Chissà quali pensieri affollavano la mente di Ignazio Silone quando, dal piazzale del Casale di Nucci di Aielli, si affacciava sul superbo ed immenso panorama della Valle del Fucino. Il campanile della Chiesa di San Giovanni e Paolo spiccava prepotentemente davanti ai suoi occhi, ma ciò non gli impediva di deliziarsi di quell' un arcobaleno di colori, uno straordinario mosaico di terreni coltivati e perfettamente allineati, grazie alla quale lo scrittore ci ha regalato il suo libro più famoso in cui traspare l’amore incondizionato per quei luoghi, ai quali fu sempre radicato come lo fu anche il Leopardi al suo ermo colle; quell’Abruzzo al centro del suo pensiero e del suo pensare che si ritrova anche ne L’avventura di un povero cristiano e che gli valse il famoso Premio Campiello nel 1968. Non l’avevo mai visto a quel modo, tutt’insieme, davanti a me e ‘fuori di me’, con la sua valle.” Avrà pensato ricordando la prima volta in cui vide il suo paese dai campi, e le cui impressioni narra in Uscita di sicurezza trasmettendo al lettore quel senso di appartenenza ad un popolo forte, resiliente, abituato alla sopravvivenza e forgiato da profondi valori arcaici e conservati nel tempo. Chissà, dunque, quante volte avrà diretto lo sguardo su quel lago che non c’era. Quante volte, nel farlo, il pensiero sarà andato stizzito “al sedicente principe Torlonia”, quel “padrone di tutte le terre” o, come fu appellato dal re Vittorio, “il principe del Fucino”, uno speculatore senza scrupoli ricordato in Abruzzo per l’epica e contestata impresa del prosciugamento delle acque del terzo lago più grande d’Italia al fine di impossessarsi di 16.500 ettari di terreno, e contro il quale lottavano i famosi ‘cafoni’ per ottenere le terre da lavorare e rivendicando l’antico diritto di pesca su quello che fu il lago di Fucino. Amava deliziarsi dei prodotti locali offerti da quei luoghi Silone, mai immaginando che, quarant’anni dopo,quei monti, quei prati, gli angoli di quei paesi dell'entroterra abruzzese e i suoi figli, avrebbero offerta la più bella delle scenografie alla trasposizione cinematografica del suo primo romanzo, Fontamara, con l’eccezionale regia di Carlo Lizzani e il cui interprete principale è l’attore Michele Placido. Quel giovedì di ottobre del ’73, lo scrittore infilò la giacca in tweed Donegal, indossò l’immancabile cappello e si diresse alla volta di Aielli Alto dove avrebbe pranzato con l’amico Enio Nucci. Conosceva bene quei luoghi Silone, ne conosceva ogni campo, ogni strada, ogni chiesa, ogni volto bruciato dal sole, e ne dà ampia dimostrazione in Vino e Pane quando parla della “strada ferrata e la via Valeria che, tra campi di fieno, di grano, di patate, di bietole, di fagioli, di granturco, portava ad Avezzano”. E di sicuro conosceva Vincenzo u’ mulinar’, mio nonno, e quella vigna, l’unica vigna a confine con la statale marsicana che percorre, in alcuni tratti, proprio le antiche sponde del lago prosciugato. Era quasi l’ora di pranzo. La vendemmia era ormai terminata e Vincenzo Di Mattia si apprestava a caricare sul caretto le ultime casse d’uva prima di fare ritorno a casa. Mi piace immaginare – ma forse immaginazione non è – che Ignazio Silone abbia voluto concedersi una pausa per assaggiare un chicco d’uva, magari portarsi via qualche grappolo, e mai lasciando intendere al suo interlocutore di avere davanti agli occhi uno dei più famosi scrittori al mondo le cui opere, ormai immortali, erano già state tradotte in diversi angoli del pianeta. Salutò quel gentiluomo dal curioso accento ovidiano e, seguendo con lo sguardo buona parte del profilo della Bella Addormentata e lasciandosi il cimitero comunale alle spalle, il buon Secondo Tranquilli si diresse verso l’incrocio con la Tiburtina Valeria, quella storica via, già menzionata, che da Roma conduceva a Pescara passando per l’angusto valico di Forca Caruso e che, prima della realizzazione dell’autostrada, era l’unico percorso possibile dei mercanti e dei viandanti. L’autunno era ormai arrivato e la tavolozza cromatica del foliage cominciava a dipingere la campagna abruzzese che, da lì a breve, sarebbe stata ricoperta da una coltre di neve bianca e candida. Ritornò con la mente ai gelidi inverni trascorsi a Zurigo, allorquando il suo sguardo si soffermò su un’enorme catasta di legna dinnanzi al piazzale dell’abitazione di Min’cucc’ u’ facocchje– intento in quel momento a segare i grossi tronchi d’albero con l’aiuto dell’infaticabile cummar’ Antonietta e di Maria e ‘papone’. Una scena che non può essere sfuggita all’occhio dell’illustre osservatore, data la traiettoria del percorso, dopodiché, svoltò a destra in direzione del paese di Cerchio. In questo punto esatto, Silone avrà certamente incrociato il giovane Mimin’ u’ rapin’ – ma è poco verosimile che il ragazzo, timido e riservato, si sia accorto della presenza del prestigioso autore, mentre è molto probabile che lo stesso abbia sentito la voce della madre Luisa allertarlo per la pastasciutta già servita in tavola. Chi potrà mai sapere se l’illustre conducente notò il sorriso compiaciuto di quella giovane donna che, con fare vanesio e toccandosi i capelli con la piega appena fatta, uscì di corsa dal negozio di Franca bruscon’, la parrucchiera, affrettando il passo per congedarsi da Lucietta ‘limone che la osservava dall’altra parte della strada? Non lo sapremo mai. A pochi metri, sul vecchio ponte cavalcavia che sovrastava la ferrovia, mentre sostava per dare la precedenza al camion di casciara carico di gazzose e spume, alcune ragazze dai vestiti disegnati a piccoli fiori passarono chiassosamente vicino al suo finestrino, mentre un piccolo mascalzone lanciava ritmicamente dei sassi neri e maleodoranti raccolti lungo i binari, proprio in direzione dei cavi sottostanti. Era giorno di mercato a Cerchio, e la piazza pullulava di venditori e compratori, di sfaccendati e passanti. A quell’ora, i rumori dello smontaggio dei banchi degli ambulanti, insieme a quello delle saracinesche delle botteghe in chiusura, si accavallavano agli schiamazzi dei bambini appena usciti da scuola e che salterellavano intorno al povero Colonnello, eroe di guerra, rientrato a Cerchio dopo le numerose torture subite. “Mo t’ spar’! urlò loro il Colonnello, puntando il pollice e l’indice sotto la tasca a mo’ di pistola. Ignazio Silone rallentò per osservare la scena. Di fianco alla fontanella, due donne con la ‘parannanzi’ parlavano sommessamente badando che nessuno ascoltasse le loro confidenze, proprio nel momento in cui, ironia della sorte, Barilott’, finito di dare il bando e seduto su una delle vicine catene che delimitavano il perimetro della piazza, si arrotolava una sigaretta con un pezzo di quotidiano appena sottratto all’edicola di Berardino. Nello stesso momento, dall’altra parte della piazza, quasi di fronte alla macelleria di Maria paulin’, alcuni vecchi facevano l’ultimo giro di briscola prima del pranzo, mentre ‘Min’cucc’ ciaccion’ – raccoglieva gli ultimi bicchieri sui tavolini di legno. In quel breve percorso e in meno di mezz’ora, lo scrittore aveva assistito ad uno spaccato di vita quotidiana di coloro che furono i discendenti di cacciatori e pescatori che si ritrovarono loro malgrado contadini, di bellicosi condottieri marsi, di briganti buoni, di superstiti di quel terribile terremoto del 1915 che riprogrammò tutte le vite di chi sopravvisse, di eroi di guerra incompresi, dei cafoni che si riscattarono con i vari Berardi Viola della Storia, dei nostri nonni e dei nostri antenati. Tirò dritto Silone, senza neppure fermarsi davanti a Maria sacchetta il cui profumo di mortadella appena affettata e di alici sottosale inebriava tutta la zona adiacente, e proseguì lasciandosi sulla sinistra lo spaccio di Ada u’ bandistij e la bottega di Agata De Grandis che, proprio in quel momento, appendeva la scritta “Chiuso” alla vetrata della portafinestra. Oltrepassò le scalette della chiesa dei Santi Giovanni e Paolo e, all’improvviso, sentì un sussulto che lo indusse a rallentare proprio dietro all’Ara, dinnanzi a ciò che restava delle case distrutte dal terremoto. Una fitta al cuore e subito l’immagine della mamma Marianna, giusto il tempo di terminare l’impervia curva dietro il palazzo diroccato di Don Venanzio da cui si vedeva tutto il paese di Collarmele, quando il suo sguardo fu colpito da una giovane donna vestita a lutto, intenta a cucire. Elena la maglierista alzò un attimo lo sguardo triste e malinconico e tornò subito al suo lavoro, e Silone proseguì il suo breve e intenso viaggio tra la natura incontaminata del luogo, fin su al Ristorante Il Casale di Nucci dove lo stava attendendo l’amico Enio. Mentre la sua vista spaziava all’orizzonte immaginando ancora una volta quel famoso lago che non c’era – come del resto accade ancora oggi a chiunque sia nato e cresciuto in quei luoghi – un leggero vento autunnale condusse alle sue narici il profumo invitante della cucina del ristorante in cui era solito pranzare o cenare quando era in Abruzzo. Silone ordinò fettuccine al ragù di agnello come primo, agnello alla brace e contorno di fagioli in umido per secondo. Il tutto accompagnato da vino rosso corposo e granato della casa. Con lo stesso fare garbato e soltanto dopo che gli ospiti avessero terminato di pranzare, il Nucci chiese un autografo con dedica allo scrittore, mai immaginando – o forse sì – che quel signore schivo e riservato che parlava quattro lingue oltre al dialetto pescinese, ancora troppo poco apprezzato in Patria, un giorno sarebbe stato annoverato tra i più grandi autori del ‘900 quale “protagonista e testimone di un terremoto reale e di terremoti esistenziali”, come lo definì Liliana Biondi, docente di Critica letteraria presso l’Università degli Studi dell’Aquila. Cosa si dissero i due commensali, non ci è dato sapere. Quel pomeriggio del 4 ottobre del 1973, Ignazio Silone uscì dal ristorante di Marcello Nucci, salutò l’amico Enio, salì sulla sua macchina ed attraversò ancora una volta il paese di Cerchio per tornare alla sua Pescina. Giunto al bivio, davanti alla strada sterrata che porta direttamente a Fucino, nei pressi del Mulino, l’autore di Fontamara si fermò ad osservare tre bambini biondissimi in compagnia di un cane pezzato che, sul bordo della provinciale, contavano curiosamente le poche e rare automobili di passaggio. Ci ha guardò e di sicuro ci sorrise. Leggere le opere – straordinariamente attuali – di Ignazio Silone, significa omaggiare uno scrittore ingiustamente assente tra i nostri libri di Letteratura a scuola e, soprattutto, significa onorare le nostre origini e la nostra Storia, nonché la memoria di chi ci ha preceduto affinché mai e in nessun modo, venga dimenticato chi siamo e cosa abbiamo combattuto. A chi ci guarda da lontano, tutto ciò che viviamo sembra “un villaggio come tanti; ma per chi vi nasce e cresce, il cosmo”. E per me, come per Silone – nonostante e comunque – tutto ciò da cui provengo è il cosmo.