effettivamente un astro! La scoperta del pianeta alieno HIP 65426b offre agli astronomi l’opportunità di studiare la composizione e la posizione delle nubi nella sua atmosfera e di verificare le teorie relative alla formazione, evoluzione e fisica degli esopianeti. SPHERE è un potente cercatore di pianeti installato sull’UT3 del VLT. Il suo scopo scientifico è quello di rilevare e studiare nuovi esopianeti giganti intorno a stelle vicine usando il metodo della Osservazione Diretta. Quando perlustrano l’Universo alla ricerca di esopianeti, gli astronomi dispongono di numerosi strumenti. Molti metodi di rilevazione dei pianeti sono indiretti: possono rilevare la diminuzione rivelatrice della luminosità di una stella quando un pianeta vi transita o misurare la minuscola oscillazione nel moto di una stella, causata dalla spinta gravitazionale di un pianeta orbitante. Tuttavia, esiste un metodo più diretto per scovare un esopianeta: l’osservazione diretta che cattura direttamente le immagini degli esopianeti e dei dischi di detriti intorno alle stelle, come se venisse scattata una fotografia. Il “selfie” astrofisico è ancora un sogno! L’osservazione diretta è difficile perché la luce di una stella è talmente potente che l’evanescente riflesso dei pianeti in orbita viene sommerso dai fotoni astrali. Tuttavia SPHERE è progettato in modo “intelligente” per superare tale ostacolo e cercare precisamente la luce polarizzata riflessa dalla superficie di un pianeta (https://www.eso.org/public/archives/releases/sciencepapers/ann17041/ann17041a.pdf). L’immagine catturata nell’ambito del programma di una survey chiamata SHINE, alias “SpHere INfrared survey for Exoplanets”, risulta eloquente. SHINE ha lo scopo di rappresentare 600 giovani stelle nel vicino infrarosso, utilizzando l’elevato contrasto e l’alta risoluzione angolare di SPHERE per scoprire e caratterizzare nuovi sistemi planetari vicini ed esplorare il modo in cui si sono formati. Il team della campagna “Pale Red Dot”, Piccolo Punto Rosso, che lo scorso anno ha scoperto il primo pianeta alieno più vicino intorno alla stella più prossima al “nostro” Sole, sta riprendendo la ricerca di pianeti simili alla Terra, rilanciando una nuova iniziativa. La campagna “Red Dots” seguirà gli astronomi dell’ESO mentre useranno il cacciatore di esopianeti dell’ESO per cercare mondi alieni intorno ad alcune delle stelle più vicine, come Proxima Centauri, la Stella di Barnard e Ross 154. L’ESO si è unito a questo esperimento di “open notebook science”, vale a dire di scienza reale presentata in tempo reale, che consentirà al pubblico e alla comunità scientifica di accedere ai dati osservativi di Proxima Centauri nel momento stesso in cui si svolge la campagna. Il team degli astronomi a capo delle osservazioni e della campagna di divulgazione è formato da: Guillem Anglada-Escudé, John Strachan, Richard P. Nelson, Harriet Brettle (Queen Mary University of London, Regno Unito), John Barnes (Open University, Regno Unito), Mikko Tuomi, Hugh R.A. Jones (University of Hertfordshire, Regno Unito), Cristina Rodríguez-Lopez, Eloy Rodriguez, Pedro J. Amado, María J. López-González, Nicolás Morales, José Luís Ortiz (Instituto de Astrofisica de Andalucia, Spagna), Enric Pallé, Victor J. Sanchez Bejar, Felipe Murgas (Instituto de Astrofísica de Canarias, Spagna), Ignasi Ribas, Enrique Herrero Casas (Institut de Ciències de l’Espai, Spagna), Ansgar Reiners, Mathias Zechmeister, Stefan Dreizler, Lev Tal-Or, Sandra Jeffers (University of Goettingen, Germania), Yiannis Tsapras (Astronomisches Rechen-Institut, University of Heidelberg, Germania), Rachel Street (LCOGT.net), James Jenkins, Zaira Modroño Berdiñas (Universidad de Chile, Cile), Aviv Ofir (Weizmann Institute, Israele), Julien Morin (Université de Montpellier e CNRS, Francia), Gavin Coleman (University of Bern, Svizzera). Il team scientifico, guidato da Guillem Anglada-Escudé della Queen Mary University of London, acquisirà e analizzerà dati forniti dallo spettrografo HARPS dell’ESO e da altri strumenti in tutto il mondo per circa 90 notti. Le osservazioni fotometriche sono iniziate il 15 Giugno, mentre quelle spettrografiche il 21 Giugno 2017. Gli strumenti usati durante la campagna Red Dots sono: HARPS/ESO in Cile (spettroscopia/misurazioni Doppler e altro) e un’ampia gamma di piccoli telescopi per il monitoraggio fotometrico, quali: Las Cumbres Global Observatory Telescope; SpaceObs ASH2 in Cile; Observatorio de Sierra Nevada, in Spagna; e Observatori Astronomic del Montsec, Spagna. Oltre ai nuovi dati, il team fa ampio uso delle osservazioni pubbliche delle tre stelle dagli archivi ESO (HARPS e UVES/VLT) e della survey fotometrica dell’ASAS. HARPS è uno spettrografo di estrema precisione e finora è il migliore cacciatore di esopianeti di massa piccola. Collegato al telescopio da 3,6 metri dell’ESO a La Silla, HARPS di notte cerca esopianeti, tentando di captare le più piccole oscillazioni nel moto delle stelle, generate dalla spinta di un esopianeta nella loro orbita. HARPS (https://reddots.space/full-harps-2017-dataset-now-available/) rileva anche movimenti più lenti, di soli 3,5 km/h, da trilioni di chilometri di distanza. Tra le stelle scelte da Red Dots ovviamente Proxima Centauri, dato che gli scienziati sospettano che ci sia più di un pianeta terrestre nella sua orbita. Proxima Centauri è la stella più vicina al nostro Sole e dista solo 4,2 anni luce. Potrebbe essere uno dei posti migliori dove cercare forme di vita aliena al di fuori del Sistema Solare, tanto più che i nostri strumenti e tecnologie progrediscono. Qualche mese fa, l’ESO ha annunciato un partenariato con “Breakthrough Initiatives”, per cercare di dimostrare la fattibilità di una nuova tecnologia che consentirà voli interstellari ultraleggeri e senza equipaggio al 20% della velocità della luce! Questi nanodroni potranno essere inviati verso tre stelle del sistema Alpha Centauri, di cui Proxima Centauri è quella più vicina al Sole. Le altre due stelle osservate durante la campagna Red Dots sono la Stella di Barnard, una nana rossa di massa piccola che dista circa 6 anni luce, e Ross 154, un’altra nana rossa che dista 9,7 anni luce. La Stella di Barnard è famosa nella cultura fantascientifica ed è anche stata proposta per future missioni interstellari, come il Progetto Daedalus, una sonda intelligente a propulsione termonucleare. Le osservazioni al telescopio sono accompagnate da una campagna divulgativa supportata dall’ESO e dai suoi partner, coordinata dai membri del team scientifico con il supporto dei Dipartimenti interessati dell’ESO, della Queen Mary University of London, dell’Instituto de Astrofisica de Andalucia/CSIC, dell’Universidad de Chile e della University of Goettingen. La campagna Pale Red Dot rivela i metodi e le fasi del processo scientifico, ma i risultati vengono presentati solo dopo un processo di “peer review”. Ma stavolta i dati delle osservazioni di Proxima Centauri vengono rivelati, analizzati e discussi in tempo reale. Collaborazioni tra professionisti e amatori, e contributi da parte di cittadini e scienziati interessati sono incoraggiati tramite i “social network”, un forum (https://reddots.space/forums/) e mediante strumenti di supporto forniti dall’American Association of Variable Star Observers (AAVSO). Tutte le osservazioni presentate in questo lasso di tempo naturalmente sono solo introduttive e non devono essere usate o citate in riviste con “referee”. Il team non rilascia dichiarazioni conclusive né tantomeno rivendica alcuna scoperta fino a che non verrà scritto un articolo adeguato, sottoposto a peer-review e accettato per la pubblicazione dalla comunità scientifica internazionale. La campagna Red Dots tiene il pubblico informato tramite il sito web “reddots.space” dove vengono postati aggiornamenti settimanali con articoli di supporto e momenti salienti della settimana, inclusi contributi degli utenti. Le conversazioni si tengono anche sulla pagina Facebook e sull’account Twitter di Red Dots Twitter, usando l’hashtag #reddots. Nessuno può dire con certezza quali saranno gli esiti di Red Dots. Dopo l’acquisizione dei dati e la loro analisi con la comunità, il team scientifico sottoporrà i risultati a peer-review. Se davvero verranno scoperti esopianeti intorno a queste stelle, l’Extremely Large Telescope dell’ESO, che dovrebbe vedere la luce nell’Anno Domini 2024, dovrà essere in grado di immortalarli e di caratterizzare la loro atmosfera, un passo cruciale per la ricerca di prove dell’esistenza di forme di vita al di fuori del Sistema Solare. I pianeti extrasolari (esopianeti) sono corpi celesti orbitanti attorno a stelle diverse dal nostro Sole. Come gli otto pianeti del nostro Sistema solare, gli esomondi si sono formati all’interno di dischi di gas e polvere circumstellari quando le stelle genitrici erano astronomicamente giovani. Qualche milione di anni! Non è facile identificare i pianeti extrasolari dalla Terra. Quando sono neonati, la complessa struttura del materiale del disco in cui si formano li nasconde alle osservazioni dirette. Quando sono più in là con l’età e il disco non c’è più, la presenza della stella centrale, da milioni a miliardi di volte più luminosa di un pianeta, continua a rendere difficile rivelare l’esistenza di un esopianeta in modo diretto, cioè attraverso un’immagine. Il grande successo nel campo è stato finora ottenuto prevalentemente utilizzando metodi indiretti di rivelazione che sfruttano una varietà di effetti indotti dagli esopianeti sulle loro stelle, quali occultazioni (metodo dei transiti) o moto orbitale dovuto alla Legge di Gravitazione Universale (metodo delle velocità radiali). La rivelazione e caratterizzazione fisica degli esopianeti è di fondamentale importanza per capire come il nostro Sistema Solare si pone nel contesto dei complessi processi di formazione ed evoluzione planetaria, e per rispondere in ultima analisi ai quesiti relativi alle condizioni necessarie e sufficienti allo sviluppo della biologia complessa che chiamiamo vita. Per millenni, la ricerca di risposte alla domanda “Siamo soli?” fu esclusiva di mito, letteratura, religione e filosofia. Dopo decine di secoli di speculazioni essenziali, sapere scientificamente se oltre il “nostro” Sistema Solare abitato, esistano luoghi potenzialmente favorevoli all’emergere di vita complessa, è oggi uno degli argomenti di frontiera dell’Astrofisica del XXI Secolo. Una tale scoperta non sarebbe solamente rivoluzionaria per il campo di ricerca che se ne occupa, ma avrebbe anche una profonda valenza antropologica, sociologica, economica, politica, religiosa, filosofica, culturale. Il campo di ricerca degli esopianeti è giovanissimo. Il primo esopianeta di tipo gioviano orbitante una stella simile al “nostro” Sole, 51 Pegasi, è stato individuato da due astronomi svizzeri, Michel Mayor e Didier Queloz, nell’Anno Domini 1995. A poco più di vent’anni da quella scoperta, l’Esoplanetologia è in espansione vertiginosa e sta acquisendo un forte aspetto interdisciplinare. L’utilizzo di strumentazione di avanguardia sia da Terra (spettrografo Harps-N al Telescopio Nazionale Galilei) sia nello Spazio (missione Kepler della Nasa) ha permesso di iniziare a comprendere la straordinaria varietà delle possibili realizzazioni dei sistemi planetari extrasolari come evidenza osservativa fossile dei complessi processi di formazione ed evoluzione planetaria in dischi circumstellari dalle proprietà fisiche e morfologiche differenti. Gli scienziati sanno che giganti gassosi e pianeti terrestri possono trovarsi su orbite brevissime, anche 1/40 della distanza di Mercurio dal Sole, come risultato di fenomeni di migrazione orbitale, e che una stella su tre nella Galassia ospita pianeti che non hanno un analogo nel “nostro” Sistema Solare: Super Terre con masse e raggi intermedi tra quelli della Terra e di Nettuno. Uno zoo sorprendente anche per la caraterrizzazione delle probabili civiltà aliene. La frontiera della ricerca in esoplanetologia offre due direttrici principali di studio. Da un lato, determinare l’architettura e la dinamica dei sistemi esoplanetari sulle varie scale di massa, raggio e separazione per comprendere la dipendenza delle proprietà fisiche e dinamiche dei pianeti dalle caratteristiche delle stelle ospiti (età, massa, composizione chimica). Dall’altro, misurare in modo sistematico la composizione interna, la chimica e dinamica delle atmosfere aliene degli esopianeti, studiate oggi ancora solo a livello pionieristico, identificando nel futuro un campione di pianeti di tipo terrestre nella regione di abitabilità delle loro stelle (il sistema di Trappist-1 ne è il primo spettacolare esempio) e le cui atmosfere possano essere studiate in dettaglio alla ricerca di gas biogenici indicatori della presenza di vita con il JWST, il nuovo Telescopio Spaziale della Nasa, e con l’ELT di 39 metri di diametro nel deserto di Atacama in Cile. I ricercatori italiani dell’Inaf hanno sfruttato con grande successo nell’ultimo quinquennio i dati ottenuti con il cacciatore di pianeti Harps-N al Tng. L’Inaf ha responsabilità dirette di alto livello in molti progetti presenti a futuri di grande respiro per la rivelazione e caratterizzazione fisica (composizione interna e atmosfera) di sistemi esoplanetari, sia da Terra (Sphere/Vlt, Espresso/Vlt, Shark/Lbt, Hires/Elt) sia nello spazio (Gaia, Cheops, Plato e Ariel). È stato pubblicato il 5 Ottobre 2017 su The Astrophysical Journal un articolo che attesta la precisione delle misure ottiche raggiungibili da Terra per l’osservazione di esopianeti grazie all’utilizzo di un dispositivo ottico testato da un gruppo di astronomi della Penn State University. Lo studio “Towards Space-like Photometric Precision from the Ground with Beam-Shaping Diffusers“, è a firma di Gudmundur Stefansson, Suvrath Mahadevan, Leslie Hebb, John Wisniewski, Joseph Huehnerhoff, Brett Morris, Sam Halverson, Ming Zhao, Jason Wright, Joseph O’rourke, Heather Knutson, Suzanne Hawley, Shubham Kanodia, Yiting Li, Lea M. Z. Hagen, Leo J. Liu, Thomas Beatty, Chad Bender, Paul Robertson, Jack Dembicky, Candace Gray, William Ketzeback, Russet McMillan e Theodore Rudyk. Il dispositivo oggetto di studio, tecnicamente un “beam-shaping diffuser” prodotto nei laboratori della Rpc Photonics di Rochester (New York), è un micro componente ottico con il compito di distribuire la luce, proveniente dalla stella, su una superficie del sensore ottico maggiore di quella che coprirebbe senza “device”. Il test del dispositivo è stato condotto al telescopio Hale dell’Osservatorio Palomar in California, al telescopio da 0.6 metri Davey Lab Observatory della Penn State University e al telescopio Arc da 3.5 mt dell’Apache Point Observatory in New Mexico (Usa). Sparpagliare i fotoni della luce aliena, per andare a caccia di ET, porta beneficio alla qualità delle immagini. A rovinare la qualità delle immagini da terra intervengono svariati fattori. In primis, costituisce un grande problema per gli astronomi e per chi progetta i telescopi la nostra atmosfera inquinata che deteriora il “seeing” delle immagini: è la distorsione che si cerca di correggere con i sistemi di ottica adattiva. A parte i problemi relativi alla scintillazione naturale del cielo, che riguardano solo le osservazioni da terra, rimane l’errore introdotto dalla disomogeneità nella risposta dei pixel del rivelatore, i quali non rispondono tutti allo stesso modo alla luce. Questo errore aumenta se la misura è basata su pochi pixel ma diminuisce proporzionalmente se si riesce a mediare la misura su un grande numero di pixel, compensando così statisticamente gli errori dei singoli pixel e ottenendo una migliore qualità dell’immagine. Ecco dunque che la tecnica di distribuire la luce su una superficie maggiore, chiamata “defocusing”, permette di raggiungere precisioni molto elevate ed è utile nel caso in cui quello introdotto dai pixel sia l’errore dominante, come succede nei telescopi spaziali, per i quali l’atmosfera non rappresenta più un problema. “Si tratta di un’applicazione interessante in tutte le situazioni in cui il telescopio o il rivelatore ottico non sono ottimali o allo stato dell’arte – rivela Roberto Ragazzoni, astronomo dell’Istituto nazionale di astrofisica all’Osservatorio di Padova, esperto di ottica e membro del board della missione spaziale europea Cheops, alias CHaracterizing ExOPlanets Satellite – se applicata a telescopi sub-ottimali, questa tecnica permette di ottenere risultati molto buoni, pur non stabilendo un record nella qualità delle osservazioni (intendiamo sempre da Terra), consentendo di raggiungere un livello di misure di qualità medio-alta a una classe di rivelatori che altrimenti ne sarebbe esclusa. Esistono misure effettuate con i migliori rivelatori a disposizione in modo tradizionale che mostrano una precisione anche superiore: per citare un esempio, quelle fatte dal gruppo di Valerio Nascimbeni per cercare transiti di pianeti da Terra”. Questo tipo di tecnica non verrà utilizzato per Cheops, la missione europea destinata allo studio dei pianeti extrasolari in partenza nell’Anno Domini 2018 sul vettore russo Soyuz-Fregat dallo spazioporto europeo di Kourou nella Guiana Francese. Cheops (http://cheops.unibe.ch/) avrà il compito di compiere osservazioni molto precise di stelle attorno alle quali è già nota la presenza di pianeti o di cui ci sono forti indizi, con l’obiettivo di studiare la struttura di pianeti extrasolari con raggi che vanno tipicamente da 1 a 6 volte quelli della Terra e con masse fino a 20 volte quella del nostro Pianeta, in orbita attorno a stelle luminose. “Anche il nostro gruppo di ricerca aveva valutato questa soluzione per Cheops, testando lo stesso dispositivo oggetto dello studio in laboratorio (vedi Magrin et al., 2014), come citano anche loro nell’articolo. Nel caso spaziale – spiega Roberto Ragazzoni – questa tecnica avrebbe un piccolo margine di miglioramento netto, ma bisogna considerare che sarebbe stata la prima volta che un dispositivo simile avrebbe volato nello spazio. Sia per cause termiche sia per un possibile annerimento del vetro a causa delle radiazioni a cui il telescopio è esposto durante il periodo della permanenza in orbita, sarebbe stato troppo rischioso adottare questa soluzione”. L’esposizione prolungata del vetro comune (borosilicato) alle radiazioni cosmiche può infatti produrre un annerimento e variazione nella trasparenza, con la conseguente perdita di qualità dello strato riflettente degli specchi o di altri dispositivi ottici (lenti, pad e così via). Per le applicazioni spaziali è normalmente utilizzata una miscela di borosilicato con altre sostanze (per gli specchi lo ZeroDur, per le lenti il BK7 a cui si aggiunge ossido di cerio) che conferiscono al vetro la tipica colorazione leggermente giallognola rendendolo stabile alle radiazioni anche per anni. “Anche per Cheops si userà una tecnica di defocusing – fa notare Ragazzoni – ossia di sparpagliamento della luce sulla superficie del sensore, ma la qualità ottica del telescopio si giocherà tutta sulla stabilità, dote fondamentale nel campo spaziale. Proprio recentemente è stata verificata in Svizzera la stabilità del telescopio, garantita dalle strutture in carbonio, ed è stata testata con successo con una precisione di pochi nanometri”. Anche la missione “PLAnetary Transit and Oscillations of stars” è stata adottata ufficialmente nel programma scientifico dell’Agenzia Spaziale Europea, e passa quindi dalla fase progettuale a quella definitiva della sua realizzazione. Plato vede in prima linea l’Italia grazie all’Agenzia Spaziale Italiana e al contributo scientifico e tecnologico dell’Istituto nazionale di astrofisica. La missione PLAnetary Transit and Oscillations of stars è operativa. Nei prossimi mesi le industrie verranno sollecitate a inviare offerte per la costruzione del veicolo spaziale. La decisione è stata presa a Madrid durante l’incontro dell’Esa Science Program Committee, garantendo la prosecuzione del piano europeo “Cosmic Vision 2015-2025” insieme alla Russia. Plato è un satellite tecnologicamente molto sofisticato, composto da una batteria di 26 piccoli telescopi che insieme coprono un enorme campo di vista, in grado di osservare per la prima volta contemporaneamente immense zone di Cielo. La missione sarà lanciata nell’Anno Domini 2026 con un razzo russo Soyuz-Fregat dalla Guyana Francese e andrà a inserirsi in orbita attorno al punto Lagrangiano L2, una delle orbite di equilibrio gravitazionale del sistema Sole-Terra, a un milione e mezzo di chilometri dal “nostro” mondo. Da lì comincerà la sua missione di ricerca di esopianeti che orbitano attorno alle stelle più vicine, scandagliano oltre metà del Cielo. Lo scopo della missione è fare un censimento dei pianeti di massa simile alla Terra, misurandone la dimensione, la massa e l’età con precisione mai raggiunta prima. Plato permetterà di vedere per la prima volta i sistemi solari alieni simili al “nostro”, di capire quanto questi siano frequenti e di comprendere quanto frequentemente si realizzano nel Cosmo le condizioni per lo sviluppo della vita. Grazie al supporto dell’Agenzia Spaziale Italiana, Plato porterà a bordo diversi strumenti frutto dell’ingegno italiano. In particolare i 26 telescopi, caratterizzati da un campo di vista simile a quello dell’occhio umano, sono estremamente innovativi, nascono nei laboratori dell’Istituto nazionale di astrofisica di Padova, Catania e Milano, e saranno costruiti nei laboratori della Leonardo di Firenze con la collaborazione dell’Università di Berna, della TAS Italia e di Medialario. Anche il computer che controlla gli strumenti a bordo sarà fornito dall’Italia, progettato sotto responsabilità di ricercatori Inaf delle sedi di La Palma, Firenze e Roma, e sarà costruito dalla Kayser Italia. Inoltre, l’Asi Ssdc costruirà una parte decisiva del segmento di terra della missione, mentre il Catalogo di stelle che saranno scrutinate da Plato sarà fornito dall’Università di Padova. “La missione Plato è stata fortemente sostenuta dall’Asi, non solo per la valenza scientifica della ricerca di esopianeti – osserva Barbara Negri, responsabile Asi dell’Unità esplorazione e osservazione dell’Universo – ma anche per valorizzare la capacità di realizzare in Italia i telescopi e l’elettronica di controllo dello strumento, per i quali la comunità scientifica e l’industria italiana possiedono una leadership indiscussa in Europa. Plato, che seguirà di qualche anno la missione Cheops, sposterà la frontiera della ricerca di possibili pianeti abitabili dal nostro Sistema Solare ai sistemi planetari di altre stelle vicine”. Isabella Pagano, ricercatrice dell’Inaf e responsabile scientifico per l’Italia della missione Plato, ricorda che “la notizia ci coglie mentre siamo riuniti a Stoccolma proprio per fare il punto sullo stato del progetto. Non poteva esserci momento migliore per segnare una data che cambierà la storia sulla ricerca degli esopianeti nei prossimi decenni. La strada per trovare pianeti abitabili attorno a stelle vicine a noi è stata definitivamente tracciata”. Una volta lanciato, Plato sorveglierà quindi un milione di stelle per più di 4 anni e sarà in grado di individuare fra queste quelle con le caratteristiche, per dimensione, temperatura e composizione, adatte ad ospitare pianeti che potenzialmente possano portare allo sviluppo della vita “terrestre”. Perché poi esistono esomondi così uguali e così diversi. Sono due pianeti gioviani caldi che orbitano attorno a stelle simili al “nostro” Sole: HAT-P-38b e WASP-67b. Le osservazioni condotte con il Telescopio Spaziale Hubble hanno evidenziato che, nonostante i due pianeti condividano taglia, temperatura e orbitino attorno a stelle simili, la loro atmosfera si è sviluppata in maniera assai differente. Lo studio realizzato da un team guidato dall’italiano Giovanni Bruno ha utilizzando la “Wide Field Camera 3” del Telescopio Spaziale della Nasa per osservare i due esomondi HAT-P-38 b e WASP-67 b. Sono all’incirca delle stesse dimensioni e orbitano attorno a stelle simili, eppure le osservazioni hanno evidenziato grandi differenze nella composizione delle rispettive atmosfere. Lo studio è stato presentato ad Austin, in Texas, nel corso del 230mo meeting della American Astronomical Society. Bruno, che oltre all’omonimia con il filosofo domenicano Giordano ha ereditato la passione per gli “innumerabili mondi” che popolano l’Universo, lavora presso lo Space Telescope Science Institute di Baltimora, nel Maryland, e spiega al riguardo che “quello che rileviamo osservando le due atmosfere è che sono diverse tra loro. Quella di Wasp-67 b è più densa di nubi rispetto a quella di Hat-P-38 b. Non è quello che ci aspettavamo e ora resta da capire quali siano le cause di queste differenze”. Il team ha usato la Wide Field Camera 3 in dotazione ad Hubble per rilevare l’impronta spettrografica della composizione chimica dell’atmosfera dei due pianeti. “Gli effetti della presenza delle nubi sulla marcatura spettrale dell’acqua ci hanno permesso di misurare la quantità di nubi presenti nell’atmosfera. Una maggiore presenza di nubi – spiega Bruno – implica che il tratto caratteristico dell’acqua è inferiore. Questo ci fa capire che ci deve essere stato qualcosa nel passato di questi due pianeti che ha provocato il cambiamento che vediamo”. Trappist-1, ecco dove cercare la vita. Secondo delle recenti simulazioni effettuate con uno dei computer più potenti al mondo, dei pianeti a 40 anni luce da noi, solo “Trappist-1e” potrebbe essere abitabile: è roccioso e la sua temperatura, almeno per i nostri canoni, sarebbe accettabile. Esopianeti, pianeti extrasolari, pianeti esotici, terre aliene. Chiamiamoli come ci pare, ma andare a caccia di oggetti dove probabilmente vi può essere una qualche forma di vita è la Scienza del momento. E grazie a strumenti sempre più avanzati abbiamo archivi pieni di dati relativi a migliaia e migliaia di esopianeti lontani e vicini rispetto al nostro Sistema solare. I sette pianeti che orbitano attorno alla nana rossa ultrafredda Trappist-1, ad appena 40 anni luce da noi, sono quelli che più di tutti hanno catturato l’attenzione mediatica nell’Anno Domini ormai morente. Ma sono abitabili? C’è stato, c’è o ci sarà mai vita su uno o più di loro? Molti gruppi di ricerca li stanno studiando da ogni angolazione, e Billy Quarles (University of Oklahoma) insieme ad alcuni colleghi avrebbe identificato la loro composizione: comparando la densità della Terra, che è fatta per la maggior parte da minerali causa dei maggiori conflitti nella Storia, ai pianeti “trappisti”, Quarles può determinare come sono composte queste “terre” fornendo informazioni sulla loro potenziale abitabilità e sfruttabilità mineraria, previo consenso degli Alieni. Il giovane post-doc deduce che sei dei sette pianeti sono di tipo terrestre, cioè presentano una composizione rocciosa simile alla Terra. L’eccezione sarebbe Trappist-1f, che per il 25% è composto d’acqua. Dalle simulazioni effettuate è emerso che Trappist-1e, cioè il pianeta centrale, possa essere il miglior candidato per studi futuri sull’abitabilità di questo sistema. Collaborando con ricercatori del Goddard Space Flight Center, Quarles utilizza una delle macchine di calcolo più potenti, il Supercomputer Pleiades della “High-End Computing Program” della Nasa. Dai calcoli è venuto fuori che la massa di Trappist-1f è il 70% di quella della Terra, ma ha le stesse dimensioni del nostro pianeta e poiché il raggio è così grande, la debole pressione atmosferica induce con facilità l’acqua a evaporare. Oltre a questo,  Trappist-1f è probabilmente anche troppo caldo per ospitare la vita come noi la conosciamo. A quasi un anno dalla sorprendente scoperta di ben sette pianeti simili alla Terra e potenzialmente abitabili, annunciata nel Febbraio 2017, il sistema Trappist-1 rivela altre sorprese. Una serie di osservazioni della stella Trappist-1 compiute con lo Space Telescope Imaging Spectrograph (Stis), un potente spettrografo montato sull’Hubble Space Telescope, sembra suggerire che almeno tre di questi sette pianeti possano ospitare una grande quantità di acqua e che, in passato, ne contenessero probabilmente molta di più. Le analisi sono state condotte osservando gli spettri ricevuti durante i transiti dei pianeti di fronte alla stella, metodo usato per rilevare le componenti chimiche dell’atmosfera del pianeta in transito. La stella Trappist-1, una nana rossa dalla bassa temperature, emette radiazioni ultraviolette assorbite dai pianeti che la orbitano: quelle a bassa energia tramite un processo noto come fotolisi (scissione di una molecola in seguito a un bombardamento di fotoni energetici) possono rompere le molecole d’acqua nei loro componenti essenziali, Idrogeno e Ossigeno, mentre radiazioni ultraviolette ad alta energia, riscaldando gli strati superiori dell’atmosfera, possono causare una “perdita” di questi due elementi. L’Idrogeno, in particolare, può essere rilevato da osservazioni spettroscopiche come quelle compiute dal team guidato da Vincent Bourrier all’Osservatorio dell’Università di Ginevra. Queste suggeriscono la presenza di grandi quantità di acqua nell’atmosfera dei tre pianeti simili alla Terra nella zona abitabile (i pianeti classificati con le lettere e, f, e g) e, potenzialmente, l’esistenza allo stato liquido sulla loro superficie. Per quanto riguarda i pianeti più prossimi alla stella si crede invece che la quantità di radiazioni sia stata sufficiente a fargli perdere un’enorme quantità di acqua. Nel caso del pianeta più vicino (Trappist-1b) fino a venti volte la quantità di acqua in tutti gli oceani della Terra nel corso degli ultimi 8 miliardi di anni. Dov’è finita tutta quest’acqua? Lo studio ipotizza che sia ancora lì, quantomeno sotto forma di diffuse esosfere di Idrogeno estese lungo le orbite dei pianeti. Gli scienziati raccomandano cautela: solo quando saremo in possesso di dati più certi riguardo alla massa, alla densità e alla composizione dell’atmosfera dei pianeti attorno a Trappist-1 sarà possibile stabilire con certezza quanta acqua sia ancora presente. “Benché i nostri risultati suggeriscano che i pianeti più esterni siano i candidati migliori per la ricerca di acqua con il futuro James Webb Space Telescope – osserva Bourrier – questi evidenziano anche la necessità di ulteriori studi teorici e di osservazioni complementari in tutte le frequenze dello spettro per determinare la natura dei pianeti del sistema Trappist-1, e la loro potenziale abitabilità”. Un dato rimane certo. A soli 39 anni luce dal Sistema Solare, e con ben sette pianeti simili alla Terra, Trappist-1 rimane il sistema di esopianeti più promettente per la futura ricerca di un pianeta abitabile. Il Telescopio Spaziale Kepler segna la quota di 4496. La missione della Nasa dedicata all’identificazione dei potenziali pianeti al di fuori del Sistema Solare fa un ulteriore balzo in avanti, spostando l’asticella a quota quasi 4500, con 3558 confermati, 2650 sistemi solari alieni e 881 esomondi “terrestri”. Di essi, 10 nuovi candidati potrebbero essere simili per dimensioni alla Terra e trovarsi nella cosiddetta fascia di abitabilità. I nuovi “colpi” di Kepler, annunciati dal Centro di ricerca Ames della Nasa in California, ormai non fanno più notizia sui media italiani di regime! Eppure la missione spaziale ha individuato 219 nuovi candidati pianeti extrasolari, di cui 10 avrebbero dimensioni simili a quelle della Terra e si troverebbero in zona abitabile, ovvero ad una distanza dalla loro stella madre che permetterebbe all’acqua ivi presente di mantenersi allo stato liquido. Con il rilascio di questo catalogo, ottenuto dalla revisione dei dati dai primi quattro anni di missione e che rappresenta la versione finale ottenuta dalle misurazioni ottenute nella porzione di cielo in direzione della costellazione del Cigno, il totale dei candidati esopianeti sfonda quasi il muro dei 4500. Tra i 50 candidati situati in zona abitabile, più di 30 sono stati a loro volta confermati. L’analisi di questa enorme mole di dati suggerisce la presenza di due classi di esopianeti di piccola taglia, comparabile alla Terra. Risultati che indicano come circa la metà dei pianeti che conosciamo nella “nostra” Galassia non ha una superficie solida o è avvolta da un’atmosfera spessa e opprimente: ambienti ostili per ospitare la vita umana. “Sebbene il numero di nuovi pianeti sia modesto rispetto a quanto ci ha abituati Kepler in passato – conferma Isabella Pagano – questo aggiornamento del catalogo è particolarmente rilevante perché sono stati rianalizzati tutti i dati presi durante la fase principale della missione, quando Kepler ha monitorato le stelle simili al Sole in una regione del Cigno per cercare pianeti simili alla Terra non solo per dimensione ma anche per tipo di orbita. Kepler è  stato finora l’unico strumento in grado di fornirci informazioni sulla frequenza dei pianeti analoghi alla Terra, e bisognerà aspettare il lancio del satellite europeo Plato per avere una valutazione statisticamente più accurata, e, soprattutto, per  individuare quelli su cui puntare i grandi telescopi terrestri adesso in preparazione, come ELT, al fine di cercare segnali nelle loro atmosfere eventualmente legati alla presenza di vita”. Lo strumento montato al Very Large Telescope, in grado di raccogliere immagini dirette di esopianeti, ha scoperto e immortalato il suo primo pianeta extrasolare. Distante da noi 385 anni luce, è uno dei pochissimi finora ad essere stato osservato e studiato direttamente. Si chiama Hip 65426b. È il primo pianeta extrasolare scoperto da un team internazionale di ricercatori, tra cui alcuni dell’Inaf, grazie allo strumento Sphere sulle Ande cilene che è riuscito a raccoglierne una serie di immagini. Il pianeta che è all’interno del gruppo di stelle denominato Associazione Scorpius-Centaurus, orbita attorno alla stella Hip 65426 a una distanza di 14 miliardi di chilometri,  ovvero circa tre volte la distanza di Nettuno dal Sole. La sua massa è compresa tra 6 e 12 volte quella di Giove e la sua temperatura oscilla tra i 1000 e i 1400 gradi Celsius. L’analisi della sua debolissima luce, riflessa dalla stella madre, indica la presenza di acqua e di nubi nella sua atmosfera. A differenza di altri pianeti osservati sempre direttamente e con età simili, la stella attorno alla quale ruota l’esomondo, massiccia due volte il Sole, non sembra circondata da un disco significativo di detriti. Se si aggiunge il fatto che l’astro ruota attorno al proprio asse molto velocemente, il sistema Hip 65426 mostra caratteristiche inedite. Gli astronomi stanno cercando di capire se il pianeta si sia formato da un disco di polveri e detriti che è poi scomparso perché spazzato via da altri pianeti del sistema, o se si sia invece formato come un sistema binario estremo da una nube molecolare, così come accade normalmente. Pianeti analoghi ai giganti del “nostro” Sistema Solare, come Hip 65246b, non possono essere rilevati con metodi indiretti, molto fruttuosi in altri casi, proprio a causa della grande distanza che li separa dalla stella madre. Ma oggi questi possono essere studiati con la tecnica del “direct imaging” ad alto contrasto, proprio quella che utilizza Sphere. Lo strumento è stato progettato per sopprimere in modo ottimale la luce abbagliante della stella senza rimuovere però il debole segnale proveniente da eventuali pianeti presenti attorno a essa: tutto questo con tecniche mirate a ottenere un elevato contrasto e alta risoluzione angolare delle immagini. Per compensare gli effetti dell’atmosfera terrestre, lo strumento è equipaggiato con un sistema di ottiche adattive che permette l’acquisizione d’immagini ad altissima qualità. Sphere è così in grado di immortalare deboli pianeti orbitanti vicini alla stella madre e perfino di caratterizzarne le proprietà fisiche e spettrali.  “E, infatti, è stato proprio lo strumento Ifs (Integrated Field Spectrograph), sviluppato da Inaf, in particolare dall’Osservatorio astronomico di Padova, che ci ha restituito uno spettro completo dell’oggetto, grazie al quale abbiamo ottenuto informazioni molto più complete sui suoi parametri fisici, permettendoci di capire che stavamo effettivamente osservando un pianeta – rivela Silvano Desidera dell’Inaf di Padova, coautore dell’articolo per Astronomy & Astrophysics – nonostante le diverse migliaia di esopianeti scoperti negli ultimi vent’anni, non abbiamo ancora ben compreso come si formino, evolvano e interagiscano con l’ambiente circostante i cosiddetti pianeti gioviani, cioè quelli giganti. Conoscere tali meccanismi è importante perché i gioviani, rappresentando la maggior parte della massa nei sistemi planetari ai quali appartengono, ne condizionano l’architettura giocando un ruolo fondamentale anche nella dinamica dei loro più piccoli fratelli rocciosi quali terre e super-terre”. Giganti gassosi pericolosamente vicini alla loro stella ospite. I ricercatori di Yale ne hanno individuati 60 analizzando l’immensa quantità di dati raccolti dal telescopio Kepler in quattro anni di attività e osservando la luce proveniente da 140mila stelle. La classe dei giganti gassosi di una taglia paragonabile a quella del “nostro” Giove è stata ribattezzata con il nome di “Hot Jupiters”, gioviani caldi. Se la loro stazza è paragonabile, se non addirittura maggiore, a quella del gigante del Sistema Solare, l’orbita che percorrono è decisamente più stretta. Tipicamente navigano attorno alla loro stella ospite, con un brevissimo periodo “annuale” di rivoluzione, inferiore alla nostra settimana per completare un’intera orbita, a una distanza compresa tra la metà e un decimo di quella terrestre: tra le 0,5 e 0,1 unità astronomiche, ovvero tra circa 75 e 15 milioni di chilometri. Una vicinanza pericolosa, tale da far sì che la temperatura superficiale di questi giganti gassosi sia decisamente elevata. I ricercatori della Yale University hanno individuato 60 potenziali candidati a questa classe di esopianeti, un vero e proprio girarrosto cosmico frutto dei dati raccolti da Kepler. È la dottoranda di ricerca Sarah Millholland, insieme al docente di astronomia Greg Laughlin, ad aver avuto l’intuizione di elaborare i dati di Kepler con lo stesso approccio utilizzato per confrontarsi con i “Big Data” del Reame tanto cari agli spioni dell’Impero Usa denunciati dal coraggioso agente Snowden “ospite” della Santa Russia. Le minuscole variazioni nell’ampiezza della luce osservata possono dire se esistano o meno pianeti nell’orbita di stelle lontane capaci di riflettere i raggi di luce catturati dai telescopi spaziali. Il risultato? In quattro anni di dati raccolti da Kepler, la luce proveniente da 140mila stelle ha permesso ai ricercatori di individuare un filotto di probabili gioviani caldi. Sessanta in tutto. Il transito dei pianeti davanti alla stella ospite provoca brevi eclissi, percepite da un telescopio con la diminuzione nell’intensità di luce. Una volta confermati da future osservazioni dirette, questi dati potranno fornire preziose indicazioni sull’eventuale presenza di atmosfera su questi mondi lontani. Ad esempio sulla copertura nuvolosa, sui venti e sulla composizione stessa dell’esoatmosfera. Informazioni importanti nella caccia a potenziali mondi abitabili: l’esistenza di nuvole, venti ed escursione termica fra giorno e notte, sono ingredienti sempre più fondamentali per valutare la possibilità di vita umanamente sostenibile su altri mondi. Una nuova ricerca teorizza che alcuni esopianeti siano meno densi di quanto precedentemente pensato a causa della presenza di una seconda stella che gioca “a nascondino”. Ciò implicherebbe la necessità di ricalcolare le dimensioni esatte di molti degli esopianeti scoperti da Kepler. “La nostra conoscenza dei pianeti piccoli come la Terra e di quelli grandi come Giove può cambiare quando otteniamo maggiori informazioni sulle stelle attorno a cui orbitano – rivela Elise Furlan del Caltech/Ipac-NexScI a Pasadena – secondo quanto recentemente studiato, bisogna conoscere la stella per farsi un’idea sulle proprietà dei suoi pianeti”. Le stelle che si nascondono in alcuni sistemi solari alieni possono influenzare la densità e la grandezza del pianeta rilevato con il metodo del transito. Una nuova ricerca teorizza che alcuni esopianeti siano meno densi di quanto precedentemente pensato a causa della presenza di una seconda stella nascosta. Spesso, due astri che orbitano l’uno attorno all’altro in un sistema binario appaiono come un singolo puntino luminoso nel cielo. Anche il sofisticato telescopio Kepler può farsi ingannare in questi casi. La presenza di una seconda stella può avere conseguenze significative quando gli scienziati cercano di determinare le dimensioni dei pianeti. È noto che circa la metà di tutte le stelle simili al Sole nel nostro vicinato galattico hanno una stella compagna nel raggio di 10mila unità astronomiche. Sulla base di questa informazione scientifica, circa il 15 percento delle stelle avvistate da Kepler potrebbe avere una compagna, il che significa che i pianeti intorno a questi astri possono essere meno densi di quanto precedentemente pensato. Quando un telescopio individua un pianeta che passa davanti alla sua stella, gli astronomi misurano la conseguente diminuzione apparente della luminosità astrale. La quantità di luce bloccata durante un transito dipende dalla dimensione del pianeta: più grande è l’esomondo, più luce viene bloccata e maggiore è la dimensione osservata. Gli scienziati utilizzano queste informazioni per determinare il raggio dell’esopianeta. Se ci sono due stelle nel sistema, il telescopio misura la luce di entrambe le stelle. Ma se un pianeta orbita attorno a una sola di queste due stelle, una soltanto delle due fonti luminose viene bloccata. Ecco perché può capitare di sottostimare la dimensione reale del pianeta, e di conseguenza di sovrastimarne la densità. Furlan e il suo collega Steve Howell si sono concentrati su 50 pianeti nell’area osservata da Kepler, le cui masse e raggi sono stati precedentemente stimati. Questi pianeti orbitano attorno a stelle in sistemi binari, ma per 43 dei 50 pianeti gli esperti non hanno tenuto conto anche della luce proveniente dalla stella compagna e i dati sono di conseguenza falsati o incompleti. Ciò significa che è necessaria una revisione delle dimensioni esatte. I dati rivisti per i pianeti scoperti da Kepler saranno utili per la missione “Transiting Exoplanet Survey Satellite” (Tess) che cercherà piccoli pianeti intorno a stelle luminose e piccole vicine a noi. L’atmosfera è decisamente bollente su Wasp-121b, ben 2500 gradi Celsius. La temperatura l’ha presa l’Hubble Space Telescope osservandolo in infrarosso: il “gioviano caldo” Wasp-121b è circondato da una stratosfera di vapore incandescente. I risultati sono disponibili su Nature. Wasp-121b si trova a circa 900 anni luce dalla Terra ed è uno di quei mondi che gli astronomi etichettano grandi quanto e più di Giove, ma caldi assai più di Mercurio. Wasp-121b, in particolare, ha una massa pari a 1.2 volte quella del gigante del Sistema Solare e un diametro quasi doppio (1.9 volte). Un mondo a bassa densità, insomma, ma con un’atmosfera infernale ad altitudini elevate. Roba da liquefare il ferro e portare a ebollizione parecchi metalli. Ad accorgersene, usando gli spettri raccolti di Hubble, è stato un team di ricercatori guidato da Tom Evans della University of Exeter. La loro misura è la conferma a oggi più convincente dell’esistenza di una esostratosfera in un pianeta extrasolare. Vale a dire, di un’atmosfera nella quale, a una certa altitudine, la temperatura aumenta rispetto a quella degli strati più bassi. Fenomeno comune nel Sistema Solare, avviene infatti grazie al Metano sulle future “miniere” di Giove e Titano, e grazie all’Ozono anche qui sulla Terra, ma mai riscontrato prima con certezza negli esopianeti conosciuti. Cosa renda possibile il fenomeno su Wasp-121b non è ancor chiaro. Certo, la temperatura mozzafiato del vapor d’acqua che avvolge il pianeta è dovuta senza dubbio all’orbita strettissima, una rivoluzione ogni 1.3 giorni. Giove impiega quasi 12 anni terrestri a fare un giro completo attorno al Sole. Ma quali elementi o molecole ne causino l’innalzamento, di ben 560 gradi, all’aumentare della quota è tutto da scoprire. In “pole position” vi sono l’ossido di Vanadio e l’ossido di Titanio, composti abbastanza comuni nelle nane rosse, ma per averne conferma occorrerà probabilmente attendere l’entrata in funzione del James Webb Space Telescope. Angelo Zinzi e Diego Turrini, astrofisici all’Asi-Ssdc e all’Inaf di Roma, hanno analizzato la relazione fra eccentricità orbitale degli esopianeti e molteplicità, ovvero quanti ce ne sono all’interno di un sistema planetario alieno, mettendo in evidenza come all’aumento della molteplicità diminuisca anche il deficit di momento angolare. Lo studio è su Astronomy & Astrophysics. È comune la nascita di sistemi planetari con un alto numero di pianeti come il Sistema Solare. Importanti indizi potrebbero provenire dalle tracce lasciate dell’espulsione di antichi pianeti, visibili nelle orbite attuali dei pianeti superstiti. Grazie alle estese campagne osservative, si è osservato un aumento del numero di sistemi planetari multipianeta, che rappresentano circa il 40 percento di tutti gli esopianeti attualmente noti. Da una ricerca condotta un paio di anni fa è emerso che l’eccentricità orbitale media degli esopianeti diminuisce all’aumentare del numero di pianeti nel sistema, un parametro chiamato anche molteplicità. Gli autori dello studio avevano calcolato una relazione empirica tra eccentricità media e molteplicità che però non risultava adeguata a descrivere i sistemi a più basso numero di pianeti. Gli autori del nuovo studio hanno migliorato l’analisi precedente prendendo in considerazione le incertezze di misura sulle eccentricità orbitali, utilizzandole come “pesi”: maggiore l’incertezza, minore la rilevanza statistica della misura. In questo modo i ricercatori hanno potuto ottenere dei risultati positivi dove prima non era stato possibile, estendendo la relazione anche ai sistemi con molteplicità 2. Inoltre, inserendo il Sistema Solare e il sistema di Trappist-1, balzato agli onori della cronaca per essere il primo esosistema conosciuto con 7 pianeti rocciosi, di cui 3 nella fascia abitabile, hanno potuto verificare che il modello continua a funzionare anche per molteplicità superiori a 6. “Questo lavoro ha avuto inizio – ricorda Zinzi a proposito dell’origine dello studio – quando ho coinvolto Diego nello sviluppo di un tool online per la visualizzazione e lo studio dei sistemi planetari. Ci siamo subito resi conto che l’eccentricità orbitale media degli esopianeti diminuiva all’aumentare del numero di pianeti nel sistema e abbiamo notato che questo comportamento era stato descritto in un articolo precedente. Utilizzando ulteriori indicatori, sviluppati originariamente per lo studio del Sistema Solare, siamo riusciti a migliorare i risultati ed estrarre dai dati nuove indicazioni”. Il punto di svolta è stato l’utilizzo di un parametro in grado di tener conto della storia dinamica dei vari sistemi esoplanetari da un punto di vista fisico, ovvero il deficit di momento angolare, combinazione di eccentricità ed inclinazioni orbitali, insieme a massa dei pianeti e della stella ospite. Nonostante lo scarso numero di sistemi considerati, dovuto al fatto che sono tutt’ora pochi quelli per i quali si hanno a disposizione eccentricità, inclinazioni e masse per tutti i pianeti, è stato possibile notare che all’aumento della molteplicità diminuisce anche il deficit di momento angolare. “Questo risultato andrà verificato una volta che saranno disponibili dati su più sistemi esoplanetari – spiega Turrini – la sua conferma ci fornirebbe un’indicazione sulla frequenza di due importanti processi nella nostra Galassia. Il primo è la formazione di sistemi planetari ad alta molteplicità come il Sistema Solare, che a oggi fa ancora caso a sé. Il secondo è l’espulsione di pianeti dinamicamente instabili da un sistema planetario, l’indiziato principale come responsabile del numero di sistemi a bassa molteplicità e alto deficit di momento angolare che abbiamo osservato”. Per verificare questa ipotesi sono necessarie misure sempre nuove e più accurate, ma su questo punto i due ricercatori italiani guardano fiduciosi al futuro, considerato che i prossimi anni vedranno lo schieramento di una vera e propria flotta di missioni e telescopi dedicati allo studio dei sistemi esoplanetari, come le missioni Cheops e Plato dell’Esa, e dei telescopi Tess e James Webb Telescope della Nasa. La misura della quantità di luce riflessa dal gigante gassoso Wasp-12b, uno degli esopianeti più studiati, rivela che è scurissimo, più scuro dell’asfalto appena steso. Un’evidenza che manda in crisi quanto si pensava di sapere sulla composizione della sua atmosfera. L’esopianeta Wasp-12b, in orbita strettissima attorno a una stella simile al Sole a circa 1400 anni luce, fin dalla sua scoperta nel 2008 è diventato uno dei mondi alieni più studiati e conosciuti, ma al contempo enigmatici. Con un raggio quasi due volte quello di Giove, rispetto al quale Wasp-12b ha una massa di circa il 40 percento superiore, e un anno di durata poco superiore a un giorno terrestre, Wasp-12b è stato classificato come un gioviano caldo. E caldo lo è certamente, considerato che la temperatura superficiale del suo lato diurno raggiunge i 2600 gradi Celsius. A causa della temperatura rovente, Wasp-12b è estremamente scuro: utilizzando lo spettrografo a imagine Stis a bordo del Telescopio Spaziale Hubble, un gruppo internazionale di ricerca ha infatti misurato il suo albedo, ovvero quanta luce l’esopianeta rifletta. I risultati hanno sorpreso gli scienziati. “L’albedo geometrico di Wasp-12b è al massimo di 0.064 – rivela Taylor Bell, della McGill University in Canada, primo autore della ricerca pubblicata su Astrophysical Journal Letters – è un valore bassissimo che rende il pianeta più scuro dell’asfalto fresco. Questo significa che abbiamo ancora molto da imparare su Wasp-12b ed esopianeti simili”. Secondo gli autori, l’alta temperatura è la causa più plausibile per un valore così basso di albedo. Il lato diurno di Wasp-12b è infatti così caldo da impedire la formazione di nubi e i metalli alcalini, che su altri esopianeti più freddi sono ritenuti responsabili dell’assorbimento di luce, si trovano su Wasp-12b in forma ionizzata. Tuttavia, il calore è anche sufficientemente intenso da poter spezzare le molecole d’Idrogeno in Idrogeno atomico, portando l’atmosfera del pianeta a comportarsi più come quella di una stella di massa ridotta. Ed è proprio questo che, probabilmente, determina il basso albedo di questo suggestivo corpo celeste da osservare direttamente in situ nelle future missioni interstellari umane. Wasp-12b è solamente il secondo pianeta di cui si sono ottenute misure dell’albedo risolte spettralmente, dopo Hd189733b, un altro gioviano caldo, per cui si è stabilito che apparirebbe blu cobalto. Wasp-12b non riflette alcuna frequenza di luce visibile, emettendo invece una certa quantità di luce a causa dell’alta temperatura. Il che dovrebbe adornarlo con una tonalità rossastra, in modo simile a un metallo incandescente. Chissà se gli autori della nuova serie Star Trek Continues, legittima erede della saga di Gene Roddenberry, sapranno immaginare avventure spaziali lassù! “Il fatto che i primi due pianeti extrasolari con albedo spettrale misurata presentino differenze significative – osserva Bell – dimostra l’importanza di questi tipi di osservazioni spettrali ed evidenzia la grande diversità tra pianeti gioviani caldi”. La scoperta al Tng di una super-Terra a 21 anni luce ha richiesto l’analisi di 151 spettri ad alta risoluzione della stella ospite, GJ625, raccolti in tre anni e mezzo con lo spettrografo Harps-N montato al Telescopio Nazionale Galilei. Fra gli autori dello studio, uscito su A&A, quattro astrofisici dell’Inaf di Palermo. La famiglia degli esopianeti classificabili come super-Terre, pianeti rocciosi con massa tra 2 e 10 volte maggiore di quella della Terra, potenzialmente abitabili, si arricchisce ogni giorno di un nuovo membro. La rivista Astronomy & Astrophysics ha pubblicato uno studio di Alejandro Suárez Mascareño (Instituto de Astrofísica de Canarias) riguardante l’identificazione di una nuova super-Terra orbitante attorno la stella GJ625 di classe spettrale M e distante appena 21.2 anni luce dal Sole. L’esomondo, con una massa di 2.8 terrestri, orbita con un periodo di 14.63 giorni a una distanza di 0.078 unità astronomiche, circa 12 milioni di km, dalla sua stella, all’interno della fascia di abitabilità. La scoperta è una delle punte di diamante per la ricerca di esopianeti a disposizione della comunità scientifica internazionale. Il progetto ha coinvolto la comunità italiana del “Global Architecture of Planetary Systems”, l’Institut de Ciències de l’Espai de Catalunya (Ice) e l’Instituto de Astrofísica de Canarias (IAC), con la partecipazione delle astronome e degli astronomi Laura Affer, Giuseppina Micela, Jesus Maldonado e Antonio Maggio, tutti dell’Inaf di Palermo. Non mancano le tempeste stellari sulle atmosfere aliene. Non più solo Ossigeno e Metano: per cercare tracce di vita, nel mirino degli astrobiologi ora ci sono anche molecole come l’idrossile e il monossido di Azoto, relativamente facili da individuare grazie ai fenomeni violenti di “space weather” attorno alle stelle arancioni. Se si vuole davvero trovare vita su altri pianeti, cercate l’atmosfera giusta. Facile a dirsi, ma quando ci si cimenta nell’impresa ecco che sorgono difficoltà pratiche non banali. Già è complicato vedere se c’è o meno una esoatmosfera. Ma anche quando si è sicuri della sua presenza, stabilire da cosa sia composta non è facile. Perché se è vero che nelle righe di emissione e di assorbimento, rilevabili dagli spettrometri durante i transiti, ci sono le firme delle molecole, affinché questi marcatori siano effettivamente rilevabili occorre oggi molto tempo: con le tecnologie a disposizione, scrivono su Scientific Reports i ricercatori della Nasa guidati da Vladimir Airapetian del Goddard Space Flight Center, trovare tracce di Ossigeno o di Metano, potenziali indizi della presenza di forme di vita, può richiedere giorni e giorni di osservazione. E più tempo occorre, meno esopianeti si riescono ad analizzare. Ecco dunque che Airapetian e colleghi hanno pensato bene a una scorciatoia: cercare sì le firme di molecole negli spettri, ma di altre molecole magari meno direttamente legate alla vita ma dal carattere assai più deciso, dunque rilevabili in modo più rapido. “Composti come l’Azoto molecolare che rappresenta il 78 percento della nostra atmosfera – spiega Airapetian – si tratta di molecole fondamentali e biologicamente amiche che emettono intensamente negli infrarossi, aumentando così la probabilità di riuscire a individuarle”. Fra i principali traccianti per questo tipo di ricerca, scrivono i ricercatori della Nasa, troviamo l’idrossile (OH), il monossido di Azoto (NO) e l’Ossigeno molecolare (O2), tutte molecole che si formano nell’interazione fra atmosfere simili alla nostra e le violente tempeste stellari tipiche di alcune stelle nane, quelle arancioni in testa. Già, perché fenomeni di space weather non sono esclusivi della nostra stella, anzi. Mentre gli astri come il nostro Sole sono turbolenti soprattutto durante l’adolescenza, alcune stelle gialle e la maggior parte di quelle arancioni, la cui temperatura è un po’ inferiore a quella del Sole, potrebbero continuare a dare origine a intense tempeste stellari per miliardi di anni, generando frequenti sciami di particelle ad alta energia. Non solo. La presenza di queste firme molecolari significa implicitamente anche l’esistenza di un campo magnetico planetario. “Un pianeta ha bisogno di un campo magnetico: serve a proteggerne l’atmosfera e a proteggere il pianeta stesso dalle tempeste stellari e dalle radiazioni – rileva Airapetian a proposito di mondi in grado di ospitare la vita – se i venti stellari non sono così violenti da appiattire il campo magnetico dell’esopianeta sulla sua superficie, il campo magnetico impedisce che l’atmosfera fuoriesca: in tal caso, conterrà più particelle e avrà un’emissione infrarossa più intensa”. In attesa di verificare su autentiche esoatmosfere se la scorciatoia da loro ideata mantenga le promesse, Airapetian e colleghi la stanno collaudando usando come test un’atmosfera che sicuramente è adatta, almeno per ora, a ospitare la vita. Quella della Terra. In particolare, stanno analizzando i dati raccolti dal radiometro Saber, a bordo della missione satellitare “Timed”, per vedere come queste molecole emettano nel lontano infrarosso. “L’idea è quella di partire da ciò che sappiamo dell’emissione a infrarossi dell’atmosfera terrestre per poi osservare gli esopianeti e vedere quali tipi di segnali riusciamo a individuare – rivela Martin Mlynczak, uno dei coautori dello studio, responsabile dello strumento Saber al Langley Research Center della Nasa – se nei segnali provenienti da un esopianeta riscontreremo proporzioni simili a quelli della Terra, potremo affermare che quel pianeta è un buon candidato a ospitare la vita”. Nel frattempo MUSE scandaglia le profondità inesplorate del Campo Ultra Profondo di Hubble, completando la più profonda survey spettroscopica di sempre con lo strumento installato sul VLT dell’ESO in Cile. Gli scienziati si sono focalizzati sull’UDF di Hubble, misurando distanza e proprietà di 1600 galassie molto deboli, tra cui 72 galassie che non erano mai state viste prima, neppure dal telescopio Hubble. Questa base dati rivoluzionaria ha già portato a 10 articoli scientifici pubblicati in un numero speciale di Astronomy & Astrophysics. L’abbondanza di informazioni permette agli astronomi uno sguardo nuovo sulla formazione stellare nell’Universo primordiale e consente di studiare i moti e altre proprietà delle prime galassie. Studio reso possibile dalle capacità spettroscopiche uniche di MUSE. Il gruppo che si occupa della survey dell’Hubble Ultra Deep Field, sotto la guida di Roland Bacon dell’Università di Lione (CRAL, CNRS) Francia, usa il Multi Unit Spectroscopic Explorer per osservare una zona molto studiata nella costellazione australe della Fornace. Lo sforzo ha prodotto le osservazioni spettroscopiche più profonde mai realizzate prima. Sono state misurate informazioni spettroscopiche accurate, dieci volte più di quanto fosse stato ottenuto a gran fatica nel precedente decennio da vari telescopi da terra. Le immagini originali dell’HUDF erano osservazioni pionieristiche realizzate dal Telescopio Spaziale Hubble e pubblicate nel 2004. Si tratta delle più profonde di sempre: hanno rivelato uno zoo di galassie che risalgono a meno di miliardo di anni dopo il Big Bang. L’area è stata successivamente osservata molte volte da Hubble e altri telescopi producendo la veduta più profonda dell’Universo. Finora, 13 strumenti montati su otto telescopi, tra cui ALMA, di cui ESO è un partner, hanno osservato l’HUDF dai raggi X alle onde radio. Ora, nonostante la profondità delle osservazioni di Hubble, MUSE, tra gli altri numerosi risultati, ha rivelato 72 galassie che non erano mai state viste prima in questa minuscola area di cielo. “MUSE può fare qualcosa che Hubble non può fare – spiega Roland Bacon – suddivide la luce di ogni punto dell’immagine nei suoi colori componenti per creare uno spettro. Questo permette di misurare la distanza, il colore e altre proprietà di tutte le galassie che possiamo vedere, tra cui alcune invisibili anche a Hubble”. Le varie equipe scientifiche dei dieci lavori sono composte da: Roland Bacon (University of Lyon, Lyon, Francia), Hanae Inami (University of Lyon, Lyon, Francia), Jarle Brinchmann (Leiden Observatory, Leiden, Paesi Bassi; Instituto de Astrofísica e Ciências do Espaço, Porto, Portogallo), Michael Maseda (Leiden Observatory, Leiden, Paesi Bassi), Adrien Guerou (IRAP, Un$iversité de Toulouse, Francia; ESO, Garching, Germania), A.B. Drake (University of Lyon, Lyon, Francia), H. Finley (IRAP, Université de Toulouse, Toulouse, Francia), F. Leclercq (University of Lyon, Lyon, Francia), E. Ventou (IRAP, Université de Toulouse, Toulouse, Francia), T. Hashimoto (University of Lyon, Lyon, Francia), Simon Conseil (University of Lyon, Lyon, Francia), David Mary (Laboratoire Lagrange, Nice, Francia), Martin Shepherd (University of Lyon, Lyon, Francia), Mohammad Akhlaghi (University of Lyon, Lyon, Francia), Peter M. Weilbacher (Leibniz-Institut für Astrophysik Postdam, Postdam, Germania), Laure Piqueras (University of Lyon, Lyon, Francia), Lutz Wisotzki (Leibniz-Institut für Astrophysik Potsdam, Potsdam, Germania), David Lagattuta (University of Lyon, Lyon, Francia), Benoit Epinat (IRAP, Université de Toulouse, Toulouse, Francia; Aix Marseille Université, Marseille, Francia), Sebastiano Cantalupo (ETH Zurich, Zurich, Svizzera), Jean Baptiste Courbot (University of Lyon, Lyon, Francia; ICube, Université de Strasbourg, Strasbourg, Francia), Thierry Contini (IRAP, Université de Toulouse, Toulouse, Francia), Johan Richard (University of Lyon, Lyon, Francia), Rychard Bouwens (Leiden Observatory, Leiden, Paesi Bassi), Nicolas Bouché (IRAP, Université de Toulouse, Toulouse, Francia), Wolfram Kollatschny (AIG, Universität Göttingen, Göttingen, Germania), Joop Schaye (Leiden Observatory, Leiden, Paesi Bassi), Raffaella Anna Marino (ETH Zurich, Zurich, Svizzera), Roser Pello (IRAP, Université de Toulouse, Toulouse, Francia), Christian Herenz (Leibniz-Institut für Astrophysik Potsdam, Potsdam, Germania), Bruno Guiderdoni (University of Lyon, Lyon, Francia), Marcella Carollo (ETH Zurich, Zurich, Svizzera), S. Hamer (University of Lyon, Lyon, Francia), B. Clément (University of Lyon, Lyon, Francia), G. Desprez (University of Lyon, Lyon, Francia), L. Michel-Dansac (University of Lyon, Lyon, Francia), M. Paavast (Leiden Observatory, Leiden, Paesi Bassi), L. Tresse (University of Lyon, Lyon, Francia), L.A. Boogaard (Leiden Observatory, Leiden, Paesi Bassi), J. Chevallard (Scientific Support Office, ESA/ESTEC, Noordwijk, Paesi Bassi) S. Charlot (Sorbonne University, Paris, Francia), J. Verhamme (University of Lyon, Lyon, Francia), Marijn Franx (Leiden Observatory, Leiden, Paesi Bassi), Kasper B. Schmidt (Leibniz-Institut für Astrophysik Potsdam, Potsdam, Germania), Anna Feltre (University of Lyon, Lyon, Francia), Davor Krajnović (Leibniz-Institut für Astrophysik Potsdam, Potsdam, Germania), Eric Emsellem (ESO, Garching, Germania; University of Lyon, Lyon, Francia), Mark den Brok (ETH Zurich, Zurich, Svizzera), Santiago Erroz-Ferrer (ETH Zurich, Zurich, Svizzera), Peter Mitchell (University of Lyon, Lyon, Francia), Thibault Garel (University of Lyon, Lyon, Francia), Jeremy Blaizot (University of Lyon, Lyon, Francia), Edmund Christian Herenz (Department of Astronomy, Stockholm University, Stockholm, Svezia), D. Lam (Leiden University, Leiden, Paesi Bassi), M. Steinmetz (Leibniz-Institut für Astrophysik Potsdam, Potsdam, Germania) e J. Lewis (University of Lyon, Lyon, Francia). I dati di MUSE forniscono una nuova visione di galassie fioche e molto distanti, osservate com’erano poco dopo l’inizio dell’Universo, circa 13,8 miliardi di anni fa. Hanno rivelato galassie 100 volte più deboli che nelle survey precedenti, aggiungendole a un campo già riccamente osservato e approfondendo la nostra comprensione delle galassie nelle epoche cosmiche. La survey ha scovato 72 candidati galassie note come emettitrici di Lyman-alfa, la cui luce è concentrata nella riga Lyman-alfa. Gli elettroni caricati negativamente che orbitano intorno al nucleo dell’atomo carico positivamente hanno livelli di energia quantizzati. Possono cioè esistere solo a specifici livelli di energia e possono passare dall’uno all’altro guadagnando o perdendo precise quantità di energia. La radiazione Lyman-alfa viene prodotta quando gli elettroni dell’atomo di Idrogeno “cadono” dal penultimo livello al più basso. La quantità di energia perduta viene rilasciata sotto forma di luce di una lunghezza d’onda particolare, nella zona ultravioletta dello spettro, che gli astronomi possono rilevare con i telescopi spaziali, o da terra nel caso di oggetti spostati verso il rosso (redshift). Per questi dati (galassie a redsfhit z ~ 3,0 – 6,6) la luce Lyman-alfa viene vista nella banda della luce visibile o nel vicino infrarosso. La nostra comprensione attuale della formazione stellare non spiega pienamente queste galassie che sembrano brillare luminosamente in questo singolo colore. Poichè MUSE dell’ESO disperde la luce nei suoi colori componenti, questi oggetti diventano subito evidenti, mentre sono invisibili nelle immagini dirette profonde come quelle di Hubble. “MUSE ha la capacità unica di estrarre informazioni su alcune delle più vecchie galassie dell’Universo – rileva Jarle Brinchmann dell’Università di Leida nei Paesi Bassi e dell’Istituto di Astrofisica e Scienze Spaziali al CAUP a Porto (Portogallo) e primo autore di uno degli articoli che descrive i risultati di questa survey – anche in una zona del cielo che è già ampiamente studiata. Impariamo cose su queste galassie che è possibile capire solo con la spettroscopia, come il contenuto chimico e i moti interni, e non una galassia per volta ma tutto in una volta sola per tutte le galassie!”. Un altro risultato importante di questo studio è stato la detezione sistematica di aloni luminosi di Idrogeno intorno alle galassie dell’Universo primordiale, che ha fornito agli astronomi una nuova e promettente strada per studiare il modo in cui la materia fluisce dentro e fuori le galassie primordiali. Molte altre potenziali applicazioni di questo insieme di dati, tra cui il ruolo delle galassie deboli durante la re-ionizzazione cosmica iniziata appena 380000 anni dopo il Big Bang, il tasso di fusione tra galassie quando l’Universo era giovane, i venti galattici, la formazione stellare e la mappatura del moto delle stelle nell’Universo primordiale, vengono esplorate nella serie di 10 articoli scientifici pubblicati sulla rivista Astronomy & Astrophysics. “È giusto sottolineare che questi dati sono stati presi senza l’uso dell’ottica adattiva recentemente aggiuta a MUSE – sottolinea Roland Bacon – l’attivazione dell’AOF, dopo un decennio di lavoro intenso di astronomi e ingegneri dell’ESO, promette dati ancora più rivoluzionari in futuro”. In effetti la struttura della “Adaptive Optics Facility”  montata su MUSE ha già rivelato anelli prima sconosciuti intorno alla nebulosa planetaria IC4406. E giungono prime indicazioni di effetti di Relatività nelle stelle in orbita intorno al buco nero supermassiccio al centro della Galassia. Una nuova analisi dei dati presi dal Very Large Telescope dell’ESO e da altri telescopi suggerisce che le orbite delle stelle intorno al buco nero supermassiccio al centro della Via Lattea mostrino i quasi impercettibili effetti previsti dalla Teoria Generale della Relatività di Einstein. L’orbita della stella S2 sembra deviare leggermente dal percorso calcolato con la fisica classica. Questo risultato “trekker” stuzzicante è solo il preludio di misure ancora più precise e di verifiche della Relatività che verranno effettuate con lo strumento GRAVITY (non il film assurdo!) quando la stella S2 passerà molto vicino al buco nero nell’Anno Domini 2018. Al centro della Via Lattea, a circa 26000 anni luce dalla Terra, si trova il buco nero supermassiccio più vicino alla Terra, con una massa pari a quattro milioni di volte quella del Sole. E non l’Eden fantasticato da Star Trek V “oltre la Grande Barriera”! Questo oggetto mostruoso è circondato da un piccolo gruppo di stelle in orbita ad alta velocità nel campo gravitazionale elevatissimo del buco nero. È un ambiente perfetto in cui verificare la fisica della gravitazione e in particolare la Relatività Generale di Einstein che non è più una teoria. Un gruppo di astronomi germanici e cechi ha applicato una nuova tecnica di analisi a osservazioni già esistenti delle stelle in orbita intorno al buco nero, osservazioni accumulate con il VLT e altri telescopi negli ultimi venti anni. Per questo studio sono stati usati i dati della camera NACO per il vicino infrarosso, ora installata sul telescopio UT1 (Antu) del VLT e lo spettrometro per il vicino infrarosso SINFONI, installato al telescopio UT4 (Yepun), oltre ad alcuni dati pubblicati ottenuti all’Osservatorio Keck. Gli scienziati confrontano le orbite stellari misurate con le previsioni fatte utilizzando sia la Gravità classica di Newton sia la Relatività Generale. Il gruppo ha trovato indizi di piccoli cambiamenti nel moto di una stella, nota come S2, consistenti con le previsioni della Relatività Generale. S2 è un astro di 15 masse solari su di un’orbita ellittica intorno al buco nero supermassiccio. Ha un periodo di circa 15,6 anni e si avvicina al buco nero fino a 17 ore luce, cioè appena 120 volte la distanza tra il Sole e la Terra. La variazione dovuta agli effetti relativistici è di solo poche percentuali nella forma dell’orbita, e di un sesto di grado nell’orientamento dell’orbita stessa. Un effetto simile, ma molto più piccolo, è visibile nell’orbita del pianeta Mercurio nel Sistema Solare. Tale misura fu una delle prime evidenze, alla fine del XIX Secolo, a suggerire che la Gravità di Newton non era la versione definitiva e che un nuovo approccio e nuove intuizioni erano necessari per comprendere la Gravità nel caso di un campo forte. Ciò alla fine portò alla pubblicazione di Einstein della sua Teoria Generare della Relatività basata sullo spaziotempo curvo, nel 1916. Quando le orbite di stelle o pianeti vengono calcolate secondo la Relatività, evolvono in modo diverso. Le previsioni dei piccoli cambiamenti di forma e orientamento delle orbite con il tempo sono diverse nelle due teorie e possono essere confrontate con le misure per verificare la validità della Relatività di Einstein. Se confermato, questa sarebbe la prima volta che si riesce a ottenere una misura della forza degli effetti della Relatività per una stella in orbita intorno a un buco nero supermassiccio. “Il centro galattico è veramente il miglior laboratorio per studiare il moto delle stelle in ambiente relativistico – confessa Marzieh Parsa, dottoranda all’Università di Colonia in Germania e prima autrice dell’articolo “Investigating the Relativistic Motion of the Stars Near the Black Hole in the Galactic Center”, di M. Parsa et al., pubblicato dalla rivista Astrophysical Journal – mi sono meravigliata dell’efficacia con cui abbiamo potuto applicare ai dati di alta precisione ottenuti per le stelle più interne, ad alta velocità, vicine al buco nero supermassiccio, gli stessi metodi sviluppati con le stelle simulate”. L’equipe è composta da Marzieh Parsa, Andreas Eckart (I.Physikalisches Institut of the University of Cologne, Germania; Max Planck Institute for Radio Astronomy, Bonn, Germania), Banafsheh Shahzamanian (I.Physikalisches Institut of the University of Cologne, Germania), Christian Straubmeier (I.Physikalisches Institut of the University of Cologne, Germania), Vladimir Karas (Astronomical Institute, Academy of Science, Prague, Repubblica Ceca), Michal Zajacek (Max Planck Institute for Radio Astronomy, Bonn, Germania; I.Physikalisches Institut of the University of Cologne, Germania) e J. Anton Zensus (Max Planck Institute for Radio Astronomy, Bonn, Germania). L’elevata accuratezza delle misure di posizione, resa possibile dagli strumenti di ottica adattiva per l’infrarosso del VLT, è essenziale allo studio, non solo durante l’avvicinamento della stella al buco nero, ma soprattutto quando S2 è più lontana. Questi ultimi dati hanno permesso di determinare accuratamente la forma dell’orbita. “Nel corso dell’analisi – osserva Andreas Eckart, responsabile del gruppo all’Università di Colonia – ci siamo accorti che per determinare gli effetti relativistici su S2 serve assolutamente conoscere l’intera orbita con una precisione elevata”. Oltre a informazioni più precise sull’orbita di S2, la nuova analisi fornisce anche la massa del buco nero e la sua distanza dalla Terra con una maggior accuratezza. Il gruppo ha verificato una massa del buco nero galattico della Via Lattea pari a 4,2×10 alla 6 volte la massa del Sole e una distanza dalla Terra di 8,3 chiloparsec, corripondenti a quasi 27000 anni luce. Per Vladimir Karas dell’Accademia delle Scienze di Praga (Repubblica Ceca), coautore della ricerca, “questo apre nuove strade a teorie e esperimenti in questo ambito scientifico”. L’analisi presentata è il preludio di un periodo esaltante di osservazioni del centro galattico da parte di astronomi di tutto il mondo. Nel 2018 la stella S2 si avvicinerà al buco nero supermassiccio e allora lo strumento GRAVITY, sviluppato da un grande consorzio internazionale guidato dal Max-Planck-Institut für extraterrestrische Physik di Garching e installato sull’interferometro del VLT, sarà attivo e aiuterà gli astronomi a misurare l’orbita in modo più preciso di quanto sia attualmente possibile. L’Università di Colonia fa parte del consorzio GRAVITY  (http://www.mpe.mpg.de/ir/gravity) e fornisce al sistema gli spettrometri combinatori di fascio. La prima luce di GRAVITY è avvenuta all’inizio del 2016. Non solo ci si aspetta che GRAVITY, che sta osservando il Centro Galattico e effettuando misure di alta precisione, riveli gli effetti di Relatività molto chiaramente, ma che consenta agli astronomi di cercare “deviazioni” dalla Relatività in grado di rivelare una Nuova Fisica. C’è stata un’epoca in cui anche la “nostra” Galassia aveva nel cuore un buco nero supermassiccio in piena attività. Quel buco nero si chiama Sgr A* (Sagittarius A*) ma da tempo, ormai, se ne sta abbastanza quieto: trangugia e rumina gas od oggetti di passaggio di tanto in tanto, dimentico della voracità del passato quand’era nel pieno di quella che gli astrofisici chiamano “fase Agn”, vale a dire quand’era anch’esso un nucleo galattico attivo. Oltre a divorare quel che agguantano, i buchi neri supermassicci attivi, nei periodi di massimo accrescimento, emettono anche una gran quantità di radiazioni tali da pregiudicare la possibilità di vita in ampie porzioni delle galassie che li ospitano. Proprio sulla possibilità di vita in quell’epoca difficile e violenta si occupa lo studio “The habitability of the Milky Way during the active phase of its central supermassive black hole” di Amedeo Balbi e Francesco Tombesi, due astrofisici dell’Università di Roma Tor Vergata, pubblicato su Scientific Reports. I due nel loro lavoro fanno riferimento alle “regioni galattiche abitabili” che un po’ come la fascia di abitabilità attorno alle stelle indicherebbero dove la vita è forse possibile. Quello di zona Goldilocks è dunque un concetto applicabile anche alle galassie. “Sì, l’idea che esistano regioni della Via Lattea più favorevoli alla vita è stata esplorata in diversi studi negli anni passati – spiegano i due scienziati in una nota ufficiale – in linea di massima è meglio non essere troppo vicini al centro galattico dove la densità di stelle è più alta e c’è maggiore probabilità di capitare vicino a eventi potenzialmente catastrofici, come esplosioni di Supernovae e Gamma Ray Bursts. D’altra parte, alla periferia galattica c’è minore abbondanza di elementi più pesanti che servono sia a formare pianeti siae molecole utili dal punto di vista biologico. Quindi meglio stare in una zona intermedia, guarda caso quella in cui si trova il Sole! Il nostro studio espande e rafforza queste conclusioni, mostrando per la prima volta che anche il buco nero centrale può essere stato dannoso per la vita e che quindi dobbiamo tenerne conto nel calcolo della zona abitabile galattica”. E il buco nero supermassiccio al centro della Via Lattea, può avere avuto impatto sulla vita. “Gli effetti principali sono due. Intanto, le radiazioni prodotte da Sgr A* possono aver causato l’evaporazione dell’atmosfera di pianeti simili alla Terra, rendendoli meno adatti alla vita. Inoltre, come si sa, le radiazioni ionizzanti non fanno bene agli organismi viventi, soprattutto quelli più complessi, multicellulari. Perciò, sui pianeti privi di protezione atmosferica, la vita di superficie potrebbe aver subito danni molto gravi, fino ad arrivare alla sterilizzazione complete”. Là dove sono giunte con forte intensità, queste emissioni avrebbero sterilizzato proprio tutto, facendo piazza pulita di qualsivoglia eventuale Dna e Rna in circolazione, secondo i nostri canoni scientifici. Non è però escluso che qualche eventuale forma di vita possa essere riuscita a reggere comunque l’impatto. “Noi oggi sappiamo che sulla Terra esistono organismi unicellulari in grado di tollerare livelli di radiazione molto elevati, e addirittura di sopravvivere nello spazio aperto. Quindi è possibile che qualche organismo particolarmente resistente possa adattarsi e resistere anche in presenza di emissioni molto energetiche. Inoltre, la vita potrebbe trovare nicchie riparate, per esempio nel sottosuolo o sotto oceani abbastanza profondi. Certamente, però, la presenza di una biosfera ricca come quella terrestre sarebbe improbabile in presenza di livelli di radiazione elevati e prolungati nel tempo”. L’iperattività del buco nero centrale risale a miliardi d’anni fa. “La fase iniziale di accrescimento di Sgr A*, corrispondente al periodo di massima attività, non dovrebbe aver interessato la Terra, ma non si può escludere qualche episodio di minore attività più recente. Ad ogni modo, secondo i nostri calcoli, la Terra si trova comunque in una regione “sicura”, quantomeno rispetto alle conseguenze più catastrofiche”. Capovolgendo il ragionamento, l’esistenza della vita sulla Terra rivela qualcosa sulla storia di Sgr A*. Il fatto stesso che ci siamo ancora, ha aiutato gli scienziati a collocarne e quantificarne l’attività negli ultimi cinque miliardi di anni. “Noi siamo piuttosto lontani da Sgr A* e gli effetti, ammesso ci siano stati, non devono essere stati troppo violenti. Tuttavia, sarebbe certamente interessante investigare meglio un’eventuale relazione tra l’evoluzione dell’ambiente del nostro pianeta e l’attività passata di Sgr A*, per scoprire magari effetti di minore entità ma interessanti: si tratta di un campo ancora poco esplorato, su cui c’è molto lavoro da fare. Il nostro studio, in effetti, mostra come l’argomento sia meritevole di attenzione e indica una nuova linea di ricerca. Utilizzando studi statistici di altre galassie attive si può stimare che la fase di massimo accrescimento di Sgr A* sia sicuramente avvenuta entro qualche miliardo di anni fa. Considerando il “tempo di Salpeter”, che corrisponde al tempo in cui il buco nero raddoppia la propria massa attraverso l’accrescimento di gas, stimiamo che abbia avuto una durata circa 50 milioni di anni. Le osservazioni delle “Fermi Bubbles” nella Via Lattea ci indicano che Sgr A* può avere avuto fasi di accrescimento intermittenti anche qualche decina di milioni di anni fa. Inoltre, osservazioni recenti di nubi nelle vicinanze di Srg A* indicano che, se catturate dal buco nero, potrebbero dar vita a nuove fasi di accrescimento. La quantità di gas a disposizione durante questi eventi però è probabilmente limitata e non dovremmo preoccuparci troppo. Sicuramente, però, in tempi molto più lunghi, dell’ordine di alcuni miliardi di anni, la nostra Via Lattea entrerà in collisione con la galassia di Andromeda e i due buchi neri supermassicci nel loro centro potrebbero riattivarsi, grazie alla enorme quantità di gas che verrà messa in moto”. ALMA nel frattempo ha osservato stelle simili al Sole in una fase molto precoce della loro formazione, trovando tracce di isocianato di Metile, uno dei mattoni chimici della vita. È la prima rilevazione in assoluto di questa molecola prebiotica nella direzione di protostelle di tipo solare, lo stesso ambiente in cui è nato il “nostro” Sistema Solare. La scoperta potrebbe aiutare gli astronomi a capire come si è formata la vita sulla Terra. Due equipe di astronomi hanno diretto la potenza dell’Atacama Large Millimeter/submillimeter Array in Cile verso il rilevamento della molecola prebiotica complessa nota come isocianato di Metile nel sistema stellare multiplo IRAS 16293-2422. Una molecola organica complessa in Astrochimica ha almeno sei atomi, di cui almeno uno è di Carbonio. L’isocianato di Metile contiene atomi di Carbonio (C) Idrogeno (H) Azoto (N) e Ossigeno (O) nella configurazione chimica CH3NCO. È una sostanza tossica, la causa principale di morte in seguito al tragico incidente di Bhopal nel 1984. A capo di uno dei due gruppi erano Rafael Martín-Doménech del Centro de Astrobiología di Madrid, Spagna, e Víctor M. Rivilla, dell’Osservatorio Astrofisico Inaf di Arcetri di Firenze, Italia; a capo del secondo, Niels Ligterink del Leiden Observatory nei Paesi Bassi e Audrey Coutens dell’University College London (Europa). “Questo sistema stellare è sempre generoso! Dopo la scoperta di alcuni zuccheri – rivelano Niels Ligterink e Audrey Coutens – abbiamo trovato l’isocianato di metile. Questa famiglia di molecole organiche è coinvolta nella sintesi dei peptidi e degli aminoacidi che, sotto forma di proteine, sono la base biologica della vita come la conosciamo”. Il sistema è stato studiato dal telescopio ALMA nel 2012 e vi sono state trovate delle molecole di uno zucchero semplice, la glicolaldeide, un altro ingrendiente della vita. ALMA ha consentito a entrambe le equipe di osservare la molecola a lunghezze d’onda diverse e caratteristiche nello spettro radio. L’equipe guidata da Rafael Martín-Doménech ha usato dati della protostella, sia nuovi sia di archivio, ottenuti in un vasto intervallo di lunghezze d’onda nelle bande 3, 4 e 6 di ALMA. Niels Ligterink e colleghi hanno usato i dati della “Protostellar Interferometric Line Survey” di ALMA, il cui scopo è di mappare la complessità chimica di IRAS 16293-2422 con immagini dell’intera banda 7 di ALMA a scale molto piccole, equivalenti alle dimensioni del Sistema Solare. Sono state trovate le impronte chimiche uniche nelle regioni interne più calde e dense del bozzolo di polvere e gas che circonda le giovani stelle nelle prime fasi evolutive. Ciascuno dei due gruppi ha identificato e isolato le impronte di isocianato di Metile. Entrambi i gruppi hanno analizzato gli spettri della luce della protostella per determinarne la composizione chimica. La quantità di isocianato di Metile trovato, ossia l’abbondanza rispetto all’Idrogeno molecolare e altri traccianti, è confrontabile a rilevazioni precedenti intorno a due protostelle di alta massa all’interno del nucleo molecolare caldo e massiccio delle nebulose Orione KL e Sagittario B2 Nord. Successivamente hanno prodotto dei modelli numerici ed eseguito esperimenti di laboratorio per raffinare la comprensione dell’origine di questa molecola. Il team di Martín-Doménech ha modellato chimicamente la formazione di isocianato di Metile attraverso l’interazione tra gas e grani di polvere. La quantità di molecola osservata potrebbe essere spiegata dalla chimica che avviene sulla superficie dei grani nello spazio, seguita da reazioni chimiche nella fase gassosa. Inoltre, l’equipe di Ligterink ha dimostrato che la molecola si può formare a temperature molto basse, come quelle interstellari, fino a 15 Kelvin (-258 gradi Celsius) usando esperimenti criogenici a vuoto spinto nel loro laboratorio di Leida. IRAS 16293-2422 è un sistema multiplo di stelle molto giovani, a circa 400 anni luce dalla Terra, nella grande zona di formazione stellare nota come Rho Ophiuchi della costellazione dell’Ofiuco. I nuovi risultati di ALMA mostrano che l’isocianato di Metile in forma gassosa circonda tutte le giovani stelle. La Terra e gli altri pianeti del Sistema Solare si sono formati a partire dal materiale rimasto dopo la formazione del Sole: studiando le protostelle di tipo solare è possibile aprire una nuova finestra verso il passato e il futuro perchè gli astronomi possano osservare condizioni simili a quelle che hanno portato alla formazione del Sistema Solare circa 4,5 miliardi di anni fa. La ricerca è stata presentata in due diversi articoli: “First Detection of Methyl Isocyanate (CH3NCO) in a solar-type Protostar” di R. Martín-Doménech et al. e “The ALMA-PILS survey: Detection of CH3NCO toward the low-mass protostar IRAS 16293-2422 and laboratory constraints on its formation”, di N.F. W. Ligterink et al.: entrambi gli articoli sono pubblicati nello stesso numero della rivista Monthly Notices of the Royal Astronomical Society. Il primo team è composto da: R. Martín-Doménech (Centro de Astrobiología, Spagna), V.M. Rivilla (INAF-Osservatorio Astrofisico di Arcetri, Italia), I. Jiménez-Serra (Queen Mary University of London, Regno Unito), D. Quénard (Queen Mary University of London, Regno Unito), L. Testi (INAF-Osservatorio Astrofisico di Arcetri, Italia; ESO, Garching, Germania; Excellence Cluster “Universe”, Germania) e J. Martín-Pintado (Centro de Astrobiología, Spagna). Il secondo team da: N.F. W. Ligterink (Sackler Laboratory for Astrophysics, Leiden Observatory, Paesi Bassi), A. Coutens (University College London, Regno Unito), V. Kofman (Sackler Laboratory for Astrophysics, Paesi Bassi), H.S.P. Müller (Universität zu Köln, Germania), R. T. Garrod (University of Virginia, USA), H. Calcutt (Niels Bohr Institute & Natural History Museum, Danimarca), S.F. Wampfler (Center for Space and Habitability, Svizzera), J.K. Jørgensen (Niels Bohr Institute & Natural History Museum, Danimarca), H. Linnartz (Sackler Laboratory for Astrophysics, Paesi Bassi) e E.F. van Dishoeck (Leiden Observatory, Paesi Bassi; Max-Planck-Institut für Extraterrestrische Physik, Germania). “Siamo particolarmente entusiasti di questo risultato – osservano Rafael Martín-Doménech e Víctor M. Rivilla, primi autori di uno dei due articoli – perchè le protostelle sono molto simili a com’era il Sole all’inizio della propria vita, con le condizioni ideali perchè si formino pianeti della dimensione della Terra. Trovare molecole prebiotiche nello studio potrebbe fornirci un pezzo del grande rompicapo per capire come la vita si è formata sul nostro pianeta”. Niels Ligterin rivela con soddisfazione i risultati degli esperimenti di supporto svolti in laboratorio: “Oltre a individuare le moloecole vogliamo anche capire come si sono formate. I nostri esperimenti di laboratorio mostrano che l’isocianato di metile può essere prodotto su particelle ghiacciate in condizioni molto fredde, simili a quelle dello spazio interstellare. Ciò implica che la molecola, e perciò anche la base per i legami peptidici, è probabilmente presente vicino alla maggior parte delle nuove stelle di tipo solare”. Due dei più famosi abitanti del Cielo condividono la scena con un vicino meno noto, in una nuova enorme immagine da 3 gigapixel ottenuta dal VLT Survey Telescope dell’ESO. Sulla destra si trova una nube di gas che riluce debolmente, nota come Sharpless 2-54, al centro la notissima Nebulosa Aquila e la Nebulosa Omega a sinistra. Il trio cosmico costituisce solo una parte del più vasto complesso di gas e polvere al cui interno nuove stelle vengono alla luce e illuminano il circondario. Sharpless 2-54 e le Nebulose Aquila e Omega si trovano a circa 7000 anni luce dalla Terra, le prime due nella costellazione del Serpente, l’altra nel Sagittario. Questa zona della Via Lattea ospita un’enorme nube di materiale che serve a formare nuove stelle e pianeti. Le tre nebulose indicano le regioni di questa vasta nube in cui la materia si è condensata e collassata per formare nuove stelle; la luce molto energetica prodotta da questi neonati stellari fa risplendere il gas dell’ambiente circostante. La luce che il gas sprigiona ha una tinta rosata, caratteristica delle zone ricche di Idrogeno. Due degli oggetti dell’immagine ESO sono stati scoperti in modo simile. Gli astronomi hanno prima individuato un ammasso stellare brillante, sia in Sharpless 2-54 sia nella Nebulosa Aquila, e quindi hanno identificato la vasta e relativamente debole nube di gas che avvolge l’ammasso. Nel caso di Sharpless 2-54, l’astronomo britannico William Herschel notò il luminoso ammasso stellare per la prima volta nell’Anno Domini 1784. L’ammasso, catalogato come NGC6604 appare sulla sinistra della nebulosa. La nebula associata, molto fioca, è rimasta sconosciuta fino agli Anni ‘50, quando l’astronomo americano Stewart Sharpless la scovò sulle fotografie dell’Atlante del cielo finanziato dal National Geographic e dall’Osservatorio di Palomar, noto anche come Palomar Observatory Sky Survey. La Nebulosa Aquila non ha dovuto attendere così a lungo perchè la sua magnificenza fosse apprezzata. L’astronomo svizzero Philippe Loys de Chéseaux scoprì il suo ammasso stellare centrale, NGC 6611, nel 1745 o nel 1746, mentre un paio di decenni dopo l’astronomo francese Charles Messier osservò questa zona di cielo e documentò anche la nebulosità presente, iscrivendo l’oggetto come Messier 16 sul suo autorevole Catalogo. Per quanto riguarda la Nebulosa Omega, de Chéseaux riuscì ad osservare la sua evidente luce diffusa e la segnò puntualmente come nebulosa nel 1745. Poichè il catalogo dell’astronomo svizzero non ebbe una vasta diffusione, la riscoperta da parte di Messier della Nebulosa Omega nel 1764 portò al nome, ora usato, di Messier 17, il diciassettesimo oggetto del popolare compendio del francese. Le osservazioni da cui è stata prodotta l’immagine sono state ottenute con il VST dell’ESO all’Osservatorio Paranal in Cile. L’enorme immagine a colori è stata realizzata con un mosaico di decine di foto, ciascuna da 256 megapixel, ottenute dalla OmegaCAM di grande formato. Il risultato finale, dopo lunga lavorazione, conta 3,3 gigapixel. Una delle immagini più grandi mai distribuite dall’ESO. Anche il Very Large Telescope ha catturato una magnifica visione della galassia a spirale barrata Messier 77. L’immagine ESO rende tutta la bellezza del sistema stellare, mettendo in mostra i bracci ingioiellati attraversati da tracce di polvere, ma non riesce a mostrare la natura turbolenta di Messier 77. Questa pittoresca galassia sembra tranquilla, ma nasconde un vero “segreto”. Messier 77, nota anche come NGC1068, è una delle galassie attive più vicine alla Terra, uno degli oggetti più energetici e spettacolari dell’Universo. I nuclei delle galassie attive sono spesso tanto luminosi da sovrastare la luce dell’intera galassia che li ospita. Le galassie attive sono tra gli oggetti più energetici dell’Universo ed emettono luce praticamente a tutte le lunghezze d’onda: dai raggi gamma e raggi X fino alle microonde e alle onde radio. Messier 77 in particolare è classificata come galassia di Seyfert di Tipo II, ed è caratterizzata dall’essere particolarmente brillante a lunghezze d’onda infrarosse. La notevole luminosità è dovuta all’intensa radiazione prodotta dal motore centrale, il disco di accrescimento intorno al buco nero supermassiccio. La materia che cade verso il buco nero viene compressa e riscaldata fino a temperature incredibili, producendo così una radiazione molto energetica. Si pensa che il disco di accrescimento sia nascosto da una struttura a forma di ciambella costituita da gas e polvere, il cosiddetto “toro”. Le osservazioni di Messier 77 nel 2003 con l’interferometro del VLT furono le prime a risolvere questa struttura. La nuova immagine ESO di Messier 77 è stata ottenuta usando dati presi in quattro bande di lunghezza d’onda, rappresentate dai colori blu, rosso, violetto e rosa, corrispondente alla banda della riga di emissione dell’Idrogeno H-alfa. Ogni lunghezza d’onda evidenzia una diversa qualità: l’H-alfa rosata sottolinea la presenza di stelle giovani e calde che si stanno formando nei bracci a spirale, mentre il rosso descrive la strutture filamentose del gas che circonda Messier 77. Filamenti rossi simili a questi si trovano anche in NGC 1275. Sono freddi, nonostante siano circondati da un gas molto caldo a circa 50 milioni di gradi. I filamenti sono sospesi in un campo magnetico che mantiene la loro struttura e mostrano come l’energia proveniente dal buco nero centrale venga trasferita nel gas circostante. Una stella della Via Lattea, in primo piano, è visibile nei pressi del centro della galassia, identificabile dai raggi dovuti alla diffrazione. Inoltre si distinguono molte altre galassie distanti: visibili oltre ai confini dei bracci a spirale, appaiono minuscole e delicate, rispetto alla colossale galassia attiva. A circa 47 milioni di anni luce dalla Terra, nella costellazione della Balena, Messier 77 è una delle più lontane galassie contenute nel Catalogo di Messier, il quale era convinto che l’oggetto brillante ed esteso che vedeva nel suo telescopio fosse un ammasso stellare. Ma con il migliorare della tecnologia si riconobbe la vera natura della galassia. Di dimensioni pari  a circa 100000 anni luce, Messier 77 è anche una delle galassie più grandi del Catalogo di Messier, così massiccia che la sua forza di Gravità agisce sulle galassie vicine e le deforma. NGC1055 si trova a circa 60 milioni di anni luce dalla Terra. È una galassia vista di taglio, diversamente da Messier 77. L’immagine astronomica le mostra vicine, in un campo di vista di dimensione pari a quella della Luna. La foto è stata ottenuta con lo strumento FORS2 (FOcal Reducer and low dispersion Spectrograph 2) montato sul telescopio UT1 (Antu) del VLT all’Osservatorio ESO del Paranal. Proviene dal programma Gemme Cosmiche dell’ESO, un’iniziativa di divulgazione che produce immagini di oggetti interessanti o anche semplicemente belli usando i telescopi ESO per la divulgazione e l’istruzione scientifica. È possibile un racconto di tre città celesti? Utilizzando nuove osservazioni effettuate con il telescopio VLT, alcuni astronomi hanno scoperto tre diverse popolazioni di stelle neonate all’interno dell’Ammasso della Nebulosa di Orione. La scoperta inaspettata migliora notevolemente la comprensione di come si formano questi ammassi: suggerisce infatti che la “nursey” stellare possa avvenire per impulsi successivi, in cui ogni stadio di formazione stellare si sviluppa su una scala temporale molto più breve di quanto si pensasse. OmegaCAM, la camera ottica a grande campo installata sul VLT Survey Telescope, ha catturato la spettacolare Nebulosa di Orione e il suo ammasso di giovani stelle in gran dettaglio, producendo una bellissima immagine. L’oggetto, a una distanza di circa 1350 anni luce, è una delle incubatrici stellari più vicine sia per quanto riguarda la stelle di bassa massa sia per quelle di grande massa. Ma il risultato è ben più di una bella fotografia. Un gruppo di ricercatori, guidati da Giacomo Beccari, astronomo ESO, ha sfruttato i dati di qualità insuperata per misurare con precisione la luminosità e i colori di tutte le stelle dell’Ammasso della Nebulosa di Orione. Queste misure hanno permesso agli astronomi di determinare la massa e le età degli astri. Con loro stupore, i dati hanno mostrato tre diverse sequenze di età, potenzialmente diverse. “Guardando i dati per la prima volta abbiamo vissuto uno di quei momenti Wow che accadono solo una o due volte nella vita di un astronomo – confessa Beccari, primo autore dell’articolo “A Tale of Three Cities: OmegaCAM discovers multiple sequences in the color­ magnitude diagram of the Orion Nebula Cluster” che descrive i risultati su Astronomy & Astrophysics – la qualità impressionante delle immagini di OmegaCAM rivela senza dubbio che stiamo vedendo tre diverse popolazioni di stelle nella zona centrale di Orione”. L’equipe è composta da: G. Beccari, M.G. Petr-Gotzens e H.M.J. Boffin (ESO, Garching bei München, Germania), M. Romaniello (ESO; Excellence Cluster Universe, Garching bei München, Germania), D. Fedele (INAF-Osservatorio Astrofisico di Arcetri, Firenze, Italia), G. Carraro (Dipartimento di Fisica e Astronomia Galileo Galilei, Padova, Italia), G. De Marchi (Science Support Office, European Space Research and Technology Centre (ESA/ESTEC), Paesi Bassi), W.J. de Wit (ESO, Santiago, Cile), J.E. Drew (School of Physics, University of Hertfordshire, Regno Unito), V.M. Kalari (Departamento de Astronomía, Universidad de Chile, Santiago, Cile), C.F. Manara (ESA/ESTEC), E.L. Martin (Centro de Astrobiologia (CSIC-INTA), Madrid, Spagna), S. Mieske (ESO, Cile), N. Panagia (Space Telescope Science Institute, USA); L. Testi (ESO, Garching); J.S. Vink (Armagh Observatory, Regno Unito); J.R. Walsh (ESO, Garching); e N.J. Wright (School of Physics, University of Hertfordshire; Astrophysics Group, Keele University, Regno Unito). Per Monika Petr-Gotzens dell’ESO di Garching, coautrice dell’articolo, “questo è un risultato molto significativo. Ciò che vediamo è che le stelle di un ammasso non si sono formate per nulla simultaneamente. Ciò può significare che la nostra comprensione di come le stelle si formano negli ammassi ha bisogno di una revisione”. Gli astronomi cercano attentamente di valutare la possibilità, invece di indicare le diverse età, che le distribuzioni di luminosità e colore di alcune delle stelle siano dovute a una compagna nascosta che renderebbe le stelle più luminose e più rosse della realtà. Ma questa idea implicherebbe proprietà alquanto inusuali nelle coppie di stelle, mai osservate prima, come la velocità di rotazione e gli spettri, indicando età diverse. L’equipe ha anche trovato che ciascuna delle diverse generazioni di stelle ruota a velocità diverse: le stelle più giovani più velocemente, mentre le stelle più vecchie più lentamente. In questo scenario, le stelle si sarebbero formate in rapida successione, con un tempo scala di circa tre milioni di anni. “Anche se non possiamo ancora escludere formalmente la possibilità che le stelle siano binarie – avverte Beccari – sembra più naturale accettare che stiamo vedendo tre diverse generazioni di stelle che si sono formate in successione, in meno di tre milioni di anni”. I nuovi risultati suggeriscono che la formazione stellare nell’Ammasso della Nebulosa di Orione proceda a scatti e più velocemente di quanto si pensasse. Il telescopio Yepun (UT4) del Very Large Telescope è stato trasformato in un telescopio completamente adattivo. Dopo più di un decennio di pianificazioni, costruzioni e collaudi, il nuovo impianto di ottica adattiva (AOF, Adaptive Optics Facility) ha visto la sua prima luce con lo strumento MUSE, catturando vedute sorprendentemente nitide di nebulose planetarie e galassie. L’accoppiamento di AOF e MUSE forma uno dei sistemi tecnologici più avanzati e potenti mai costruiti per l’Astronomia da terra. Il sistema di ottica adattiva AOF è un progetto a lungo termine per il VLT dell’ESO al fine di fornire un sistema ottico per gli strumenti montati sul telescopio UT4, il primo dei quali è il Multi Unit Spectroscopic Explorer. MUSE è uno spettrografo a campo integrale, uno strumento potente che produce un insieme di dati tridimensionali dell’oggetto puntato, in cui ogni pixel dell’immagine corrisponde allo spettro della luce che cade in quel pixel. Ciò significa essenzialmente che lo strumento crea migliaia di immagini dell’oggetto nello stesso momento, ciascuna a una diversa lunghezza d’onda, catturando smisurate informazioni. L’ottica adattiva compensa gli effetti di sfocatura dovuti all’atmosfera terrestre, permettendo così a MUSE di ottenere immagini molto più nitide e con un contrasto maggiore, almeno due volte quanto fosse possibile prima. MUSE può ora studiare oggetti dell’Universo ancora più deboli. “Ora anche quando le condizioni meteorologiche non sono perfette, gli astronomi possono ottenere immagini superbe grazie a AOF”, spiega Harald Kuntschner, responsabile scientifico del progetto ESO. Dopo una serie di verifiche del nuovo sistema, l’equipe di astronomi e ingegneri è stata premiata da una serie di immagini spettacolari. Gli astronomi sono stati in grado di osservare le nebulose planetarie IC4406 nella costellazione del Lupo e NGC6369 nella costellazione di Ofiuco. Le osservazioni di MUSE con AOF hanno mostrato un’incredibile miglioramento nella nitidezza delle immagini, mostrando strutture a guscio mai viste prima in IC4406 con il VLT. L’AOF, che ha reso possibili queste osservazioni, è formato da molte parti che funzionano insieme, tra cui la “Four Laser Guide Star Facility” e lo specchio secondario deformabile e molto sottile di UT4. Con poco più di un metro di diametro, è il più grande specchio adattivo mai prodotto e ha richiesto una tecnologia all’avanguardia. È stato montato su UT4 nel 2016 in sostituzione dello specchio secondario originale di tipo convenzionale. Sono stati sviluppati e sono operativi altri strumenti per ottimizzare le operazioni di AOF, tra cui un’estensione del software “Astronomical Site Monitor” che controlla l’atmosfera per determinare l’altitudine a cui si manifesta la turbolenza, e il sistema LTCS (Laser Traffic Control System) che impedisce agli altri telescopi di guardare direttamente il fascio laser o le stelle artificiali e così eventualmente rischiare di rovinare le proprie osservazioni. Il sistema 4LGSF lancia quattro raggi laser da 22 Watt verso il cielo per far risplendere gli atomi di Sodio nell’alta atmosfera, producendo punti di luce che imitano le stelle. I sensori nel modulo GALACSI (Ground Atmospheric Layer Adaptive Corrector for Spectroscopic Imaging) delle ottiche adattive usano queste stelle guida artificiali per determinare le condizioni dell’atmosfera. Un migliaio di volte al secondo, il sistema di AOF calcola la correzione da applicare per modificare la forma dello specchio secondario deformabile del telescopio, in modo da compensare i disturbi atmosferici. In particolare, GALACSI corregge gli effetti della turbolenza nello strato di atmosfera fino a un chilometro al di sopra del telescopio. A seconda delle condizioni atmosferiche, la turbolenza può variare con l’altitudine, ma alcuni studi hanno mostrato che la maggioranza degli disturbi atmosferici avviene nello strato più basso, vicino a terra. “Il sistema AOF essenzialmente equivale a sollevare il VLT di circa 900 metri  più in alto, al di sopra degli strati più turbolenti dell’atmosfera – spiega Robin Arsenault – in passato se volevamo immagini più nitide dovevamo trovare un sito migliore o usare un telescopio spaziale, ma ora con AOF possiamo creare condizioni osservative decisamente migliori proprio dove siamo già, con un costo significativamente inferiore!”. Le correzioni applicate da AOF migliorano la qualità dell’immagine rapidamente e con continutià, concentrando la luce per formare immagni più nitide. Ciò consente a MUSE di risolvere dettagli più minuti e rivelare stelle più deboli di quanto fosse finora possibile. GALACSI fornisce la correzione su un campo di vista ampio, ma questo è solo il primo passo verso l’ottica adattiva per MUSE. Un secondo modo operativo, che entrarà in funzione all’inizio del 2018, è in preparazione per GALACSI. Questa modalità a piccolo campo correggerà la turbolenza a qualsiasi altitudine, permettendo osservazioni di campi di vista più piccoli a risoluzione ancora maggiore. “Sedici anni fa, quando abbiamo proposto di costruire il rivoluzionario strumento MUSE – rivela Roland Bacon, capo progetto – la nostra idea visionaria era di accoppiarlo con un altro sistema avanzato, proprio AOF. Il potenziale di scoperta di MUSE, già grande, viene così ancora aumentato. Il nostro sogno si sta avverando”. Uno dei principali scopi scientifici del sistema è di osservare oggetti deboli nell’Universo lontano con la miglior qualità possibile per le immagini. Questo richiede esposizioni di molte ore. “In particolare siamo interessati a osservare le galassie più piccole e più deboli alle distanze più grandi – sottolinea Joël Vernet, responsabile scientifico dei progetti MUSE e GALACSI dell’ESO – queste sono galassie che si stanno formando, ancora nella loro infanzia, e sono una delle chiavi per la comprensione dell’intero processo di formazione delle galassie”. MUSE non è l’unico strumento che avrà benefici da AOF. Nel prossimo futuro, un altro sistema a ottica adattiva chiamato GRAAL diventerà operativo per lo strumento infrarosso “HAWK-I” già esistente, migliorandone la vista sull’Universo. Successivamente sarà installato il nuovo e potente strumento ERIS. “L’ESO sta guidando lo sviluppo di questi sistemi di ottica adattiva – rimarca Arsenault – e l’AOF è anche l’apripista per l’Extremely Large Telescope dell’ESO. Lavorare sull’AOF ha dato a scienziati e  ingegneri ma anche all’industria un’esperienza inestimabile che sfrutteremo per le nuove sfide che ci presenterà la costruzione dell’ELT”. Che i buchi neri supermassicci si nutrissero anche di meduse cosmiche, prima dell’avvento di MUSE sul VLT dell’ESO nessuno poteva immaginarlo. Il nuovo modo di alimentare i buchi neri lo dobbiamo a MUSE. Alcune osservazioni delle “galassie medusa” con il Very Large Telescope hanno svelato un modo, prima sconosciuto, di alimentare i buchi neri supermassicci. Sembra che lo stesso meccanismo che produce i tentacoli di gas e stelle neonate che danno il nome a queste galassie, renda anche possibile al gas di raggiungere le regioni centrali del sistema stellare, alimentando il buco nero che si nasconde nel nucleo e facendolo risplendere luminoso. Il risultato di questo studio è stato pubblicato sulla rivista Nature. Un gruppo di astronomi a guida italiana ha sfruttato lo strumento Multi-Unit Spectroscopic Explorer all’Osservatorio del Paranal per studiare come si possa strappare gas alle galassie. Gli astronomi si sono concentrati su alcuni esempi estremi di galassie-medusa in ammassi di galassie vicini. Il soprannome proviene dai lunghi tentacoli di materia che si estendono per decine di migliaia di anni luce al di là del disco galattico. Finora sono state trovate più di 400 galassie candidate-medusa. I risultati sono stati ottenuti nell’ambito del programma osservativo “GAs Stripping Phenomena in galaxies with MUSE”, un “Large Programme” dell’ESO che mira a studiare dove, come e perchè il gas può essere rimosso dalle galassie. GASP raccoglie con MUSE dati profondi e dettagliati per 114 galassie, in particolare galassie-medusa, in ambienti diversi. Le osservazioni sono ancora in corso. I tentacoli delle galassie-medusa vengono prodotti negli ammassi di galassie da un processo che vede la rimozione del gas dovuta alla pressione d’ariete, detto “ram pressure stripping”. L’attrazione gravitazionale induce le galassie a cadere ad alta velocità verso l’ammasso di galassie ove incontrano un gas denso e caldo che agisce come un vento potente, forzando il gas fuori dal disco della galassia sotto forma di code e dando quindi inizio a un episodio di formazione stellare al loro interno. Sei delle sette galassie-medusa dello studio ospitano un buco nero supermassiccio centrale che si nutre del gas circostante. È assodato che quasi tutte, se non tutte le galassie, contengano un buco nero supermassiccio al centro, di massa tra i pochi milioni e i pochi miliardi di volte quella del Sole. Quando un buco nero strappa materia all’ambiente circostante, emette energia elettromagnetica, dando origine ad alcuni dei fenomeni più energetici dell’Universo: i Nuclei Galattici Attivi. Questa frazione è inaspettatatamente alta. Tra le galassie in generale, infatti, la frazione è inferiore a una su dieci. “Questo forte legame tra la pressione d’ariete e i buchi neri attivi non era previsto e non è mai stato segnalato prima – rivela Bianca Poggianti dell’Osservatorio Inaf di Padova, a capo del progetto – sembra che il buco nero centrale si alimenti poichè parte del gas, invece di essere rimosso, raggiunge il centro della galassia”. Una questione irrisolta, di vecchia data, è scoprire il motivo per cui solo una piccola frazione di buchi neri supermassicci al centro delle galassie siano attivi. Essi sono presenti all’interno di quasi tutte le galassie, e allora, perchè solo alcuni accrescono materia e risplendono ad altissima luminosità? I risultati potrebbero svelare un meccanismo sconosciuto che potrebbe alimentare il buco nero. “Queste osservazioni con MUSE suggeriscono un nuovo meccanismo per incanalare il gas nelle vicinanze del buco nero – rileva Yara Jaffé, una borsista ‘ESO che ha contribuito al lavoro “Ram Pressure Feeding Supermassive Black Holes” di B. Poggianti et al. – questo risultato è fondamentale perchè fornisce un nuovo pezzo del puzzle dei legami, ancora poco conosciuti, tra il buco nero supermassiccio e la galassia ospite”. Le osservazioni attuali fanno parte di uno studio molto più esteso di molte galassie-medusa attualmente in corso. L’equipe è composta da: B. Poggianti (INAF-Astronomical Observatory of Padova, Italia), Y. Jaffé (ESO, Cile), A. Moretti (INAF-Astronomical Observatory of Padova, Italia), M. Gullieuszik (INAF-Astronomical Observatory of Padova, Italia), M. Radovich (INAF-Astronomical Observatory of Padova, Italia), S. Tonnesen (Carnegie Observatory, USA), J. Fritz (Instituto de Radioastronomía y Astrofísica, Messico), D. Bettoni (INAF-Astronomical Observatory of Padova, Italia), B. Vulcani (University of Melbourne, Australia; INAF-Astronomical Observatory of Padova, Italia), G. Fasano (INAF-Astronomical Observatory of Padova, Italia), C. Bellhouse (University of Birmingham, Regno Unito; ESO, Cile), G. Hau (ESO, Cile) e A. Omizzolo (Vatican Observatory, Città del Vaticano). “Questa survey, quando completata, svelerà quante e quali galassie ricche di gas che entrano in un ammasso passano attraverso un periodo di maggiore attività nel nucleo – assicura Poggianti – uno dei rompicampo astronomici ancora irrisolti è capire come si formano le galassie e come esse cambiano nel nostro Universo in espansione e in evoluzione. Le galassie-medusa sono una chiave per capire l’evoluzione delle galassie poichè sono colte nel bel mezzo di una trasformazione drammatica”. Sempre dell’ESO è la miglior immagine di sempre della superficie e dell’atmosfera di una stella diversa dal Sole: usando il VLTI, l’interferometro del VLT, alcuni astronomi hanno ricostruito l’immagine più dettagliata di sempre della supergigante rossa Antares, producendo la prima mappa delle velocità del materiale che compone l’atmosfera stellare per una stella diversa dal Sole, e rivelando un’inattesa turbolenza nell’enorme atmosfera astrale. Il risultato dello studio è pubblicato sulla rivista Nature. Antares, protagonista de “Il Pianeta Proibito” (https://www.youtube.com/watch?v=SyRDxpqs-g8) il classico del cinema di fantascienza del 1956, diretto da Fred M. Wilcox e prodotto dalla Metro-Goldwyn-Mayer, è una stella di prima grandezza, famosa e brillante. Risulta facilmente visibile a occhio nudo nel cuore della costellazione dello Scorpione, verso i cieli del Sud, per la sua colorazione rossastra. È una stella supergigante rossa enorme e relativamente fredda che si trova negli ultimi stadi della propria vita, pronta per esplodere in Supernova, per la gioia degli esperimenti neutrinici sulla Terra. Antares viene considerata dagli astronomi una tipica supergigante rossa. Queste enormi stelle morenti hanno una massa iniziale di circa 9, e fino a 40, volte la massa del Sole. Quanto una stella diventa una supergigante rossa, la sua atmosfera si espande tanto da diventare grande e luminosa, ma di bassa densità. Antares ha ora una massa di circa 12 volte quella del Sole e un diametro di circa 700 volte maggiore. Si pensa che abbia iniziato la sua vita con una massa di circa 15 volte quella del Sole e che perciò abbia già perso tre masse solari di materia durante la sua vita. L’equipe di astronomi, con a capo Keiichi Ohnaka dell’Universidad Católica del Norte in Cile, ha sfruttato il Very Large Telescope Interferometer dell’ESO all’Osservatorio del Paranal per mappare la superficie di Antares e misurare il moto del materiale esterno. Quella ottenuta è la migliore immagine di sempre della superficie e dell’atmosfera sia di una supergigante rossa sia di qualunque altra stella che non sia il Sole. Il VLTI è uno strumento unico che combina i fasci di luce da diversi telescopi, fino a quattro, siano essi i telescopi più grandi da 8,2 metri o i più piccoli “Auxiliary Telescopes”, per creare un telescopio virtuale equivalente a un singolo specchio di diametro fino a 200 metri, con cui si possono risolvere minuti dettagli molto al di là di quanto possa fare un singolo strumento. “Per più di mezzo secolo abbiamo affrontato il problema di come le stelle simili ad Antares perdano massa così velocemente nelle fasi finali dell’evoluzione – osserva Keiichi Ohnaka, primo autore dell’articolo “Vigorous atmospheric motion in the red supergiant star Antares”, di K. Ohnaka et al. – il VLTI è l’unico strumento che possa misurare direttamente il moto del gas nell’atmosfera estesa di Antares, un passo cruciale nella direzione della soluzione del problema. La prossima sfida è di identificare che cosa provoca il moto turbolento”. Il team è composto da K. Ohnaka (Universidad Católica del Norte, Antofagasta, Cile), G. Weigelt (Max- Planck-Institut für Radioastronomie, Bonn, Germania) e K.H. Hofmann (Max- Planck-Institut für Radioastronomie, Bonn, Germania). Con i nuovi risultati l’equipe ha creato la prima mappa bidimensionale di velocità dell’atmosfera di una stella diversa dal Sole. Le misure sono state ottenute utilizzando tre dei telescopi ausiliari e lo strumento AMBER per produrre singole immagini della superficie di Antares in una piccola banda di lunghezze d’onda infrarosse. Gli scienziati hanno quindi usato questi dati per calcolare la differenza tra la velocità del gas atmosferico in diverse posizioni sulla superficie di Antares e la velocità media su tutta la stella, producendo così una mappa delle velocità relative del gas atmosferico sull’intero disco di Antares, un vero record. La velocità della materia rispetto alla Terra si può misurare con l’effetto Doppler che sposta le righe spettrali verso il rosso o verso il blu, a seconda che la materia (emettente o assorbente) stia allontanandosi o avvicinandosi all’osservatore. Gli astronomi hanno trovato gas turbolento a bassa densità molto più lontano del previsto dalla stella e hanno concluso che il moto non possa essere il risultato della convezione, cioè moti su larga scala della materia che in molte stelle trasferiscono l’energia dal nucleo fino agli strati esterni dell’atmosfera. I ricercatori pensano che serva un processo nuovo, al momento ancora sconosciuto, per spiegare questi moti nell’atmosfera estesa delle supergiganti rosse come Antares. “In futuro questa tecnica osservativa potrà essere applicata a diversi tipi di stelle per studiarne la superficie e l’atmosfera con un dettaglio senza precedenti – assicura Ohnaka – questo tipo di studi finora era limitato al Sole. Il nostro lavoro porta l’astrofisica stellare su un nuovo piano e apre una finestra completamente nuova all’osservazione delle stelle”. La prima misura della presenza di molecole di CH+ in galassie “starburst” lontane, la dobbiamo ad ALMA che aiuta la nostra comprensione della storia di formazione stellare nell’Universo. Il super radiotelescopio dell’ESO è stato usato per trovare riserve di gas freddo e turbolento intorno a galassie starburst distanti. Trovandovi il CH+ per la prima volta, questa ricerca apre una nuova finestra sull’esplorazione di una fase critica della formazione stellare. La presenza di questa molecola fa luce sulle modalità con cui le galassie riescono a estendere il periodo di formazione stellare rapida. I risultati sono pubblicati sulla rivista Nature. L’equipe con a capo Edith Falgarone (Ecole Normale Supérieure and Observatoire de Paris, Francia) grazie all’Atacama Large Millimeter/submillimeter Array) ha acquisito indizi della presenza della molecola dell’idruro di Carbonio (CH+) in galassie starburst lontane. Il CH + è uno ione della molecola CH conosciuto come metildine in chimica. È una delle prime tre molecole mai scoperte nel mezzo interstellare. Dalla sua rilevazione nei primi Anni ‘40, la presenza di CH+ nello spazio interstellare è stata un mistero perché è estremamente reattivo e quindi scompare più rapidamente di altre molecole. Le galassie starburst distanti sono note per avere un tasso di formazione stellare molto più alto rispetto alle più tranquille simili alla Via Lattea, rendendo queste strutture ideali per studiare la crescita della galassia e l’interazione tra gas, polvere, stelle e il buco nero al centro. L’equipe è composta da E. Falgarone (Ecole Normale Supérieure and Observatoire de Paris, Francia), M.A. Zwaan (ESO, Germania), B. Godard (Ecole Normale Supérieure and Observatoire de Paris, Francia), E. Bergin (University of Michigan, USA), R.J. Ivison (ESO, Germania; University of Edinburgh, Regno Unito), P. M. Andreani (ESO, Germania), F. Bournaud (CEA/AIM, Francia), R. S. Bussmann (Cornell University, USA), D. Elbaz (CEA/AIM, Francia), A. Omont (IAP, CNRS, Sorbonne Universités, Francia), I. Oteo (University of Edinburgh, Regno Unito; ESO, Germania) e F. Walter (Max-Planck-Institut für Astronomie, Germania). Il gruppo ha identificato un forte segnale di CH+ in cinque delle sei galassie osservate, tra cui la SMM J2135-0102 soprannominata “Cosmic Eyelash” per la sua forma che ricorda lunghe ciglia. ALMA è stato utilizzato per ottenere spettri di ogni galassia. Uno spettro è una misura della luce, tipicamente di un oggetto astronomico, suddivisa nei suoi diversi colori o lunghezze d’onda, nello stesso modo in cui le gocce di pioggia disperdono la luce per formare un arcobaleno. Poiché ogni elemento ha un’impronta fotonica unica nello spettro, gli spettri possono essere usati per determinare la composizione chimica degli oggetti osservati. Questa ricerca offre nuove informazioni che possono aiutare gli astronomi a comprendere la crescita delle galassie e le modalità con cui i dintorni di una galassia ne alimentano la formazione stellare. “CH+ è una molecola speciale – osserva Martin Zwaan – le serve molta energia per formarsi ed è molto reattiva, cioè ha una vita media molto breve e non può esssere trasportata lontana dal luogo di formazione. Perciò il CH+ traccia il flusso di energia nelle galassie e nei dintorni”. Un’analogia che spiega come il CH+ tracci la presenza di energia è una barca su un oceano tropicale in una notte buia, senza Luna: se le condizioni sono quelle giuste, il plancton fluorescente si illumina intorno alla barca che si sposta. La turbolenza causata dalla barca che scivola sull’acqua stimola l’emissione di luce da parte del plancton, bioluminescenza che a sua volta rivela la presenza delle regioni turbolente nell’acqua scura sottostante. Poichè il CH+ si forma esclusivamente in piccole aree in cui i moti turbolenti del gas si dissipano, la sua detezione finisce con il tracciare l’energia su scala galattica. Il CH+ osservato rivela dense onde d’urto, alimentate da venti caldi e veloci che si originano all’interno delle zone di formazione stellare della galassia. Questi venti soffiano attraverso la galassia e spingono la materia al di fuori, ma il loro moto turbolento è tale che parte del materiale può essere ricatturato dall’attrazione gravitazione della galassia stessa. Questo materiale si raccoglie in riserve turbolente di gas freddo, a bassa densità, che si estendono per più di 30000 anni luce dalla zona di formazione stellare della galassia. Questi serbatoi turbolenti di gas diffuso possono essere della stessa natura degli aloni luminosi giganti visti intorno a Quasar distanti. “Con il CH+ impariamo che l’energia è immagazzinata all’interno di venti di portata galattica e finisce come moto turbolento in riserve di gas freddo, precedentemente non note, che circondano la galassia – rivela Falgarone, prima autrice dell’articolo – il nostro risultato è una sfida alle teorie della formazione ed evoluzione delle galassie. Portando la turbolenza nella riserva di gas, questi venti galattici estendono la fase di starburst invece che spegnerla”. Il team ha determinato che i venti galattici da soli non possono riempire di gas le nuove riserve appena trovate e suggeriscono che la massa sia fornita dagli scontri e fusioni galattiche o dall’accrescimento di flussi di gas nascosti, come previsto dalla teoria corrente. “Questa scoperta rappresenta un significativo passo verso la nostra comprensione delle modalità di regolazione del flusso di materia intorno alle galassie starburst più intense dell’Universo primordial – sottolinea Rob Ivison – mostra che cosa si può ottenere quando si riuniscono scienziati di discipline diverse per sfruttare le capacità di uno dei telescopi più potenti del mondo”. Altri astronomi hanno usato ALMA per catturare la straordinaria bellezza di una bolla delicata di materiale espulso dall’esotica stella rossa U Antliae. Queste osservazioni aiuteranno gli astronomi a capire meglio come si evolvono le stelle durante le ultime fasi del loro ciclo vitale. Nella debole costellazione australe della Macchina Pneumatica, un osservatore attento, armato di un buon binocolo, può individuare una stella molto rossa, che varia leggermente di magnitudine da una settimana all’altra. Questa stella insolita si chiama U Antliae e nuove osservazioni con l’Atacama Large Millimeter/submillimeter Array rivelano un guscio sferico, decisamente sottile, che la circonda. U Antliae è una stella al Carbonio, evoluta, fredda e luminosa che si trova sul ramo asintotico delle giganti. Il nome U Antliae riflette il fatto che questa sia la quarta stella variabile nella costellazione della Macchina Pneumatica. Il nome di questi astri segue una sequenza complicata che si aggiorna nel tempo. Circa 2700 anni fa, U Antliae attraversò un breve periodo di rapida perdita di massa. In questo intervallo di tempo, poche centinaia di anni, il materiale che forma il guscio che ora si osserva nei dati di ALMA è stato espulso ad alta velocità. Esaminando questo guscio in dettaglio si vedono prove della presenza di nubi di gas tenui e filiformi, note come sottostrutture filamentose. Questa visione spettacolare è possibile solo grazie alle capacità uniche di produrre immagini nitide a diverse lunghezze d’onda fornite dal radiotelescopio ALMA, ubicato sulla piana di Chajnantor nel Deserto cileno di Atacama. ALMA può rivelare nel guscio di U Antliae le strutture più fini di sempre. Questo risultato è stato presentano nell’articolo “Rings and filaments. The remarkable detached CO shell of U Antliae”, di F. Kerschbaum et al., pubblicato sulla rivista Astronomy & Astrophysics. L’equipe è composta da: F. Kerschbaum (University of Vienna, Austria), M. Maercker (Chalmers University of Technology, Onsala Space Observatory, Svezia), M. Brunner (University of Vienna, Austria), M. Lindqvist (Chalmers University of Technology, Onsala Space Observatory, Svezia), H. Olofsson (Chalmers University of Technology, Onsala Space Observatory, Svezia), M. Mecina (University of Vienna, Austria), E. De Beck (Chalmers University of Technology, Onsala Space Observatory, Svezia), M.A.T. Groenewegen (Koninklijke Sterrenwacht van België, Belgio), E. Lagadec (Observatoire de la Côte d’Azur, CNRS, Francia), S. Mohamed (University of Cape Town, Sud Africa), C. Paladini (Université Libre de Bruxelles, Belgio), S. Ramstedt (Uppsala University, Svezia), W.H.T. Vlemmings (Chalmers University of Technology, Onsala Space Observatory, Svezia) e M. Wittkowski (ESO). I nuovi dati di ALMA non sono solo una singola immagine, visto che il super radiotelescopio dell’ESO produce un insieme di dati tridimensionali (un cubo di dati) in cui ogni fetta rappresenta una diversa lunghezza d’onda. A causa dell’effetto Doppler, ciò significa che diverse fette del cubo mostrano immagini del gas a velocità diverse in avvicinamento o in allontamento dall’osservatore. Il guscio è eccezionalmente simmetrico e rotondo, oltre ad essere molto sottile. Visualizzando le diverse velocità possiamo tagliare questa bolla cosmica in sottili fette virtuali, così come si fa con la tomografia computerizzata (TAC) nel corpo umano. Comprendere la composizione chimica del guscio e l’atmosfera di queste stelle, così come si fomano i gusci a partire dalla perdita di massa, è importante per capire esattamente come si evolvono le stelle nell’Universo primordiale e come evolvono le galassie. I gusci come quello intorno a U Antliae mostrano una ricca varietà di composti chimici basati sul Carbonio e su altri elementi. Anche questi gusci aiutano a riciclare la materia e contribuiscono fino al 70% della polvere interstellare. La spettacolare nebulosa planetaria NGC7009, nota anche come Nebulosa Saturno, emerge dall’oscurità come una serie di bolle deformate, illuminate di magnifici rosa e blu. La nuova immagine ESO variopinta è stata ottenuta dello strumento MUSE montato sul VLT, nell’ambito di uno studio inteso a realizzare per la prima volta una mappa della polvere all’interno di una nebulosa planetaria. La mappa, che mostra numerose strutture intricate nella polvere, tra cui alcuni gusci, un alone e una strana struttura che ricorda un’onda, sarà un riferimento per gli astronomi che vogliono capire come le nebulose planetarie svilupano le loro strane forme e le loro simmetrie. La Nebulosa Saturno si trova a circa 5000 anni luce dalla Terra, nella costellazione dell’Acquario, e prende il nome dalla sua strana forma che assomiglia al famoso Signore degli Anelli del Sistema Solare visto di taglio. In realtà, le nebulose planetarie non hanno nulla a che fare con i pianeti. La Nebulosa Saturno in origine era una stella di piccola massa che si è espansa fino a diventare una gigante rossa al termine della propria vita e ha iniziato a rilasciare gli strati più esterni. Questo materiale è stato soffiato via da forti venti stellari e eccitato dalla radiazione ultravioletta del nucleo stellare caldissimo rimasto al centro del sistema, creando così una nebulosa circumstellare di polvere e gas caldo dai colori brillanti. Nel cuore della Nebulosa Saturno rimane ancora la stella ormai condannata, la piccola macchia centrale visibile nell’immagine, che si sta trasformando in un relitto termonucleare, la cui Fisica è fondamentale per viaggiare tra le stelle. Le nebulose planetarie hanno di solito vita breve. La Nebulosa Saturno durerà per poche decine di migliaia di anni prima di espandersi e raffreddarsi tanto da diventare invisibile. La stella centrale diventerà sempre più debole trasformandosi in una nana bianca calda. Per capire meglio come le nebulose planetarie prendano queste strane forme, un team internazionale di astronomi, guidati da Jeremy Walsh dell’ESO, ha usato lo strumento MUSE per sbirciare oltre i veli di polvere della Nebulosa Saturno. È stata così ottenuta la prima mappa ottica dettagliata della distribuzione del gas e della polvere in una nebulosa planetaria. Il Telescopio Spaziale Hubble ha già prodotto immagini spettacolari della Nebulosa Saturno ma, a differenza di MUSE, non può produrre lo spettro di ogni punto su tutta la nebulosa. L’immagine risultante della Nebulosa Saturno svela disegni intricati, tra cui un guscio interno di forma ellittica, un guscio esterno e un alone. Mostra anche due flussi di materia, già noti, che si estendono da un lato all’altro dell’asse maggiore della nebulosa, terminando in “anse” brillanti (manici, in Latino). Nella polvere è visibile anche una strana struttura a forma di onda, non ancora ben compresa. La polvere è distribuita in tutta la nebulosa, ma se ne vede un calo significativo al bordo del guscio interno dove sembra che venga distrutta. Ci sono molti meccanismi che potrebbero spiegare questa distruzione: il guscio interno è sostanzialmente un’onda d’urto in espansione, perciò potrebbe cozzare contro i grani di polvere e distruggerli, oppure produrre una quantità di calore sufficiente a farli evaporare. Produrre mappe dettagliate della polvere e del gas all’interno delle nebulose planetarie è un aiuto per capire il loro ruolo nella varie fasi della vita e della morte delle stelle di piccola massa. Aiuterà gli astronomi anche a comprendere come le nebulose planetarie prendano le loro forme strane e complesse. Le capacità di MUSE non si fermano alle nebulose planetarie. Questo strumento sensibile può studiare la formazione di stelle e galassie nell’Universo primordiale o anche mappare la distribuzione di Materia Oscura negli ammassi di galassie nell’Universo locale. MUSE ha anche prodotto la prima mappa tridimensionale dei Pilastri della Creazione, nella Nebulosa Aquila e ripreso uno scontro cosmico in una galassia vicina. Se ALMA e Rosetta trovano il Freon-40 nello spazio, gli scienziati nutrono poche speranze che questa molecola possa indicare la presenza di vita. Alcune osservazioni effettuate con l’Atacama Large Millimeter/submillimeter Array e con la missione Rosetta dell’ESA hanno rivelato la presenza del composto “organoalogenato” Freon-40 nel gas che circonda una stella neonata e vicino a una cometa. I composti organoalogenati vengono formati da processi organici sulla Terra, ma questa è la prima volta in cui si osservano nello spazio interstellare. La scoperta suggerisce che i composti organoalogenati possano essere indicatori della presenza di vita meno sicuri di quanto si sperasse, ma potrebbero comunque rappresentare una componente significativa della materia da cui si formano i pianeti. Questo risultato, pubblicato sulla rivsita Nature Astronomy, sottolinea la difficoltà di trovare molecole che possano indicare la presenza di vita al di fuori della Terra. Usando dati catturati da ALMA in Cile e dallo strumento ROSINA sulla missione Rosetta , un gruppo di astronomi ha trovato tracce del composto chimico Freon-40 (CH3Cl), noto anche come metilcloruro o clorometano, intorno alla stella neonata IRAS16293-2422, a circa 400 anni luce dalla Terra, e alla famosa cometa 67P/Churyumov-Gerasimenko (67P/C-G) nel “nostro” Sistema Solare. La nuova osservazione di ALMA è la prima scoperta di un composto organoalogenato nello spazio interstellare. Questa protostella è un sistema binario circondato da una nube molecolare nella regione di formazione stellare Rho Ophiuchi, e ciò lo rende un ottimo obiettivo per la vista millimetrica/submillimetrica di ALMA e per lo studio della protomateria in situ. I dati utilizzati provengono dalla survey PILS (Protostellar Interferometric Line Survey) di ALMA, il cui scopo è di mappare la complessità chimica di IRAS16293-2422, producendo immagini su scale molto piccole, equivalenti alla dimensione del Sistema Solare, nella gamma di lunghezze d’onda coperte da ALMA nella finestra atmosferica intorno a 0,8 millimetri. I composti organoalogenati sono formati da alogeni, come Cloro e Fluoro, legati con atomi di Carbonio e a volte altri elementi. Sulla Terra, questi composti vengono creati da processi biologici, negli organismi che vanno dagli esseri umani ai funghi, ma anche da processi industriali “tossici” come la produzione di coloranti e medicinali. Il Freon è stato ampiamente utilizzato come refrigerante (da cui il nome), ma è ora vietato perché ha un effetto distruttivo sullo strato protettivo di Ozono che circonda la Terra. La nuova scoperta di uno di questi composti, il Freon-40, in zone che dovrebbero precedere l’origine della vita, potrebbe essere considerata con disappunto, poichè ricerche passate avevano suggerito queste molecole come potenziali biomarcatori della vita. “Trovare un composto organoalogenato come il Freon-40 vicino a queste stelle giovani simili al Sole, è stata una sorpresa – rivela Edith Fayolee dell’Harvard Smithsonian Center for Astrophysics di Cambridge in Massachusetts, prima autrice dell’articolo “Protostellar and Cometary Detections of Organohalogens” di E. Fayolle et al. – semplicemente non abbiamo previsto la sua formazione e siamo sorpresi di trovarlo in concentrazioni così alte. È chiaro ora che queste molecole si formano facilmente nelle incubatrici stellari, facendoci capire meglio l’evoluzione chimica dei sistemi planetari, incluso il nostro”. L’equipe è composta da: Edith C. Fayolle (Harvard-Smithsonian Center for Astrophysics, USA), Karin I. Öberg (Harvard-Smithsonian Center for Astrophysics, USA),  Jes K. Jørgensen (University of Copenhagen, Danimarca), Kathrin Altwegg (University of Bern, Svizzera), Hannah Calcutt (University of Copenhagen, Danimarca), Holger S.P. Müller (Universität zu Köln, Germania), Martin Rubin (University of Bern, Svizzera), Matthijs H.D. van der Wiel (The Netherlands Institute for Radio Astronomy, Paesi Bassi), Per Bjerkeli (Onsala Space Observatory, Svezia), Tyler L. Bourke (Jodrell Bank Observatory, Regno Unito), Audrey Coutens (University College London, Regno Unito), Ewine F. van Dishoeck (Leiden University, Paesi Bassi; Max-Planck-Institut für extraterrestrische Physik, Germania), Maria N. Drozdovskaya (University of Bern, Svizzera), Robin T. Garrod (University of Virginia, USA), Niels F.W. Ligterink (Leiden University, Paesi Bassi), Magnus V. Persson (Onsala Space Observatory, Svezia), Susanne F. Wampfler (University of Bern, Svizzera) e il team ROSINA. La ricerca degli esopianeti è andata al di là della semplice individuazione dei mondi alieni e si spinge fino alla ricerca dei marcatori biochimici che possono indicare la presenza di vita. Un passo importante è determinare quali molecole possano essere utilizzate, ma stabilire un marcatore affidabile rimane un processo delicato. “La scoperta da parte di ALMA di composti organoalogenati nel mezzo interstellare dice anche qualcosa sulle condizioni iniziali per la chimica organica sui pianeti – rileva Karin Öberg – questa chimica è importante per la compresenione dell’origine della vita. Basandoci sulla nostra scoperta, possiamo dedurre che i composti organoalogenati fanno probabilmente parte del cosiddetto brodo primordiale sia sulla giovane Terra sia sugli esopianeti rocciosi che si stanno formando”. Ciò suggerisce che gli astronomi potrebbero aver preso la cosa al contrario: invece che indicare la presenza di vita esistente, i composti organoalogenati potrebbero essere un elemento importante nella chimica, ancora poco compresa, alla base dell’origine della vita. “Questo risultato mostra la potenza di ALMA nel rivelare molecole di interesse astrobiologico verso stelle giovani e sulle scale in cui si formano i pianeti – sottolinea Jes Jørgensen del Niels Bohr Institute all’Università di Copenhagen – usando ALMA abbiamo trovato zuccheri semplici e precursori di amminoacidi intorno a diverse stelle. L’addizionale scoperta del Freon-40 intorno alla cometa 67P/C-G rinforza il legame tra la chimica prebiologica delle protostelle lontane e il nostro Sistema Solare”. Gli astronomi hanno anche confrontato le quantità relative di Freon-40 che contengono diversi isotopi di Carbonio nel sistema stellare giovane e nella cometa, e hanno trovato abbondanze simili. Ciò supporta l’idea che un sistema planetario giovane possa ereditare la composizione chimica della nube da cui si è formato e apre la possibilità che i composti organoalogenati arrivino sui giovani sistemi planetari durante la formazione dei pianeti o per mezzo degli impatti cometari. “Il nostro risultato mostra che dobbiamo imparare ancora molto sulla formazione dei composti organoalogenati – fa notare Fayolle – devono essere intraprese ulteriori ricerche di questi composti intorno ad altre protostelle e comete per trovare la risposta”. Innumerevoli galassie pretendono attenzione anche nella nuova immagine gigantesca ESO dell’ammasso di galassie della Fornace: alcune appaiono come semplici punti di luce, mentre altre dominano la scena. Una di queste ultime è la galassia lenticolare NGC1316. Il passato turbolento di questa studiatissima galassia ha lasciato una delicata struttura di nodi, archi e anelli che gli astronomi hanno ritratto con un dettaglio mai raggiunto prima utilizzando il telescopio VST. L’immagine incredibilmente profonda rivela anche una mirade di oggetti fiochi e una debole luce diffusa tra una galassia e l’altra. Catturata grazie alle eccezionali capacità del VLT Survey Telescope, svela i segreti dei componenti più luminosi dell’Ammasso della Fornace, uno dei più ricchi e vicini alla Via Lattea. La foto da 2,3 gigapixel è una delle più grandi mai rilasciate dall’ESO. La galassia probabilmente più affascinante dell’ammasso è NGC1316 che ha avuto una storia movimentata, essendosi formata dalla fusione di molte galassie più piccole. Le distorsioni gravitazionali del suo passato avventuroso hanno lasciato tracce nella struttura lenticolare dalla forma intermedia tra un’ellittica diffusa e le più note galassie a spirale come la Via Lattea. Increspature evidenti, anelli e archi come congelati nella fascia esterna di stelle sono stati osservati per la prima volta negli Anni ‘70 e rimangono tutt’oggi un campo di studio attivo per gli astronomi contemporanei che usano la tecnologia più all’avanguardia per osservare i dettagli minuti dell’insolita struttura di NGC1316 combinando le immagini con i modelli. Le fusioni che hanno formato NGC1316 hanno portato a un afflusso di gas che ha alimentato un oggetto esotico centrale: un buco nero supermassiccio di massa pari a 150 milioni di volte quella del Sole. Accrescendo materia dai dintorni, questo Gargantua cosmico produce getti potenti di particelle ad alta energia che a loro volta danno origine ai lobi di emissione caratteristici osservati a lunghezze d’onda radio, rendendo NGC1316 la quarta sorgente radio più brillante di tutto il Cielo. Poiché questa sorgente radio è la più luminosa nella costellazione della Fornace è nota anche come Fornax A. NGC1316 ha ospitato almeno quattro Supernovae di tipo Ia, eventi di vitale importanza per l’Universo e gli astrofisici. Poichè hanno una luminosità ben definita, queste Supernovae possono essere usate per misurare la distanza della galassia ospite. In questo caso, 60 milioni di anni luce. Hanno giocato un ruolo chiave, infatti, nella scoperta rivoluzionaria nell’Anno Domini 1998 che il nostro Universo si sta espandendo con un tasso accelerato. Le Supernovae di tipo Ia avvengono quando una stella nana bianca in accrescimento in un sistema binario aumenta la propria massa a scapito della compagna, fino a raggiungere il limite di 1.4 masse solari per cui si innesca la fusione nucleare del Carbonio. In breve tempo parte una reazione a catena che termina con un grande rilascio di energia gravitazionale, neutrinica e termonucleare: l’esplosione di supernova che si verifica sempre al raggiungimento di una massa critica specifica, nota come limite di Chandrasekhar, e produce un’esplosione quasi identica ogni volta. La somiglianza di tutte le Supernovae di tipo Ia consente di usare questo evento catastrofico come candela standard. Queste candele standard sono ricercate dagli astronomi perchè consentono di misurare in modo affidabile anche la distanza di oggetti remoti. L’equipe guidata da Enrichetta Iodice dell’Osservatorio Inaf di Capodimonte (Napoli) aveva già osservato questa zona con il VST e rivelato un debole ponte di luce tra NGC1399 e la più piccola NGC1387. Questo risultato è stato presentato nell’articolo “The Fornax Deep Survey with VST. II. Fornax A: A Two-phase Assembly Caught in the Act”, di  E. Iodice et al., pubblicato sulla rivista Astrophysical Journal dal team composto da: E. Iodice (INAF – Astronomical Observatory of Capodimonte, Italia), M. Spavone (Astronomical Observatory of Capodimonte, Italia), M. Capaccioli (University of Naples, Italia), R.F. Peletier (Kapteyn Astronomical Institute, University of Groningen, Paesi Bassi), T. Richtler (Universidad de Concepción, Cile), M. Hilker (ESO, Garching, Germania), S. Mieske (ESO, Cile), L. Limatola (INAF – Astronomical Observatory of Capodimonte, Italia), A. Grado (INAF – Astronomical Observatory of Capodimonte, Italia), N.R. Napolitano (INAF – Astronomical Observatory of Capodimonte, Italia), M. Cantiello (INAF – Astronomical Observatory of Teramo, Italia), R. D’Abrusco (Smithsonian Astrophysical Observatory/Chandra X-ray Center, US), M. Paolillo (University of Naples, Italia), A. Venhola (University of Oulu, Finlandia), T. Lisker (Zentrum für Astronomie der Universität Heidelberg, Germania), G. Van de Ven (Max Planck Institute for Astronomy, Germania), J. Falcon-Barroso (Instituto de Astrofísica de Canarias, Spagna) e P. Schipani (Astronomical Observatory of Capodimonte, Italia). Nel corso del suo censimento galattico, il telescopio spaziale Gaia dell’Agenzia spaziale europea, non si limita all’astrometria, ovvero a misurare la posizione esatta nel cielo di oltre un miliardo di stelle. Di ogni sorgente annota anche altre caratteristiche. Una fra queste è il colore. Registrato e codificato grazie allo strumento fotometrico a bordo del satellite, costituito da un fotometro per le lunghezze d’onda del blu e un altro per quelle del rosso, il colore della luce emessa da una stella permette agli astrofisici di ottenere informazioni cruciali sulla sorgente stessa: dipendendo dalla temperatura superficiale, il colore permette infatti di fare ipotesi sulla massa, sulla composizione chimica e sullo stadio evolutivo della stella. Un risultato preliminare è illustrato dalla prima mappa di Gaia: basata su un campione di 18.6 milioni di stelle scelte fra quelle con magnitudine fino a 17, mostra per ogni pixel il “colore medio” di tutte le stelle contenute nella relativa porzione di cielo. Per ora si tratta di una mappa preliminare, sottolineano all’Esa, un antipasto del catalogo cromatico con oltre un miliardo di stelle in arrivo nell’Aprile del 2018. Ma già così si presta a interessanti interpretazioni scientifiche, soprattutto se abbinata alla mappa di densità che indica quante stelle sono presenti in ogni pixel. Proprio osservando quest’ultima si identifica chiaramente il centro galattico, la regione più densa di stelle, dove si arriva ad averne anche migliaia nello stesso pixel. Altissima la densità anche nelle due chiazze presenti nel quadrante inferiore destro, corrispondenti alle Nubi di Magellano (due piccole galassie satelliti della Via Lattea) e dunque riferite a stelle extragalattiche. Lungo il piano galattico, la fascia orizzontale al centro della mappa di densità, è poi possibile notare ramificazioni molto scure, dunque con pochissimi astri: in realtà le stelle ci sarebbero, ma in queste regioni sono oscurate da enormi nubi di polvere. Tornando alla mappa dei colori, si vede come in corrispondenza di queste nubi di polvere domini il rosso: questo perché le polveri filtrano maggiormente la luce blu delle stelle alle loro spalle, un effetto noto come “reddening” (arrossamento), da non confondere con il redshift. La seconda “release” dei dati di Gaia, nel 2018, includerà non solo la posizione e la luminosità di ogni singola stella, ottenuta sull’intera “banda G” dai 330 ai 1050 nanometri, dunque su tutto lo spettro, ma anche, come mostra il primo assaggio dell’Esa diffuso nell’Agosto 2017, i valori del colore blu e rosso. Nonché le stime di parallasse e moto proprio basate sulle osservazioni del miliardo abbondante di stelle misurate da Gaia. Nel complesso, una banca dati ricchissima, che consentirà agli scienziati di ricostruire la composizione, la formazione e l’evoluzione della Via Lattea a un livello di dettagli senza precedenti. In attesa dell’ingresso ufficiale della Russia nell’ESO, l’Australia firma una cooperazione strategica con l’Osservatorio Europeo Australe. L’11 luglio 2017, durante una cerimonia tenutasi a Canberra, è stato firmato un accordo per iniziare una cooperazione strategica tra l’ESO e l’Australia per i prossimi dieci anni. Questo rafforzerà ulteriormente il programma dell’ESO sia sul piano scientifico sia su quello tecnico e permetterà agli astronomi e all’industria australiana di accedere all’Osservatorio del Paranal e di La Silla. Potrebbe essere anche il primo passo verso l’ingresso dell’Australia tra gli Stati membri dell’ESO. Nel Maggio 2017 il Governo australiano aveva annunciato la sua intenzione di intraprendere una cooperazione strategica con l’ESO, per dare agli astronomi australiani la possibilità di studiare presso le infrastrutture di ricerca d’avanguardia dell’ESO. Questo partenariato ora è stato formalizzato e inizierà subito. Ciò significa che l’Australia contribuirà finanziariamente all’ESO per dieci anni e che poi, probabilmente, ne diventerà membro a tutti gli effetti. La proposta di cooperazione è stata approvata all’unanimità dal Consiglio dell’ESO. La cerimonia della firma si è tenuta presso l’Australian National University (ANU) a Canberra, durante l’incontro annuale dell’Astronomical Society of Australia. I saluti del Premio Nobel nonché vice-cancelliere dell’ANU Brian Schmidt sono stati seguiti da interventi dell’ex Direttore Generale dell’ESO, Tim de Zeeuw, e del Ministro dell’industria, dell’innovazione e delle scienze australiano, Arthur Sinodinos, che hanno poi firmato l’accordo. Hanno partecipato alla cerimonia i rappresentanti più importanti dell’ESO, i membri del Dipartimento dell’industria, dell’innovazione e delle scienze e alcuni ospiti prestigiosi. Il senatore Arthur Sinodinos ha evidenziato che “questa importante cooperazione con un’organizzazione di primo ordine, come l’Osservatorio Europeo Australe, permetterà all’Australia di mantenere lo standard di eccellenza delle sue ricerche, in quest’epoca dell’astronomia globale, e darà opportunità importanti per l’influenza dell’Australia e per i suoi contributi tecnici e scientifici, stimolando la ricerca internazionale e le collaborazioni industriali”. Tim de Zeeuw ha assicurato che “l’accordo strategico permetterà agli astronomi australiani, ma anche agli enti tecnologici e alle industrie, di accedere all’Osservatorio del Paranal e di La Silla. Una cooperazione tra l’Australia e l’ESO è stata uno dei miei obiettivi per più di 20 anni e sono molto felice che sia diventata realtà”. Questa cooperazione permetterà agli astronomi australiani di partecipare a tutte le attività legate agli strumenti dell’Osservatorio del Paranal dell’ESO, precisamente il Very Large Telescope e il suo interferometro, VISTA, VST, il telescopio di 3,6 metri dell’ESO, e il New Technology Telescope. Il partenariato darà anche la possibilità agli scienziati e all’industria australiana di collaborare con le istituzioni degli Stati membri dell’ESO sui nuovi strumenti di questi Osservatori. La competenza dell’Australia nella strumentazione, incluse le tecnologie avanzate delle ottiche adattive e delle fibre ottiche, si va a integrare perfettamente col programma strumentale dell’ESO. In cambio, l’Australia avrà accesso a opportunità industriali, strumentali e scientifiche all’Osservatorio del Paranal e di La Silla, essendo praticamente considerato uno Stato membro a tutti gli effetti per quanto riguarda questi siti. La Comunità dell’ESO attende con favore i risultati di questa collaborazione. Per Tim de Zeeuw “i contributi dell’Australia alla cooperazione rafforzeranno l’ESO, mentre gli strumenti dell’ESO permetteranno agli astronomi australiani di fare molte scoperte e di sviluppare la prossima generazione di strumenti ad alta tecnologia, che saranno a beneficio della scienza e della tecnologia di tutto il mondo. Questa è anche un punto cruciale per diventare, a tempo debito, membro a tutti gli effetti dell’ESO”. L’Australia ha una lunga e ricca storia di ricerche astronomiche riconosciute a livello internazionale. La sua comunità astronomica, già così attiva e di successo, di sicuro migliorerà i suoi risultati grazie a questo accesso a lungo termine agli strumenti avanguardistici dell’ESO. Questa collaborazione Europa-Australia permetterà di fare passi da gigante nello sviluppo delle scienze e della tecnologia, passi che nessuno dei due firmatari dell’accordo potrebbe pensare di fare da solo. La Russia cosa aspetta? Il professor Xavier Barcons inizia il suo mandato come Direttore Generale dell’ESO il 1° Settembre 2017. È l’ottavo Direttore Generale dell’ESO, dopo Tim de Zeeuw, in carica dal 2007. Barcons inizia il suo mandato in un momento esaltante per l’ESO: la costruzione del telescopio ELT (Extremely Large Telescope) continua a ritmo spedito. La prima luce è prevista per il 2024. Il nuovo Direttore Generale Xavier Barcons vanta una grande esperienza sia nel mondo accademico sia nelle organizzazioni internazionali. Ha lavorato all’ESO per più di 10 anni, ricoprendo diverse cariche, tra cui quella di Presidente del Consiglio dell’ESO nel periodo 2012-2014. Ha contribuito in modo significativo a molti dei principali progetti dell’ESO, come l’Atacama Large Millimeter/submillimeter Array e l’Extremely Large Telescope approvato durante il periodo in cui era Presidente del Consiglio dell’ESO. Durante il suo mandato Xavier Barcons intende continuare a impegnarsi verso l’obiettivo finale dell’ESO, quello di consentire entusiasmanti scoperte scientifiche agli astronomi degli Stati membri, confidando nel fatto che l’ESO sia pronto alle sfide tecnologiche e osservative del futuro anche con l’ingresso della Russia. “L’Astronomia è una delle scienze più vivaci, con obiettivi che mutano ogni giorno – rivela Xavier Barcons – l’ESO è un’Organizzazione unica nel mondo astronomico e ben attrezzata per rispondere ai cambiamenti”. Dal momento che l’ESO gestisce o supporta decine di telescopi con numerosi strumenti, il nuovo Direttore Generale prevede di mantenere il supporto a La Silla, Paranal, APEX e ALMA, anche durante la costruzione dell’ELT. “Desidero ringraziare Tim de Zeeuw e tutto il personale dell’ESO per aver contribuito a portare l’ESO nella posizione consolidata di Osservatorio da terra più produttivo al mondo – dichiara Xavier Barcons nella nota ufficiale – sono onorato di assumere questo incarico, e mi rendo conto che questo è un cambiamento importante nella mia vita. Non vedo l’ora di assumere la responsabilità di Direttore Generale e di rispondere alle sfide che ciò rappresenta. Ci concentreremo nel costruire e consegnare l’ELT che sarà il più grande telescopio ottico al mondo, e manterremo operativi e aggiornati i siti di La Silla-Paranal e di ALMA, i nostri quotidiani cavalli di battaglia, per assicurare di poterci mantenere all’avanguardia delle strutture astronomiche mondiali. Ci aspettiamo osservazioni multifrequenza sempre più spettacolari a mano a mano che continuiamo a spingere i confini tecnologici con i telescopi presenti e futuri, qui all’ESO”. Il nuovo Direttore Generale offre la sua visione dell’ESO e spiega la sua posizione sul canale on line ESOcast, mentre scrive dell’importanza dell’ESO come Osservatorio a diverse lunghezze d’onda in ESOblog. Anche ALMA nomina un nuovo Direttore. In seguito a un processo di selezione competitivo, il Consiglio di ALMA ha nominato il professor Sean Dougherty nuovo Direttore di ALMA per i prossimi cinque anni, a partire da Aprile del 2018. Attualmente, Sean Dougherty è Direttore del Dominion Radio Astrophysical Observatory, l’Osservatorio Nazionale di Radioastronomia del Canada, che è gestito dalla NRC Herzberg Astronomy and Astrophysics. È stato un membro del Consiglio di ALMA in qualità di rappresentante del Nord America per quattro anni e negli ultimi due anni è stato presidente del Comitato di Bilancio di ALMA. Sean ha conseguito il dottorato in Astrofisica all’Università di Calgary, in Canada, nel 1993, dopo una Laurea in Matematica e Fisica all’Università di Nottingham, in Inghilterra. Vanta oltre 20 anni di esperienza nella gestione scientifica e tecnica nel settore della radioastrofisica, dalla conduzione e rappresentanza dei contributi canadesi nelle strutture internazionali di radioastronomia e progetti di ricerca e sviluppo fino alla leadership di importanti attività scientifiche e ingegneristiche presso il Dominion Radio Astrophysical Observatory (DRAO). Ha anche guidato la costruzione e la consegna del correlatore WIDAR per il Karl G. Jansky Very Large Array (JVLA) e, attualmente, è alla guida del consorzio internazionale per la progettazione del correlatore-beamformer per SKA (Square Kilometre Array). Il Consiglio di ALMA ha espresso il proprio apprezzamento a Stuartt Corder che è stato e continuerà a essere il Direttore di ALMA durante il processo di transizione. L’E-ELT nel frattempo cambia nome per espressa dichiarazione del Direttore Generale dell’ESO. Finora il gigantesco telescopio dell’ESO è stato chiamato Telescopio Europeo Estremamente Grande, ovvero E-ELT dal nome inglese “European Extremely Large Telescope”. Ora questo nome, che è sempre stato considerato provvisorio, diventa sempre meno appropriato. In considerazione di ciò, mentre il progetto si sta rapidamente spostando alla fase di costruzione, l’Organizzazione ha deciso di utilizzare un nome più corto: invece del Telescopio Europeo Estremamente Grande, il più grande occhio del mondo rivolto al cielo verrà chiamato semplicemente il Telescopio Estremamente Grande o ELT (Extremely Large Telescope). Senza più l’aggettivo European. Il nuovo nome, oltre a essere più breve e più facile da pronunciare, riflette il numero sempre crescente di partner internazionali dell’ESO, sia a livello di nazioni sia per quanto riguarda le imprese coinvolte nel progetto, oltre al fatto che la sede del telescopio è in Cile. Anche se i testi più vecchi continueranno a portare il nome originale, l’ESO userà il nuovo nome d’ora in poi e ne incoraggia l’adozione per tutti i nuovi materiali. Negli ultimi dieci anni, l’ESO ha consolidato la sua posizione come principale Organizzazione astronomica intergovernativa al mondo. In questo periodo di crescita, l’organizzazione ha visto l’adesione di due nuovi Stati membri, oltre alla costruzione di nuovi telescopi, strumenti e strutture che hanno portato a nuove scoperte straordinarie. Un’evoluzione che continua a condurre l’Organizzazione in territori inesplorati. L’Extremely Large Telescope inaugurerà una nuova era dell’Astronomia. Lo specchio primario dell’ELT si prepara a flettere i muscoli. L’ESO ha firmato un contratto con la società tedesca Physik Instrumente GmbH & Co. KG, con sede a Karlsruhe, per costruire gli attuatori di posizione (di seguito PACT) che modificheranno la posizione dei 798 segmenti esagonali dello specchio primario dell’ELT. I segmenti che compongono l’enorme specchio principale da 39 metri, verranno connessi alla struttura principale del Telescopio mediante un sistema di supporto di cui i PACT sono componenti fondamentali. Ogni segmento, che misura circa 1,4 metri da un capo all’altro e pesa 250 kg, sarà montato su tre PACT, che saranno perciò 2394 in totale. I PACT faranno da supporto al segmento e controlleranno in maniera attiva la sua posizione in tre direzioni, che prendono il nome di pistone (o fronte piano), tip e tilt. Il sistema di controllo dello specchio primario dell’ELT attuerà piccoli aggiustamenti con i PACT per mantenere la forma generale dello specchio, correggendo le deformazioni che potrebbero essere causate dai cambiamenti nell’elevazione del Telescopio, nella temperatura e nella forza del vento, e limitando gli effetti delle vibrazioni. Physik Instrumente ha già lavorato con l’ESO, fornendo gli esapodi che allineano i subriflettori ai grandi riflettori principali dei radiotelescopi che compongono ALMA. L’ESO ha appoggiato la Dichiarazione EOSC, esprimendo il proprio supporto all’iniziativa per la creazione di un cloud europeo per la scienza aperta (EOSC) che consentirà il libero accesso ai dati scientifici. L’EOSC è un’interessante iniziativa della Commissione Europea che riconosce il bisogno vitale di avere libero accesso a dati affidabili e sicuri nell’attuale mondo della ricerca scientifica. In una lettera a Carlos Moedas, Commissario Europeo per la Ricerca e l’Innovazione, e a Robert-Jan Smits, Direttore Generale della Ricerca e Innovazione della CE, il Direttore Generale dell’ESO, Xavier Barcons, ha offerto la competenza dell’ESO per supportare la gestione dell’EOSC e, in particolare, per aiutare a migliorare l’amministrazione dei dati d’archivio, in modo da rendere possibili nuove scoperte scientifiche. L’ESOC vuole apportare e supportare cambiamenti che accelerino il passaggio verso una scienza e un’innovazione aperte più efficaci, eliminando le barriere al riutilizzo dei dati e degli strumenti di ricerca. Il fine ultimo è la creazione di uno spazio accessibile a livello globale, che operi in condizioni ben definite e sicure, dove ricercatori, innovatori, imprese e cittadini possano pubblicare, cercare e riutilizzare dati e strumenti reciproci per ricerca, innovazione e scopi educativi. L’astronomia è da tempo in prima linea quando si tratta di offrire un accesso ai dati libero, curato e ben gestito. L’ESO stesso ha una lunga tradizione in questo ambito e ha dato impulso ai progressi scientifici degli Osservatori di La Silla, Paranal e ALMA, fornendo strumenti per l’elaborazione dei dati e sviluppando e gestendo i loro rispettivi archivi scientifici. Inoltre, la stessa storia dell’ESO è una testimonianza dei benefici scientifici della cooperazione intergovernativa e del trasferimento fluido di idee, risorse e persone attraverso i confini. Alla luce di ciò, l’ESO potrà giocare un ruolo importante nella diffusione della scienza aperta in Europa e oltre, grazie all’ingresso della Russia. L’ESO ora ha un Diario: l’ESOblog! Il progetto nasce per condividere con i Lettori di ogni genere storie quotidiane sull’Osservatorio da terra più produttivo del mondo. L’ESO, al momento, gestisce un’impressionante gamma di telescopi, equipaggiati con alcune dozzine di strumenti, che sta spingendo le ricerche astronomiche verso scoperte sempre più emozionanti. Nascoste dietro le quinte di questi lavori, ci sono le incredibili storie del personale, della tecnologia e della scienza che entrambi rendono possibile l’impossibile. L’ESOblog nasce dal desiderio di condividere un maggior numero di storie interessanti dell’ESO, andando oltre le notizie pubblicate. Il Log è diviso nelle seguenti categorie: “People@ESO” per saperne di più sulle persone che fanno funzionare l’ESO; “On the Ground”, storie sui siti e sulle strutture dell’ESO; “Letters from the DG”, lettere del Direttore Generale; “Outreach@ESO”, il dietro le quinte della comunicazione col pubblico; “Science Snapshots”, i risultati scientifici particolari o interessanti dalla Comunità ESO; “Science@ESO”, la scienza condotta dagli scienziati dell’ESO; “Stars@ESO”, le persone famose che visitano i siti dell’ESO; “HighTech ESO”, i risultati tecnologici dell’ESO e dell’industria. Il calendario dell’ESO, uno dei prodotti più popolari e interessanti, è disponibile nell’edizione dell’Anno Domini 2018 e può essere ordinato nello shop online dell’ESO. La copertina del Calendario 2018 mostra una spettacolare immagine a lunga esposizione del Very Large Telescope sul Cerro Paranal, nel deserto di Atacama, in Cile. L’impressionante fascio giallo, che taglia le centinaia di scie di stelle, è prodotto dalla luce laser di Yepun, uno dei telescopi principali del VLT. Grazie al laser, il telescopio riesce a compensare la distorsione atmosferica per produrre immagini sorprendentemente nitide. Il Calendario 2018 è ricco di immagini del Cosmo e di fotografie dei telescopi dell’ESO nei paesaggi straordinari del Cile. Nella pagina di Ottobre 2018, una rappresentazione artistica mostra l’Extremely Large Telescope, che è prossimo a essere ultimato e sarà il più grande telescopio al mondo nell’ottico e nell’infrarosso, pronto a rispondere ai più grandi interrogativi scientifici della Cosmologia. Altri osservatori, La Silla nella pagina di Aprile e ALMA in quella di Giugno, sono raffigurati su uno sfondo di un meraviglioso tramonto. Nel Calendario ESO 2018 compaiono anche due fantastici vivai di stelle: la Nebulosa Gambero, nella pagina di Marzo, e la Nebulosa di Orione, in quella di Luglio. La lontana galassia a spirale NGC1055 vista di taglio è protagonista della pagina di Settembre e la nostra vicina IC1613, una galassia nana irregolare, compare sulla pagina di Gennaio. Una fantastica rappresentazione artistica di un buco nero in rapida rotazione che divora una stella segna la fine del Calendario nel mese di Dicembre 2018. Il Calendario ha un nuovo formato orizzontale di 14 pagine. La Supernova di ESO è l’edificio più recente sul sito del quartiere generale di ESO a Garching bei München, in Germania. Dopo la sua apertura in Aprile 2018, questo centro all’avanguardia coinvolgerà i Visitatori grazie a temi di scienza all’avanguardia e agli osservatori di livello mondiale di ESO.  

                                                                                                                               © Nicola Facciolini

 

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