La solennità dei Santi Pietro e Paolo sia proclamata festa nazionale civile e religiosa in Italia

L’Aquila / La solennità dei Santi Pietro e Paolo sia proclamata festa nazionale civile e religiosa in Italia. Francesco: “L’unica definizione di Gesù Cristo è Figlio del Dio vivente”, la risposta di San Pietro (Mt 16,16) è il titolo più grande con cui poteva chiamarLo: “Tu sei il Messia”, cioè l’Unto, il Consacrato di Dio. Il Papa è il Vescovo di Roma successore di San Pietro Apostolo. Gesù: “Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa e le potenze degli inferi non prevarranno su di essa. A te darò le chiavi del regno dei cieli: tutto ciò che legherai sulla terra sarà legato nei cieli, e tutto ciò che scioglierai sulla terra sarà sciolto nei cieli” (Mt 16,18-19). È la prima volta che Gesù pronuncia la parola “Chiesa”: e lo fa esprimendo tutto l’amore verso di essa, che definisce “la mia Chiesa”. È la nuova comunità dell’Alleanza, non più basata sulla discendenza e sulla Legge, ma sulla fede in Lui, Gesù, Volto di Dio. Condannato a morte dal tribunale romano, Paolo è decapitato sulla via Ostiense, mentre Pietro viene crocifisso sul colle Vaticano. La tradizione riferisce che il martirio di Pietro e Paolo è avvenuto nello stesso giorno: il 29 Giugno dell’Anno Domini 67. Sulle loro tombe sorgono la Basilica di San Pietro e la Basilica di San Paolo fuori le Mura. L’incontro del 7 Luglio 2018 a Bari, insieme ai Capi di Chiese e Comunità cristiane del Medio Oriente, per pregare e riflettere sulla tragica situazione che affligge tanti fratelli e sorelle di quella regione, pone Francesco sulla via dell’unità tra la Chiesa Cattolica e il Patriarcato Ecumenico. Papa Bergoglio: “È mio auspicio che si moltiplichino le opportunità in cui noi cattolici e ortodossi, a tutti i livelli, possiamo lavorare insieme, pregare insieme, annunciare insieme l’unico Vangelo di Gesù Cristo che abbiamo ricevuto dalla predicazione apostolica, per sperimentare sempre di più in questo cammino comune l’unità che, per grazia di Dio, già ci unisce”. È doveroso pensare alla solennità religiosa civile nazionale dei Santi Pietro e Paolo. L’Italia, con le sue periferie “cristiane” esistenziali assediate dall’eresia e dall’eterodossia, attende fiduciosa. Ut unum sint.

(di Nicola Facciolini)

“L’unica definizione di Gesù Cristo è Figlio del Dio Vivente” (Papa Francesco). Il 29 Giugno la Chiesa Universale celebra solennità dei Santi Pietro e Paolo, le “colonne” della Cristianità. Roma è in festa. Le suggestive decorazioni floreali abbelliscono la Città Eterna. L’Italia, con le sue periferie “cristiane” esistenziali assediate dall’eresia e dall’eterodossia, attende che sia proclamata festa nazionale civile e religiosa. Il suo nome era Simone, è Gesù a chiamarlo Pietro. Nativo di Betsaida, viveva a Cafarnao ed era pescatore sul lago di Tiberiade. Il Maestro lo invita a seguirLo insieme al fratello Andrea, e con Giacomo e Giovanni lo rende testimone di taluni fatti evangelici importanti: la risurrezione della figlia di Giairo, la trasfigurazione, l’agonia nell’orto degli ulivi. Nel suo cammino al fianco del Messia, Pietro emerge come uomo semplice, schietto, a volte impulsivo. Spesso parla e agisce a nome degli Apostoli, non esita a chiedere spiegazioni e chiarimenti a Gesù circa la predicazione e le parabole, Lo interroga su varie questioni in quei primi tre anni vissuti insieme a Cristo, la Parola del Dio Vivente. Ed è il primo a rispondere quando il Maestro si rivolge ai Dodici. “Volete andarvene anche voi?”, domanda Gesù dopo aver parlato nella sinagoga di Cafarnao suscitando sconcerto anche tra i Suoi tanti discepoli, molti dei quali, da quel momento, decidono di non seguirLo più. “Signore, da chi andremo? – risponde Simon Pietro – Tu hai parole di vita eterna e noi abbiamo creduto e conosciuto che tu sei il Santo di Dio” (Gv 6, 67-68). A Cesarea di Filippo, quando Gesù chiede ai Suoi: “Voi chi dite che io sia?”, è Pietro ad affermare: “Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente” (Mt 16,16). E Gesù: “E io a te dico: tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa e le potenze degli inferi non prevarranno su di essa. A te darò le chiavi del regno dei cieli: tutto ciò che legherai sulla terra sarà legato nei cieli, e tutto ciò che scioglierai sulla terra sarà sciolto nei cieli” (Mt 16,18-19). È questo l’incarico che Pietro riceve: governare la Chiesa. I Vangeli svelano che Gesù sceglie di affidare la Sua Chiesa ad un pescatore poco istruito, che talvolta non sa vedere la volontà di Dio, istintivo: Pietro protesta quando Gesù rivela della sua Passione; vuole sottrarsi alla lavanda dei piedi durante l’Ultima Cena, non accettando quel gesto così umile dal Maestro; nega per tre volte di conoscere Gesù dopo il triplice tradimento e l’arresto. Gli Apostoli gli riconoscono il ruolo conferito da Gesù ed è lui a prendere diverse iniziative. La mattina di Pasqua, informato da Maria Maddalena della scomparsa del corpo del Maestro dal sepolcro, è lui a precipitarvisi insieme ad un altro discepolo, il giovane Giovanni. Ma quest’ultimo, precedendolo nella corsa, lascia che sia Pietro ad entrare per primo, come gesto di rispetto. Dopo la Risurrezione di Gesù, gli Apostoli si riuniscono in cenacoli in cui talvolta si manifesta fisicamente il Maestro. Ciascuno riprende la propria quotidianità e Pietro torna sulla sua barca e alle sue reti. Ed è proprio dopo una notte trascorsa a pescare che il Maestro gli appare ancora una volta (Gv 21,3-7), gli chiede di pascere il proprio gregge per tre volte e gli predice con quale morte Lo avrebbe glorificato (Gv 21,15-19). Dopo l’Ascensione di Gesù al Cielo, Pietro è il punto di riferimento degli Apostoli e dei primi seguaci di Cristo, comincia a parlare in pubblico, a predicare e ad operare guarigioni. Viene arrestato, convocato e rilasciato più volte dal Sinedrio, costretto a prendere atto dell’autorità con la quale parlava e dell’entusiasmo della gente intorno a lui che cresceva sempre di più. Pietro comincia anche a spostarsi di città in città per raccontare la Buona Novella. Ma torna spesso a Gerusalemme, ed è qui che un giorno si presenta, a lui e agli altri Apostoli, Paolo raccontando della sua conversione. Pietro e Paolo intraprendono poi strade diverse, entrambi non si risparmiano in svariati viaggi, ma le loro vite si incrociano spesso a Gerusalemme. Pietro si confronta con Paolo più volte, ne accetta osservazioni e considerazioni e vi si ritrova a discutere per decidere gli orientamenti della Chiesa nascente. Infine i due Apostoli si ritrovano a Roma. Ebreo di Tarso, nell’odierna Turchia, Saulo è un cittadino romano, colto, istruito alla scuola giudaica proseguita a Gerusalemme. Aveva una buona formazione greco-ellenista, conosceva il greco e il latino. Figlio di un tessitore di tende, aveva appreso pure l’arte manifatturiera del padre. Come molti ebrei di quell’epoca, aveva un secondo nome greco-latino: Paolo, scelto per semplice assonanza con il proprio nome. Caparbio, coraggioso e audace, aveva buone capacità dialettiche. La sua personalità emerge dagli Atti degli Apostoli e dalle sue 13 Lettere. Non conosce subito Gesù ed è fra i primi a perseguitare i cristiani, ritenuti una setta pericolosa da debellare. Nelle Sacre Scritture è menzionato per la prima volta nella narrazione della lapidazione di Santo Stefano, primo martire cristiano, a Gerusalemme. Fiero sostenitore della tradizione ebraica, Saulo “cercava di distruggere la Chiesa: entrava nelle case, prendeva uomini e donne e li faceva mettere in carcere” (At 8,3). I discepoli lo temono e per sfuggire alla persecuzione alcuni si disperdono in varie città, fra cui Damasco, in Siria. Saulo si fa allora autorizzare dal sommo sacerdote a condurre in giudizio i fuggiaschi a Gerusalemme. “E avvenne che, mentre era in viaggio e stava per avvicinarsi a Damasco, all’improvviso lo avvolse una luce dal cielo e, cadendo a terra, udì una voce che gli diceva: “Saulo, Saulo, perché mi perseguiti?”. Paolo rispose: “Chi sei, o Signore?”. E il Maestro: “Io sono Gesù, che tu perseguiti! Ma tu alzati ed entra nella città e ti sarà detto ciò che devi fare”. Saulo allora “si alzò da terra ma, aperti gli occhi, non vedeva nulla” (At 9,3-6). Viene accompagnato a Damasco, dove per tre giorni, sconvolto dall’accaduto, non prende “né cibo né bevanda”. Al terzo giorno si presenta a lui un tale Ananìa al quale Dio, durante una visione, aveva chiesto di cercarlo e di imporgli le mani perché recuperasse la vista. “Egli è lo strumento che ho scelto per me, affinché porti il mio nome dinanzi alle nazioni, ai re e ai figli d’Israele; e io gli mostrerò quanto dovrà soffrire per il mio nome”, viene rivelato ad Anania. Paolo si fa battezzare, conosce la piccola comunità cristiana del luogo, si presenta nella Sinagoga e testimonia quanto gli è accaduto. Comincia da qui il suo apostolato. Si intrattiene con i discepoli che si trovano a Damasco, inizia a predicare con entusiasmo e in seguito raggiunge Gerusalemme. Qui conosce Pietro e gli altri Apostoli che, dopo un’iniziale diffidenza, lo accolgono e gli parlano a lungo di Gesù. Paolo li ascolta, apprende gli insegnamenti lasciati dal Maestro e fortifica la sua fede. Prosegue la predicazione, ma si scontra con l’ostilità di tanti ebrei e le perplessità di diversi cristiani. Lascia Gerusalemme e torna a Tarso, dove riprende il mestiere di tessitore di tende e continua a dedicarsi all’evangelizzazione. Qualche anno dopo Paolo, insieme a Barnaba, fra i primi ebrei convertiti, arriva ad Antiochia e instaura stretti legami con la comunità cristiana. Dopo un breve soggiorno a Gerusalemme, da Antiochia Paolo prosegue la sua missione fra gli ebrei e soprattutto fra i pagani, i cosiddetti “gentili”, per altre mete. Tre sono i suoi grandi viaggi apostolici. Durante il primo, Paolo approda a Cipro e in diverse città della Galazia, fonda svariate comunità, quindi raggiunge nuovamente Antiochia e poi Gerusalemme, per discutere con gli Apostoli se i convertiti dal paganesimo dovevano rispettare o meno i precetti della tradizione ebraica. Nel secondo viaggio, Paolo si dirige nel sud della Galazia, poi è la volta della Macedonia e della Grecia. Si ferma a Corinto per oltre un anno. Poi tocca altre città, fra cui Efeso e ancora Gerusalemme, e si dirige nuovamente ad Antiochia. Da qui riparte per il suo il terzo viaggio. Si ferma tre anni ad Efeso, quindi raggiunge la Macedonia, Corinto e altre località, visita comunità che lo avevano accolto precedentemente e infine rientra a Gerusalemme. A motivo delle tensioni sviluppatesi fra le comunità che aveva fondato e i giudeo-cristiani circa l’osservanza di talune norme della legge ebraica, Paolo si confronta con Giacomo. Accusato poi dagli ebrei di aver predicato contro la legge e di aver introdotto nel Tempio un pagano convertito, Paolo viene arrestato, ma, sotto processo, in qualità di cittadino romano, si appella all’imperatore e viene trasferito a Roma. Vi giunge dopo la prigionia a Cesarea e diverse tappe in altre città. A Roma, dove si trova anche Pietro, entra in contatto con la comunità cristiana. Prosciolto per mancanza di prove, poi, prosegue la sua missione. Viene arrestato ancora una volta sotto Nerone. Condannato a morte dal tribunale romano, è decapitato sulla via Ostiense, mentre Pietro viene crocifisso sul colle Vaticano. La tradizione riferisce che il martirio di Pietro e Paolo è avvenuto nello stesso giorno: il 29 Giugno dell’Anno Domini 67. Sulle loro tombe sorgono la Basilica di San Pietro e la Basilica di San Paolo fuori le Mura. Nella Santa Messa con la benedizione dei Palli per i nuovi arcivescovi metropoliti, nella solennità dei Santi Apostoli Pietro e Paolo, in Piazza San Pietro, Venerdì 29 Giugno 2018, Papa Bergoglio insegna: “Le Letture proclamate ci permettono di prendere contatto con la tradizione apostolica, quella che “non è trasmissione di cose o di parole, una collezione di cose morte. La Tradizione è il fiume vivo che ci collega alle origini, il fiume vivo nel quale sempre le origini sono presenti” (Benedetto XVI, Catechesi, 26 aprile 2006) e ci offrono le chiavi del Regno dei cieli (Mt 16,19). Tradizione perenne e sempre nuova che ravviva e rinfresca la gioia del Vangelo, e ci permette così di confessare con le nostre labbra e il nostro cuore: “Gesù Cristo è Signore! A gloria di Dio Padre” (Fil 2,11). Tutto il Vangelo vuole rispondere alla domanda che albergava nel cuore del Popolo d’Israele e che anche oggi non cessa di abitare tanti volti assetati di vita: “Sei tu colui che deve venire o dobbiamo aspettare un altro?” (Mt 11,3). Domanda che Gesù riprende e pone ai Suoi discepoli: “Ma voi, chi dite che io sia?” (Mt 16,15). Pietro, prendendo la parola, attribuisce a Gesù il titolo più grande con cui poteva chiamarLo: “Tu sei il Messia” (Mt 16,16), cioè l’Unto, il Consacrato di Dio. Mi piace sapere che è stato il Padre ad ispirare questa risposta a Pietro, che vedeva come Gesù “ungeva” il Suo popolo. Gesù, l’Unto che, di villaggio in villaggio, cammina con l’unico desiderio di salvare e sollevare chi era considerato perduto: “unge” il morto (Mc 5,41-42; Lc 7,14-15), unge il malato (Mc 6,13; Gc 5,14), unge le ferite (Lc10,34), unge il penitente (Mt 6,17). Unge la speranza (Lc 7,38.46; Gv 11,2; 12,3). In tale unzione ogni peccatore, ogni sconfitto, malato, pagano, lì dove si trovava, ha potuto sentirsi membro amato della famiglia di Dio. Con i suoi gesti, Gesù gli diceva in modo personale: tu mi appartieni. Come Pietro, anche noi possiamo confessare con le nostre labbra e il nostro cuore non solo quello che abbiamo udito, ma anche l’esperienza concreta della nostra vita: siamo stati risuscitati, curati, rinnovati, colmati di speranza dall’unzione del Santo. Ogni giogo di schiavitù è distrutto grazie alla Sua unzione (Is 10,27). Non ci è lecito perdere la gioia e la memoria di saperci riscattati, quella gioia che ci porta a confessare: “Tu sei il Figlio del Dio vivente” (Mt 16,16). Ed è interessante, poi, notare il seguito di questo passo del Vangelo in cui Pietro confessa la fede: “Da allora Gesù cominciò a spiegare ai Suoi discepoli che doveva andare a Gerusalemme e soffrire molto da parte degli anziani, dei capi dei sacerdoti e degli scribi, e venire ucciso e risorgere il terzo giorno” (Mt 16,21). L’Unto di Dio porta l’amore e la misericordia del Padre fino alle estreme conseguenze. Questo amore misericordioso richiede di andare in tutti gli angoli della vita per raggiungere tutti, anche se questo costasse il “buon nome”, le comodità, la posizione, il martirio. Davanti a questo annuncio così inatteso, Pietro reagisce: “Dio non voglia, Signore; questo non ti accadrà mai” (Mt 16,22) e si trasforma immediatamente in pietra d’inciampo sulla strada del Messia; e credendo di difendere i diritti di Dio, senza accorgersi si trasformava in suo nemico (lo chiama “Satana”, Gesù). Contemplare la vita di Pietro e la sua confessione significa anche imparare a conoscere le tentazioni che accompagneranno la vita del discepolo. Alla maniera di Pietro, come Chiesa, saremo sempre tentati da quei “sussurri” del maligno che saranno pietra d’inciampo per la missione. E dico “sussurri” perché il demonio seduce sempre di nascosto, facendo sì che non si riconosca la sua intenzione, “si comporta come un falso nel volere restare occulto e non essere scoperto” (S. Ignazio di Loyola, Esercizi spirituali, n. 326). Invece, partecipare all’unzione di Cristo è partecipare alla Sua gloria, che è la sua Croce: “Padre, glorifica il tuo Figlio…Padre, glorifica il Tuo nome” (Gv 12,28). Gloria e croce in Gesù Cristo vanno insieme e non si possono separare; perché quando si abbandona la croce, anche se entriamo nello splendore abbagliante della gloria, ci inganneremo, perché quella non sarà la gloria di Dio, ma la beffa dell’avversario. Non di rado sentiamo la tentazione di essere cristiani mantenendo una prudente distanza dalle piaghe del Signore. Gesù tocca, Gesù tocca la miseria umana, invitando noi a stare con Lui e a toccare la carne sofferente degli altri. Confessare la fede con le nostre labbra e il nostro cuore richiede, come lo ha richiesto a Pietro, di identificare i “sussurri” del maligno. Imparare a discernere e scoprire quelle “coperture” personali e comunitarie che ci mantengono a distanza dal vivo del dramma umano; che ci impediscono di entrare in contatto con l’esistenza concreta degli altri e, in definitiva, di conoscere la forza rivoluzionaria della tenerezza di Dio (Esort. ap. Evangelii gaudium, 270). Non separando la gloria dalla croce, Gesù vuole riscattare i Suoi discepoli, la sua Chiesa, da trionfalismi vuoti: vuoti di amore, vuoti di servizio, vuoti di compassione, vuoti di popolo. La vuole riscattare da una immaginazione senza limiti che non sa mettere radici nella vita del Popolo fedele o, che sarebbe peggio, crede che il servizio al Signore le chieda di sbarazzarsi delle strade polverose della storia. Contemplare e seguire Cristo esige di lasciare che il cuore si apra al Padre e a tutti coloro coi quali Egli stesso ha voluto identificarsi (S. Giovanni Paolo II, Lett. ap. Novo millennio ineunte, 49), e questo nella certezza di sapere che non abbandona il Suo popolo. Cari fratelli, continua ad abitare in milioni di volti la domanda: “Sei tu colui che deve venire o dobbiamo aspettare un altro?” (Mt 11,3). Confessiamo con le nostre labbra e col nostro cuore: “Gesù Cristo è il Signore” (Fil 2,11). Questo è il nostro cantus firmus che tutti i giorni siamo invitati a intonare. Con la semplicità, la certezza e la gioia di sapere che “la Chiesa rifulge non della propria luce, ma di quella di Cristo. Trae il proprio splendore dal Sole di giustizia, così che può dire: “Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me” (Gal 2,20)” (S. Ambrogio, Hexaemeron, IV, 8, 32)”. Nella preghiera dell’Angelus, il Santo Padre rimarca il significato della solennità: “Oggi la Chiesa, pellegrina a Roma e nel mondo intero, va alle radici della sua fede e celebra gli Apostoli Pietro e Paolo. I loro resti mortali, custoditi nelle due Basiliche ad essi dedicate, sono tanto cari ai romani e ai numerosi pellegrini che da ogni parte vengono a venerarli. Vorrei soffermarmi sul Vangelo (Mt 16,13-19) che la liturgia ci propone in questa festa. In esso si racconta un episodio che è fondamentale per il nostro cammino di fede. Si tratta del dialogo in cui Gesù pone ai Suoi discepoli la domanda sulla sua identità. Egli dapprima chiede: “La gente, chi dice che sia il Figlio dell’uomo?” (v. 13). E poi interpella direttamente loro: “Voi, chi dite che io sia?” (v. 15). Con queste due domande, Gesù sembra dire che una cosa è seguire l’opinione corrente, e un’altra è incontrare Lui e aprirsi al Suo mistero: lì si scopre la verità. L’opinione comune contiene una risposta vera ma parziale; Pietro, e con lui la Chiesa di ieri, di oggi e di sempre, risponde, per grazia di Dio, la verità: “Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente” (v. 16). Nel corso dei secoli, il mondo ha definito Gesù in diversi modi: un grande profeta della giustizia e dell’amore; un sapiente maestro di vita; un rivoluzionario; un sognatore dei sogni di Dio e così via. Tante cose belle. Nella babele di queste e di altre ipotesi si staglia ancora oggi, semplice e netta, la confessione di Simone detto Pietro, uomo umile e pieno di fede: “Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente” (v. 16). Gesù è il Figlio di Dio: perciò è perennemente vivo Lui come è eternamente vivo il Padre suo. È questa la novità che la grazia accende nel cuore di chi si apre al mistero di Gesù: la certezza non matematica, ma ancora più forte, interiore, di aver incontrato la Sorgente della Vita, la Vita stessa fatta carne, visibile e tangibile in mezzo a noi. Questa è l’esperienza del cristiano, e non è merito suo, di noi cristiani, e non è merito nostro, ma viene da Dio, è una grazia di Dio, Padre e Figlio e Spirito Santo. Tutto ciò è contenuto in germe nella risposta di Pietro: “Tu sei il Cristo, il figlio di Dio vivo”. E poi, la risposta di Gesù è piena di luce: “Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa e le porte degli inferi non prevarranno contro di essa” (v. 18). È la prima volta che Gesù pronuncia la parola “Chiesa”: e lo fa esprimendo tutto l’amore verso di essa, che definisce “la mia Chiesa”. È la nuova comunità dell’Alleanza, non più basata sulla discendenza e sulla Legge, ma sulla fede in Lui, Gesù, Volto di Dio. Una fede che il Beato Paolo VI, quando ancora era Arcivescovo di Milano, esprimeva con questa mirabile preghiera: “O Cristo, nostro unico mediatore, Tu ci sei necessario: per vivere in Comunione con Dio Padre; per diventare con Te, che sei Figlio unico e Signore nostro, Suoi figli adottivi; per essere rigenerati nello Spirito Santo» (Lettera pastorale, 1955). Per intercessione della Vergine Maria, Regina degli Apostoli, il Signore conceda alla Chiesa, a Roma e nel mondo intero, di essere sempre fedele al Vangelo, al cui servizio i santi Pietro e Paolo hanno consacrato la loro vita”. Risuonano le parole di Papa Francesco pronunciate nel Concistoro di Giovedì 28 Giugno 2018 per la creazione dei nuovi Cardinali nella Basilica Vaticana: “Mentre erano sulla strada per salire a Gerusalemme, Gesù camminava davanti a loro (Mc 10,32). L’inizio di questo paradigmatico passo di Marco ci aiuta sempre a vedere come il Signore si prende cura del Suo popolo con una pedagogia impareggiabile. In cammino verso Gerusalemme, Gesù non trascura di precedere (primerear) i suoi. Gerusalemme rappresenta l’ora delle grandi determinazioni e decisioni. Tutti sappiamo che, nella vita, i momenti importanti e cruciali lasciano parlare il cuore e mostrano le intenzioni e le tensioni che ci abitano. Tali incroci dell’esistenza ci interpellano e fanno emergere domande e desideri non sempre trasparenti del cuore umano. È quello che rivela, con grande semplicità e realismo, il brano del Vangelo che abbiamo appena ascoltato. A fronte del terzo e più duro annuncio della passione, l’Evangelista non teme di svelare certi segreti del cuore dei discepoli: ricerca dei primi posti, gelosie, invidie, intrighi, aggiustamenti e accordi; una logica che non solo logora e corrode da dentro i rapporti tra loro, ma che inoltre li chiude e li avvolge in discussioni inutili e di poco conto. Gesù però non si ferma su questo, ma va avanti, li precede (primerea) e con forza dice loro: “Tra voi non è così; ma chi vuole diventare grande tra voi sarà vostro servitore” (Mc 10,43). Con tale atteggiamento, il Signore cerca di ricentrare lo sguardo e il cuore dei Suoi discepoli, non permettendo che le discussioni sterili e autoreferenziali trovino spazio in seno alla comunità. A che serve guadagnare il mondo intero se si è corrosi all’interno? A che serve guadagnare il mondo intero se si vive tutti presi da intrighi asfissianti che inaridiscono e rendono sterile il cuore e la missione? In questa situazione, come qualcuno ha osservato, si potrebbero già intravedere gli intrighi di palazzo, anche nelle curie ecclesiastiche. “Tra voi però non è così”: risposta del Signore che, prima di tutto, è un invito e una scommessa per recuperare il meglio che c’è nei discepoli e così non lasciarsi rovinare e imprigionare da logiche mondane che distolgono lo sguardo da ciò che è importante. “Tra voi non è così”: è la voce del Signore che salva la comunità dal guardare troppo sé stessa invece di rivolgere lo sguardo, le risorse, le aspettative e il cuore a ciò che conta: la missione. E così Gesù ci insegna che la conversione, la trasformazione del cuore e la riforma della Chiesa è e sarà sempre in chiave missionaria, perché presuppone che si cessi di vedere e curare i propri interessi per guardare e curare gli interessi del Padre. La conversione dai nostri peccati, dai nostri egoismi non è e non sarà mai fine a sé stessa, ma mira principalmente a crescere in fedeltà e disponibilità per abbracciare la missione. E questo in modo tale che, nell’ora della verità, specialmente nei momenti difficili dei nostri fratelli, siamo ben disposti e disponibili ad accompagnare e accogliere tutti e ciascuno, e non ci trasformiamo in ottimi respingenti, o per ristrettezza di vedute o, peggio ancora, perché stiamo discutendo e pensando tra di noi chi sarà il più importante. Quando ci dimentichiamo della missione, quando perdiamo di vista il volto concreto dei fratelli, la nostra vita si rinchiude nella ricerca dei propri interessi e delle proprie sicurezze. E così cominciano a crescere il risentimento, la tristezza e il disgusto. A poco a poco viene meno lo spazio per gli altri, per la comunità ecclesiale, per i poveri, per ascoltare la voce del Signore. Così si perde la gioia e il cuore finisce per inaridirsi (Esort. ap. Evangelii gaudium, 2). “Tra voi però non è così – ci dice il Signore – chi vuole essere il primo tra voi sarà schiavo di tutti” (Mc 10,43.44). È la beatitudine e il magnificat che ogni giorno siamo chiamati a intonare. È l’invito che il Signore ci fa perché non dimentichiamo che l’autorità nella Chiesa cresce con questa capacità di promuovere la dignità dell’altro, di ungere l’altro, per guarire le sue ferite e la sua speranza tante volte offesa. È ricordare che siamo qui perché siamo inviati a “portare ai poveri il lieto annuncio, a proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista; a rimettere in libertà gli oppressi, a proclamare l’anno di grazia del Signore” (Lc 4,18-19). Cari fratelli Cardinali e neo-Cardinali! Mentre siamo sulla strada verso Gerusalemme, il Signore cammina davanti a noi per ricordarci ancora una volta che l’unica autorità credibile è quella che nasce dal mettersi ai piedi degli altri per servire Cristo. È quella che viene dal non dimenticare che Gesù, prima di chinare il capo sulla croce, non ha avuto paura di chinarsi davanti ai discepoli e lavare loro i piedi. Questa è la più alta onorificenza che possiamo ottenere, la maggiore promozione che ci possa essere conferita: servire Cristo nel popolo fedele di Dio, nell’affamato, nel dimenticato, nel carcerato, nel malato, nel tossicodipendente, nell’abbandonato, in persone concrete con le loro storie e speranze, con le loro attese e delusioni, con le loro sofferenze e ferite. Solo così l’autorità del pastore avrà il sapore del Vangelo e non sarà “come bronzo che rimbomba o come cimbalo che strepita” (1Cor 13,1). Nessuno di noi deve sentirsi “superiore” ad alcuno. Nessuno di noi deve guardare gli altri dall’alto in basso. Possiamo guardare così una persona solo quando la aiutiamo ad alzarsi. Vorrei ricordare con voi una parte del testamento spirituale di San Giovanni XXIII, che avanzando nel cammino ha potuto dire: “Nato povero, ma da onorata ed umile gente, sono particolarmente lieto di morire povero, avendo distribuito secondo le varie esigenze e circostanze della mia vita semplice e modesta, a servizio dei poveri e della Santa Chiesa che mi ha nutrito, quanto mi venne fra mano, in misura assai limitata del resto, durante gli anni del mio sacerdozio e del mio episcopato. Apparenze di agiatezza velarono, sovente, nascoste spine di affliggente povertà e mi impedirono di dare sempre con la larghezza che avrei voluto. Ringrazio Iddio di questa grazia della povertà di cui feci voto nella mia giovinezza, povertà di spirito, come Prete del S. Cuore, e povertà reale; e che mi sorresse a non chiedere mai nulla, né posti, né danari, né favori, mai, né per me, né per i miei parenti o amici” (29 Giugno 1954)”. Al termine della celebrazione del Concistoro, Papa Francesco e i nuovi cardinali si sono recati, a bordo di due pullmini, al Monastero “Mater Ecclesiae” in Vaticano per incontrare il Papa Emerito Benedetto XVI. Nella cappella, tutti insieme hanno recitato l’Ave Maria. Dopo un breve saluto e la benedizione di Papa Benedetto, i 14 nuovi porporati sono tornati in Aula Paolo VI e nel Palazzo Apostolico per la Visita di Cortesia come riferisce la Sala Stampa della Santa Sede. La speranza dell’Unità nella Chiesa di Cristo, alla luce della festività dei Santi Pietro e Paolo, è stata ulteriormente illuminata da Papa Bergoglio, Giovedì 28 Giugno 2018, nel suo discorso alla alla delegazione del Patriarcato Ecumenico di Costantinopoli: “Cari Fratelli in Cristo, in questo giorno di  vigilia della festa dei Santi Apostoli Pietro e Paolo, mi riempie di gioia incontrare voi che siete venuti a Roma per rappresentare Sua Santità il Patriarca Ecumenico Bartolomeo e il Santo Sinodo e darvi il mio più cordiale benvenuto. La vostra presenza in occasione delle celebrazioni in onore dei Patroni principali della Chiesa di Roma è segno della crescente comunione che lega la Chiesa Cattolica e il Patriarcato Ecumenico. Fare memoria degli Apostoli, dei loro insegnamenti e della loro testimonianza significa ricordare le radici comuni sulle quali si edificano le nostre Chiese sorelle, ma anche prendere coscienza della comune missione al servizio del Vangelo, per generare un’umanità nuova, protesa verso Dio. In tante società che tradizionalmente si dicevano cristiane, accanto ad esempi luminosi di fedeltà al Signore Gesù Cristo, si assiste a un progressivo offuscamento della fede cristiana, che non incide più nelle scelte dei singoli e nelle decisioni pubbliche. Il disprezzo della dignità della persona umana, l’idolatria del denaro, la diffusione della violenza, l’assolutizzazione della scienza e della tecnica, lo sfruttamento sconsiderato delle risorse naturali sono soltanto alcuni dei gravi segni di una tragica realtà, alla quale non possiamo rassegnarci. Condivido pienamente quanto il Patriarca Ecumenico Sua Santità Bartolomeo ha affermato nel discorso tenuto nel corso della sua recente visita a Roma per partecipare al Convegno internazionale sulle Nuove politiche e stili di vita nell’era digitale: “Respingiamo la cinica frase “Non c’è alternativa”. È inaccettabile che le forme alternative di sviluppo e la forza della solidarietà sociale e della giustizia siano ignorate e calunniate. Le nostre Chiese possono creare nuove possibilità di trasformazione per il nostro mondo. Infatti, la Chiesa stessa è un evento di trasformazione, di condivisione, di amore e di apertura. Nelle nostre Chiese sperimentiamo la benedetta certezza che il futuro non appartiene all’“avere” ma all’“essere”, non alla “pleonexia” ma alla “condivisione”, non all’individualismo e all’egoismo ma alla comunione e alla solidarietà: non appartiene alla divisione ma all’amore”. È per me consolante constatare che questa convergenza di visioni con il mio amato fratello Bartolomeo si traduce in un concreto lavoro comune. Anche nel corso di questi ultimi mesi il Patriarcato Ecumenico e la Chiesa Cattolica hanno collaborato su iniziative concernenti temi di notevole importanza, quali la lotta contro le forme moderne di schiavitù, la difesa del creato, la ricerca della pace. A questo proposito, sono sentitamente grato a Sua Santità Bartolomeo di avere subito accettato il mio invito ad incontrarci il prossimo 7 luglio a Bari, insieme ai Capi di Chiese e Comunità cristiane del Medio Oriente, per pregare e riflettere sulla tragica situazione che affligge tanti fratelli e sorelle di quella regione. È mio auspicio che si moltiplichino le opportunità in cui noi cattolici e ortodossi, a tutti i livelli, possiamo lavorare insieme, pregare insieme, annunciare insieme l’unico Vangelo di Gesù Cristo che abbiamo ricevuto dalla predicazione apostolica, per sperimentare sempre di più in questo cammino comune l’unità che, per grazia di Dio, già ci unisce. Eminenza, cari Fratelli, grazie ancora per la vostra presenza. Per intercessione dei Santi Pietro e Paolo e di Sant’Andrea, fratello di San Pietro, il Signore Onnipotente ci conceda di essere fedeli annunciatori del Vangelo. E, mentre invoco su tutti noi la sua benedizione, vi chiedo per favore di pregare per me. Grazie!”. Petali di fiori, trucioli e segature di legno, perfino sale e zucchero colorati a mano: sono molte le tradizioni degli infioratori italiani che hanno lavorato per rendere visibili a romani e turisti,  dalle 9 del mattino del 29 Giugno, i quadri floreali che anche quest’anno nel percorso tradizionale da via della Conciliazione all’ingresso di Piazza San Pietro, in piazza Pio XII, contribuiscono a celebrare i Patroni della città eterna, i Santi Pietro e Paolo. Un evento antico che oggi diventa nazionale. Quest’anno la kermesse curata dalla Pro loco di Roma Capitale vede la partecipazione di alcuni Comuni in cui sopravvive la tradizione delle infiorate, che dal Nord al Sud Italia s’incontrano artisticamente e non solo proprio a Roma. Il tradizionale evento che accompagna la Santa Messa e l’Angelus di Papa Francesco, quest’anno è stato anche inserito tra gli eventi nazionali dell’Unione delle Pro Loco d’Italia. La tradizione delle infiorate, infatti, nacque proprio nella Città Eterna per invenzione di Gian Lorenzo Bernini il quale realizzò la prima nel lontano Anno Domini 1625, proprio per la festa dei SS. Pietro e Paolo. Un’usanza che la Pro Loco di Roma ha voluto recuperare. Molti i soggetti ritratti, tra cui diversi Papi precedenti: San Giovanni Paolo II, Celestino V e Paolo VI nell’anno della sua canonizzazione.  Non mancano le rappresentazioni astratte né lo stemma della Città del Vaticano. L’invito è sempre quello di venire a Roma già dalla sera del 28 Giugno: vedere gli artisti al lavoro tutta la notte è davvero uno spettacolo unico nel suo genere. È doveroso pensare alla solennità religiosa civile nazionale dei Santi Pietro e Paolo.

© Nicola Facciolini

 

 

 

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