a inizio Novecento fu trovata per caso in un campo agricolo di Carsoli una grande stipe votiva di cultura medioitalica, integrata poi da altre scoperte dell’archeologo Antonio Cederna in due campagne di scavo condotte nel 1950 nell’area di un presunto santuario extraurbano molto frequentato. Riguardo la prima scoperta egli poté consultare un carteggio nell’archivio del Museo Nazionale di Villa Giulia a Roma, poi andato perduto, contenente parte dell’antica corrispondenza intrecciata tra quel museo, che custodiva i pezzi, e gli organi pubblici competenti .In un inedito fascicolo risalente a quell’epoca, nell’Archivio Centrale dello Stato di Roma, le cui notizie si integrano con altre individuate nell’Archivio di Stato di L’Aquila, utili a colmare la perdita dei documenti originali. Il 18 gennaio 1906 l’Ufficio per gli scavi e le scoperte di antichità di Roma, sito sul colle Palatino, segnalò alla Direzione per le Antichità e le Belle Arti (AA.BB.AA.) che il sig. Augusto Angelini di Carsoli accumulava nella sua casa un gran numero di terrecotte votive figurate, trovate per caso a partire dal giorno 15 e abusivamente scavate nel corso dei lavori di impianto di un frutteto in uno dei fondi di sua proprietà in contrada S. Maria o Canepina, non lontano dalla stazione di Carsoli lungo la linea ferroviaria RomaSulmona, presso il primo nucleo delle moderne case dell’abitato, a non più di km. 5 a nordest dalle rovine dell’antica Carseoli (sita in contrada Sesara), la colonia impiantata definitivamente dai Romani nel 298 a. C. in territorio equo. La Direzione romana ordinò presto di intervenire al Prefetto dell’Aquila, che sollecitò ad un sopralluogo il Regio Ispettore agli scavi e monumenti del circondario di Avezzano, avv. Francesco Lolli. Il territorio, a dire il vero, non rientrava nelle competenze dell’Ufficio del Palatino , deciso ad un immediato intervento della polizia giudiziaria, che avrebbe fatto sospendere l’illecita inizia tiva ed elevato una contravvenzione, con sequestro dei pezzi. L’ispettore era tuttavia di diverso parere, perché l’Angelini, persona superiore a ogni sospetto, conosceva gli obblighi di controllo esercitati dal Comune di Carsoli (che ne aveva dato immediata comunicazione per via gerarchica), e con la massima trasparenza aveva riposto i pezzi in un magazzino, al fine di garantirne la conservazione. Tra l’altro il contadino non aveva intrapreso deliberatamente uno scavo, e non era opportuno sequestrare gli oggetti antichi, visto anche il loro limitato pregio storico e artistico, né che fossero trasferiti nei locali del Municipio, inadatti e poco capienti. Lolli elencava una quantità rilevantissima di oggetti di terracotta, la maggior parte frammentizi, per lo più mutile statuette, rappresentanti anche animali appena abbozzati (buoi, cavalli, maiali), e avanzi di statue tutte rotte come gambe piedi braccia, mani, oltre a molti pezzi fabbricati anche a uso votivo. Egli segnalava in particolare una mano con un serpe attorcigliato e a cui il pollice e l’indice stringono la gola, e un piccolo gruppo di due personaggi sedenti in bisellio, oltre ad alcuni falli e diversi orciuoli di cui qualcuno verniciato in nero ma senza traccia di pittura o iscrizioni [altrove dice graffiti], solamente uno striato dall’alto in basso. Quel che è di più notevole è un gran numero di teste (quasi 200), alcune frammenti di statue, altre a sé a foggia di protome (maschere), di una grande varietà. Raffigurano uomini barbuti e imberbi, donne velate e non velate, giovanetti, ma senza contrassegni o tratti utili per il loro riconoscimento, tranne uno che somiglia a un ritratto di Augusto giovinetto. Moltissime sono di fattura assai rozza e trasandata, il maggior numero discrete, qualcuna di buon lavoro, ma nessuna presenta pregio storico o artistico tale che lo Stato debba interessarsene, da datare all’epoca imperiale romana, ma le più o molte al periodo della decadenza, comunque tali da non meritare una descrizione analitica e da non giustificare un sequestro. L’ispettore inoltre nel mese di marzo sollecitava i superiori a concedere all’Angelini l’autorizzazione a riprendere i lavori agricoli stagionali, proponendo di obbligarlo a un’immediata comunicazione per ogni eventuale nuova scoperta. Il Prefetto di Aquila sollecitò dunque la Direzione AA.BB.AA. a non cedere alle vive e severe insistenze a intervenire dell’Ufficio del Palatino, che intanto aveva ricevuto sul caso diretta giurisdizione. Anzi un funzionario tecnico di quella sede, tale Alessio Valle, credeva che l’Angelini, dopo il fortuito rinvenimento, avesse proseguito per molti giorni veri lavori di scavo, senza aver chiesto e ottenuto la necessaria licenza, cosa che motivava o una contravvenzione o la concessione di un permesso di scavo con effetto retroattivo, della durata di un mese al massimo, sotto il controllo di un ispettore, con l’obbligo per il contadino di consegnare al Governo la quarta parte di tutte le terrecotte rinvenute. Il Valle portava intanto ai superiori, quali campioni, tre teste fittili, forse ritratti, talmente poche da sembrare comuni e di non speciale importanza al prof. Dante Vaglieri, che lo aveva sostituito nell’incarico effettuando una missione a Carsoli al termine di quell’anno. Vaglieri, esortato dalla Direzione Generale a tenere una linea morbida con l’Angelini (che solo poteva venire esortato a cedere il quarto del rinvenimento e che non si lasciava facilmente convincere a depositare presso il Municipio di Carsoli l’intero ‘bottino’), elencava anche uteri e mammelle fittili ed apprezzava in particolare molte le teste femminili con cuffia (tutulus) e cercine, rare per tipologia ed interessanti per contribuire agli studi, allora pionieristici, sull’acconciatura e il costume italici. Egli univa alla lista anche piedi con curiose calzature, pezzi utili all’allestimento delle nuove sale del recentemente ampliato Antiquarium classico del Museo Nazionale Romano alle Terme di Diocleziano, ove si intendevano valorizzare i materiali fino allora confinati nei depositi (8). Egli inoltre si impegnava a stilare prontamente una dettagliata relazione sulla stipe, allegando buone fotografie da pubblicare nel bollettino Notizie degli scavi di Antichità, edito dall’Accademia dei Lincei. L’Ufficio scavi, che riceveva nel frattempo “il quarto” scelto dal Vaglieri d’accordo con il contadino (le teste più caratteristiche e poco del resto) auspicava il trasferimento dei pezzi nel museo di Villa Giulia, il cui direttore Giuseppe Angelo Colini era in quegli anni tenacemente impegnato a rilanciare l’immagine della sede, ridotta a semplice magazzino per un’intricata vicenda di scandali, ed era molto interessato a conservare intatto il gruppo per confrontarlo con altre stipi votive del museo. Finalmente quei pezzi vi giunsero nel mese di maggio, accompagnati da una dettagliata relazione di uno degli ispettori da tempo assunti nel ruolo di disegnatore, il giovane ingegnere Raniero Mengarelli, che aveva personalmente visitato Carsoli. In particolare egli, in una lunga relazione stilata il 6 agosto 1908, rilevava che l’Angelini aveva trovato le terrecotte alla rinfusa a poca profondità […], senza raggiungere il terreno vergine, arrestandosi appena l’ammasso diveniva meno denso e lasciando intatto lo strato inferiore formato da terra nerastra mista a detriti di carbone. La zona era piana, compresa tra la ferrovia e la strada provinciale, verso cui inclinava con lieve pendio, in contiguità di un’aia rilevata sorretta da muri all’ingiro, di proprietà della famiglia Mari di Carsoli […], che in quella circostanza trovarono alcuni materiali e molti idoletti di bronzo, anche se quelli da lui recentemente visionati apparivano falsi, tranne due piccole figure virili, di carattere arcaico locale, coperte da un breve corsaletto e pel rimanente nude, con patera umbilicata in mano, che potevano ben provenire dal primo strato del tempio per il loro carattere arcaico locale.Egli ipotizzava che le terrecotte votive fossero state dapprima deposte in una favissa contigua ad un tempio che doveva sorgere all’incirca nel luogo ov’è l’aia e che poi fossero state scaricate nel luogo in cui furono rinvenute, e posizionava l’edificio di culto tra la via Valeria e un’altra strada [la Turanense] che ivi presso se ne distaccava per salire verso il luogo dove ora è il convento di S. Francesco (nel distretto di Poggio Cinolfo), e che alcuni frammenti, oltre quelli di altri monumenti romani, erano stati riutilizzati nelle murature del campanile della vicina chiesa medievale di S. Maria in Cellis e a S. Vittoria nel centro di Carsoli, rinviando a due fotografie allegate alla lettera. Vogliamo trascrivere ora la parte relativa all’inventario dei pezzi fittili stilato dal Mengarelli, e pubblicare le altre due foto unite al carteggio, interessanti perché gli studiosi identifichino i pezzi originali della nostra stipe. Così diceva l’ispettore: Parte dei materiali votivi sono ammassati alla rinfusa in un locale bujo adibito a stalla, d’ove erano una volta i cantieri dei fratelli Maggiorani presso la stazione ferroviaria, e parte sono collocati alla meglio su uno scaffale in casa Angelini.
( a cura di Cicchetti Ivan)