* di Aldo Antonelli
L’espressione “cristiano senza chiesa” è, sì, dello stesso Silone che così amava autodefinirsi, così come, politicamente, amava dirsi “socialista senza partito”., ma è anche il titolo di un volume: “Un cristiano senza chiesa”, uscito nel 1991 per le Edizioni Studium di Roma.
L’ho scoperto, con mia grande sorpresa, leggendo un articolo molto interessante sui rapporti tra Silone e Simone Weil sul n. 1 dei Quaderni del Centro Gandhi di Pisa. L’autrice è Margherita Pieracci Harwell, che conobbe Silone nel 1950 e al quale è rimasta, poi, sempre vicina.
Anche se, come testé detto, Ignazio Silone amavi dirsi “Cristiano senza chiesa”, vi prego a non prendere il titolo come una definizione, perché Ignazio Silone non è definibile, almeno a stare alle nostre categorie sociologiche. Lui, di sé, in una sua lettera del 29 luglio 1918 a don Orione scrive: «Non sono credente, non mi mandate tra i fedeli; non sono miscredente. Vorrei essere scettico e non posso: il mio pensiero non vuole dubbi, non vuole essere indifferente».
Capito? Ignazio Silone, così come Simone Weil sono inclassificabili. Ambedue, scrive Margherita Pieracci, «si separano dalla cultura del loro tempo e si dispongono ad essere, volta a volta, ignorati o fraintesi. Il fatto che non appartengono a nessuna chiesa, e che non possano, nel senso normale del termine, definirsi “credenti”, li rende ancor meno comprensibili della gente di chiesa a certi contemporanei – anche ai più laici tra loro. Allo stesso modo, i “benpensanti“ sono meno sconcertati dagli avversari politici che dal loro inclassificabile modo di pensare e di essere. Proprio perché è impossibile neutralizzarlo con etichette familiari, “ogni loro testo – come ha scritto Nicola De Cilia – è una sfida radicale alla pigrizia del pensiero”, “rappresenta uno scandalo per la modernità”».
Quel “senza”, allora, non prendetelo come avverbio privativo ma come aggettivo qualificativo…; di più, permettetemi lo svarione: come “sostantivo liberativo”! (“Sostantivo” nel senso che è pieno di sostanza…).
Ignazio Silone e Simone Weil
Per meglio inquadrare la figura di Silone come “cristiano senza chiesa” è bene allora entrare nel triangolo di relazioni che lo lega a due grandi figure del suo tempo: Simone Weill e Albert Camus: la prima, grande mistica di un cristianesimo apofatico(1), il secondo filosofo e scrittore dall’ateismo militante ed eticamente impegnato. Entrambi espressione del pensiero critico della sinistra “liberale”.
Quanto alla Weil sappiamo che Silone la scopre nel 1950 quando sua moglie Darina gli porta l’Attende de Dieu. L’incontro avviene dunque su questo testo “religioso”, prima che sui suoi testi sindacali e politici. «Da allora – scrive Margherita Pieracci nel saggio citato – lui si procurerà tutti i libri della Weil già apparsi e quelli che vengono via via pubblicati. Anzi, si può credere che le nuove pubblicazioni le veda nascere. Quelle di Gallimard escono nella collezione Espoir, curate da Camus fino alla sua morte (4 gennaio 1960). Data l’amicizia di Silone con Camus, cementata a questo punto anche dal comune fervido interesse per l’opera di Simone, non è improbabile che gli fossero anticipati i dattiloscritti via via preparati in casa Weil».
La Weil, a sua volta, aveva conosciuto Silone molti anni prima, attraverso il libro “Pane e Vino”, che la colpì profondamente , come nel ’58 confessò la madre della Simone alla stessa Pieracci.
Camus, a sua volta, nutriva per Silone, nonostante gli fosse amico, un rispetto come per un Maestro. Basti pensare che in occasione dell’assegnazione del Premio Nobel, Camus, prima di partire per Stoccolma, si recò in casa della madre della Weil e le confessò che «non poteva rallegrarsene perché quel premio spettava prima a Silone» (Id). Eravamo nel 1957.
Questi i due punti di riferimento per capire bene, sotto quest’aspetto, il mondo nel quale si muoveva Ignazio Silone: Simone Weill e Albert Camus.
Torno al rapporto con Simone Weil, perché questo ci da il segno dell’interesse di Silone verso il Cristianesimo, recuperato nella sua radicalità evangelica e liberato dalle storture mutuate dalla storia e dall’istituzione-chiesa.
Ma chi era Simone Weil?
Permettete due parole (prese da Wikipendia).
Simone Adolphine Weil nasce a Parigi il 3 Febbraio 1909 e muore ad Ashford il 24 agosto 1943. E’ stata una filosofa, mistica e scrittrice francese, la cui fama è legata, oltre che alla vasta produzione saggistico-letteraria, alle drammatiche vicende esistenziali che ella attraversò, dalla scelta di lasciare l’insegnamento per sperimentare la condizione operaia, fino all’impegno come attivista partigiana, nonostante i persistenti problemi di salute.
Fu vicina al pensiero anarchico e all’eterodossia marxista. Ebbe un contatto diretto, sebbene conflittuale, con Lev Trotsky, e fu in rapporto con varie figure di rilievo della cultura francese dell’epoca. Nel corso del tempo, legò se stessa all’esperienza della sequela cristiana, pur nel volontario distacco dalle forme istituzionali della religione, per fedeltà alla propria vocazione morale di essere presente fra gli esclusi. La strenua accettazione della sventura, tema centrale della sua riflessione matura, fu, di pari passo con l’attivismo politico e sociale, una costante delle sue scelte di vita, mossa da una vivace dedizione solidaristica, spinta fino al sacrificio di sé.
La sua complessa figura, accostata in seguito a quelle dei santi, è divenuta celebre anche grazie allo zelo editoriale di Albert Camus, che dopo la morte di lei a soli 34 anni, ne ha divulgato e promosso le opere, i cui argomenti spaziano dall’etica alla filosofia politica, dalla metafisica all’estetica, comprendendo alcuni testi poetici.
Questa la Simone Weil.
E il nostro Ignazio Silone?
La rivista Fiera letteraria dell’11 aprile 1954 pubblica un’intervista a Ignazio Silone intitolata 40 Domande. La quattrodicesima domanda è: “Quali personaggi della storia italiana sono ora per te più stimolanti?”. Silone risponde: “Gioacchino da Fiore, Francesco d’Assisi e Tommaso Campanella”. Alla domanda successiva: “Nella nostra epoca?” risponde tout court: “Simone Weil”. Subito dopo la domanda è: “La data più importante della storia universale?”’ e la risposta: “Il 25 dicembre dell’anno zero”.
Capite, allora, l’interesse e il legame tra questa splendida figura e il nostro Ignazio Silone.
Uniti entrambi da una fede non catalogabile nella categoria della religione istituzionale e da una “ideologia” marxista eterodossa non rinvenibile nelle teorie e nella prassi dei partiti di sinistra.
Chi è cristiano?
Arrivati a questo punto non vorrei che voi si abbia a pensare che si possa essere cristiani per il semplice fatto di nutrire ammirazione per figure eccellenti che il cristianesimo ha espresso nel corso della storia….(2) Assolutamente NO!
Cosa è, allora, che fa di una persona un cristiano?
Cos’è che fa sì che si possa dire di se stessi: “Io sono un cristiano”, o di terze persone: “quello è un cristiano”?
Applichiamo qui la teologia apofatica e cominciamo a dire che non è cristiano:
ü chi dice di credere in Dio…. (anche il diavolo crede in Dio!)
ü chi segue le direttive della “chiesa”…. (la chiesa è la comunità dei cristiani, non l’ammasso dei seguaci!)
ü chi “fa opere di bene”…. (troppi narcisismi, troppi fanatismi, troppi egoismi sono spesso alla radice di tante “opere di carità”!).
ü in ultimo diciamoci pure chiaramente che in fatto di cristianesimo non esiste l’autocertificazione; non basta dire “io sono cristiano” per essere di fatto un cristiano; come, d’altro canto, il dirsi “non credente” non è sufficiente per fare di se stessi un “non cristiano”….
Cos’è, allora, che fa di una persona un cristiano?
Personalmente, nel mio lungo e frastagliato percorso di maturazione, sono giunto alla convinzione che ciò che fa di una persona un cristiano è LO SGUARDO!
Il modo in cui guardiamo il mondo, le cose e, in particolare, le persone! E che determina anche il nostro modo di rapportarci con il mondo, con le cose e con le persone.
Il nostro sguardo determina anche i nostri sogni e i nostri desideri.
Non per niente, nel vangelo si legge: «La lucerna del corpo è l’occhio; se dunque il tuo occhio è chiaro, tutto il tuo corpo sarà nella luce; ma se il tuo occhio è malato, tutto il tuo corpo sarà tenebroso. Se dunque la luce che è in te è tenebra, quanto grande sarà la tenebra!» (Mt. 6,22-24).
Umberto Galimberti, in un servizio su Repubblica del 28 aprile del 1997, citando Georg Simmel scriveva: «Ci sono per Georg Simmel sguardi d’amore e sguardi di desiderio. L’amore è povertà, è attesa che l’altro corpo percorra uno spazio e, colmando un vuoto, incontri. Nell’incontro non c’è fruizione di un corpo, ma accoglimento di un dono; i gesti non afferrano, sfiorano; gli sguardi non possiedono, accolgono la gratuità di un’offerta che l’altro, nella pienezza della sua soggettività, concede. Il desiderio, invece, non conosce incontri; il desiderio conosce solo la saturazione per possesso. Nel suo sguardo non ci sono le tracce di un’attesa, ma la smaniosa concupiscenza d’incontrare nell’altro solo se stesso, per cui se spoglio il corpo è per possederne la carne, è per strapparne, con le vesti, ogni traccia di soggettività che lo sguardo di desiderio, a differenza dello sguardo d’amore, non sa fronteggiare».
Domandiamoci allora:
Qual è lo sguardo cristiano?
Quale quello di Silone?
Lo sguardo cristiano è uno sguardo particolare, uno sguardo nel quale l’uomo occupa il primo posto.
Lo sguardo del cristiano è quello della visione del profeta Ezechiele (cap. 37).
Ve lo leggo: «La mano del Signore fu sopra di me e il Signore mi portò fuori in spirito e mi depose nella pianura che era piena di ossa; mi fece passare tutt’intorno accanto ad esse. Vidi che erano in grandissima quantità sulla distesa della valle e tutte inaridite. Mi disse: “Figlio dell’uomo, potranno queste ossa rivivere? ”. Io risposi: “Signore Dio, tu lo sai”. Egli mi replicò: “Profetizza su queste ossa e annunzia loro: Ossa inaridite, udite la parola del Signore. Dice il Signore Dio a queste ossa: Ecco, io faccio entrare in voi lo spirito e rivivrete. Metterò su di voi i nervi e farò crescere su di voi la carne, su di voi stenderò la pelle e infonderò in voi lo spirito e rivivrete: Saprete che io sono il Signore”».
Lo sguardo del cristiano è lo stesso di Gesù che, narra Matteo al versetto 36 del capitolo 9, «vedendo le folle ne sentì compassione, perché erano stanche e sfinite, come pecore senza pastore»; oppure, sempre da Matteo 14,14: «sceso dalla barca, vide una grande folla e sentì compassione per loro e guarì i loro malati».
Insomma lo sguardo del cristiano è quello che nella storia individua le sofferenze degli uomini, sottrae il loro mondo dal processo pietrificante del fato (che troppi cristiani identificano con la volontà di dio) e lo restituiscono alla vita libera e responsabile.
Lo sguardo di Ignazio Silone non è di sicuro quello che si fa affascinare dalla grandezza portentosa delle piramidi e plaude ai faraoni, ma quello che sente l’odore acre del sangue raggrumato degli schiavi e solidarizza con le loro lotte.
State a sentire. Vi cito alcuni dei suoi passi al riguardo.
«(Il socialismo) io l’intendo nel senso più tradizionale: l’economia al servizio dell’uomo» (L’avventura di un povero cristiano).
«La mia fiducia nel socialismo (…) è tornata a essere quella ch’era quando dapprima mi rivoltai contro il vecchio ordine sociale: un’estensione dell’esigenza etica dalla ristretta sfera individuale e familiare a tutto il dominio dell’attività umana; un bisogno di effettiva fraternità; un’affermazione della superiorità della persona umana su tutti i meccanismi economici e sociali che l’opprimono» (Uscita di sicurezza)
«Io (…) fin da ragazzo, son legato alla sorte degli altri uomini e non riesco a disinteressarmene, pur non avendo interessi personali impegnati. Non mi credo, con questo, migliore degli altri, ma diverso». (In una lettera del ’75 a Margherita Pieracci)
Insomma, fondamento comune dello sguardo cristiano e dello sguardo siloniano è il riferimento all’uomo.
Il socialismo di Silone, fino alla militanza, nasce di qui.
Prima del socialismo c’era stato il pensiero del Regno come l’avevano proposto il cristianesimo comunitario delle origini, e, dopo più di un millennio, un santo/eretico meridionale, Gioacchino da Fiore. Silone non rinnegò mai quel pensiero.
Il segno da cui il cristiano dovrebbe riconoscersi per Silone è il servizio dell’uomo.
Qui mi preme far notare che Silone, pur rivendicando l’eredità cristiana sua e del suo mondo, ci tiene a ricordare, per bocca di Pietro da Morrone, che la “religione dell’uomo”, come lui la chiama, in Abruzzo è più antica del cristianesimo: «Tra questi monti c’è un’antica tradizione, ancora più antica della venuta di Cristo, ed è l’ospitalità. Per i nostri antenati più lontani (…) secondo la legge naturale impressa nei loro cuori, l’ospite era sacro» (L’avventura di un povero cristiano).
Ciò che sorprende di Silone è questo suo sentire forte, dentro di sé, realtà e valori e solidarietà di un mondo che non era il suo ma di cui tuttavia si sentiva parte….!
A mo’ di conclusione
Sia chiaro, tutto questo discorso non è finalizzato a fare di Ignazio Silone un “fedele” o un “credente” (ricordate la sua invocazione a don Orione citata all’inizio? “Non sono credente, non mi mandate tra i fedeli”….).
A noi interessa, invece, riscoprire in lui quelle radici che ne fanno un “cristiano senza chiesa”, un antesignano, se mi permettete un “profeta”, di quel “cristianesimo” vissuto laicamente, fuori i recinti sacri ed al di là dei parametri religiosi. Un cristianesimo che la teologia solo molto più tardi ha saputo riscoprire.
Un cristianesimo che non si fondi più sulla teologia che legge il vangelo con la lente della filosofia greca, ma che faccia proprio il vangelo sine glossa, come propria Casta Costituzionale. Là dove, attraverso l’Incarnazione Dio diventa Uomo, ponendosi nelle mani dell’uomo, identificandosi con l’uomo e solidarizzando con i suoi bisogni di vita e di libertà: “avevo sete”….; “avevo fame”….; “ero ignudo”…; “ero prigioniero”!
E abolendo quella categoria del sacro che è la categoria fondante e legittimante di ogni religione.
Personalmente mi sento impegnato a vivere e testimoniare un cristianesimo “Laico”, scandalosamente sorpreso di come nella storia il messaggio evangelico sia stato travisato e stravolto perché identificato come una “nuova religione”. Quando nel Vangelo la categoria del sacro, per la quale l’uomo sottrae all’uso “pro-fano” alcune persone o cose o luoghi (che diventano, appunto, sacri) per riservarli alla divinità, viene contestata da una “dio” che diventa esso stesso “pro-fano”, fuori del tempio!
Note
(1) La Teologia apofatica è quella che procede per negazioni. Quella secondo la quale Dio può essere definito solo per ciò che non è (contro la teologia catafatica). Di conseguenza lei non riconosce alla Chiesa nessun potere impositivo. Nella sua “Confessione di fede” scrive testualmente: «Non riconosco alla Chiesa alcun diritto di limitare le operazioni dell’intelligenza o le illuminazioni dell’amore nell’ambito del pensiero. Le riconosco la missione (…) di formulare decisioni su alcuni punti essenziali, ma soltanto a titolo di indicazioni per i fedeli. Non le riconosco il diritto d’imporre i commenti di cui circonda i misteri della fede come se fossero verità; e ancor meno il diritto di usare la minaccia e il timore esercitando, per imporli, il suo potere di privare dei sacramenti».
(2) Oltre a Gioacchino di Fiore, Francesco di Assisi e Tommaso Campanella, tra le “frequenze” di Silone troviamo anche
• Don Orione, accorso ad Avezzano appena rasa al suolo dal terremoto del 1915;
• Charles De Fuocauld, trappista morto assassinato in Algeria
• Pére Voyaume,
• la piccola sorella Madeline Diener, che viveva da povera artigiana ad Assisi
• Don Franzoni abate di san Paolo: che non aveva più potuto sopportare il privilegio di vivere in convento quando intorno erano proliferate le baracche, ed era andato anche lui a vivere nelle baracche