” lascio al vento un bacio per la mia famiglia, che vegli sul mio corpo ormai donato alla guerra” (Cicchetti Ivan)
GIOVANNI RICCIARDI
Giovane socialista, negli anni seguenti la prima Guerra mondiale fu tra i protagonisti delle prime lotte dei contadini del Fucino. Nel 1921 aderì al Partito comunista e, durante la dittatura fascista, svolse un’intensa attività politica clandestina. Arrestato nel 1939, Ricciardi fu condannato nel 1940 a due anni di reclusione. Nel secondo dopoguerra fu segretario dell’ANPPIA della Marsica.
GIOVANNI RICOTTILLI
Pluridecorato durante la Seconda Guerra mondiale, alla quale aveva partecipato sul fronte greco albanese e combattendo nella campagna di Russia, al momento dell’armistizio Ricottilli si trovava a Trieste. Riuscito a raggiungere con mezzi di fortuna il capoluogo abruzzese, vi aveva organizzato la prima banda partigiana che, dopo essere stata chiamata “L’Aquila”, aveva assunto il nome di “Giovanni Di Vincenzo” in onore di un antifascista abruzzese (il suo vero nome era Giovanni Vicenzo) che era stato ucciso dai tedeschi nel maggio del 1944. Ricottilli e il suo gruppo, collegato al Raggruppamento Bande Patrioti Gran Sasso, nell’ottobre del 1944 riescono a farsi inquadrare nelle file degli Alleati, con i quali, dopo la liberazione dell’Aquila, risalgono combattendo la penisola. Come capitano della Brigata Maiella, Ricottilli conoscerà in Emilia la partigiana Luciana Salvan con la quale si sposerà (testimone di nozze il comandante Ettore Troilo) e con la quale, dopo la Liberazione, tornerà in Abruzzo, ad Avezzano. Direttore provinciale per l’assistenza postbellica, dirigerà sino al pensionamento l’Ufficio postale centrale e, nel 1991, il Presidente della Repubblica Francesco Cossiga lo decorerà di Medaglia d’argento al valor militare. Nel 2004 Giovanni Ricottilli ha ricevuto anche, dal sindaco dell’Aquila, il “Sigillo della Città”, per i meriti acquisiti nel corso della sua lunga battaglia in difesa del Paese, della libertà e della democrazia.
FRANCESCO SANTORO
Ufficiale pilota, nell’ottobre del 1936 aveva partecipato come volontario fascista alla guerra di Spagna. Allo scoppio della Seconda guerra mondiale Santoro, che era stato promosso capitano, fu mobilitato sul Fronte occidentale e in Africa settentrionale, nel 9° Stormo da bombardamento. L’8 settembre 1943 era in servizio a Roma, dove era stato rimpatriato per malattia. Riuscì a sfuggire ai tedeschi e ad entrare a far parte della formazione partigiana denominata “Conca di Sulmona”, con la quale partecipò a numerose azioni. Nell’ottobre del 1943 decise di passare la linea del fronte e di recarsi nell’Italia liberata, portando con sé importanti documenti sullo schieramento delle truppe germaniche. Catturato dai tedeschi, Francesco Santoro fu ucciso a Badia di Sulmona. La decorazione alla memoria così lo ricorda: “Ufficiale di elette virtù militari, all’atto dell’armistizio si sottraeva alle imposizioni delle autorità tedesche e decideva di portarsi in territorio nazionale liberato per continuare ad adempiere con onore il suo dovere di soldato. Catturato in prossimità del fronte, veniva sottoposto ad un giudizio sommario e condannato a morte perché in possesso di notizie sullo schieramento tedesco. Alle offese e alle violenze degli inquisitori reagiva con contegno altero e sprezzante, accogliendo con visibile fermezza la comunicazione della suprema condanna. Poco dopo, in audace tentativo di sfuggire ai suoi aguzzini, veniva barbaramente trucidato”.
FRANCESCO SCIUCCHI
Si era laureato in Medicina a Roma nel 1933. Mobilitato come ufficiale medico, aveva svolto la sua attività a Roma, Bari e Chieti e poi in Spagna, in Albania e in Grecia. Dopo la caduta del fascismo, il dottor Sciucchi si trovava in Abruzzo e, all’8 settembre 1943, aveva deciso di organizzare una formazione partigiana nelle sue terre.
Nel mese di novembre, mentre con un suo compagno (Antonio Aceto), si apprestava a unirsi agli Alleati che erano prossimi ad attraversare il fiume Sangro, il medico veniva catturato e subito passato per le armi con Aceto.
A Francesco Sciucchi è oggi intitolata, nella zona dell’ex ospedale pedriatico, una strada di Chieti.
GIULIO SPALLONE
Nel 1935, ancora studente, era entrato nell’organizzazione comunista clandestina. Incaricato di tenere i collegamenti tra il gruppo di antifascisti di Avezzano e quello di Roma, Spallone fu arrestato nel 1939 con il fratello Mario, che se la cavò con un mese di carcere. Giulio, invece, fu deferito al Tribunale speciale con un gruppo di antifascisti, tra i quali c’era pure Pietro Amendola. Il processo si concluse il 16 maggio 1940 e Giulio ebbe una condanna a diciassette anni di reclusione. La caduta del fascismo consentì al giovane studente di riacquistare la libertà, ma due mesi dopo, con l’armistizio, Spallone tornò in clandestinità per partecipare alla Guerra di Liberazione come commissario politico di una formazione partigiana operante nella zona di Popoli (Pescara). Dopo la Liberazione, chiamato a Roma dal suo partito, Giulio Spallone fu per due anni membro della segreteria nazionale dei giovani comunisti e direttore del settimanale Gioventù nuova.Successivamente fu segretario della Federazione comunista di Pescara e poi, sino al 1958, segretario regionale del PCI per l’Abruzzo e il Molise. Spallone, diventato membro del Comitato centrale del PCI dal VII Congresso, è stato anche membro della Consulta e, dal 1948, deputato per tre legislature. Spallone è entrato poi nel movimento cooperativo diventando presidente dell’Associazione nazionale delle cooperative di consumo e presidente della Lega nazionale delle cooperative. L’11 maggio 2005, come presidente dell’Associazione nazionale perseguitati politici italiani antifascisti, Spallone, con Claudio Cianca, ha presentato in Senato le prime settemila firme raccolte sotto la petizione (primo firmatario Oscar Luigi Scalfaro), che l’ANPPIA ha raccolto contro il disegno di legge 2244. Con tale legge, proposta da Alleanza Nazionale e dalla destra, si vorrebbe riconoscere la qualifica di “militari belligeranti” ai repubblichini di Salò, così da equipararli ai partigiani ed ai soldati del Corpo italiano di liberazione, che combatterono contro i nazifascisti con gli Alleati.
GIUSEPPE TESTA
Tre giorni prima dell’armistizio era stato a Milano per conto della Direzione del Genio militare di Roma, presso la quale era impiegato. L’8 settembre 1943, mentre tentava di tornare a casa, il giovane geometra fu arrestato dai tedeschi a Monterotondo, nei pressi della Capitale. Restò poco nelle loro mani. Riuscito a liberarsi, il giovane impiegato, raggiunte le montagne dell’Abruzzo, prima affiancò l’attività di un sacerdote della Valle di Roveto (don Savino Ursini, che con altri giovani del luogo aveva costituito un comitato per l’assistenza ai detenuti politici, ai prigionieri alleati e ai militari italiani sbandati), e successivamente assunse il comando di un distaccamento della Banda “Patrioti della Marsica”. In seguito a delazione, il 21 marzo del 1944, i nazifascisti riuscirono ad arrestare don Ursini, due dei suoi collaboratori (Pietro Casalvieri e Paolo Antonio Gemmiti), e anche Giuseppe Testa. Al giovane comandante partigiano fu riservato un trattamento particolare. I tedeschi, che già gli avevano spezzato un braccio durante il primo interrogatorio, decisero di portarlo al loro Comando di Sora (Frosinone), per meglio poter infierire sul prigioniero. Ma anche lì, dopo giorni e giorni di sevizie, non riuscirono a farlo parlare. Sommariamente giudicato da un Tribunale militare tedesco, Giuseppe Testa fu condannato a morte e fucilato. La motivazione della MdO alla sua memoria dice: “Giovane ardente e di alti sentimenti di amore patrio, abbracciava con entusiasmo la causa dei partigiani, costituendo nel suo paese un comitato per l’assistenza dei prigionieri di guerra alleati e dei militari italiani sbandati. Arrestato per vile delazione di un militare tedesco fintosi inglese, non svelava, malgrado torture e minacce, l’organizzazione clandestina e il luogo dove era occultato un soldato alleato. Processato da un tribunale tedesco, benché promessagli salva la vita se avesse parlato, preferiva la morte. Dinanzi al plotone d’esecuzione, con virile fermezza, offriva la sua nobile e giovane vita per la libertà della Patria”.
ETTORE TROILO
Laureatosi in Giurisprudenza (dopo aver partecipato, volontario, al primo conflitto mondiale ed aver meritato la Croce al merito di guerra), Troilo fece a Milano la pratica professionale. Assiduo nello studio di Filippo Turati, quando si trasferì a Roma, il giovane legale lavorò, sino all’assassinio del deputato socialista, nella segreteria di Giacomo Matteotti. Dal 1926 si occupa dello studio professionale dell’avvocato Egidio Reale che, per non essere arrestato dalla polizia del regime, aveva dovuto trasferirsi in Svizzera. Anche Troilo, però (che fin dalla sua fondazione fa parte del movimento “Italia libera”), è schedato dalla polizia. Collabora a Il Mondo sino alla sua forzata chiusura e, nei mesi che precedono la caduta di Mussolini, riallaccia i rapporti con gli antifascisti del Partito d’Azione. Le giornate del 9 e 10 settembre vedono Troilo partecipare alla disperata resistenza dei romani alla Cecchignola, poi con l’occupazione tedesca della Capitale, riesce a raggiungere l’Abruzzo. Nel suo paese natale si muove per organizzare la resistenza armata contro i tedeschi e mentre gli Alleati risalgono faticosamente verso il Nord, i “Patrioti della Maiella” comandati da Troilo (vice comandante Domenico Troilo), li affiancano in Abruzzo, nelle Marche, in Romagna. Nell’aprile 1945 gli uomini di Troilo sono ad Asiago e il 15 luglio la brigata si scioglie.
L’avvocato torna alla vita civile, ma in qualità di ispettore del ministero dell’Assistenza Postbellica, si prodiga nell’assistenza ai reduci.
Dal dicembre 1946 è, per un anno, prefetto di Milano. Sollevato (tra le proteste), dall’incarico, viene mandato all’ONU dal governo De Gasperi, come ministro plenipotenziario per i problemi dell’informazione. Nel gennaio del 1948 si dimette dall’incarico e da prefetto. Nelle elezioni politiche di quell’anno è candidato indipendente per il Fronte democratico popolare. Con orgogliosa coerenza morale, Ettore Troilo ha rinunciato ad ogni benemerenza per la sua partecipazione alla lotta di Liberazione.
PIERO VENTURA
Comunista dal Congresso di Livorno, Ventura fu segretario di Amedeo Bordiga. Arrestato nel 1926 e processato dal Tribunale speciale, fu condannato a cinque anni di confino. Dopo il soggiorno coatto a Ponza fu rilasciato, ma considerato “elemento pericoloso, capace di guidare le masse in rivolta” fu sottoposto a sorveglianza speciale per tutta la durata della dittatura fascista.
Con l’armistizio, Ventura entrò come partigiano nella “Banda Di Vincenzo”, combattendo, nonostante la non più giovane età, sino alla liberazione dell’Aquila. Il 13 giugno del 1944 fu nominato dal CLN questore della città abruzzese e fu in seguito responsabile dell’Ufficio epurazioni. Nel 1946 Ventura fu eletto consigliere comunale e, alla fine del mandato, cessò l’attività pubblica.
ERNESTO ZANNI
Dal 1924 al 1926 fu tra i dirigenti della Federazione Giovanile Comunista Italiana. Eccezionale autodidatta, Zanni svolse una straordinaria attività di educatore tra i giovani antifascisti. Ciò gli valse, nel 1926, l’arresto, l’incarcerazione a “Regina Coeli” e, un anno dopo, la condanna a 10 anni di reclusione irrogata dal Tribunale speciale. Ne scontò 7 nei penitenziari di Oneglia e di Firenze e, nel “decennale dell’era fascista”, fu scarcerato per amnistia. Tornato ad Avezzano, riprese i contatti con l’ambiente antifascista e la sua opera di educazione e di formazione tra i giovani. Nel 1939, per Ernesto Zanni nuovo arresto, seguito dall’invio a Ventotene, dove il “noto comunista” rimase sino alla caduta di Mussolini.
Arriva l’armistizio dell’8 settembre 1943 ed ecco Ernesto Zanni impegnato ad organizzare la Resistenza nella Marsica.
Dopo la Liberazione viene chiamato a insegnare a Roma, alla Scuola centrale del PCI. Tra la fine del 1946 e fino all’agosto del 1948, Zanni è di nuovo ad Avezzano come responsabile del Comitato di zona del PCI. È poi richiamato nella Capitale, come collaboratore della “Scuola centrale quadri” del suo partito e poi come insegnante alla “Scuola delle Frattocchie”. Nel 1962 Zanni è mandato a Bologna dove, per quattro anni, dirige la Scuola “Marabini”.
Conclusa in Emilia la sua esperienza di “funzionario di partito”, Ernesto Zanni si trasferì a Pescara, dove fu eletto nel Comitato federale e poi nella Commissione federale di controllo e dove lo colse la morte.
Con questa ultima parte concludiamo PARTIGIANI NATI O MORTI IN TERRA D’ABRUZZO
( a cura di Cicchetti Ivan)