L’Ovindoli Mountain Festival, al primo giorno di attività, tocca quota cinque mila partecipanti. Un’onda d’urto di divertimento ad oltre 1800 metri di altezza. Tra snowboard, snowkite, snowscoot e fatbike, l’entusiasmo si é acceso di high quality. L’alpinista ‘estremo’ Mondinelli, ospite d’onore, svela i segreti delle sue montagne.
«La montagna più bella da scalare, è quella che deve ancora arrivare», L’Ovindoli Mountain Festival, arrivato a spegnere or ora la seconda candelina di età sulla torta della sfida al turismo, ha già trovato il suo mantra prediletto, regalatogli proprio dall’alpinista più sognatore d’Italia, Silvio ‘Gnaro’ Mondinelli. Nella bocca dell’igloo costruito, mattone di ghiaccio dopo mattone di ghiaccio, in quel delle piste da sci di Ovindoli, si nasconde il sorriso spontaneo dei sopravvissuti della neve. Incomincia così il primo giorno di attività sportive e ludiche del Festival della Montagna Appenninica, il denominato ‘Ovindoli Mountain Festival’, l’unica manifestazione che discopre e discolora tutti i segreti delle vette abruzzesi, patria degli irriducibili del freddo serbato in tasca. Dal Campo base di sopravvivenza ‘Everest’, attrazione di punta di questo evento montano, al surfing sulla neve grazie al kite: sabato 23 gennaio, il tutto più estremo ha avuto una buona pista di atterraggio, quale quella ovindolese. Si chiama adrenalina, ed è la scarica elettrica che ha accomunato, come il lungo costume di stoffa del drago cinese (simbolo di buon auspicio), i ragazzi del Campo Base ‘Everest’, sopravvissuti ad una notte in tenda a -8 gradi centigradi di temperatura, e il campione della montagna, Silvio ‘Gnaro’ Mondinelli, alpinista sfidante numero uno delle 14 vette più alte del mondo. Dopo la grande fatica di Ercole di Messner, primo vero recordman capace di salire tutti i 14 ottomila senza ossigeno, Mondinelli ha impiegato 14 anni di carriera per completare la sua personale collezione di arrampicate stupefacenti, dallìanno 1993 all’anno 2007.
Sopra gli ottomila, forse, la vita può assumere un aspetto migliore, quasi più rarefatto e pulito.
Everest (8848 m), K2 (8611 m), Kanchenjunga (8589 m), il tetto del mondo dell’Himàlaia, il Lhotse, Makalu, Cho Oyu, Dhaulagiri, il Manaslu, alto 8.163 metri e conosciuto come la ‘montagna dello spirito’, il Nanga Parbat, alto 8.125 metri, l’Annapurna, alto 8.091 metri, nota per essere la montagna più pericolosa in assoluto in quanto presenta la più alta percentuale di vittime tra gli scalatori che ne tentano la scalata, il Gasherbrum I, al confine tra Pakistan e Cina, il Broad Peak, alto 8.047 metri, il cui nome significa ‘cima larga’, il Gasherbrum II, la terza cima oltre gli ottomila al mondo e, infine, il Shisha Pangma, monte alto 8.027 metri: queste le catene montuose impresse nella memoria della paura picconata da chi, pur provenendo dal mondo sportivo dall’atletica, ha scelto, in un giorno qualunque, di innamorarsi dell’alpinismo. Tutte le vette più inadommesticabili, una dopo l’altra, sono state scalate dal massone dell’alta quota, originario di Brescia ed ora cittadino del mondo in quanto a DNA montano. Cosa si prova a superare gli otto mila metri di altitudine senza l’ausilio dell’ossigeno? Si può vincere sé stessi e auto-convincersi della possibilità che l’essere umano non ha impossibilità?
Tra il confine di un sognatore delle stelle, barricato nel sacco a pelo di una tenda in alta quota, e l’indicibile forza di volontà che spinge un essere umano a superare i propri recinti mentali e a darsi, col sole o col, brutto tempo, in pasto ad una meta avventurosa dopo l’altra, passa un solo chicco di grano. Silvio Mondinelli, detto ‘Gnaro’, è stata in assoluto la star dell’Ovindoli Mountain Festival, edizione seconda. Un alpinista estremo, che ha scalato, durante la sua carriera vorticosa, tutte le 14 vette poste sopra gli otto mila metri di altezza, senza l’ausilio dell’ossigeno. «Nessun sangue di eroe scorre nelle mie vene, – ha dichiarato – semplicemente ho pensato di osare grazie ad una Madre Natura che mi ha donato, sin dalla nascita, le spalle larghe e una testa ambiziosa. Mi sono avvicinato all’alpinismo, molto tardi in realtà, più o meno all’età di 19 anni. L’esperienza nella Guardia di Finanza e, successivamente, la necessità di dimostrare il mio valore sul campo, mi hanno portato a vivere lo sport in montagna. È scoccata così la scintilla con le vette da sfidare e conquistare». L’onestà e la correttezza hanno portato ‘Gnaro’, quindi, a scansare dall’armadietto degli aiuti di primo soccorso, l’idea dell’ossigeno a portata di mano: «Con l’ossigeno, sarebbe stato come vincere facile. Al raggiungimento di una vetta così ‘pesante’ dal punto di vista razionale ed umano, mi viene da pensare ciò che chiunque altro penserebbe al raggiungimento della meta che si è preposta, anche lavorativamente parlando. La pecca nasce allorquando, sulla cima, già salta alla mente la prossima sfida verticale da inseguire ad ogni costo».
Qual è stata la montagna più bella da scalare fino ad ora? «Su ogni punta montana, – ha detto – ho provato un’emozione diversa; magari, la cima nevosa che si credeva, un tempo, facile da superare, è poi divenuta una prova di vita difficile. Ciò che giudico più bello e ristoratore è sicuramente l’atto di condividere la vetta con qualcuno, proprio perché il lavoro di gruppo è il massimo sentimento che può ‘riscaldare’ il cuore di un alpinista come me. Arrivare in cima, di fatti, non è mai un’azione individuale». L’alpinista, poi, a detta di Gnaro, deve possedere dentro al cuore una caratteristica luminosa su tutte, capace di condurre dietro di sé tutte le altre come in una infinita catena senza fili, ma solo feeling: essere, nell’istinto, alla pari di un animale. Sacrificio, visione lungimirante, spirito d’avventura e carattere combattivo contro il brutto tempo: la sfida di un alpinista è la metafora più calzante della vita.
Una notte intera trascorsa, invece, fra i ghiacci di un’isola bianca, ricavata nel cuore della montagna, è stata l’esperienza che ha visto protagonisti 4 coraggiosi dell’avventura rinominata ‘Everest’, il campo base di sopravvivenza sulla neve dell’Ovindoli Mountain Festival numero 2. «Un’esperienza ‘fredda’; per sopravvivere alla notte in alta montagna, ci siamo dovuti arrangiare con ciò che avevamo a nostra disposizione». È stato allestito, di fatti, durante l’Ovindoli Mountain Festival, un campo base con tende di alta quota. Accanto ad esse, sono spuntati, poi, come diamanti bianchi nella notte scura, rifugi di emergenza per altitudini vertiginose, quali igloo, tane di volpi e trune. «Quest’ultime ‘case’ della neve vanno costruite laddove si è in difetto di equipaggiamenti standard, necessari, cioè, alla sopravvivenza in alta montagna», spiega Giuseppe Ferella, referente per l’Ovindoli Mountain Festival del campo base di estrema sopravvivenza.
«L’igloo, costruzione risalente a prima degli anni ‘70 – spiega Ferella – è, in realtà, un rifugio comodissimo; per costruirne uno di medie dimensioni, come quello che è stato realizzato sulle piste da sci, ci vogliono, almeno tre ore di tempo. Le condizioni, invece, atmosferiche per dar vita ad un igloo in piena regola, riguardano anzitutto la compattezza della neve: un materiale troppo farinoso, infatti, non ne permetterebbe la costruzione. Si va a tagliare, poi, la crosta nevosa in veri e propri blocchi attraverso l’utilizzo di una sega o di un coltello». Il segreto che lo mantiene a forma di cupola? «Questo, come molte aspetti della montagna abruzzese stessa, è, per fortuna, ancora un segreto», conclude Ferella. Così come l’ultimissimo progetto di Silvio ‘Gnaro’ Mondinelli che, a quanto detto, dovrebbe chiudere in bellezza la sua folgorante carriera da professionista nel settore. Un segreto a mezza bocca, quindi, cucito già nei sogni notturni dei suoi fan, folli delle vette estreme, che riguarda specificatamente l’attraversata di una montagna per ora ancora senza un nome. «Nella mia carriera, – conclude Silvio Mondinelli – ci sono stati tanti freni e tanti ‘No’ detti anche a squarcia gola all’alpinismo. Ma il giorno dopo una brutta giornata, ero già di nuovo in vetta, con la piccozza stretta in mano. A tante montagne, ho più volte detto addio, ma sono sempre tornato alla fine, a casa loro, una casa che giudico anche un po’ la mia». A volte, guardando una vetta, si potrebbe anche intravvedere la sagoma di un uomo. In quel bacio di ghiaccio silenzioso a monte, ma strabiliante a valle, c’è tutto il potere dell’alpinismo.