La storia di questa donna, neo senatrice a vita della Repubblica Italiana, si svolge in un tempo a noi molto lontano, così distante da essere quasi inimmaginabile. Si parla di guerra, di regimi, di leggi razziali, di deportazioni, di violenze inaudite, ma anche di indifferenza: è la storia dell’olocausto, mai troppo raccontata, mai troppo conosciuta.
Liliana Segre è figlia unica, appartiene ad una famiglia della piccola borghesia milanese. E’ ancora bambina, frequenta la seconda elementare, quando nel 1938 conosce l’umiliazione delle leggi razziali. Il fascismo, con l’avallo di casa Savoia, si mostra ad un Italia indifferente e ancora ubriaca dei miti del regime con il suo volto più bieco: divieto di matrimoni misti, divieto di frequentare scuole pubbliche, divieto di ricoprire incarichi pubblici e di esercitare professioni. Le leggi razziali segnano l’inizio dell’antisemitismo in Italia, fino ad allora rimasta estranea al clima di odio che già da un secolo animava le nazioni dell’Europa centrale e orientale. Nel 1938 Mussolini fa pubblicare il “Manifesto della razza”, si accoda all’ideologia nazista e dichiara l’esistenza di una razza “pura italiana” che esclude gli ebrei. Lo stato liberale aveva consentito alla piccola comunità ebraica italiana di integrarsi perfettamente nella società civile e lo stesso regime fascista aveva di fatto tollerato benevolmente gli ebrei sino al 1938, quando l’alleato tedesco pretende il pagamento di un tributo d’amicizia e il regime è colto dall’ennesimo sussulto di emulazione.
Liliana Segre ci racconta lo sconcerto di una bambina, cresciuta in una famiglia laica, che di colpo si vede esclusa dalla scuola e dagli amici, emarginata nell’ indifferenza di un di un paese che è sempre stato il proprio. E’ davvero singolare la sorte degli ebrei italiani, una sorta di minoranza per disposizione di legge, italiani che di colpo si ritrovano stranieri in casa propria. Ci spiega lo sbigottimento di fronte all’ improvviso voltafaccia di tanti amici, ma oggi soprattutto ricorda con amarezza l’indifferenza con cui un’intera nazione accolse leggi così assurde.
Ma la sua vita procede comunque con una certa tranquillità fino al 1943, quando l’alleato di una volta diviene nemico e inizia la persecuzione e la deportazione degli ebrei italiani. Liliana è costretta a nascondersi, celando la propria identità sotto il falso nome di Liliana Cherubini. Vive separata dal padre presso una famiglia che la ospita e la nasconde. Tenta la fuga in Svizzera con il padre e i nonni, ma sono scoperti e rinchiusi in carcere. Ci racconta gli interrogatori della Gestapo e le torture fino alla deportazione ad Auschwitz dove si separa dai familiari che non rivedrà mai più.
Il viaggio per giungere al campo non è diverso da quelli che ci ha raccontato il cinema e la televisione: i carri bestiame, la calca, lo smarrimento. Sentircelo raccontare però, da chi quel viaggio lo ha fatto, è stato diverso.
Anche l’arrivo ad Auschwitz e la vita nel campo è così simile a quello che tante volte ci è stato mostrato, che si legge nel libro di Primo Levi, che la descrizione potrebbe sembrare inutile, ma così non è. Ogni vita passata per quei luoghi è un dramma a parte, un tormento che deve essere ascoltato perché il dolore non è mai uguale. Ogni numero tatuato sulla pelle è un uomo a dispetto della maniacale organizzazione nazista.
Ci racconta anche i momenti belli vissuti nonostante la tragedia: l’incontro con un’insegnante belga di storia, l’amicizia con Janine, l’amica che non ce la farà. Anche Liliana come Primo levi si salverà grazie alla casualità di un lavoro forzato che la conduce fuori dall’inferno, nella fabbrica Union. C’è un aspetto della vita dei lager che non andrebbe mai dimenticato: è l’enorme quantità di lavoro, la grande ricchezza prodotta dagli schiavi dei campi di concentramento. E’ una questione non secondaria, che apre una voragine nella presunta innocenza del popolo tedesco e di tanti che non sapevano o forse non volevano sapere.
Liliana parla senza interruzioni, senza domande. E’ in grado di darci tutte le risposte senza che nessuno si alzi a chiedere. Ci descrive il suo attaccamento animale alla vita, la sua voglia di vivere al di là delle umiliazioni, della fatica, della fame, del dolore provocato dalle ossa dei fianchi che bucavano la pelle senza più carne. Ci rapisce con il racconto dell’incontro con Josef Mengele, l’angelo della morte, il medico nazista che sembra uscito da un film dell’orrore se non fosse vero. Ci racconta l’avventura della marcia della morte, quando, con i russi alle porte, i tedeschi tentano la cancellazione dei lager e del carico umano rimasto, fino al momento in cui il carnefice dismette la sua veste e si nasconde in mezzo alle vittime. Allora, di fronte ad una fin troppo facile occasione di giustizia, la nostra narratrice rinuncia a sparare al suo aguzzino per non smarrire mai, neanche in quel momento finale, la sua scelta per la vita.
( Cicchetti Ivan )