La credenza sull’esistenza di vene aurifere nelle viscere della Maiella è antichissima e ne parla anche Plinio nel Libro XXXIII della sua Storia Naturale. Ma senza ricorrere alla testimonianza di scrittori latini, va notato che in epoche più vicine alla nostra la presenza dell’oro nel mons Magella è stata riaffermata nel sec. XVII dallo storico teatino Lucio Camarra nella sua opera De Teate antiquo. Egli infatti scrive che “nutrit enim mons iste vivum purumque argentum, nutritque item purissimum aurum”.Gli fa eco alla fine del XVIII secolo Lorenzo Giustiniani, il quale sottolinea: “Non si mette in dubbio che ne’suoi visceri la Maiella tiene del ferro, del rame, del piombo, e similmente dell’argento e dell’oro, ma non in quella quantità da poterne approfittare”.
Il più convinto assertore dell’esistenza di vene aurifere nel grembo della Maiella è l’abate Romanelli di Fossacesia, il quale nel II vol. delle sue Scoverte Patrie (1809) sottolineava con intenti scientifici quanto segue: “Si è sempre detto che la Maiella racchiude miniere d’oro e d’argento, di piombo, di rame e di ferro. Addì nostri se ne sono trovate le tracce in molti siti. Vi esistono nelle grotte, nelle cavità e ne’ tagli di monti, dove si scorgono minute schegge d’oro miste al terreno. In alcuni luoghi, come sopra Fara San Martino e Serra Monacesca, queste si trovano in gran quantità nella superficie… Sette diverse mostre di terra, scavate nella Maiella, furono in Napoli poste al saggio, e vi si trovò dell’oro eccellente. Si crede che per purificarlo vi occorra della spesa eccessiva, e che l’oro ricavato non sia malleabile; ma l’uno e l’altro giudizio di quei che disprezzano i nostri prodotti, è stato smentito col fatto”.
Nel 1820 G. Del Re illustrava i risultati delle indagini mineralogiche, cui la stessa Corte borbonica a Napoli aveva riposto non lievi speranze. “Si è asserito da taluni – scrive il Del Re – che le viscere della Maiella racchiudono miniere d’oro, e per prova se ne sono indicati i luoghi di Fara San Martino e di Serra Monacesca, dove si dice di scorgersi delle schegge miste al terreno. Se ne sono pure dinunziate all’est di Caramanico … e se n’è assicurato che
sette diverse mostre di terra … diedero una sì tenue quantità di oro, che giudicossi la spesa superiore al prodotto”.
La credenza popolare che la Maiella custodisse nelle sue profondità filoni d’oro e d’argento ha sempre stimolato la fantasia degli abitanti dei paesi posti alle sue falde e soprattutto quella dei pastori, i quali nei mesi estivi conducevano le greggia sulla sua sommità.
Le esplorazioni che vi si effettuavano nella vana ricerca del prezioso metallo sfioravano talvolta terribili tragedie ed il Pansa riporta a tal riguardo una notizia di cronaca tratta dalla stampa dell’epoca ( fine ‘800): “ Anni or sono, avendo scorto alcuni contadini a mezzogiorno della sommità di Monte Amaro un grande buco, vi penetrarono e trovarono un grande pozzo in cui, con pericolo di vita, si calarono con funi lunghissime. La loro sorpresa fu grande quando visitarono lunghi ed infiniti cunicoli a forma acuta, alcuni dei quali avevano nel centro altri piccoli pozzi chiusi da enormi macigni che non potettero rimuovere nemmeno con la dinamite…La tradizione popolare di quei luoghi crede che ivi lavorassero gli schiavi romani per l’estrazione dell’oro e dell’argento”.
Le leggende sulla presenza dell’oro nelle cavità recondite della Maiella, chiamata un tempo – secondo il Cluverio – mons Pallenus, oppure quelle sui tesori di monete d’oro nei misteriosi pozzi del Colle delle Fate, situato alle falde occidentali del Morrone in territorio di Roccacasale, rivelano la brama dei ceti rurali ed indigenti di mutare all’improvviso il loro destino, che storicamente si è mostrato loro sempre nella veste della miseria e della fame.
Sicché un capitolo importante delle credenze popolari sull’oro è costituito dalle cosiddette leggende plutoniche, il cui tema favolistico è incentrato sull’esistenza di tesori, nascosti in grotte o anfratti inaccessibili e custoditi secondo la tradizione popolare da enormi serpenti, da diavoli oppure da esseri mostruosi e persino da misteriosi frati, come appunto il protagonista del Tesoro di Colle San Marco, descritto nella leggenda di Margherita tuttora assai viva a Lama dei Peligni. Ma v’è dell’altro,ed anche di curioso. Nella sua citata opera il Camarra racconta che alle falde della Maiella sorgeva una chiesetta da cui si levavano in volo delle pernici. Colpite dagli archibugi, tali uccelli – ‘avidi come è noto del luccicare’ – rivelavano nel gozzo la presenza di pagliuzze d’oro, ingenerando così nei cacciatori la fallace idea che nelle fondamenta o nelle crepe dei muri della chiesetta si nascondessero delle vene aurifere.
Il risultato fu, ahimè, che nel giro di qualche anno della chiesetta non si salvò nemmeno una pietra, perché distrutta a colpi di piccone dai cacciatori, i quali, deposti i fucili, si erano dati alla vana ricerca dell’oro nel tempietto alpestre e nella piccola piana di Passo San Leonardo. Leggenda, credenza, fantasia o realtà, chissà.
( a cura di Cicchetti Ivan)