La storia del Trofeo Matteotti: quando il grande ciclismo passava dall’Abruzzo

1945. Un’Italia ferita usciva dalla Seconda Guerra Mondiale, strade e case distrutte, pochi soldi, pochi sogni, zero speranze. Fulvio Perna, presidente dell’U.C. Perna, voleva diffondere un messaggio di pace in tutto l’Abruzzo e in tutta l’Italia attraverso una corsa di biciclette che abbracciasse tutti i popoli in nome della fratellanza, così tanto dimenticata negli anni del conflitto mondiale. Un trofeo intitolato a Giacomo Matteotti, statista italiano barbaramente ucciso dai fascisti. Matteotti, la vittima di una follia che diventa un simbolo di rinascita, di rivalsa per tutto il popolo italiano.

Il ciclismo, ancora una volta, si accollò l’onere di risollevare dall’abisso l’intero Paese e tutta la sua gente che ha sofferto, che ha perso tutto. Nell’estate 1945 stava per entrare nel vivo la più grande rivalità che ogni sport abbia mai conosciuto: quella tra Fausto Coppi e Gino Bartali. Il Campionissimo e Ginettaccio, i due uomini che più di ogni altro hanno ridato la speranza e la voglia di sognare all’Italia. Estate 1945 che vide nascere anche il Trofeo Matteotti, una classica abruzzese tanto prestigiosa quanto spesso dimenticata (specie nel recente passato).

Dalla prima edizione della corsa pescarese si sono alternati sul gradino più alto del podio corridori di valore indiscusso: da Gino Bartali fino a Paolo Bettini passando per Ercole Baldini, Marino Basso, Felice Gimondi, Francesco Moser e Gianni Bugno; persino il leggendario Monsieur Roubaix riuscì a trionfare lungo le strade abruzzesi: Roger De Vlaeminck, corridore che vanta lo straordinario record di quattro Parigi-Roubaix conquistate (insieme all’altro mito Tom Boonen).

Per ben sei volte il vincitore del Matteotti si è poi laureato campione del mondo di lì a poche settimane (per molti anni la corsa si è disputata a settembre a ridosso della prova iridata); stiamo parlando di Baldini, Basso, Gimondi, Moser, Argentin e Bugno.

Albori di un tempo che vanno a cozzare con la triste realtà odierna; difficoltà finanziarie, scarso interesse di pubblico e istituzioni, l’evoluzione geografica del ciclismo che porta più danni che benefici. È come se si fosse ritornati a quel lontano 1945 quando c’era la necessità di tornare a sognare. Quella, però, era un’epoca magica fatta di campioni leggendari e di imprese che emozionavano le folle (basti pensare che la vittoria di Bartali al Tour de France 1948 scongiurò una guerra civile in Italia); quella di oggi è l’epoca del denaro, delle grandi major televisive. È un’epoca che fa di tutto per allontanare le persone dallo sport ma il ciclismo, si sa, è uno sport che vive di memoria. La memoria è l’unica arma a disposizione per tornare ad emozionarci, per tornare a vivere di sport. La memoria che ci ricorda quanto bello e significativo fosse il Trofeo Matteotti, l’ultima classica del Centro-Sud Italia ad essere ancora in vita, un messaggio  di pace lanciato nei momenti più bui, nei giorni in cui tutto era in macerie. Un messaggio lanciato attraverso la bicicletta che, come diceva Gino Bartali, aveva il compito di unire tutte le persone.

Il Matteotti ha raggiunto il suo intento per anni e anni ma oggi ce ne siamo dimenticati, o forse no.

Luca Pulsoni

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